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La situazione Italiana dopo la fine della seconda guerra Mondiale




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La seconda guerra mondiale e la Resistenza determinarono un diverso clima culturale. Gli anni del dopoguerra sono caratterizzati dal neorealismo, che espresse una forte istanza etico-civile per la rifondazione della società e dei suoi valori. Uno dei paradossi del neorealismo è che i suoi maestri, Elio Vittorini e Cesare Pavese, sono scrittori dal taglio fortemente simbolico. Del primo è fondamentale Conversazione in Sicilia (1938-39); del secondo lo sono almeno La casa in collina (1948) e La luna e i falò (1950); entrambi furono grandi organizzatori di cultura; entrambi introdussero in Italia i modelli, soprattutto linguistici, della letteratura americana e offrirono un modello di prosa narrativa moderna ispirata a quella americana anche attraverso le traduzioni. Alla letteratura di lingua inglese guardava anche Beppe Fenoglio, lo scrittore più creativo anche sul piano linguistico e l'autore di due grandi testi, Il partigiano Johnny e Una questione privata, entrambi pubblicati postumi. Numerosi sono i memorialisti e i narratori del neorealismo: Ignazio Silone, Carlo Levi, Francesco Jovine, Vasco Pratolini.
Oltre il neorealismo si dilata una grande 'nebulosa narrativa', che ingloba nomi importanti: Carlo Cassola, con al centro la tematica esistenziale; Giorgio Bassani, che privilegia la memoria; Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con Il Gattopardo (pubblicato postumo nel 1958); Alberto Moravia con un grande romanzo, Gli indifferenti (1929), e poi ossessionato dall'attualità; Primo Levi e il tema della memoria (Se questo è un uomo, 1947); e poi Vitaliano Brancati, Ennio Flaiano, Goffredo Parise; Leonardo Sciascia, con la sua lucida narrativa critica; e ancora Guido Morselli, scoperto dopo la morte, Guido Piovene, Mario Soldati, Giuseppe Bonaviri (1924). A costoro vanno aggiunti i nomi di scrittrici di primo piano. Anzitutto Elsa Morante, di cui occorre ricordare almeno La storia (1974); poi Lalla Romano, attenta osservatrice dei rapporti umani; e Anna Maria Ortese. Alla fine di questo elenco spicca il nome di Italo Calvino, la cui opera, iniziata all'insegna del neorealismo, arrivò a esplorare nuovi territori letterari, dalla fantascienza alla letteratura come gioco combinatorio.
La ricerca sperimentale degli anni Cinquanta e l'esperienza della neoavanguardia (che in qualche modo trovò espressione nel Sessantotto) registra alcune tappe importanti: lo sperimentalismo di riviste come 'Officina' (1955-1958), con Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi, Franco Fortini, Angelo Romanò, Gianni Scalia, e 'Il Menabò' (1959-1967), con Vittorini e Calvino; la neoavanguardia del Gruppo 63, che mirava a ridefinire il rapporto tra letteratura e pubblico; Pier Paolo Pasolini, poeta, narratore e cineasta, che sperimentò oltre i compromessi linguistici - propri del neorealismo - tra lingua e dialetto; Franco Fortini, poeta e saggista; lo sperimentalismo espressionistico di Giovanni Testori e di Stefano D'Arrigo (1919); la prosa di Antonio Pizzuto, nella quale il processo narrativo sembra venire negato; il caso singolare di Luigi Meneghello; la scrittura d'avanguardia di Edoardo Sanguineti; i poeti-prosatori della neoavanguardia Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani, Antonio Porta, Nanni Balestrini; le scontrose finzioni di Giorgio Manganelli; e gli inesauribili artifici di Alberto Arbasino.
