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La Rivoluzione bolscevica




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La Rivoluzione bolscevica






La rivoluzione del 1905



In seguito all'esito della guerra russo-nipponica, dovuta alle rivalità delle due nazioni per l'egemonia in Estremo Oriente, con la pace di Portsmouth del 1905 che sanciva la vittoria del Giappone e la perdita  della Manciuria e di altri territori (tra cui la Corea che divenne un protettorato nipponico), le tendenze rivoluzionarie che da tempo minavano la società russa si accentuarono.


Dopo le iniziative riformatrici dello zar Alessandro II (del resto prematuramente abbandonate), sotto i successori Ales­sandro III (1881-1894) e Nicola II (1894-1917) ben poco si era fatto per risolvere i problemi delle masse popolari, specialmente conta­dine, che premevano tumultuosamente per ottenere condizioni di vita almeno tollerabili; e la stessa borghesia, che pure aveva comin­ciato ad assumere una certa importanza dopo la diffusione dei me­todi moderni di produzione promossa dal ministro Sergej Vitte (1892-1903), si vedeva negati i più elementari diritti politici.

Essa pertanto esprimeva le proprie aspirazioni nel Partito democrati­co-costituzionale (meglio noto come Partito cadetto), così come il proletariato rurale e urbano trovava i suoi difensori nelle minoran­ze dell'intelligencija che affluivano nel Partito socialista rivoluziona­rio e nel Partito socialdemocratico russo.

Ma anche indi­pendentemente da questi ristretti gruppi politici, in via di organiz­zazione e destinati a svolgere una funzione determinante solo più tardi, le masse popolari esprimevano la loro protesta contro le con­dizioni di vita insostenibili cui erano costrette, attraverso frequenti ribellioni regolarmente represse con spietata durezza dall'autocra­zia zarista.

La domenica del 22 gennaio 1905, a Pietroburgo, un'imponente dimostrazione popolare, guidata dal pope Gapon, recava allo zar una petizione che invo­cava alcuni provvedimenti essenziali - come la convocazione di una assemblea costituente, il miglioramento del regime salariale e una graduale riforma agraria . Per tutta risposta, la guardia imperiale di Pietroburgo aprì sulla massa un fuoco micidiale, che provocò molte centinaia di morti e di feriti.

L'indignazione popolare divampò allora diffusamente per tutta la Russia, e in molti luoghi si formarono dei soviet (consigli) degli ope­rai, che assunsero, per quanto possibile, la guida del movimento.

Quando risultò evidente che la ribellione - estesasi anche ad alcune unità della flotta e appoggiata da uno sciopero che bloccò l'intera vita nazionale - non poteva più essere repressa con la sola violenza, lo zar si risolse finalmente a sottoscrivere un Manifesto (ottobre 1905), nel quale si impegnava solennemente a concedere le fondamentali libertà politiche e ad istituire un parlamento elettivo o Duma[1].

Queste concessio­ni erano però semplici espedienti, rivolti a frenare la pressione di base e a dividere la borghesia liberale moderata dalle masse popola­ri e dai gruppi di ispirazione socialista.

Così lo zarismo, rifiutando ogni autentico sviluppo costituzionale, contribuiva a preparare il terreno per la propria definitiva e radicale eliminazione.






La situazione socio-economica in Russia



La durissima prova della guerra, come abbiamo visto, determinò lo sfacelo del regime zaristico, che del resto era da tempo minato da contraddizioni insanabili.

Mentre infatti gli stati dell'Occidente europeo si erano progressivamente adeguati alle esigenze di una società evoluta, la Russia viveva ancora, nel primo quindicennio del '900, in un paradossale intreccio di predominante arretratezza semifeudale e di capitalismo industriale moderno, particolarmente avanzato nelle regioni minerarie degli Urali, nella zona petrolifera di Baku e intorno alle grandi città di Mosca e di Pietroburgo.

L'industrializzazione era caratterizzata da un massic­cio intervento statale e da un forte afflusso di capitali europei

Fra il 1888 e il 1913 la rete ferroviaria era più che raddoppiata, le esportazioni (principalmente di materie prime) quadruplicate, le importazioni (principalmente di manufatti) quintuplicate.

Gli ope­rai, che nel 1890 erano circa 1400 000, erano saliti a quasi 3 000 000 ai primi del '900, e il loro numero era in continua ascesa. Ma al promettente sviluppo economico non si era accompagnato alcun miglioramento nella vita dei lavoratori, retribuiti con salari da fa­me, costretti a vivere in abitazioni miserabili e a lavorare per oltre undici ore al giorno, privi di ogni diritto di sciopero e di organiz­zazione sindacale.


