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Reati contro il patrimonio in particolare




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REATI CONTRO IL PATRIMONIO IN PARTICOLARE


FURTO

Il furto è uno dei delitti che in pratica ricorrono con maggiore frequenza, così come il suo autore è uno dei tipi più comuni di delinquente. Il nostro codice nell'art. 624 delinea la fattispecie del furto con la seguente formula: "Chiunque s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne il profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da lire sessantamila a un milione". Scopo dell'incriminazione è senza dubbio la tutela del possesso delle cose mobili. Tale possesso è protetto anche dalle norme del diritto privato, specialmente con le azioni di reintegra e di manutenzione, ma questa tutela non può ritenersi sufficiente. L'oggetto specifico della tutela penale nel furto è costituito dal possesso, e ciò si desume sia dal fatto che l'essenza del delitto consiste nel passaggio del possesso ad un'altra persona, sia dalla considerazione che la norma sopra riferita dimostra che qualsiasi possessore è protetto dalla legge penale. Qualche autore ravvisa nel furto una violazione della proprietà, ma questa opinione non si può accogliere, perché l'interesse del proprietario che non sia contemporaneamente possessore non sempre è leso nel furto. Soggetto passivo del delitto deve ritenersi il possessore della cosa mobile. A costui spetta il diritto di querela nei casi in cui il furto non è perseguibile d'ufficio. Oggetto materiale dell'azione nel furto è una cosa mobile altrui (per il concetto di cosa mobile altrui, vedere il capitolo precedente).

L'azione esecutiva del furto consiste nell'impossessamento della cosa ora descritta. Tale impossessamento deve presentare una nota negativa, e cioè non deve verificarsi mediante violenza o minaccia, perché altrimenti il fatto trapassa nel reato maggiore di rapina (art. 628). Ma quando è che si verifica l'impossessamento che caratterizza il furto? Sono stati delineati vari criteri:

Il primo è quello che ravvisa l'impossessamento nel semplice fatto di porre la mano sopra la cosa per impadronirsene;

Per un'altra teoria, l'impossessamento consiste nell'amotio della cosa, e cioè nello spostamento della medesima dal luogo in cui si trova;

Una terza concezione esige l'ablatio, vale a dire l'asportazione della cosa e il suo trasferimento fuori della sfera di custodia del possessore;

Un'ultima teoria (c.d. della illazione) considera avvenuto l'impossessamento quando la cosa sia stata trasportata dal ladro nel luogo prestabilito e sia stata così messa al sicuro.

Poiché nel testo dell'articolo 624 si parla tanto di impossessamento, quando di sottrazione, è necessario esaminare separatamente i due concetti, cominciando dal secondo che senza dubbio, dal punto di vista logico, costituisce un prius rispetto all'altro.

Sottrazione significa eliminazione, privazione all'altrui possesso, e cioè spossessamento. La mancanza del possesso da parte dell'agente, perciò, è un presupposto del furto, presuppone che, distingue questo reato all'appropriazione indebita. Le difficoltà sorgono quando si tratta di precisare i casi in cui manca il possesso, e ciò a causa delle incertezze che sussistono sulla nozione di questo istituto. Nell'ambito penale è possesso la relazione tra la persona e la cosa che consente alla prima di disporre della seconda in modo autonomo e che la disponibilità deve ritenersi autonoma quando si svolge al di fuori della diretta vigilanza di una persona che abbia sulla cosa medesima un potere giuridico maggiore. Non sono quindi possessori, ma semplici detentori coloro che dispongono della cosa entro la sfera di sorveglianza del possessore. In conseguenza, risponde di furto e non di appropriazione indebita, ad esempio:

La cameriera che si impossessa di un monile che la sua padrona ha lasciato nell'armadio;

L'ospite che si impadronisce di una posata d'argento che gli è stata consegnata per l'uso;

Il commesso o l'operaio che sottrae un oggetto che ha a sua disposizione nella bottega o nell'officina;

Il portabagagli che, dopo aver avuto in consegna una valigia, si dilegua tra la folla della stazione;

Il cliente che in un negozio, avuto in mano un oggetto per osservarlo, si dà alla fuga;

Il detenuto che, fuggendo, si impossessa di cose dategli in dotazione dall'amministrazione del carcere.

Va tenuto presente che il concetto di sottrazione, se implica la mancanza di possesso da parte dell'autore, implica altresì il dissenso del possessore. Una volta verificatasi la detta sottrazione, il consenso successivo o la ratifica del possessore non escludono l'esistenza del reato.

Quanto all'impossessamento è opinione assai diffusa che esso equivalga alla sottrazione. In quest'ordine di idee si è espressa e si esprime tuttora la giurisprudenza prevalente. Si è detto che i momenti della sottrazione e dell'impossessamento non esprimono che un duplice aspetto dello stesso fenomeno, considerato rispettivamente dal punto di vista del soggetto passivo e dell'agente: rappresentano, in altri termini, il diritto e il rovescio della medesima medaglia. L'impossessamento si verificherebbe appena il ladro toglie al derubato la materiale disponibilità della cosa. Tale opinione non può ritenersi fondata. Se, infatti, il possesso è la disponibilità autonoma della cosa, l'impossessamento non può significare che acquisto di tale disponibilità, e cioè di una disponibilità che si esplichi al di fuori della cerchia di sorveglianza del precedente possessore. Dovendo ritenersi erronea l'asserita coincidenza tra impossessamento e sottrazione. Il furto si perfeziona con l'impossessamento, e cioè quando l'agente acquista la disponibilità autonoma della cosa. Solo allorché la cosa esce dalla sfera di vigilanza del precedente possessore e si crea un nuovo possessore, il furto può dirsi consumato. I mezzi utilizzati per impossessarsi della cosa sono indifferenti.

L'infondata opinione che sottrazione e impossessamento siano un tutt'uno e che in conseguenza l'impossessamento si verifichi nell'istante in cui al derubato viene tolta la disponibilità materiale della cosa, ha portato la dottrina e la giurisprudenza, in tema di tentativo, ad applicazioni che, a nostro parere, non possono in alcun modo approvarsi. Queste applicazioni sono infondate, perché nei casi in parola manca l'impossessamento, se impossessamento significa acquisto di una disponibilità autonoma. Insomma, la nozione di possesso, applicata coerentemente, porta a ritenere che solo quando il ladro riesce a sfuggire dalla cerchia di vigilanza del possessore, nel suo fatto è consentito ravvisare un furto consumato. Prima di tale momento, la semplice sottrazione della cosa non può essere punita che a titolo di tentativo.

Il dolo nel furto richiede anzitutto la coscienza e la volontà i impossessarsi della cosa mobile altrui sottraendola al detentore. Esige inoltre una particolare intenzione, e precisamente il fine di trarre profitto dalla cosa per sé o per altri. Tale elemento dà all'elemento soggettivo del furto il carattere di vero e proprio dolo specifico. L'ingiustizia del profitto sia estranea alla nozione del furto, il quale, perciò, sussiste anche se il vantaggio a cui mirava l'agente non presentava quel carattere, e cioè era legittimo. Nulla di notevole da notare in ordine alle cause di giustificazione, per le quali valgono le regole generali. Anche per il concorso di reati valgono le norme comuni.

LE AGGRAVANTI SPECIALI

L'art. 625 del codice prevede per il furto otto aggravanti speciali. Sono tutte circostanze oggettive ai sensi dell'art. 70 e, come tali, si estendono ad ogni compartecipe nel reato. Naturalmente, esse non escludono l'applicabilità delle aggravanti comuni contemplate negli art. 61 e 112 del codice, salvo i casi di assorbimento derivanti dalle regole generali sul concorso apparente di norme. Il furto è aggravato:

Se il colpevole, per commettere il fatto, si introduce o si trattiene in un edificio o in un altro luogo destinato ad abitazione. Con l'espressione "edificio destinato ad abitazione" non si intendono soltanto i locali adibiti ad abitazione, ma anche quelli che formano parte integrante: scale, atri, cucine, bagni, ripostigli, cantine, soffitte e porticati.

Se il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di un qualsiasi mezzo fraudolento. Mentre il codice Zanardelli prevedeva in particolare il c.d. furto con scasso, il quale ricorreva allorché l'agente aveva distrutto o rotto "ripari di solida materia posti a tutela della persona o della proprietà", il codice attuale ha esteso la portata dell'aggravante, parlando genericamente di violenza sulle cose. Si è però ritenuto che la violenza presupponga il superamento di un ostacolo di una qualche consistenza e, così, per esempio, la si è esclusa nel caso del semplice scioglimento del filo di ferro che teneva chiusa una porta priva di serratura.  Più recentemente l'aggravante è stata ritenuta nel caso di strappo dell'etichetta magnetica per sottrarre capi di merce ai grandi magazzini.

Se il colpevole porta in dosso armi o narcotici, senza farne uso. Se ne facesse uso si avrebbero i delitti di rapina (628) e estorsione (629).

Se il fatto è commesso con destrezza, ovvero strappando la cosa di mano o di dosso alla persona. Il furto con destrezza, detto comunemente borseggio, è il furto che viene commesso con particolare abilità e sveltezza. Non si ha furto con destrezza nel caso, piuttosto frequente, del c.d. taccheggio, il quale su verifica allorché una persona, entrando in una bottega col pretesto di fare acquisti, tiene a bada l'incaricato delle vendite e riesce a sottrarre clandestinamente gli oggetti che gli capitano a portata di mano. L'altra ipotesi è lo scippo, che si verifica quando la borsa viene strappata di mano o di dosso alla persona.

Se il fatto è commesso da tre o più persone, ovvero anche da una sola, che si sia travisata o simuli la qualità di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Se il fatto è commesso sul bagaglio dei viaggiatori in ogni specie di veicoli, nelle stazioni, negli scali o banchine, negli alberghi o in altri esercizi ove si somministrano cibi e bevande. Viaggiatore è colui che si fa trasportare per terra, per mare o per aria fuori dalla comune dimora. Bagaglio è tutto quanto il viaggiatore porta con sé per le proprie necessità o utilità, escluse le cose che porta sulla sua persona.