Quanto alla lirica, si costruì una ricca e complessa situazione che la critica ha cercato di dipanare individuando una 'linea sabiana', in cui prevalgono un rapporto più diretto con le cose e un linguaggio più tradizionale, e una 'linea novecentista', più modernizzante e tendenzialmente ermetica, che fa capo a Ungaretti e Montale. Alla prima linea appartengono poeti come Carlo Betocchi, Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni e in qualche modo anche Giovanni Giudici; alla seconda poeti come Mario Luzi e Vittorio Sereni.
Luciano Anceschi indicò poi una 'linea lombarda', che comprende poeti legati a Milano ed esordienti nel dopoguerra, come Giorgio Orelli, Nelo Risi, Luciano Erba, Bartolo Cattafi; in seguito sono stati fatti rientrare nella stessa tendenza poeti più giovani, quali Giancarlo Majorino, Giovanni Raboni, Tiziano Rossi e Maurizio Cucchi. Per la poesia dialettale registriamo Ignazio Buttitta e Tonino Guerra








Il secondo dopoguerra

La situazione Italiana dopo la fine della seconda guerra Mondiale

Conclusosi il secondo conflitto mondiale, L'Italia deve ristrutturare le sue istituzioni, per poter tornare alla democrazia. Tappa principale di questo processo di rinnovamento fu il 2 giugno 1946, data in cui fu indetto un referendum sulla forma dello stato (monarchia o repubblica) e le elezioni dei rappresentanti all'assemblea costituente, incaricata di redigere una nuova costituzione. Le votazioni a suffragio universale (per la prima volta in Italia votarono anche le donne) videro la vittoria della repubblica con il 54% dei voti. Per le rappresentanze all'assemblea costituente la grande maggioranza dei voti andò alla Democrazia cristiana (DC), erede del Partito popolare di don Sturzo, capeggiata da Alcide De Gasperi; al Partito socialista italiano (PSI) di unità proletaria, divenuto in seguito Partito socialista, guidato da Pietro Nenni; e al Partito comunista italiano (PCI) guidato da Palmiro Togliatti. Questi e altri partiti minori, tra i quali il Partito repubblicano italiano (PRI) e il Partito liberale italiano (PLI), che a quel tempo aveva alla presidenza Benedetto Croce e tra i suoi esponenti di rilievo Luigi Einaudi, collaborarono alla stesura della Costituzione italiana, che fissò i lineamenti istituzionali dello stato. Intanto i confini nazionali furono ritoccati dalla conferenza di pace per decisione delle quattro potenze vincitrici della guerra: Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica. L'Italia perse l'Istria, Fiume, Zara, le isole della Dalmazia e alcuni territori alla frontiera con la Francia (Briga, Tenda e altre zone di piccola estensione), mentre la città di Trieste fu sottoposta a un'amministrazione internazionale.
Per un lungo tratto della sua storia, dal 1947 al 1994, il sistema politico italiano fu caratterizzato da una forte continuità del quadro generale, dovuta al fatto che la DC mantenne una posizione centrale in tutti i governi che via via si succedettero, affiancata da partiti minori suoi alleati: Partito socialdemocratico (PSDI), sorto per iniziativa di Giuseppe Saragat da una scissione tra le fila socialiste; il Partito repubblicano (PRI), il cui leader fu Ugo La Malfa; il Partito liberale (PLI), guidato per molti anni da Giovanni Malagodi. Dall'esecutivo restarono escluse le altre forze politiche, tanto della destra, costituita dal Partito monarchico (fino al 1972) e dal Movimento sociale italiano (MSI), partito che si richiamava al fascismo, quanto della sinistra, costituita dal PCI e dal PSI.
Dal 1948 fino ai primi anni Sessanta, la DC associò al governo i partiti laici minori (PSLI, PSDI, PLI, PRI). Sotto la guida della DC l'Italia impostò la ripresa economica favorita dagli aiuti concessi dagli Stati Uniti nell'ambito del Piano Marshall: l'afflusso di capitali e di merci dagli Stati Uniti creò le condizioni per la ricostruzione dell'economia nazionale, avvenuta nell'ambito dell'inserimento dell'Italia nel blocco dei paesi occidentali contrapposto a quello dei paesi comunisti: nel 1949 l'Italia entrò nell'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO); nel 1952 aderì alla Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA), primo organismo della futura Unione Europea; nel 1954 ratificò un accordo con la Iugoslavia che regolava la questione di Trieste; nel 1955 l'Italia venne ammessa alle Nazioni Unite.