La borghesia russa, composta di liberi professioni­sti, di commercianti, di finanzieri, di direttori tecni­ci, di funzionari, si andava organizzando dal 1903 nel Partito cadet­to (così chiamato dalle iniziali di «costituzionale-democratico»), ma essa rimaneva complessivamente debole, perché gran parte degli impianti e delle fabbriche erano posseduti o da capitalisti stranieri o dallo stato.


La rivoluzione del 1905, non era riuscita a modificare profondamente il regime. politico.  La prima Duma, eletta nel 1906 secondo modalità che fa­vorivano gli agrari e i nobili a scapito dei contadini e degli operai , fu sciolta dallo zar dopo solo due mesi di vita, perché la maggioran­za cadetta aveva chiesto una riforma democratica della legge eletto­rale e aveva preteso di esercitare il controllo sul governo.

Una se­conda Duma, eletta nel 1907, aveva subìto la stessa sorte.

La terza Duma (1907-1912) e la quarta Duma (1912-1917), elette secondo una nuova legge che accentuava ulteriormente i privilegi dei grandi proprietari, poterono infine evitare lo scioglimento anticipato in quanto si rassegnarono a seguire le direttive del governo e rinun­ciarono a porre le questioni fondamentali riguardanti l'esercizio del potere e il diritto di controllo sull'esecutivo.       


In condizioni diverse, ma non migliori di quelle de­gli operai, vivevano le masse di gran lunga più nu­merose dei contadini, i quattro quinti dei quali, dopo l'abolizione della servitù della gleba (1861), erano rimasti legati alle comunità semifeudali dei mir[3].

Anche dopo le riforme del 1861 la vita delle masse contadine russe non aveva subito tra­sformazioni radicali, anzi era rimasta legata ad usi e abitudini anacronistici, tipici di una realtà socio-economica an­tiquata rispetto a quella degli altri paesi europei. Alla vigilia della prima guerra mondiale, ad esempio, la resa in cereali delle terre russe era mediamente inferiore del 50% a quella britannica, benché la Russia fosse un paese prevalentemente agricolo, nel quale l'86% della popolazio­ne lavorava la terra

Per la crescita della popolazione, le terre dei mir venivano divise tra le famiglie delle singole comunità in appez­zamenti sempre più piccoli, e le comunità rispondevano solidal­mente del pagamento delle tasse e del riscatto previsto dalla rifor­ma di Alessandro II e non ancora estinto nel 1906.

Lo stato ricavava principalmente dai contadini le somme necessarie per pagare gli interessi dei capitali presi in prestito dagli stranieri, sicché i contadini, malgrado l'insufficienza delle loro entrate, so­stenevano gran parte del costo dell'industrializzazione, mentre il mir, con i suoi obblighi e diritti collettivi, ostacolava il progresso dell'agricoltura, già di per sé molto arretrata per scarsità di capi­tali.

In questo campo una riforma veramente significativa fu attuata da Pëtr Stolypin, primo ministro dal 1906 al 1911, responsabile dello scioglimento delle prime due Dume ma convinto che il governo, mentre non doveva indulgere a nessuna concessione democratica, doveva però assicu­rarsi l'appoggio dei moderati mediante un'efficace iniziativa di am­modernamento delle strutture produttive.

Nella giusta convinzione che il mir fosse un'unità produttiva anti­quata e inefficiente, Stolypin favorì in ogni modo la formazione di proprietà individuali capitalistiche, sia abolendo i riscatti che i mir dovevano pagare collettivamente, sia autorizzando i contadini a vendere i loro diritti di proprietà comune e a liberarsi dagli obbli­ghi che ne derivavano. In tal modo egli ottenne un duplice risulta­to:

per un verso facilitò e accelerò la nascita di una classe di liberi e ricchi proprietari di terre (detti più tardi kulak),

per l'altro, favorì l'esodo dal mir di manodopera disponibile per l'industria.


La riforma, varata nel 1906, consegue un notevole successo: più di sei milioni di famiglie, sui sedici mi­lioni che ne avevano diritto, abbandonano effettivamente il mir nel corso di un decennio, e più di dieci milioni di ettari di terra, sciolti da ogni vincolo, passano alla libera disponibilità dei loro padroni; ma la nuova classe dei kulak rimane pur sempre un'esigua mino­ranza rispetto alle plebi rurali sfruttate, e la maggior parte di co­loro che lasciano i mir vanno ad ingrossare le file del proletariato urbano.