Se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza.

Se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria. Tale aggravante concreta il c.d. delitto di abigeato. Il termine gregge riguarda il bestiame minuto, mentre l'espressione mandria si riferisce al bestiame grosso. I volati sono esclusi dalla disposizione.

L'art. 625, il quale per i casi di furto aggravato di cui ora abbiamo parlato, commina la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 200000 a 2000000, nell'ultimo comma stabilisce: "Se concorrono due o più circostanze previste dai numeri precedenti, ovvero se una di esse concorre con una di quelle indicate nell'art. 61, la pena è della reclusione da 3 a 10 anni e della multa da lire 400000 a 3000000".

Il sistema delle aggravanti è stato aspramente criticato per il fatto che comporta delle pene eccessive per la reale gravità del reato. L'asprezza delle pena ha favorito, nel giudizio di valenza con attenuanti, una prassi dei giudici volta di norma a considerare gracili attenuanti prevalenti o equivalenti su plurime e significative aggravanti.

Sta a sé l'aggravante contemplata all'art. 4 della legge n. 533 del 1977, per effetto della quale "Se il fatto dell'art. 624 è compiuto su armi, munizioni od esplosivi nelle armerie ovvero in depositi o in altri locali adibiti alla custodia di essi, si applica la pena della reclusione da tre a dieci anni e della multa da lire centomila a lire quattrocentomila. Se concorre, inoltre, taluna delle circostanze previste dall'art. 61 o dall'art. 625, n. 1, 2, 3, 4, 5 e 7 del codice penale, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni e della multa da lire duecentomila a lire seicentomila.

FURTI MINORI E SOTTRAZIONE DI COSE COMUNI

Gli articoli 626 e 627 prevedono, come figure autonome di reato, quattro specie di furti che  si distinguono da quello comune per la loro tenuità oggettiva o soggettiva oppure per la qualità personale del soggetto agente in relazione al particolare regime giuridico della cosa sottratta.

FURTO D'USO (art. 626 n. 1). Tale figura criminosa si verifica allorché l'autore del furto ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita. La legge non specifica in che cosa debba consistere l'uso. È possibile dedurre dalla norma stessa che si deve trattare di un uso che renda possibile la restituzione della cosa. L'uso deve inoltre essere momentaneo vale a dire non dilazionato. La restituzione del tolto deve presentare anzitutto il carattere dell'immediatezza. Deve inoltre essere restituita la stessa cosa che il colpevole aveva sottratto. Se la restituzione per qualsiasi causa e, quindi, anche per forza maggiore, non si verifica in passato si ritenne che non si potesse parlare del delitto in esame. con la sentenza n. 1085 del 1988 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima, in relazione all'art. 27 della Cost., la norma incriminatrice in esame nel caso di mancata restituzione della cosa sottratta dovuta a caso fortuito, forza maggiore o fatto comunque non addebitabile al soggetto attivo del reato. Il reato si consuma nel momento e nel luogo dell'impossessamento. Si ritiene che il tentativo non sia giuridicamente possibile. Il dolo del delitto in esame è identico a quello del furto, con in più l'elemento specifico consistente nel solo scopo di fare uso momentaneo del bene sottratto.

FURTO LIEVE PER BISOGNO (art. 626 n. 2). È il furto commesso su cose di tenue valore, per provvedere ad un grave e urgente bisogno. La cosa sottratta può essere tanto denaro quanto un qualsiasi bene mobile. Esse deve essere però di tenue valore. Il bisogno deve essere grave ed urgente. Per l'esistenza del dolo, oltre ai requisiti che occorrono nel furto comune, è necessaria la consapevolezza di agire su cose di tenue valore al fine di provvedere ad un grave e urgente bisogno.

SPIGOLAMENTO ABUSIVO (art. 626 n. 3). Il fatto consiste nello spigolare, rastrellare o raspollare nei fondi altrui, non ancora spogliati interamente del raccolto. Il dolo è escluso dall'errore di fatto: per es. l'agente crede a torto che il fondo sia interamente spogliato del raccolto.

SOTTRAZIONE DI COSE COMUNI (art. 627). Si contempla il fatto del comproprietario, socio o coerede che, per procurare a sé o ad altri un profitto, s'impossessa della cosa comune, sottraendola a chi la detiene. Soggetto attivo del reato può essere soltanto chi abbia le qualità indicate tassativamente dalla disposizione di legge: si tratta quindi di un reato proprio. L'azione esecutiva consiste nell'impossessarsi della cosa comune, sottraendola a chi la detiene. Oggetto materiale dell'azione è la cosa mobile comune. Come è noto comune è la cosa che la cui proprietà spetta a più soggetti nello stesso tempo. Il capoverso dell'articolo 627 dispone che non è punibile chi commette il fatto su cose fungibili, se il valore di esse non eccede la propria quota. Il dolo è quello del furto, con in più la consapevolezza di impossessarsi di cose comuni.

APPROPRIAZIONE INDEBITA

Con questa incriminazione l'ordine giuridico mira ad impedire gli attentati patrimoniali che possono essere commessi da chi è in possesso di cose mobili altrui. In particolare viene punito il possessore di cosa mobile non propria, il quale si comporti da padrone, e cioè compia sulla stessa atti di disposizione che sono riservati al proprietario. La fattispecie dell'appropriazione indebita è così descritta dall'articolo 646: "Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni o con la multa fino a lire due milioni". Sull'essenza del delitto in esame la dottrina non è concorde. Alcuni autori sostengono che la caratteristica del reato consiste nella violazione della fiducia che è insita nel rapporto da cui trae origini il possesso. Questa concezione era sostenibile sotto l'impero del codice precedente, il quale all'art. 417 esigeva in modo esplicito che la cosa mobile altrui fosse stata affidata o consegnata al possessore per n titolo che importasse, appunto, l'obbligo di restituirla o di farne un uso determinato. A nostro modo di vedere il delitto di appropriazione indebita costituisce una violazione del diritto di proprietà. La vera essenza del reato consiste nell'abuso del possessore, il quale dispone della cosa come se ne fosse proprietario. Il vero ed unico soggetto passivo del reato, in conseguenza, è il proprietario della cosa. Come risulta dal testo dell'art. 646, oggetto materiale dell'azione nel diritto di appropriazione indebita è "il denaro o la cosa mobile altrui". L'oggetto materiale in esame viene a coincidere del tutto con quello del furto. È stato sollevato il dubbio se sia ammissibile l'appropriazione indebita di un'idea. Si consideri il caso dell'individuo che, avuto in consegna il modello di un ritrovato scientifico o industriale, si impadronisca non del modello ma dell'invenzione, brevettandola a proprio nome. Sarà egli responsabile di appropriazione indebita? A noi sembra che l'idea non possa essere di per sé oggetto del reato in esame, perché il suo carattere immateriale, non costituisce giuridicamente una cosa.

Il delitto di appropriazione indebita presuppone che l'agente abbia il possesso della cosa mobile. Deve, però, trattarsi di mero possesso, e cioè di possesso disgiunto della proprietà, poiché oggetto dell'azione criminosa è un bene mobile altrui. Il reato in esame non può sorgere nei casi in cui si verifica, insieme col trasferimento del possesso, quello della proprietà. Il diritto penale considera altrui il denaro quando sia affidato per un uso determinato nell'interesse del proprietario. Tale estensione del concetto dell'altruità non implica la sussistenza dell'indebita appropriazione nel caso che il consegnatario si limiti a cambiare il denaro ricevuto con altro di valore equivalente. Per risolvere i dubbi che si presentano nelle ipotesi in cui il trasferimento del possesso importa il passaggio della proprietà, la dottrina si addentra in una particolareggiata disamina dei titoli da cui può trarre origine il possesso per stabilire quali di essi trasferiscano anche la proprietà. Crediamo opportuno ricordare che sono traslativi della proprietà, tra l'altro, il mutuo, la cessione di credito, il riporto, il conto corrente, il vitalizio, il deposito irregolare e, di regola, la commissione. Naturalmente trasferiscono la proprietà il contratto di vendita, anche con patto di riscatto: non così la vendita con riserva di dominio che si suole praticare nella vendita a rate. Occorre precisare che deve trattarsi di possesso vero e proprio, perché, qualora si trattasse di semplice detenzione l'autore del fatto dovrebbe rispondere non di appropriazione indebita, ma di furto.      

Non è possibile disconoscere che in alcuni casi marginali la risoluzione del quesito se ricorra il delitto di appropriazione indebita o quello di furto dà luogo ad incertezze. Noi, però, riteniamo che il criterio di disponibilità autonoma, intesa nel senso da noi patrocinato, e cioè nel senso di un potere sulla cosa che si esercita al di fuori della diretta vigilanza di una persona che abbia sulla cosa medesima un potere giuridico maggiore è idoneo ad evitare decisioni in contrasto con la logica e l'equità. Un caso che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro, dando luogo a sottili ed eleganti disquisizioni, è quello che concerne la manomissione degli oggetti affidati in involucro chiuso (possesso sprangato). In prevalenza si ritiene che il consegnatario, impadronendosi del contenente, commetta appropriazione indebita, mentre, se si impossessa del contenuto commette furto. Nel caso in cui si impadronisca di entrambi egli dovrebbe rispondere di concorso tra i due reati.

Secondo la formula dell'art. 646 l'azione esecutiva del delitto in esame consiste nell'appropriarsi della cosa mobile altrui. L'espressione si appropria non può essere presa alla lettera, e cioè intesa nel senso di far propria la cosa e, quindi, diventarne proprietario. La proprietà è uno stato di diritto e, in quanto tale, non può trarre origine da un atto illecito. In conseguenza appropriarsi significa comportarsi verso la cosa come se fosse propria, vale a dire compiere sulla cosa stessa atti di disposizione a cui il possessore non è autorizzato. Qualora il possessore non adempia l'obbligo di restituire la cosa (ritenzione), il reato sussiste se egli oppone alla richiesta un rifiuto immotivato o pretestuoso. Come abbiamo accennato, si discute se il semplice uso illecito della cosa concreti il delitto in esame. In genere deve ritenersi che tutte le volte che il possessore sottopone la cosa ad un logorio che ne diminuisca in modo particolare il valore, ricorrono gli estremi del reato in esame. Quanto abbiamo detto vale per il caso assai discusso e frequente del possessore che dà in pegno la cosa altrui. Anche in questa ipotesi una responsabilità penale, a nostro avviso, non può escludersi, qualora nel caso concreto il fatto implichi un rilevante pericolo per il proprietario.