L'equilibrio politico basato sui governi centristi si rivelò difficile da mantenere a causa soprattutto della debolezza dei partiti alleati. Lo si vide con il fallimento della legge elettorale del 1953, una legge maggioritaria definita dall'opposizione 'legge truffa' che avrebbe garantito un premio di maggioranza alla coalizione che avesse superato il 50% dei voti. Alle elezioni di quell'anno la maggioranza di governo non varcò quella soglia, cosicché De Gasperi diede le dimissioni. Lo schieramento centrista entrò in una lenta crisi; con il passare del tempo anche all'interno della DC affiorarono posizioni che proponevano un'apertura verso sinistra, al fine di intraprendere una serie di riforme sociali ed economiche e garantire l'esistenza di esecutivi stabili e autorevoli.
Negli anni Cinquanta e Sessanta l'Italia si trasformò da paese agricolo a paese industriale: l'industria fece registrare un rapido sviluppo raggiungendo posizioni d'avanguardia in alcuni settori, quali la siderurgia, la chimica, la produzione di autoveicoli. L'espansione produttiva che venne incentivata dalla crescita dell'industria fu così intensa da far parlare di miracolo economico. Il reddito pro capite fu quasi triplicato, mentre la disoccupazione scese a un livello molto basso, intorno al 3% della popolazione. I traguardi raggiunti consentirono all'Italia di inserirsi nel gruppo delle prime dieci potenze industriali del mondo. I cambiamenti economici ebbero immediati riflessi sulle abitudini degli italiani, i cui valori tradizionali, tipici di una società contadina, furono sostituiti, soprattutto nelle nuove generazioni, da stili di vita più individualisti, aperti ai consumi e al conseguimento del benessere. Si accentuarono anche alcune debolezze storiche, prima fra tutte il divario tra Nord e Sud. La concentrazione delle grandi fabbriche nelle regioni settentrionali mise in moto un flusso migratorio interno dal Sud agricolo al Nord industrializzato, che impoverì le regioni meridionali delle risorse umane, senza per altro estinguere del tutto l'emigrazione verso l'estero.
Del programma politico del centrosinistra furono realizzati solo alcuni punti, quali la riforma della scuola media (unificazione e obbligo fino a 14 anni), la nazionalizzazione dell'energia elettrica, il sostegno all'economia meridionale con il finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno e con iniziative di industrializzazione, come l'industria automobilistica a Pomigliano e quella petrolchimica a Gela.
Tra il 1967 e il 1970 nelle fabbriche del nord si mise in moto una grande mobilitazione degli operai, che richiedevano salari più elevati, al passo con la media europea, migliori condizioni di lavoro in fabbrica e di vita nelle città. Nel 1968 esplose la contestazione degli studenti, in sintonia con i movimenti pacifisti e le rivolte scoppiate nelle università degli Stati Uniti (dove i giovani avevano protestato duramente contro la guerra nel Vietnam), francesi e tedesche (vedi Movimento studentesco). Gli operai, organizzati nei sindacati, riuscirono a ottenere sia incrementi di reddito sia il riconoscimento dei diritti in fabbrica, sanciti dall'approvazione dello Statuto dei lavoratori (1970), importante strumento per la difesa della dignità e della libertà del lavoratore dipendente.