Pertanto, anche dopo la riforma di Stolypin, mentre circa 30 000 famiglie di nobili, di latifondisti e di kulak posseggono un terzo del suolo nazionale, gli altri due terzi sono suddivisi fra 13-14 milioni di famiglie: mediamente, cioè, gli agricoltori ricchi posseg­gono terreni 225 volte più estesi di quelli dei contadini poveri. Que­sti ultimi non solo dispongono di terreni insufficienti, ma per la lo­ro miseria non sono in grado di procurarsi i mezzi per uno sfrutta­mento razionale della loro esigua proprietà, e spesso si riducono al­la condizione di braccianti salariati (mugik) o alternano il lavoro sul loro campo con quello alle dipendenze di un padrone.


Al vertice della società russa, come autentico retag­gio di feudalesimo, sta la nobiltà terriera, che cir­conda lo zar e ne condiziona e consiglia la politica, o che vive in provincia curando la gestione dei propri latifondi e monopolizzan­do l'amministrazione periferica.

La nobiltà considerava mostruose anche riforme come quelle promosse da Vitte o da Stolypin, responsabili di aver introdotto nella «Santa Russia» i metodi di produzione capitalistica; tanto che, quando nel 1911 Stolypin cadde vittima di un attentato, si pensò non senza ragione che il «rivoluzionario» autore dell'assassinio fos­se in realtà un agente al servizio degli ambienti più reazionari.

La presenza incombente della nobiltà conferisce un'impronta arcaica alla Russia zaristica, nella qua­le, per giunta, la società è divisa piuttosto in caste che in classi, perché un abisso invalicabile separa i mugik e gli operai, reietti e analfabeti, «poveri e ubriaconi», dal mondo dei ricchi e dei nobili, e perché questi, per cultura, costumi, stile di vita, ritengono addirit­tura di appartenere a un'umanità diversa.





La situazione politica



Una situazione sociale contraddittoria come quella descritta, se per un verso offriva il terreno adatto a una soluzione rivoluzionaria, per l'altro non poteva essere facilmente rovesciata: operai e contadini, per la loro arretratezza, erano inclini ad esplo­sioni improvvise, destinate a sicura sconfitta, piuttosto che ad un'a­zione politica di vasto respiro; mentre, per la stessa ragione, l'intel­ligencija non riusciva a stabilire un rapporto organico con le masse popolari, come non vi riuscivano le caste dominanti privilegiate.

Di questo stato di fatto furono espressione, sulla fine del sec. XIX, i populisti, che, in un certo senso, lo eressero a principio, rassegnandosi all'azione individuale terroristi­ca, destinata ad esaurirsi nella soppressione di qualche esponente delle classi dominanti senza che il sistema venisse minimamente intaccato.

Le concezioni del po­pulismo furono efficacemente criticate da Georgij Plechanov (1857-1918) che, dopo averne vissuto l'esperienza, si convertì al marxismo e nel 1895 pubblicò in Russia un'opera Sullo sviluppo monistico della storia, nella quale mostrava tutta la fragili­tà e l'insufficienza dell'azione terroristica.

Il marxismo insegnava a concentrare l'attenzione sul movimento storico di massa e sulle condizioni oggettive che sarebbero state ne­cessarie per il rovesciamento del regime; ma, concepito in funzione delle società evolute dell'Europa occidentale, doveva anche essere ripensato in termini adeguati alla situazione concreta della Russia.


In primo luogo, infatti, Marx prevedeva che il passaggio al socia­lismo sarebbe avvenuto solo dopo che la rivoluzione democrati­co-borghese e la produzione capitalistica avessero completato il lo­ro ciclo;

in secondo luogo, considerava come classe rivoluzionaria per eccellenza il proletariato urbano. Ma la scarsa consistenza del­la borghesia russa impediva a questa classe di realizzare in Rus­sia un rivolgimento analogo a quello operato in Francia alla fine del '700 dalla grande rivoluzione; perciò il proletariato avrebbe dovuto addossarsi almeno in parte anche il compito di realizzare la rivoluzione «democratico-borghese».


D'altra parte l'assoluta prevalenza quantitativa delle masse contadine su quelle operaie rendeva necessario che i teorici della rivoluzione attribuissero un'adeguata importanza anche al proletariato della campagna, senza l'aiuto del quale lo stesso proletariato urbano non poteva sperare né di rove­sciare lo zarismo, né, a maggior ragione, di intraprendere una rivo­luzione socialista.


Al di là dei problemi ideologici, la retta impostazione dei quali era condizione necessaria ma non sufficiente per una rivoluzione, si imponeva poi il compito di saldare gli sviluppi teorici astratti, che riguardavano un esiguo numero di intellettuali e di éli­tes operaie, con l'effettivo corso del movimento storico.