Per quanto concerne la consumazione del reato, deve escludersi che sia necessario che l'agente abbia conseguito un profitto, perché dalla formula dell'art. 646 si desume in modo inequivocabile che il profitto è soltanto una nota dell'elemento psicologico. La dottrina in prevalenza nega che nell'appropriazione indebita sia configurabile il tentativo, e ciò per la ragione che si tratterebbe di un reato unisussistente. Noi siamo di diverso avviso, perché  è del tutto arbitrario asserire che il delitto in parola è unisussistente. Specie nelle forme di consumo e di alienazione, esso può in concreto richiedere di essere realizzato per una molteplicità di atti e, perciò, è del tutto arbitrario negare la possibilità del tentativo, il quale, ad es., deve ravvisarsi nel caso dell'individuo che venga colto mentre sta per vendere una cosa avuta in deposito.

Per la sussistenza del dolo occorre anzitutto la consapevolezza di ciò che la condotta presuppone, e precisamente del possesso e dell'altruità della cosa. È inoltre necessaria la volontà consapevole di compiere quell'atto di disposizione in cui nel caso particolare si concreta l'appropriazione. Il dolo richiede che il soggetto abbia agito col fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Ricordiamo che non è necessario che il profitto sia economico: può essere soltanto morale o sentimentale.

Il codice al secondo comma dell'art. 646, prevede una circostanza aggravante speciale, la quale ricorre quando il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario. Il deposito necessario a cui si riferisce la citata disposizione è quello che il codice civile abrogato contemplava nell'art. 1864, e precisamente quello a cui uno è costretto da qualche accidente, come in un incendio, una rovina o un saccheggio, vale a dire il deposito che si costituisce sotto l'impero della necessità, senza avere nessuna possibilità di scelta. Il nuovo codice civile non ha conservato l'ipotesi del deposito necessario, ma ciò non ha influenza ai fini penali, perché il nostro codice con l'espressione usata ha fatto richiamo alle situazioni di fatto che, secondo la legislazione civile del tempo, costituivano il detto deposito, nella cui fattispecie erano senza dubbio compresi anche gli avvenimenti imprevedibili di carattere individuale. Verificandosi l'aggravante in parola, l'appropriazione indebita è perseguibile d'ufficio.

In conformità all'avviso espresso da vari autori, riteniamo che all'appropriazione indebita sia estendibile per analogia la causa di non punibilità prevista dal capoverso dell'art. 627 per la sottrazione di cose comuni e cioè l'esenzione di pena nel caso in cui il fatto sia commesso su cose fungibili, quando il valore di esse non supera la quota spettante all'autore del fatto medesimo.

APPROPRIAZIONI INDEBITE MINORI

L'rt. 647 prevede tre distinte ipotesi caratterizzate dal particolare modo col quale il soggetto agente è pervenuto al possesso della cosa mobile altrui.

APPROPRIAZIONE INDEBITA DI COSE SMARRITE. Consiste nel fatto di chiunque avendo trovato denaro o cose da altri smarrite, se li appropria, senza osservare le prescrizioni della legge civile sull'acquisto della proprietà di cose trovate. Per potersi parlare di cosa smarrita occorrono due requisiti, l'uno oggettivo e l'altro soggettivo. Oggettivamente è necessario che la cosa si uscita dalla sfera di sorveglianza del possessore, in modo che, ad es., non si potrà qualificare smarrita la cosa che resti sempre nella mia casa, pur se io non riesco a trovarla. Dal punto di vista soggettivo, occorre che colui che la deteneva non sia in condizioni di ricostituire sulla cosa il primitivo potere di atto, perché ignora il luogo in cui essa si trova, né è in grado di ricordarlo. Il dolo è escluso dall'ignoranza delle prescrizioni delle leggi civili, ignoranza che si traduce in un errore sul fatto che concreta il delitto. Il reato è aggravato se il colpevole conosceva il proprietario della cosa di cui si è appropriato.

APPROPRIAZIONE INDEBITA DI TESORO. La seconda ipotesi contemplata dall'art. 647 consiste nel fatto di colui che avendo trovato un tesoro, si appropria, in tutto o in parte, la quota dovuta al proprietario del fondo. Tesoro, ai sensi delle leggi civili, è qualunque cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario. Il dolo è escluso dall'ignoranza della legge civile.

APPROPRIAZIONE INDEBITA DI COSE AVUTE PER ERRORE O PER CASO FORTUITO. La terza figura criminosa contemplata nella disposizione in esame si ha allorché taluno si appropria cose, delle quali sia venuto in possesso per errore altrui o per caso fortuito. Presupposto della condotta è che l'agente abbia conseguito il possesso esclusivamente per effetto di errore altrui o per effetto di caso fortuito. L'errore può riguardare tanto la cosa quanto la persona.

TRUFFA

La truffa è il tipico delitto fraudolento contro il patrimonio: è la frode per eccellenza. Essa è definita dal codice nel seguente modo: "Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire centomila a due milioni". Nucleo essenziale del delitto in esame è l'inganno. Il consenso della vittima, carpito fraudolentemente, caratterizza il delitto e lo distingue sia dal furto che dall'appropriazione indebita. Il delitto di truffa presenta grandi affinità con quello di estorsione, il quale, come vedremo, si ha allorché mediante violenza o minaccia, taluno viene costretto a fare o ad omettere qualcosa, procurando in tal modo a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La differenza consiste solo in questo: nel primo la vittima è indotta fraudolentemente all'atto di disposizione patrimoniale, mentre nel secondo vi è coartata; nell'uno la volontà è viziata da errore, nell'altro è viziata da violenza o minaccia. Lo scopo dell'incriminazione della truffa non è soltanto la protezione del patrimonio, ma anche la tutela della libertà del consenso nei negozi patrimoniali. La truffa è una delle figure criminose più complesse e delicate. Dalla definizione legislativa sopra riportata si desume che la fattispecie oggettiva della truffa consta dei seguenti elementi:

Un particolare comportamento del reo, che il codice designa con l'espressione artifizi o raggiri;

La causazione di errore, il quale, come vedremo, deve a sua volta dare origine a una disposizione patrimoniale;

Un danno patrimoniale derivato dall'inganno con conseguente ingiusto profitto per l'agente o per altra persona.

Da parecchi decenni la distinzione tra frode civile e frode penale ha perduto credito. Si è osservato che la concezione dei costumi sociali che sta alla sua base confonde la libertà dei traffici con la libertà di abusare dell'altrui buona fede e, in sostanza, con la facoltà di valersi dell'inganno nella trattazione degli affari. Di rincalzo si è detto che nessun cittadino può essere lasciato alla mercé dei frodatori e che anche la persona di limitata intelligenza deve essere protetta dalla legge. Anche la formula legislativa della truffa ne ha risentito, perché mentre il codice Zanardelli si esigevano "artifizi e raggiri atti ad ingannare o sorprendere l'altrui buona fede" il codice attuale, come risulta dalla disposizione sopra riportata, parla soltanto di artifizi o raggiri. Artifizio è ogni studiata trasfigurazione del vero, ogni camuffamento della realtà effettuato sia simulando ciò che non esiste, sia dissimulando, vale a dire, nascondendo ciò che esiste. Raggiro è un avvolgimento ingegnoso di parole destinate a convincere: più precisamente una menzogna corredata da ragionamenti idonei a farla sembrare verità. È controverso se l'artificio o raggiro, nella truffa contrattuale, debba cadere nel momento della formazione del contratto ed abbia o meno rilevanza anche quando incida soltanto sulla sua esecuzione. Dopo non poche oscillazioni la giurisprudenza più recente propende per la soluzione positiva.

Il comportamento dell'agente deve determinare un errore: deve essere causa di un inganno. Basta che in concreto il mezzo usato abbia cagionato l'inganno. È, perciò irrilevante che l'ignoranza o la leggerezza dell'ingannato abbiano agevolato l'errore. La frode può essere commessa anche approfittando dell'errore in cui una persona già si trovi, come nel caso dell'individuo che riesca a farsi donare una somma da una persona che erroneamente crede di aver conseguito una grossa vincita al totocalcio. Il soggetto passivo dell'errore deve essere una persona determinata, il che esclude che gli artifizi o raggiri possano rivolgersi "in incertam personam", come avviene nell'esposizione fraudolenta di distributori automatici, nei giuochi truffaldini ecc. Ma dalla formula legislativa si deduce principalmente che l'inganno può essere esercitato anche su persona diversa da quella che subisce il danno. Su ciò nessun dubbio è possibile.

Qui si presenta la questione dell'ammissibilità della truffa processuale. Con questa espressione si fa riferimento all'ipotesi in cui una delle parti in giudizio civile, inducendo in inganno il giudice con artifizi o raggiri, ottenga o tenti di ottenere una decisione a lei favorevole e quindi un ingiusto profitto a danno della controparte. A nostro parere la questione va risolta in senso positivo, perché, come abbiamo visto, il nostro codice non esige che sia ingannato proprio il soggetto passivo del reato, potendo l'inganno cadere su un'altra persona che sia autorizzata a compiere l'atto di disposizione patrimoniale richiesto per l'esistenza del reato. Poiché il giudice possiede certamente questo potere, non si scorge la ragione per cui debba negarsi la sussistenza della truffa. La disposizione di cui all'art. 374 del codice (frode processuale) non esclude l'applicabilità della norma generale sulla truffa. 