A scuotere la convivenza civile intervenne quella che è passata alla cronaca e alla storia italiana come 'strategia della tensione', una lunga sequenza di attentati terroristici che causarono centinaia di morti. Il primo atto terroristico avvenne a Milano nel 1969 (bomba alla Banca nazionale dell'agricoltura); seguirono poi gli attentati di Brescia (1974), durante una manifestazione sindacale, e della stazione di Bologna (1980), con 92 vittime, la bomba sul treno Milano-Napoli (1984), solo per ricordare gli attentati di maggiore violenza. Sebbene la responsabilità penale di molti degli atti terroristici che sconvolsero l'Italia in quegli anni non sia mai stata completamente accertata, è da tempo chiaro che fu voluta e perseguita da gruppi di potere politico, militare ed economico per impedire o quantomeno ostacolare l'affermazione dei partiti di sinistra, in un quadro internazionale ancora molto condizionato dallo scontro tra il blocco occidentale e quello comunista. Secondo quanto le indagini riuscirono ad accertare e secondo alcune sentenze definitive, in molti casi gli attentati furono opera materiale di militanti di gruppi di estrema destra, e vi fu implicato quel complesso sistema di potere occulto con ramificazioni in settori dei servizi di sicurezza, in associazioni segrete (logge massoni), nelle istituzioni, con l'obiettivo di destabilizzare il paese e di innescare una svolta autoritaria.
Dalla metà degli anni Settanta il terrorismo praticato in Italia non fu solo quello di destra; si formarono gruppi clandestini di terroristi di sinistra (le Brigate Rosse e altre formazioni analoghe), che inizialmente effettuarono sequestri di persona e ben presto passarono ad attentati veri e propri, con ferimenti e omicidi di magistrati, uomini politici, poliziotti, giornalisti, professori universitari e sindacalisti. Loro scopo era di mettere in crisi lo stato democratico per provocare una rivoluzione anticapitalista.
Il rallentamento dello sviluppo economico, l'emergere di oscure trame reazionarie e soprattutto l'avanzata, nelle elezioni politiche del 1976, del maggiore partito di opposizione, il PCI, determinarono la crisi del centrosinistra. Anche per l'incalzare del fenomeno terroristico, si aprì allora una nuova fase nella storia dell'Italia repubblicana, caratterizzata dalla ricerca, da parte della Democrazia cristiana e del Partito comunista, due forze che avevano un retroterra ideologico contrapposto, di un terreno d'intesa per garantire, in quel delicato momento, stabilità di governo e coesione nazionale. Sul piano concreto, l'intesa si tradusse in un accordo parlamentare tra la maggioranza e l'opposizione per la formazione di due governi a guida democristiana (presidente del Consiglio fu Giulio Andreotti), definiti di solidarietà nazionale, che si ressero il primo, nel 1976, sull'astensione dei comunisti e dei socialisti, il secondo, nel 1978 sull'appoggio esterno (senza ministri) del PCI e di altri partiti. Il democristiano Aldo Moro fu il sostenitore di questa svolta, voluta altresì dal segretario comunista Enrico Berlinguer.
Nel 1978 le Brigate Rosse organizzarono il rapimento e l'assassinio di Moro. L'episodio segnò il culmine, ma anche l'inizio della crisi del terrorismo, colpito da una più efficace azione repressiva svolta da polizia e carabinieri che, servendosi anche delle confessioni di terroristi pentiti, riuscirono a smantellare le organizzazioni clandestine armate. Ma la vicenda del sequestro di Moro segnò anche la fine della solidarietà nazionale: ritornò al governo una coalizione di centrosinistra che, dopo il 1981, si allargò anche al PLI. Il centrosinistra, nella nuova versione di pentapartito, rimase al potere per oltre un decennio, ma propose allo stesso tempo un'ipotesi di superamento dell'egemonia democristiana. Per la prima volta nella storia della repubblica la presidenza del governo fu assunta da esponenti politici non appartenenti alla DC. Capo del governo diventò, nel 1981, il repubblicano Giovanni Spadolini; seguirono, tra il 1983 e il 1987, due governi diretti da Bettino Craxi, segretario del Partito socialista, nel corso dei quali si registrò una breve ripresa economica dopo un decennio di difficoltà.


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