Decisivo per la soluzione di tutti questi problemi fu il contributo di Lenin che, sin dagli ultimi mesi del 1900, prese a pubblicare all'estero l'Iskra (Scintilla): un giornale che veniva diffuso clandestinamente in Russia e costituiva l'unico pun­to di riferimento comune per gli sparsi gruppi del movimento rivo­luzionario.

Nelle sue pubblicazioni Lenin riprese e approfondì la polemica plechanoviana contro il populismo, ma si preoccupò anche di confutare le tesi dei cosiddetti marxisti economisti che, separando l'azione sindacale, da riservare agli operai, dall'azione politica, da lasciare alla borghesia, rinviava­no a un futuro imprecisato l'iniziativa rivoluzionaria del proletaria­to e ritenevano che il trapasso al socialismo si sarebbe potuto attua­re solo dopo che la rivoluzione borghese si fosse pienamente realiz­zata.

Secondo Lenin, tale impostazione - ispirata a un'interpreta­zione meccanica e schematica del marxismo - attribuiva al prole­tariato una funzione passiva e subalterna, l'avviliva in una lotta pu­ramente economica, lo privava, insomma, del suo destino di porta­tore di una nuova concezione del mondo.

Lenin s'occupò a fondo anche del problema dei rap­porti che si dovevano stabilire fra il Partito operaio e il proletariato

Nonostante la sua fiducia nelle capacità creative del­le masse, egli avversò la tendenza, tutt'altro che rara negli ambien­ti rivoluzionari, a mettere in primo piano in forma esclusiva l'au­tonomia e la spontaneità del proletariato. Perciò il partito non dove­va limitarsi a seguire il movimento del proletariato, ma doveva esercitare su di esso un'attiva egemonia, che poteva essere effica­ce solo se il partito si organizzava secondo una rigorosa disciplina e badava più alla qualità che alla quantità dei suoi aderenti.

In questa condanna della spontaneità popolare indi­scriminata era inclusa anche la critica delle tesi so­stenute dai Socialisti Rivoluzionari (comunemente designati con le iniziali «SR»), che, riprendendo alcuni temi cari al populismo, concentravano la propria attenzione sulle campagne e puntavano sulla naturale tendenza dei contadini al socialismo. Lenin osservava invece che la vocazione spontanea dei contadini era piuttosto quella di trasformarsi, grazie alla distribuzione delle terre, in piccoli proprietari, secondo un ideale piccolo-borghese che non aveva nulla a che vedere con il socialismo.


Dal punto di vista quantitativo il Partito operaio socialdemocratico russo, fondato a Minsk nel 1898 da solo nove rappresentanti di disparate organizzazioni locali delle grandi città (Pietroburgo, Mosca, Kiev), era ancora di dimensioni assai modeste nel 1903, quando si riunì all'estero, prima a Bruxel­les poi a Londra, il suo secondo congresso.


Risale a questo congresso la distinzione fra bolscevì­chi e menscevìchi[4] , che in realtà, nonostante i ripetu­ti tentativi di conciliazione, costituirono fin d'allora due diversi partiti e nel 1912 si separarono anche formalmente.

I bolscevichi, guidati da Lenin, sostenevano la tesi del partito compatto, centra­lizzato, formato sostanzialmente da rivoluzionari di professione, impegnati fino in fondo nella lotta politica;

i menscevichi propone­vano invece una prospettiva più aperta e graduale, capace di mo­bilitare un grande movimento di opinione, che doveva in primo luogo battersi per una riforma democratica della società lasciando al futuro il trapasso al socialismo. Essi accusavano Lenin di bona­partismo e denunciavano il pericolo implicito nelle tesi da lui soste­nute che - secondo quanto sosteneva Trotzki, allora militante nelle file dei menscevichi - avrebbero portato a una dittatura sul prole­tariato e non del proletariato, perché la rigida disciplina necessaria per bruciare le tappe verso la rivoluzione avrebbe imposto l'egemo­nia dell'apparato organizzativo sul partito, del comitato centrale sull'apparato, e infine del potere personale di un dittatore sullo stesso comitato centrale.







La rivoluzione di febbraio



Nel travaglio ideologico-politico sopra esaminato si formarono le minoranze organizzate che contribuirono a determinare gli esiti della rivoluzione; ma l'innesco alla rivoluzione fu dato dalla cre­scente e diffusa protesta contro le assurdità del regime zaristico, re­se più acute ed evidenti dalle prove della guerra.