La disposizione patrimoniale deve avere per conseguenza un danno e, correlativamente, un ingiusto profitto per l'agente o per altra persona. Il danno di cui parla l'art. 640 è senza dubbio quello patrimoniale, e cioè il danno che consiste in una deminutio patrimonii. Al nocumento deve corrispondere un profitto per l'ingannatore o per altri, profitto che nel nostro diritto può anche non essere economico. Il profitto, però, deve essere ingiusto, e, quindi, non sussiste il reato se il vantaggio ottenuto dall'ingannatore non presentava quel carattere. Va posto nel maggior rilievo che il nostro codice considera il conseguimento del profitto come essenziale alla truffa, il che non è andato esente da critiche tutt'altro che infondate. Ne deriva che la realizzazione del profitto segna il momento consumativo del reato. In questo reato esiste largo spazio per il tentativo.

Per quanto concerne l'elemento soggettivo, e cioè il dolo, valgono le regole generali. L'agente deve volere non soltanto la sua azione, ma anche l'inganno della vittima, come conseguenza dell'azione stessa, la disposizione patrimoniale, come conseguenza dell'inganno e, infine, la realizzazione di quel profitto che costituisce l'ultima fase del processo esecutivo del delitto. Data la molteplicità degli elementi necessari per l'esistenza del dolo in questo complesso reato, sussiste un ampio margine per l'errore di fatto. Sempre in applicazione dei principi generali, il dolo deve essere precedente o concomitante all'azione criminosa. Un dolo successivo, in conseguenza, non può dar luogo a responsabilità per truffa.

Una questione particolare è quella che concerne la c.d. truffa in atti illeciti, vale a dire la questione se il delitto in parola sia configurabile allorché l'ingannato si proponeva un fine illecito ed è stato raggirato proprio mentre cercava di conseguire il fine stesso. Contro la punibilità si è detto che chi opera per conseguire uno scopo illecito deve imputare esclusivamente a sé stesso se rimane vittima di un inganno e subisce una perdita patrimoniale. Lo Stato non può prestare la sua tutela a chi agisce contro il diritto, perché ciò significherebbe prostituire la sanzione penale. Qualche autore ha aggiunto che, se si punisce l'ingannatore, si verrebbe a riconoscere che egli era tenuto alla prestazione vietata. Quest'ordine di idee da parecchio tempo è stato abbandonato dalla dottrina. Noi condividiamo l'opinione oggi dominante per la considerazione che l'incriminazione della truffa è dettata da ragioni di interesse sociale, le quali non cessano di sussistere allorché l'ingannato agisce per un fine illecito.

Per disposto del capoverso dell'art. 640 il delitto di truffa è aggravato, e si procede d'ufficio, nei seguenti casi:

Se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico;

Se è commesso col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare;

Se è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l'erroneo convincimento di dover eseguire un ordine dell'Autorità.

Notizie storiche. Nel diritto romano della prima epoca i casi di delitto di arricchimento con inganno di altri rientravano nella nozione di furtum e, più spesso, in quella del falsum. Con le costituzioni imperiali dell'epoca dei Severi, apparve il crimen extraordinarium, una nuova figura delittuosa, lo stellionatus, che può considerarsi il precedente più vicino alla truffa come oggi è concepita. La pena di tale reato, come per tutti i crimen extraordinarium veniva stabilita discrezionalmente dal giudice. Nel nostro diritto intermedio il crimen stellionatus fu conservato, ma i suoi rapporti col falsum non furono chiariti: anzi, si verificò una maggiore confusione, perché nel secondo si fecero rientrare varie frodi che il diritto romano comprendeva nel primo. Soltanto verso la fine del secolo diciottesimo la truffa acquistò una fisionomia autonoma. La prima nozione, sostanzialmente conforme a quella del diritto attuale, si ha nel codice penale francese del 1819.

ALTRE FRODI

TRUFFA AGGRAVATA PER IL CONSEGUIMENTO DI EROGAZIONI PUBBLICHE (art. 640 bis). L'erogazione di denaro pubblico per il perseguimento di scopi di programmazione economica non poteva non essere sorretta da una efficace protezione giuridica da perseguire anche con lo strumento della sanzione penale.

L'interprete si trova di fronte ad una figura criminosa a sé stante e non ad una circostanza aggravante. L'elemento distintivo rispetto alla truffa è offerto dalla specificazione dell'oggetto materiale e non ha riguardo alla mancata osservanza del vincolo di destinazione delle utilità ricevute, cui invece provvede l'art. 316 bis. Tale oggetto viene indicato coi termini contributi, finanziamenti e mutui agevolati e con una formula di chiusura che facendo riferimento ad altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, finisce col togliere in parte rilievo alle formule precedenti. Si tratta in ogni di caso di erogazioni a carattere pecuniario, che possono consistere tanto in prestazioni di denaro con vincolo alla restituzione, quanto in vere e proprie attribuzioni patrimoniali a fondo perduto, come alcune specie di contributi. Alla consumazione del delitto non è necessario che il beneficio sia erogato bastando il completamento dell'iter necessario per la sua attribuzione. Se ciò non avviene potrà essere ravvisato il tentativo.

Il dolo ha lo stesso contenuto già esaminato per la truffa.

Una situazione di concorso apparente di norme può essere ipotizzata con riferimento all'art. 2 della legge 1986 n. 898 che punisce con reclusione da sei mesi a tre anni, in tema di controlli agli aiuti comunitari per la produzione di olio di oliva, "chiunque, mediante esposizione di dati o notizie false, consegue indebitamente per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale o parziale del fondo europeo di orientamento e garanzia".

FRODE INFORMATICA (art. 640 ter). Da questo reato è colpito "chiunque, alterando in qualsiasi modo il funzionamento di un sistema informatico o telematico o intervenendo senza diritto con qualsiasi modalità su dati, informazioni o programmi contenuti in un sistema informatico o telematico o ad esso pertinenti, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Anche questa forma di frode è punibile a querela della persona offesa, ma si procede d'ufficio se concorrono circostanze aggravanti. La condotta si sostanzia in due tipi di comportamenti:

Il primo che consiste nel creare anomalie di funzionamento nei sistemi considerati;

Il secondo prevede interventi non legittimi, attuati in qualsiasi modo sui programmi, riferimenti, dati, notizie, collegamenti di vario genere tipici dei sistemi in esame.

Il delitto si consuma con la realizzazione del profitto e, come nell'ipotesi dell'art. 640 vi è largo campo per il tentativo. Il dolo non richiede necessariamente la volontà dell'induzione in errore e dell'inganno, bastando la volontà di alterare il funzionamento dei sistemi o di intervenire indebitamente sui programmi e notizie dei medesimi. Sono contemplate le aggravanti dell'art. 640, secondo comma n. 1 (fatto commesso a danno dello Stato o di altro ente pubblico), nonché quella dell'abuso della loro qualità da parte di operatori del sistema.

INSOLVENZA FRAUDOLENTA (art. 641). Si punisce chiunque, dissimulando il proprio stato di insolvenza, contrae un'obbligazione col proposito di non adempierla qualora l'obbligazione non sia adempiuta. Il reato è perseguibile a querela della persona offesa. Scopo della norma è la tutela della buona fede contrattuale, contro un particolare tipo di frode diverso dalla truffa vera e propria. Da quest'ultima l'insolvenza fraudolenta si differenzia per la natura del mezzo usato, il quale non deve consistere in un vero e proprio artifizio o raggiro, bensì in quell'inganno meno grave che consiste nella dissimulazione del proprio stato di insolvenza. Trattasi evidentemente di una forme di truffa più tenue, la quale però subentra al delitto in esame quando l'agente non si limiti a nascondere il proprio stato dell'insolvenza, ma faccia qualche cosa di più, simulando circostanze inesistenti o ricorrendo ad altri artifici per farsi credere solvibile. Per la sussistenza del reato occorre, anzitutto, che l'agente contragga un'obbligazione col proposito di non adempierla. La legge parla di contrarre un'obbligazione, il che significa che questa deve essere contrattuale e, quindi, volontaria. Si richiede, inoltre, che il reo abbia dissimulato il proprio stato di insolvenza. La dissimulazione può assumere le forme più diverse ed è indubbio che si può concretare tanto in un comportamento positivo che in uno negativo. Insolvenza è la impotenza a pagare, come si rivela da molte disposizioni del codice civile. Essa deve esistere nel momento in cui è contratta l'obbligazione. L'insolvenza sopravvenuta non integra il reato, neppure nel caso che sia procurata intenzionalmente, e cioè allo scopo di non adempiere l'obbligazione, il che è suscettibile di critica. Occorre, infine, che l'agente non adempia l'obbligazione.

Il reato è consumato nel momento e nel luogo in cui l'agente contrae l'obbligazione, sempre che questa non sia poi adempiuta. Il tentativo è inconcepibile, perché fino a quando non si può parlare di inadempimento, non c'è reato, mentre, una volta che si verifichi l'adempimento, il delitto è consumato. Il dolo consiste nella volontà consapevole di contrarre l'obbligazione e di tenere una condotta idonea a dissimulare il proprio stato di insolvenza. Una causa speciale di estinzione della punibilità è contemplata nel capoverso dell'articolo in esame, il quale dispone che l'adempimento avvenuto prima della condanna estingue il reato.

FRODI NELLE ASSICURAZIONI CONTRO INFORTUNI (art. 642). Questa disposizione comprende due distinte ipotesi. La prima consiste nel fatto di colui che, al fine di conseguire per sé o per altri il prezzo di una assicurazione contro infortuni, distrugge, disperde, deteriora od occulta cose di sua proprietà (fraudolenta distruzione della cosa propria). La seconda ipotesi si ha allorché taluno, al fine predetto, cagiona a sé stesso una lesione personale, o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta dall'infortunio (mutilazione fraudolenta della propria persona). Scopo della norma è di tutelare la funzione assicurativa contro comportamenti truffaldini. Si tratta di un reato a consumazione anticipata. La figura in esame presuppone la validità del contratto di assicurazione: se fosse inefficace, mancherebbe al fatto il suo indispensabile contenuto offensivo.