Le sconfitte del 1914-15 erano costate ai Russi più di due milioni di uomini e avevano comportato la per­dita di grandi quantità di materiale bellico. La stessa vittoriosa avanzata del Brusilov nel 1916 aveva dovuto essere precocemente interrotta e s'era alla fine risolta in un grave insuccesso, seguito da sempre più numerose diserzioni. Disastri analoghi, per la verità, avevano subìto tutti i paesi belligeranti, ma mentre altrove si era corsi ai rimedi mediante tempestive rettifiche politiche e militari, la Russia zaristica si dimostrava incapace di ogni trasformazio­ne.

La stessa borghesia liberale «patriottica», che si era spontanea­mente mobilitata per sostenere lo sforzo bellico con svariate inizia­tive, era guardata con sospetto; fra gli alti funzionari non pochi parteggiavano per gli Imperi Centrali, perché temevano il contagio democratico dei Francesi e degli Inglesi; altri speravano che la vit­toria fornisse l'occasione per abrogare anche le precarie conquiste costituzionali del 1905; gli ambienti di corte, e specialmente la zari­na Alessandra, subivano la nefasta influenza di Rasputin[5]: un santo­ne ciarlatano e guaritore, senza i buoni uffici del quale era ben dif­ficile trovare udienza presso i sovrani.

Verso la fine del 1916 la Duma, per quanto modera­ta, eleva la sua indignata protesta contro questo sta­to di cose, e un complotto, cui partecipa anche un parente dello zar, elimina Rasputin, ponendo termine ai suoi intrighi. Ma, di fronte a questi episodi che coinvolgono ambienti vicini alla corte e che sono soltanto i sintomi della ben più vasta crisi dell'esercito e del paese, lo zar non sa reagire altrimenti che rafforzando la polizia e disponendosi a nuove repressioni, ormai chiaramente impratica­bili.


Il seguito degli avvenimenti è di per se stesso elo­quente: l'8 marzo 1917[6] gli operai di Pietrogrado insorgono perché la città è rimasta priva di pane; le truppe di guar­nigione si rifiutano di sparare sulla folla; come nel 1905 si formano i soviet degli operai e dei soldati (ormai acquisiti alla causa della ri­voluzione); la Duma preme perché si formi un nuovo governo, ma lo zar la scioglie; i liberali nominano un governo provvisorio e chie­dono l'abdicazione dello zar.

Nicola II finalmente, quando anche i suoi generali gli dichiarano di non poter più rispondere dei loro re­parti, si risolve ad abdicare in favore del fratello Michele (14 mar­zo); questi peraltro, data la situazione, rifiuta la corona.


Dal 17 marzo la Russia è dunque una repubblica, nella quale emergono due punti di riferi­mento di ben diversa ispirazione:


il governo provvisorio, presiedu­to dal principe Georgij L'vov, liberale e sostenuto dalla borghesia

il soviet di Pietrogrado, formato di SR, menscevichi, bolscevichi e socialisti indipendenti, sostenuto dalle masse popolari.


Sull'esem­pio di quello di Pietrogrado, altri soviet si formano nelle principali città della Russia occidentale e più tardi anche nelle campagne.

I rapporti fra governo provvisorio e soviet - nel periodo del «doppio potere», che si protrarrà fino al­la rivoluzione di ottobre - non sono ovviamente regolati da alcuna norma giuridica e variano dalla collaborazione all'antagonismo, a seconda delle circostanze e del prevalere di questo o quel partito: mentre infatti gli SR e i menscevichi vogliono che i soviet si limiti­no a sorvegliare e stimolare il governo provvisorio, i bolscevichi, sotto l'influenza di Lenin, considerano i soviet come uno strumen­to rivoluzionario, destinato in prospettiva a eliminare e sostituire il governo provvisorio.

Rientrato dall'esilio in Svizzera e giunto a Pietrogra­do nell'aprile 1917, Lenin pubblica immediatamente le sue tesi (note appunto come «Tesi di aprile») sui Compiti del proletariato nella rivoluzione attua­le: il proletariato - egli vi sostiene - deve battersi perché il potere passi per intero ai soviet, i quali, se non potranno per il momento eliminare la proprietà privata e operare il trapasso al socialismo, dovranno almeno assumere il controllo «della produzione sociale e della distribuzione dei prodotti», ossia di tutta l'attività economica.

Questa scelta, riassunta nella parola d'ordine «Tutto il potere ai soviet», fu inizialmente respinta a grande maggioranza dagli stessi bolscevichi, ma alla distanza essa risulterà decisiva per le sorti del­la Russia e per la vittoria della rivoluzione.

Il governo provvisorio, nel quale l'unico socialista era Kerenskij, entrò in crisi nello stesso aprile e fu sostituito da un nuovo governo, sempre sotto la presidenza del L'vov, nel quale, oltre a Kerenskij, entrarono altri cinque socialisti ma nessun bolscevico.

Così gli SR e i menscevichi si impegnavano nell'esercizio dell'autorità e tendevano a chiudere il circuito della rivoluzione fornendole un approdo legalitario; i bolscevichi invece, ormai convertiti alla parola d'ordine leninista «Tutto il potere ai so­viet», conservavano piena libertà d'azione, proprio mentre erano sul tappeto questioni di immediato interesse per le masse popolari, come la cessazione della guerra e la distribuzione delle terre ai con­tadini.


Sulla necessità della pace erano d'accordo anche i menscevichi e gli SR, ma essi insistevano nel voler ottenere una «pace democratica», senza poter indicare con quali forze effettive una pace cosiffatta potesse essere imposta ai nemici vittoriosi. I bolscevichi, dopo alcune iniziali oscillazioni, si resero presto conto che - salvo la speranza di trasformare la «guerra im­perialistica» in guerra civile del proletariato contro le classi domi­nanti all'interno di ogni paese - la Russia doveva accettare le condizioni imposte dai Tedeschi quali che esse fossero: i contadi­ni-soldati, secondo l'espressione di Lenin, stavano già votando «con i tacchi» (ossia disertando) contro la guerra.

I bolscevichi si fecero pertanto promotori del cosiddetto disfattismo nazionale, in­teso ad imporre a qualsiasi costo la liquidazione della guerra, e ot­tennero vasti consensi fra le masse popolari.

Più difficile si presentava per i bolscevichi, che ave­vano la loro base principalmente nel proletariato ur­bano, il problema della distribuzione delle terre, perché, mentre i contadini aspiravano semplicemente a dividersele e a trasformarsi in piccoli proprietari, i bolscevichi miravano invece a organizzare una produzione agricola largamente socializzata, che avrebbe per­messo l'adozione di metodi di coltura moderni ed efficienti.


Lenin era anche convinto che non ci si dovesse opporre al movimento contadino di massa, quan­d'anche avesse preso tutt'altra direzione da quella auspicata dai bolscevichi, perché senza l'appoggio dei contadini, che costituiva­no la grande maggioranza della popolazione, la rivoluzione sarebbe stata perduta. D'altra parte i contadini, indipendentemente da qualsiasi decisione del governo provvisorio o dei soviet, stavano già di fatto occupando le terre.


Nei soviet la situazione dei bolscevichi non era faci­le. Ancora nel giugno, quando a Pietrogrado si riunì il I Congresso panrusso dei soviet, su 822 delegati,n 285 erano SR, 248 menscevichi e solo 105 bolscevichi.

I rapporti di forza erano però profondamente diversi nelle azioni di massa, nelle quali prevalevano le parole d'or­dine lanciate dai bolscevichi; come accadde nelle minacciose mani­festazioni del luglio contro il governo provvisorio.

In questa occasione il governo provvisorio raccolse la sfida e procedette a un'energica repressione ordinando l'arresto dei principali esponenti bolscevichi, tanto che lo stesso Lenin dovette riparare in Finlandia.

Intanto la presidenza passava a Kerenskij per la crisi del governo L'vov . Così, mentre la rivoluzione era an­cora ben lontana dall'aver esaurito la sua forza eversiva, SR e men­scevichi tentavano di esercitare i poteri che competono a ogni au­torità costituita, e questo atteggiamento danneggiava particolar­mente gli SR che, insediati nel ministero dell'agricoltura, erano te­nuti a contrastare il caotico movimento dei contadini e a rinviare la questione della terra alle decisioni dell'assemblea costituente: un'assemblea che il governo aveva promesso di convocare al più presto.

Ancora una volta, soltanto i bolscevichi conservavano pie­na libertà d'azione.

Le forze decisamente antisocialiste, escluse dal nuovo governo, tentano in agosto, per iniziativa del ge­nerale Kornilov di liquidare con le armi sia il governo provvisorio sia i soviet.

Il tentativo fallisce sul nascere, ma è suf­ficiente a restituire ai bolscevichi, che hanno contribuito efficace­mente alla sconfitta del Kornilov, spirito d'iniziativa e prestigio, tanto che essi conquistano ora la maggioranza nei soviet di Pietro­grado e di Mosca, cioè dei centri politicamente più importanti.