CIRCONVENZIONE DI PERSONE INCAPACI (art. 643). Si contempla il fatto di colui che, per procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dei bisogni, delle passioni o dell'inesperienza d'una persona minore, ovvero abusando dello stato di infermità o deficienza psichica di una persona, anche se non interdetta o inabilitata, la induce a compiere un atto, che importi qualsiasi effetto giuridico per lei o per altri dannoso. L'incriminazione mira a proteggere da ogni forma di sfruttamento subdolo le persone che sono in stato di infermità mentale. Il momento consumativo del reato coincide con quello del compimento dell'atto avente effetti giuridici dannosi. La nozione di atto comprende, oltre ai documenti, qualsiasi dichiarazione o fatto materiale suscettivo di produrre un effetto giuridico. L'atto può consistere anche in un contratto usurario, poiché in tal caso resta applicabile il delitto in esame. non si richiede la verificazione di un danno patrimoniale perché la legge parla soltanto di un atto che importi qualsiasi effetto giuridico dannoso. È evidente che, poi, deve ritenersi irrilevante, ai fini dell'esclusione del delitto in esame, l'annullabilità dell'atto per incapacità del soggetto. Il dolo è specifico, perché comprende lo scopo di trarre un profitto per sé o per altri.

FRODE IN EMIGRAZIONE (art. 645). Risponde di questo reato chiunque, con mendaci asserzioni o con false notizie, eccitando taluno ad emigrare, o avviandolo a Paese diverso da quello nel quale voleva recarsi, si fa consegnare o promettere, per sé o per altri, denaro o altra utilità, come compenso per farla emigrare. Aver commesso il fatto in danno di due o più persone costituisce circostanza aggravante.

USURA

Disciplinata all'articolo 644 del codice, si ha quando talun si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari.

L'usura non è intesa come operazione meramente finanziaria destinata a soddisfare un temporaneo bisogno di denaro, ma ha acquistato un significato molto più ampio. Conseguentemente, oggi vi potrebbe rientrare la c.d. usura reale, e cioè quella che si attua mediante operazioni che assicurano all'agente vantaggi economici del tutto sproporzionati alla sua prestazione. La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Tale limite è fissato dall'art. 2 n. 4 legge n. 108 del '96, nel tasso medio risultante dall'ultima rivelazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà. Il contratto di mutuo è certamente quello che si presta di più ai patti usurari, ma l'usura può nascondersi anche in vendite, vere o fittizie, e specialmente nella vendita a rate, nel patto di riscatto, nella costituzione della rendita ecc.

L'azione esecutiva non consiste più, come in passato, nell'approfittare dello stato di bisogno di una persona. Irrilevanti appaiono i motivi che hanno determinato il debitore a chiedere la sovvenzione e vengono poste sullo stesso piano difficoltà finanziarie di chi si impegna ed opera e cause moralmente riprovevoli, come il gioco, il desiderio di soddisfare i propri vizi. Basta il fare, dare o promettere sotto qualsiasi forma a vantaggio proprio o altrui, un interesse che superi il tasso legale e in quella del terzo comma, un interesse inferiore, ma sproporzionato rispetto alla controprestazione in presenza di difficoltà economiche o finanziarie del soggetto passivo.

La consumazione si verifica nel momento in cui gli interessi o vantaggi usurari sono dati o semplicemente promessi.

Il dolo è costituito dalla volontà di farsi dare o promettere determinati interessi o vantaggi che superano il limite legale. Si è discusso in passato se l'usura fosse reato istantaneo o permanente. Il Manzini, dopo aver risolto la questione nel secondo senso, ne dedusse, tra l'altro, che cadeva sotto la sanzione dell'articolo 644 vecchio testo anche colui che avesse acquistato un credito usurario con la conoscenza del suo carattere e poi lo avesse fatto valere o alienato. A noi sembra che l'usura, tanti nella formulazione abrogato quanto in quella attuale, non posso in alcun modo rientrare sotto lo schema del reato permanente, e, perciò, il caso in questione sfugge alla sanzione penale. In ciò deve ravvisarsi una lacuna legislativa.

L'art. 644, comma quinto, contempla un aumento di pena da un terzo alla metà non soltanto quando il colpevole abbia agito nell'esercizio di una attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria , mobiliare, ma anche nei casi seguenti: richiesta di garanzie su partecipazioni sociali o proprietà immobiliari, fatto commesso in danno da chi verta in stato di bisogno o svolga attività imprenditoriale, professionale o artigianale; reato compiuto da persona sottoposta a sorveglianza speciale con provvedimento definitivo, durante il periodo di applicazione della misura e fino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l'esecuzione.

MEDIAZIONE USURARIA (art. 644 comma 2). Tale ipotesi ricorre nei confronti di chiunque fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario. La norma incriminatrice tende a colpire l'avida condotta di quei loschi individui che, intromettendosi tra chi presta e chi riceve denaro o altra utilità, riescono ad assicurarsi guadagni esorbitanti.

IPOTESI DI DIRITTO TRANSITORIO. Poiché l'art. 3 della legge 7 marzo 1996, n. 108 fissa due termini massimi, ciascuno di centottanta giorni, per completare le operazioni necessarie a pubblicare la prima rivelazione trimestrale del tasso effettivo globale medio, il cui superamento oltre la metà darà luogo al tasso usurario legale, il legislatore ha ritenuto opportuno di inserire nell'ordinamento una singolare ipotesi di reato operativa nelle suddette more. In tale periodo è pertanto punito, a norma dell'art. 644 comma 1del codice penale chiunque, fuori dei casi previsti all'art. 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, da soggetto in difficoltà economica o finanziaria, in corrispettivo di una prestazione in denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e ai tassi praticati per operazioni similari dal sistema bancario e finanziario, risultano sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o altra utilità. Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto all'art. 644 comma 1 procura a soggetto che si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto, risulta sproporzionato rispetto all'opera di mediazione.

RAPINA

L'articolo 628 comprende due figure criminose che hanno in comune l'impossessamento di cose mobili altrui e l'uso della violenza alle persone o della minaccia. Nell'una (rapina propria) la violenza costituisce il mezzo con cui si ottiene l'impossessamento; nell'altra (violenza impropria) la violenza è usata per conservare il possesso della cosa sottratta o per conseguire l'impunità.

RAPINA PROPRIA. La prima parte dell'art. 628 delinea questa fattispecie con la seguente formula: "Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da lire un milione a quattro milioni". Lo scopo della norma in parola è, quindi, duplice: la tutela del possesso delle cose mobili e quella della libertà personale, cosicché la rapina deve essere considerata come un tipico reato plurioffensivo.

Oggetto materiale dell'azione è una cosa mobile altrui. L'azione costitutiva è identica a quella del furto, con in più l'elemento della violenza alla persona o alla minaccia. Secondo una parte della dottrina, per aversi impossessamento è necessario che l'agente sottragga direttamente la cosa, la tolga con le sue stesse mani all'aggredito; quando, invece, quest'ultimo è costretto a consegnare la cosa e manca, quindi, un'apprensione diretta da parte del soggetto attivo, si realizza il delitto, assai affine, di estorsione. Tale criterio è, in linea di massima vero, ma esige una importante precisazione. Qualora per consegna si intenda l'atto materiale del soggetto passivo, è innegabile che la realtà ci offre una serie di casi in cui è tutt'altro che agevole stabilire se ci sia stata o meno consegna. A nostro avviso, queste incertezze vengono superate una volta che si tenga presente che, per potersi parlare di consegna, occorre che la persona che la effettua, goda, malgrado la minaccia o la violenza, di una certa autonomia: abbia, in altre parole, una effettiva possibilità di scelta.

La rapina presuppone la mancanza di possesso nell'agente. Poiché col possesso non va confusa la detenzione puramente materiale, realizza, ad es., il reato in esame il facchino che, trasportando delle valige, seguito dal viaggiatore, usi violenza o minaccia per sfuggire alla vigilanza del viaggiatore stesso e così impossessarsi degli oggetti. La violenza o la minaccia devono stare in rapporto di mezzo a scopo rispetto alla sottrazione. Non si esige una particolare intensità della violenza o della minaccia, purché, queste risultino idonee a determinare l'effetto dello spossessamento, e siano tali da porre il paziente in uno stato di coazione assoluta. La rapina si consuma, come il furto, con l'effettivo impossessamento. Il dolo consiste nella coscienza e volontà di impossessarsi della cosa mobile altrui, sottraendola al detentore, accompagnate dalla coscienza e volontà di adoperare a tale scopo violenza o minaccia. È necessario, inoltre, una particolare intenzione, vale a dire, il fine di trarre, per sé o per altri, ingiusto profitto dalla cosa.

Per il principio generale sancito nel comma 2 dell'art. 581, il reato di percosse resta assorbito nella rapina. Concorrono con questa tutti i fatti criminosi che superino per entità il predetto reato, come le lesioni personali di qualsiasi specie e, a maggior ragione, l'omicidio. Se più persone sono rapinate in un unico contesto di azione, si hanno più rapine, a meno che nel fatto non possano ravvisarsi gli estremi del delitto continuato. Il reato è, invece, unico se ad una medesima persona si sottraggono contestualmente più cose appartenenti a persone diverse.

La rapina è aggravata:

Se la violenza o la minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite;

Se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire;

Se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte di associazioni di tipo mafioso;

Se l'agente si impossessa di armi, munizioni o esplosivi, commettendo il fatto in armerie, ovvero in depositi o altri locali adibiti alla custodia di essi.