Di fronte alle ambiguità del governo Kerenskij, in larga misura responsabile di aver lasciato spazio a iniziative reazionarie come quella del Kornilov, Lenin, rientrato clandestinamente in Pietrogra­do, formula in termini perentori il dilemma che si presenta: «La si­tuazione è chiara. O la dittatura di Kornilov [ossia la reazione], o la dittatura del proletariato e degli altri strati più poveri della classe contadina Le masse hanno dato la loro fiducia ai bolscevichi e si aspettano fatti e non parole».


Malgrado l'opposizione di alcuni esponenti del bolscevismo, si decide per­tanto di passare all'azione: si forma un Comitato militare rivolu­zionario, presieduto da Trotzki (che rientrato in Russia nel mag­gio è stato accolto tra le file dei bolscevichi), e si prefigurano gli or­gani di un nuovo potere che dovrà sostituirsi al governo provviso­rio, ormai completamente screditato.

Nella notte fra il 6 e il 7 no­vembre 1917 (24-25 ottobre) i bolscevichi occupano i punti strate­gici di Pietrogrado: centrali telefoniche, stazioni ferroviarie, im­pianti elettrici.

Una nave da guerra punta i suoi cannoni sul Palaz­zo d'inverno, sede del governo provvisorio. Kerenskij, abbandonato da tutti, si dà alla fuga. Alcuni ministri vengono arrestati, ma sa­ranno presto rilasciati. La rivoluzione ha vinto quasi senza incon­trare resistenza.


La data del 7 novembre non era stata scelta a caso: per quel giorno era convocato in Pietrogrado il II Congresso panrusso dei soviet che, ratificando il fatto compiuto e proclamando il trapasso di tutta l'autorità ai so­viet, accentuò il significato politico e non puramente militare e mi­noritario dell'iniziativa bolscevica.

Il giorno successivo, il Congres­so approvò la composizione di un Consiglio dei Commissari del Popolo, che non volle ripetere neppure nel nome la consueta deno­minazione di «governo» o di «consiglio dei ministri». A Lenin spet­tò naturalmente la presidenza, a Trotzki il commissariato degli af­fari esteri, a Stalin il commissariato delle nazionalità.










Guerra civile



Eliminato il governo provvisorio e istituito il Consiglio dei Com­missari del Popolo, il fine dei bolscevichi è quello di dar forma all'ordine nuovo, sottraendosi ai pericoli del­l'imminente caos.


In primo luogo bisogna liberarsi a qualunque costo del peso insostenibile della guerra, ciò che vien fatto fra il dicembre 1917 e il marzo 1918, secondo le modalità già indicate.

Ma occorre soprattutto ridare un ordine alla produ­zione sia nelle campagne sia nelle industrie. Nell'u­no e nell'altro settore la situazione è gravissima, e i provvedimenti si susseguono a ritmo incalzante.


Le decisioni più importanti sono:


la nazionalizzazione della terra (8 novembre), la cui assegna­zione ai contadini viene affidata ai soviet di villaggio: si fa però ec­cezione per la media e piccola proprietà, nonché per le grandi pro­prietà coltivate razionalmente, che il decreto vorrebbe rimanessero indivise per essere trasformate in aziende modello di proprietà so­ciale; nei fatti, gli obiettivi dei bolscevichi, che si propongono di ra­zionalizzare la produzione e che respingono «ogni forma di appro­priazione privata della terra», devono fare i conti con le tendenze dei contadini, e la riforma viene attuata in modo alquanto caotico: solo 1'11% delle terre confiscate va allo stato, mentre 1'86% viene distribuito fra i contadini e il 3% è assegnato ad enti agricoli collet­tivi;

la dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia (15 novem­bre), con la quale si proclama che i popoli che convivono entro lo stato russo devono considerarsi uguali fra di loro e sono completa­mente liberi di «disporre di se stessi, sino ad aver diritto di staccar­si e di costituire unità politiche indipendenti»;

il controllo operaio sulle fabbriche (27 novembre), affidato a Comitati - da eleggersi «con la partecipazione dei rappresentanti degli impiegati e del personale tecnico» - che dovrebbero organiz­zare e disciplinare il lavoro, ma che in realtà, anche per la crisi dei trasporti e dei rifornimenti di materie prime, non riescono a impedire un forte calo della produzione;

la nazionalizzazione delle banche, la sospensione del paga­mento dei dividendi azionari e la limitazione del pagamento degli in­teressi ai soli piccoli risparmiatori (27 dicembre).