RAPINA IMPROPRIA. Per il secondo comma dell'art. 628 questa specie di rapina si verifica allorché viene adoperata violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri impunità. La violenza o minaccia è adoperata per garantire il possesso o evitare la punizione per sottrazione effettuata. L'azione esecutiva di questa figura delittuosa consiste nell'uso di violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione per uno dei due scopi indicati. Con immediatezza deve intendersi che la sottrazione e la violenza devono susseguirsi con una soluzione di continuità che non superi i termini della flagranza del reato. Nel caso in cui la violenza o la minaccia siano commesse contro un pubblico ufficiale, la giurisprudenza reputa sussistere il concorso tra il delitto in esame e quello di resistenza. Il delitto si consuma nel momento in cui si verifica la violenza o la minaccia. Il tentativo è perfettamente configurabile (il soggetto cerca, senza riuscirvi, di adoperare violenza o minaccia a chi vuole impedirgli di conservare il possesso della cosa sottratta). Il dolo della rapina impropria è specifico in quanto ne costituisce elemento essenziale lo scopo di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o di procurare a sé o ad altri impunità. Anche la rapina impropria è aggravata se la violenza o la minaccia è commessa con armi o da persona travisata o da più persone riunite o facenti parte di associazioni mafiose, oppure se la violenza consiste nel porre taluno in uno stato di incapacità di agire e di volere.

ESTORSIONE E SEQUESTRO DI PERSONA A SCOPO DI ESTORSIONE

ESTORSIONE. Per l'art. 629 commette questo delitto "chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o commettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno". Per l'esistenza del reato occorre innanzi tutto una violenza o una minaccia. Poiché nella definizione legislativa si parla semplicemente di violenza, non è dubbio che questa può cadere così sul soggetto passivo in modo diretto, come su una terza persona e anche sulle cose. La violenza o la minaccia usata dall'agente deve avere per effetto il costringimento del soggetto passivo, a fare o ad omettere qualche cosa. Il costringimento che qui viene considerato è quello che lascia una certa libertà di scelta in chi lo subisce. La formula legislativa "fare od omettere qualche cosa", deve essere interpretata nel senso di comportamento che implica una disposizione patrimoniale. Il paziente deve essere costretto a compiere un atto positivo o un atto negativo che incide sul suo patrimonio. L'atto di disposizione deve procurare all'agente o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Un profitto non può mai considerarsi ingiusto quando abbia, come sua fondamento, una pretesa comunque riconosciuta e tutelata dall'ordinamento giuridico. Quando il profitto non corrisponde ad una pretesa fondata sul diritto, esso deve ritenersi ingiusto se è conseguito:

Con mezzi di per sé antigiuridici;

Con mezzi legali usati per uno scopo diverso da quelli per cui i medesimi sono concessi dalla legge;

Con mezzi il cui uso per realizzare quel determinato vantaggio sia comunque contrario ai buoni costumi.

Il delitto di estorsione si consuma nel momento e nel luogo in cui si verificano, da una parte l'ingiusto profitto e, dall'altra, il danno patrimoniale. Il dolo richiesto è generico. Il delitto è aggravato se concorre taluna delle circostanze prevedute nell'ultimo capoverso dell'art. 628.

È opportuno mettere in rilievo le differenze che intercorrono tra l'estorsione e alcune figure delittuose che sono ai confini di essa. L'estorsione presenta grande affinità con la truffa. La differenza consiste in questo che, mentre nell'estorsione la vittima è costretta a compiere un atto di disposizione patrimoniale dannoso per taluno e vantaggioso per altri, nella truffa vi è indotta con inganno. All'estorsione si avvicina anche il delitto di violenza privata di cui all'art. 610. Per questo secondo delitto basta la costrizione del paziente e non si richiede che l'agente abbia conseguito un ingiusto profitto con altrui danno. Infine occorre notare che tra i delitti contro la pubblica Amministrazione esiste una figura criminosa che non è altro che un'estorsione speciale. Si tratta della concussione.

SEQUESTRO DI PERSONA A SCOPO DI ESTORSIONE (art. 630). Questo grave delitto (che nel codice precedente era denominato ricatto) è costituito dal fatto di colui che "sequestra allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione". Sono previste circostanze aggravanti e attenuanti che, dopo un lungo travaglio normativo, sono state specificate dalla legge n. 894 del 1980, nei termini seguenti:

Vengono stabiliti inasprimenti di pena se dal fatto deriva la morte non voluta del sequestrato e se il reo ne cagiona la morte con dolo;

È contemplata la diminuzione della sanzione edittale nei limiti dell'art. 605, per il concorrente che, dissociandosi dagli altri, si adopera in modo tale che il soggetto passivo recuperi la libertà senza che ciò sia conseguenza del pagamento del prezzo, ma la pena è maggiore se tale soggetto muore, dopo la liberazione, in conseguenza del sequestro;

Se il concorrente dissociato si adopera per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei concorrenti, può vedere diminuita la sanzione sino a due terzi;

È stabilita una particolare disciplina delle attenuanti nel caso di ipotesi aggravata o quando ulteriori attenuanti si aggiungano a quelle come sopra specificamente contemplate.

Con la legge n. 82 del 1991 viene considerato delittuoso il fatto di chi contragga una assicurazione per la copertura dei rischi del prezzo del riscatto; viene altresì incriminato il fatto di chi, avendo notizia di un sequestro di persona a scopo di estorsione anche soltanto tentato o di circostanze relative al pagamento del prezzo per la liberazione dell'ostaggio o comunque utili per la sua liberazione, ovvero per l'accertamento o la cattura dei colpevoli, omette o ritarda di riferirne all'autorità di cui all'art. 361. Allo scopo di evitare il pagamento del riscatto la legge dispone altresì il sequestro dei beni dei familiari della vittima.

VIOLAZIONI DI DIRITTI SU BENI IMMOBILI

Si tratta di sei norme incriminatrici che riguardano esclusivamente beni immobili. Le figure delittuose hanno carattere episodico e frammentario e la protezione penale è limitata soltanto ad alcuni attentati, perché per gli altri il legislatore ha ritenuto sufficienti le sanzioni civili.

RIMOZIONE O ALTERAZIONE DEI TERMINI (art. 631). Il delitto consiste nel fatto di colui che "per appropriarsi, in tutto o in parte, dell'altrui cosa immobile, ne rimuove o altera i termini". La norma mira a tutelare in genere l'inviolabilità del patrimonio immobiliare e, in particolare, l'integrità delle terminazioni fondiarie. Per termini si intende ogni cosa, artificiale o naturale, destinata a rappresentare stabilmente la linea di delimitazione degli immobili. Affinché ricorra il reato occorre che i termini siano rimossi o alterati. Il delitto si consuma col compiere la soppressione o l'alterazione del termine. Il dolo, oltre alla coscienza e volontà del fatto, esige l'intenzione di appropriarsi, in tutto o in parte, l'altrui cosa immobile. Si procede a querela della dell'offeso salvo che si tratti di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico.

DEVIAZIONE DI ACQUE E MODIFICAZIONE DELLO STATO DEI LUOGHI (art. 632). Viene punito "chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, devia acque, ovvero immuta nell'altrui proprietà lo stato dei luoghi". La formula è stata sostituita dall'art. 95 della legge n. 689 del 1981, con l'inserimento della procedibilità a querela. In ambedue le ipotesi il delitto richiede il dolo specifico, il quale consiste nel fine generico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Anche questo reato è perseguibile a querela.

INVASIONE DI TERRENI O EDIFICI (art. 633). Commette questo delitto "chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto". Il reato è perseguibile a querela della persona offesa, salvo che si tratti di fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Scopo dell'incriminazione è la tutela del diritto di godere o di disporre dell'immobile. Il delitto si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica l'invasione, indipendentemente dal fatto che l'agente abbia o meno conseguito lo scopo indicato nella norma incriminatrice. Trattasi senza dubbio di reato permanente. Il dolo consiste nella coscienza e volontà di porre in essere il fatto dell'invasione, con la consapevolezza della sua illegittimità e con lo scopo di occupare l'immobile o di trarne altrimenti profitto (dolo specifico). Il delitto è aggravato se il fatto è commesso da più di cinque persone di cui una almeno palesemente armata, ovvero da più di dieci persone, anche senza armi.

TURBATIVA VIOLENTA DEL POSSESSO DI COSE IMMOBILI (art. 634). Il delitto consiste nel fatto di colui che "fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili". Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. Il delitto che è punito più gravemente del precedente, è perseguibile d'ufficio. La turbativa è costituita da ogni comportamento che lede il possesso altrui, sia con l'impedire l'esercizio, sia con l'ostacolarlo rendendolo più disagevole, comprende senza dubbio anche l'invasione. Il reato si consuma non appena sia stato posto in essere un fatto qualsiasi di turbativa del possesso accompagnato da violenza alle possesso accompagnato da violenza o da minaccia. Il dolo richiesto è generico e consiste nella coscienza e volontà di turbare, nei modi sopra indicati, il pacifico possesso di cose mobili altrui.

INGRESSO ABUSIVO NEL FONDO ALTRUI (art. 637). Risponde di questo reato "chiunque senza necessità entra nel fondo altrui recinto da fosso, da siepe viva o da un altro stabile riparo". Il delitto è perseguibile a querela della persona offesa, cioè da colui che ha il godimento del fondo, ne sia o no proprietario, perché, la norma è dettata per la tutela del suo diritto. Affinché sussista il delitto in esame, occorre che l'ingresso avvenga senza necessità. Per l'esistenza del dolo basta la volontà di penetrare nel fondo, sapendo che questo appartiene ad altri e che l'ingresso non è necessario.

INTRODUZIONE O ABBANDONO DI ANIMALI NEL FONDO ALTRUI E PASCOLO ABUSIVO (art. 636). Sono contemplate due ipotesi distinte. La prima consiste nel fatto di colui che "introduce, abbandona animali in gregge o in mandria nel fondo altrui". La seconda si verifica quando "l'introduzione o l'abbandono di animali, anche non raccolti in gregge o in mandria, avviene per farli pascolare nel fondo altrui". In ambedue le ipotesi il delitto è aggravato qualora il pascolo avvenga, ovvero dall'introduzione o dall'abbandono degli animali il fondo sia stato danneggiato. Soggetto attivo del reato è colui che abbia la custodia degli animali. Affinché possa verificarsi l'aggravante del pascolo avvenuto, è necessario che gli animali abbiano privato il possessore del fondo di una quantità non irrilevante dei prodotti del suolo. Il reato è procedibile a querela.

DELITTI DI DANNEGGIAMENTO

Sotto questa denominazione comprendiamo tutti quei delitti che si differenziano dai delitti patrimoniali, perché non implicano il trapasso di un valore patrimoniale dal soggetto passivo al soggetto attivo, ma soltanto il peggioramento della situazione patrimoniale del soggetto passivo.

DANNEGGIAMENTO COMUNE. Tale reato si verifica quando taluno "distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui". Il delitto è perseguibile a querela della persona offesa.

Distruggere significa disfare la cosa, cioè determinarne l'annientamento nella sua essenza specifica.

Dispersione si ha allorché la cosa viene fatta uscire dalla disponibilità dell'avente diritto.

Inservibilità implica che la cosa sia resa inidonea, in tutto o in parte, ed anche solo temporaneamente, allo scopo a cui è destinata.

Oggetto materiale del delitto possono essere tanto le cose mobili, quanto le immobili. Il danneggiamento di cosa propria goduta da altri importa solo responsabilità civile, pur essendo augurabile che in una riforma del codice anche questa ipotesi venga compresa nell'incriminazione. Soggetto passivo del reato, oltre il proprietario, è la persona che abbia il godimento della cosa. Il reato si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica il fatto descritto nella norma incriminatrice. La configurabilità del tentativo è incontestabile. Il danneggiamento dovuto a semplice colpa nel nostro ordinamento giuridico-penale non soggiace a pena. Per la punibilità, quindi, è necessario il dolo, a costituire il quale basta la volontà di porre in essere il fatto materiale sopra descritto con la consapevolezza che la cosa appartiene ad altri. La norma incriminatrice in esame ha carattere generico. Essa, per il principio di specialità (art. 15 c.p.) non si applica quando il danneggiamento della cosa è elemento costitutivo di un altro reato.

Per il disposto del comma 2 dell'art. 635 il reato di danneggiamento è aggravato, e si procede d'ufficio, se il fatto è commesso:

Con violenza alla persona o con minaccia;

Su edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all'esercizio di un culto, o su altre delle cose indicate nel n. 7 dell'art. 625;

Sopra piantate di viti, di alberi o arbusti fruttiferi, o su boschi, selve o foreste, ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento.

DANNEGGIAMENTO DI SISTEMI INFORMATICI E TELEMATICI. L'art. 635 bis contempla il fatto di "chiunque distrugge, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili sistemi informatici o telematici altrui, ovvero programmi, informazioni o dati altrui". La consumazione del reato si ha nel tempo e nel luogo in cui si realizza il fatto descritto dalla norma incriminatrice. Nessun dubbio sulla ipotizzabilità del tentativo. Basta al dolo la volontà del fatto materiale con la consapevolezza dell'altruità dei sistemi, programmi, informazioni o dati. Le circostanze aggravanti sono quelle stesse del danneggiamento comune, ma vi si aggiunge l'abuso della qualità di operatore del sistema, mentre alcune delle ipotesi previste non sono evidentemente compatibili con l'oggetto materiale specifico. Donde l'improprietà del semplice rinvio all'art. 635 secondo comma.

UCCISIONE O DANNEGGIAMENTO DI ANIMALI ALTRUI. L'art. 638 del codice prevede in particolare il fatto di colui che "senza necessità uccide o rende inservibili o comunque deteriora animali che appartengono ad altri". Il delitto, per cui si procede a querela di parte, è aggravato e perseguibile d'ufficio allorché il fatto viene commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria. L'ultimo comma dell'articolo dispone che non è punibile chi commette il fatto sopra volatili sorpresi nei fondi da lui posseduti e nel momento in cui gli recano danno. L'incriminazione mira senza dubbio a proteggere non solo la proprietà privata degli animali, ma anche il patrimonio zootecnico nazionale.

DETURPAMENTO O IMBRATTAMENTO DI COSE ALTRUI. Per l'art. 639 è punito, a querela della persona offesa, "chiunque, fuori dei casi preveduti dall'art. 635, deturpa o imbratta cose mobile altrui".

RICETTAZIONE

Per l'art. 648, quale modificato dalla legge n. 152 del 1975 e dalla legge n. 328 del 1993, risponde di questo reato chi, "fuori dei casi di concorso nel reato, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farli acquistare, ricevere o occultare". Il comma 2 dell'art. prevede una pena minore se il fatto è di particolare tenuità. Il terzo comma reca: "Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando l'autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto". L'incriminazione mira ad impedire che, verificatosi un delitto, persone diverse da coloro che lo hanno commesso o sono concorsi a commetterlo si interessino delle cose provenienti dal delitto medesimo per trarre vantaggio. L'intervento di tali persone è dannoso socialmente, perché porta alla dispersione delle cose provenienti da delitto e ne rende più difficile il recupero, consolidando in tal modo il pregiudizio subito dalla vittima. Il collocamento del delitto in esame tra i delitti patrimoniali suscita delle perplessità, perché l'offesa al patrimonio può mancare, sia pur raramente, nella ricettazione, come nell'ipotesi dell'individuo che acquista da un funzionario che si è lasciato corrompere l'oggetto prezioso datogli dal corruttore. Il reato presuppone l'esistenza di un altro reato. Deve trattarsi di delitto e non di semplice contravvenzione. Per l'incontro non è richiesto che si tratti di reato contro il patrimonio, come si desume dall'aggettivo "qualsiasi" che figura dalla norma incriminatrice prima della parola "delitto". Il delitto anteriore deve essere realmente avvenuto: se fosse inesistente o simulato, saremmo in presenza di una ricettazione putativa e, quindi, non punibile. Per iniziare il procedimento per ricettazione, non si richiede che il delitto anteriore sia stato accertato giudizialmente con sentenza passata in giudicato. Ove si tratti di delitto perseguibile a querela di parte, a nulla rileva la mancata presentazione della querela, perché questa è una semplice condizione di procedibilità. In applicazione dell'art. 170 del codice la ricettazione non viene meno neppure quando il delitto, che ne è il presupposto, sia estinto. Soggetto attivo della ricettazione può essere qualsiasi persona, escluso l'autore o il compartecipe del delitto precedente, come si rileva dalla riserva contenuta all'art. 648 "fuori dei casi di concorso nel reato". Per costoro l'uso, il godimento, l'occultamento delle cose provenienti dal predetto delitto costituisce la naturale prosecuzione, il completamento della condotta criminosa. Soggetto attivo non può essere neppure il soggetto passivo del delitto precedente, per l'ovvia ragione che costui non esorbita dall'ambito dei propri diritti se riacquista la cosa che gli appartiene.

Oggetto materiale della ricettazione sono il denaro e le cose provenienti da qualsiasi delitto. Il Nuvolone ha sostenuto che può parlarsi di ricettazione soltanto nel caso di provenienza immediata, e ciò per il riflesso che altrimenti non ci sarebbe possibilità di arrestarsi nella serie delle trasformazioni e si finirebbe col moltiplicare all'infinito i casi di ricettazione. A noi pare che la propagazione ad infinitum non sussista per il fatto che tanto le cose quanto il denaro, provenienti comunque dal delitto, perdono il carattere delittuoso quando vengono in possesso di un terzo di buona fede. La condotta dell'agente consiste nell'acquistare, ricevere o occultare taluna delle cose di cui ora abbiamo parlato, ovvero nell'intromettersi per farla acquistare, ricevere o occultare. Il reato si consuma quando uno dei fatti indicati nella norma incriminatrice può dirsi realizzato. Nell'ipotesi di intromissione il reato è perfetto col compimento degli atti di mediazione. In nessun caso si esige che l'agente abbia conseguito il profitto avuto di mira. La configurabilità del tentativo è fuori discussione. Per l'esistenza del dolo, si richiede anzitutto la volontà di acquistare, ricevere, occultare o intromettersi. Occorre inoltre la consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro o delle altre cose acquistare. Inoltre è indispensabile il fine di procurare a sé o ad altri un profitto: il dolo del reato è quindi specifico.

Dalla legge n. 152 del 1975 è prevista una circostanza attenuante se il fatto è di speciale tenuità. Generalmente si avrà riguardo ai casi in cui il danno patrimoniale è particolarmente lieve. Per altro l'interprete dovrà prendere in considerazione le circostanze di cui all'art. 133 c.p.

Se la ricettazione ha per oggetto più cose provenienti dallo stesso delitto o da più delitti, il reato resta unico, qualora gli oggetti vengano acquistati contestualmente. Se l'autore della ricettazione trasmette le cose ricettate ad altro che le acquista a scopo di profitto, i due reati sono autonomi.

RICICLAGGIO

Per effetto della legge n. 191 del 1978, è stato inserito nel codice l'art. 648 bis, successivamente modificato nel 1990 e nel 1993. Questo, sotto il titolo riciclaggio, incrimina chiunque "fuori dei casi di concorso nel reato, sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l'identificazione della loro provenienza delittuosa. La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell'esercizio di un'attività professionale". Ed è diminuita "se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni". Segue, nel terzo comma dell'art. in esame, un richiamo all'ultimo comma dell'art. 648 che estende il principio per cui la disposizione è applicabile "anche quando l'autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto".

Per realizzare gli scopi suddetti si era in un primo tempo chiarito che le utilità considerate dovevano provenire dai delitti di rapina aggravata, sequestro di persona a scopo di estorsione ovvero dai delitti concernenti la produzione o la distribuzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, e cioè si era attuata una limitazione dei reati presupposti; ma i principi generali che disciplinano il rapporto tra il delitto in esame e i precedenti restavano quelli ai quali si è accennato in tema di ricettazione.

Quanto all'oggetto materiale si è sostituito all'inciso "denaro o cose", tipico della ricettazione, quello "denaro, beni o altre utilità". È evidente lo scopo di ampliare una formula che nella precedente redazione della legge 21 marzo n. 59 del 1978, aveva dato luogo a difficoltà di interpretazione.

Nella originaria formula della legge n. 59 del '78, la condotta si concretava nel compiere fatti o atti diretti alla suddetta sostituzioni e idonei a realizzarla. Il momento consumativo del delitto era quindi anticipato; e ciò segnava un elemento differenziale rispetto alla ricettazione ed  estendeva la sfera della tutela penale a tipi di comportamento che non sarebbe stato possibile ricomprendere nella consumazione di quel reato. L'ultima e vigente versione di questa figura di reato, oltre ad una più concisa descrizione della condotta volta a trasferire il denaro, i beni o le altre utilità, ha ribadito la rilevanza del fatto di chi ponga ostacoli alla identificazione dei beni suddetti dopo che essi sono stati sostituiti o trasferiti.

Per l'elemento soggettivo, questo nel testo della legge n. 59 del '78, oltre alla coscienza e volontà dell'azione richiedeva, quanto al dolo, sul piano conoscitivo la rappresentazione della condotta diretta ad attuare la sostituzione in un con la consapevolezza che il denaro o i valori provenissero da gravi delitti specificamente citati e il fine di procurare a sé o ad altri un profitto. Nel nuovo testo è scomparso ogni riferimento a scopi di profitto o di aiuto. Basta al momento volitivo del dolo la coscienza e volontà di sostituire le utilità o di ostacolare l'accertamento della loro provenienza con la sola scienza che essa si ricollega ad un delitto doloso. Il tentativo è configurabile secondo i principi generali.

Al delitto si ricollega una aggravante e una attenuante. L'aggravante è ravvisata nei confronti di chi compie il reato esercitando un'attività professionale della quale abusa. L'attenuante attiene al reato presupposto e tiene conto dell'esigenza di ridurre una pena edittale molto pesante in casi in cui, in sostanza si riciclano utilità e si ostacola l'identificazione di proventi che conseguono a delitti non gravi.

IMPIEGO DI DENARO, BENI O UTILITA' DI PROVENIENZA ILLECITA

L'art. 24 della legge 19 marzo 1990, n. 55, ha inserito nel codice l'art. 648 ter, poi modificato dall'art. 5 della legge n. 328 del '93 il quale incrimina "chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli art. 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto". Anche per questo reato è contemplata la circostanza aggravante dell'esercizio di una attività professionale ed è esteso ai soggetti di cui all'ultimo comma dell'art. 648. Ma la pena è diminuita se il fatto è di particolare tenuità. L'inserimento nel codice del delitto in esame nasce dal rilievo che i profitti dalla criminalità organizzata devono essere contrastati tenendo conto di una duplice prospettiva: mentre in un primo momento occorre impedire che il c.d. denaro sporco, frutto dell'illecita accumulazione, venga trasformato in denaro pulito, in un secondo momento è necessario fare in modo che il capitale, pur così emendato dal vizio di origine, non possa trovare un legittimo impiego. Il delitto si consuma nel momento dell'impiego di denaro, beni o altre utilità nelle attività economiche o finanziarie interdette. Il tentativo è ipotizzabile. Il dolo è generico e si sostanzia nella coscienza e volontà della condotta da parte di chi sa che le utilità impiegate provengono da delitto. Poiché la norma si riferisce a beni o altre utilità con plurali indeterminativi, la molteplicità dei finanziamenti ed apporti non esclude l'unicità del reato e può essere soltanto valutata nel giudizio di quantificazione della pena in concreto ex art. 133 c.p.

CONTRAVVENZIONI CONCERNENTI LA PREVENZIONE DEI DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO

Il codice nel libro terzo contiene alcune norme incriminatrici che sono destinate ad integrare la tutela penale del patrimonio. Per queste contravvenzioni, l'art. 713 stabilisce che il condannato può essere sottoposto alla libertà vigilata.

ACQUISTO DI COSE DI SOSPETTA PROVENIENZA (art. 712). Della contravvenzione in esame, che va sotto il nome di incauto acquisto, risponde:

Chiunque acquista o riceve a qualsiasi titolo cose, che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l'entità del prezzo, si abbia motivo di ritenere che provengano da reato;

Chi si adopera per far acquistare o ricevere a qualsiasi titolo alcuna delle cose suindicate, senza prima averne accertata la provenienza.

Oggetto materiale dell'incauto acquisto debbono essere le cose di provenienza criminosa. Mentre nella ricettazione le cose debbono provenire da delitto, qui basta che provengano da un reato qualsiasi. Oltre alla provenienza da reato si esige che si abbia motivo di sospettare di detta provenienza. A tal fine il legislatore ha precisato le fonti da cui il sospetto può nascere, e precisamente:

La qualità della cosa;

La condizione di chi offre;

Il prezzo domandato o pattuito.

L'apprezzamento dello stato di sospetto è rimesso all'apprezzamento discrezionale del magistrato, il quale dovrà tenere conto di tutte le circostanze del caso. Sussistendo i presupposti indicati, la fattispecie materiale della contravvenzione resta integrata se l'agente acquista o riceve tali cose, o si adopera per farle acquistare o ricevere senza averne prima accertata la legittima provenienza.

Quanto all'elemento soggettivo, dalla norma incriminatrice risulta che per l'esistenza della contravvenzione occorre: la volontà di acquistare o di ricevere la cosa; l'inadempimento dell'obbligo di accertare la provenienza legittima della cosa medesima. Da ciò deriva il carattere essenzialmente colposo della contravvenzione di incauto acquisto.

COMMERCIO ABUSIVO DI COSE PREZIOSE (E DI COSE ANTICHE O USATE) (art. 705 e 706). Per il primo articolo viene punito "chiunque, senza la licenza dell'Autorità o senza osservare le prescrizioni della legge, fabbrica o pone in commercio cose preziose, o compie su di esse operazioni di mediazione o esercita altre simili industrie, arti o attività". Il secondo articolo, ora abrogato dall'art. 13 della legge n. 480 del '94, contemplava il caso di colui che "esercita il commercio di cose antiche o usate, senza averne prima fatta dichiarazione all'Autorità, quando la legge lo richiede, o senza osservare le prescrizioni di legge".

POSSESSO INGIUSTIFICATO DI CHIAVI ALTERATE O DI GRIMALDELLI (art. 707) E POSSESSO INGIUSTIFICATO DI VALORI (art. 708). La prima contravvenzione consiste nel fatto dell'individuo che, "essendo stato condannato per delitti da fine lucro, o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio, è colto in possesso di chiavi alterate o contraffatte, ovvero di chiavi genuine o di strumenti atti ad aprire o a forzare serrature, dei quali non giustifichi l'attuale destinazione". Il secondo reato ricorre quando taluno "trovandosi nelle condizioni personali indicate nell'art. precedente è colto in possesso di denaro o di altri oggetti di valore, o di altre cose non confacenti al suo stato, e dei quali non giustifichi la provenienza". Si tratta di due reati di mero sospetto.

La giurisprudenza della Cassazione fu a lungo propensa ad escludere l'assorbimento della contravvenzione in parola nel delitto del furto. Tuttavia, le decisioni più recenti tendono ad asserire l'assorbimento nel delitto di furto ogni qual volta il possesso degli strumenti di scasso o delle chiavi alterate duri soltanto per il tempo necessario alla realizzazione di quello e a ravvisare invece una situazione di concorso quando tale possesso si protragga oltre alla consumazione del delitto e per un tempo apprezzabile.

VENDITA O CONSEGNA DI CHIAVI O GRIMALDELLI A PERSONA SCONOSCIUTA (art. 710) E APERTURA ARBITRARIA DI LUOGHI OD OGGETTI (art. 711). Risponde della prima contravvenzione "chiunque fabbrica chiavi di qualsiasi specie, su richiesta di persona diversa dal proprietario o possessore del luogo o dell'oggetto a cui le chiavi sono destinate, o da un incaricato di essi, ovvero, esercitando il mestiere di fabbro, chiavaiuolo o un altro simile mestiere, consegna o vende a chicchessia grimaldelli o altri strumenti atti ad aprire o a forzare serrature". L'altra contravvenzione consiste nel fatto di colui che, "esercitando il mestiere di fabbro o di chiavaiuolo, ovvero un altro simile mestiere, apre serrature o altri congegni analoghi apposti a difesa di un luogo o di un oggetto, su domanda di chi non sia da lui conosciuto come proprietario o possessore del luogo o dell'oggetto, o come un loro incaricato".

OMESSA DENUNCIA DI COSE PROVENIENTI DA DELITTO (art. 709). Commette questa contravvenzione "chiunque, avendo ricevuto denaro o acquistato o comunque avuto cose provenienti da delitto, senza conoscerne la provenienza, omette, dopo averla conosciuta, di darne immediato avviso all'Autorità".

DISPOSIZIONI COMUNI AI DELITTI PATRIMONIALI

L'articolo 649 contiene alcune importanti disposizioni che riguardano in genere i delitti contro il patrimonio. Tale articolo, nella prima parte stabilisce che non è punibile chi ha commesso uno di tali delitti in danno:

Del coniuge non legalmente separato;

Di un ascendente o discendente o un affine in linea retta, ovvero dall'adottante o dall'adottato;

Di un fratello o di una sorella che con lui convivano.

Il secondo comma dell'articolo dispone che i delitti in parola sono punibili a querela della persona offesa, quando siano commessi a danno:

Del coniuge legalmente separato;

Del fratello o della sorella che non convivano con l'autore del fatto;

Dello zio o del nipote o dell'affine in secondo grado convivente con l'autore stesso.

L'ultimo comma contiene una limitazione alle esposte disposizioni, stabilendo che esse non si applicano ai delitti previsti dagli articoli 628, 629 e 630 e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia stato commesso con violenza alle persone (sia fisica che morale).

La ratio dello speciale trattamento stabilito dal codice per i reati patrimoniali che sono commessi nell'ambito della famiglia va ravvisata nel fatto che l'intimità delle relazioni parentali conferisce a quelle azioni un carattere diverso dall'ordinario, mentre la punibilità o la perseguibilità d'ufficio potrebbero recare grave turbamento alle relazioni anzidette o nuocere all'onore della famiglia.


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