Questi provvedimenti, per quanto drastici, non hanno ancora un carattere specificatamente socialista: i bolscevichi infatti, attenen­dosi alla linea delle Tesi di aprile, si limitano per ora ad assicurarsi il controllo dell'attività economica senza procedere all'abolizione della proprietà privata, e solo la guerra civile li costringerà a «di­struggere i vecchi rapporti in misura assai più vasta di quanto ave­vano previsto all'inizio» (Lenin).


Nel frattempo, adempiendo a un impegno del governo provvisorio che i bolscevichi avevano sempre condiviso, si procede all'elezione a suffragio universale e a scruti­nio segreto dell'Assemblea Costituente (novembre 1917), e i bol­scevichi escono nettamente sconfitti dalla consultazione popolare (su 36 milioni di votanti, ottengono infatti solo 9 milioni di voti e 175 seggi, contro i 21 milioni e 410 seggi degli SR, gli 86 seggi dei cosiddetti «gruppi nazionali», per lo più, antibolscevichi, i 17 seggi dei cadetti, i 16 seggi dei menscevichi).

E vero che proprio in quei giorni la maggioranza degli SR (ma fra i loro deputati solo 40!) si as­sociava ai bolscevichi e che questi avevano raggiunto la maggioran­za assoluta nelle grandi città di Mosca e di Pietrogrado, ma sta di fatto che ora i bolscevichi si trovavano di fronte un organismo le­gale decisamente ostile, proprio mentre in Ucrania, nella Russia Bianca e nel Caucaso prendeva corpo una controffensiva antisovie­tica, alimentata non solo da zaristi impenitenti, come il generale Kaledin, ma anche dai cadetti.


Sulla Pravda («La verità», organo del partito bolsce­vico) del 26 dicembre Lenin pubblica allora le sue Tesi sull'Assemblea Costituente: «in una repubblica borghese l'assemblea costituente è la più alta espressione del prin­cipio democratico», ma «una repubblica di soviet rappresenta una forma del principio democratico più alta dell'ordinaria repubblica borghese» ed è l'unica istituzione «capace di assicurare la transizio­ne meno gravosa possibile al socialismo»; d'altra parte la controri­voluzione di Kaledin e dei cadetti ha «eliminato ogni possibilità di risolvere le questioni più acute con i metodi della democrazia for­male», e quindi l'Assemblea Costituente deve dichiarare la propria «accettazione incondizionata del potere dei soviet» (ossia, in prati­ca, sottoscrivere il proprio atto di morte).


Con queste dichiarazioni, la rottura con tutti i sostenitori di soluzioni democratico-costituzio­nali è consumata, e il destino della Costituente è segnato. Essa si riunisce il 18 gennaio 1918, respinge la proposta dei bolscevichi di piena accettazione del potere dei soviet e viene sciolta il giorno dopo su proposta dello stesso Lenin.

Lo scioglimento coatto dell'Assemblea spinge su posizioni controrivoluzionarie anche gruppi di men­scevichi e di SR non sospettabili di nostalgie zaristiche; d'altra par­te, almeno una delle tesi di Lenin è assolutamente indiscutibile: poiché il boicottaggio del nuovo regime e addirittura la lotta arma­ta antibolscevica sono già in atto, non esiste più uno spazio politico dove si possano collocare i lavori della Costituente, e il problema reale della rivoluzione è ormai quello di vincere la guerra civile.


Fin dal dicembre del 1917, infatti, i generali «bianchi» organizzano gruppi armati antibolscevichi nella valle del Don.

Più tardi si costituiscono sul medio Volga formazioni militari capeggiate dagli SR non convertiti al bolscevismo.

Nel maggio del 1918, 45 000 soldati cechi (già disertori dell'esercito au­stro-ungarico e passati dalla parte dei Russi per combattere contro gli Imperi Centrali) si uniscono agli SR del Volga. Buona parte del­la Siberia è controllata dagli zaristi, guidati dal generale Kolcak che pretende di presentarsi addirittura come governatore di tutta la Russia.

Gli Alleati occidentali, convinti che il bolscevismo sia una follia di breve durata, sbarcano truppe a Murmansk e ad Arcange­lo. Una spedizione ben più consistente, di 8000 Americani e di 72 000 Giapponesi, approda a Vladivostok progettando di attraver­sare l'intera Russia, di abbattere il regime sovietico e di riaccende­re la guerra contro i Tedeschi sul fronte orientale. Dall'aprile del 1920 anche la Polonia, sostenuta dalla Francia, muoverà guerra contro la Russia.


Dalla metà del 1918 sino al 1920-21, la Russia sovietica è quindi esposta a un attacco concentrico, men­tre le sue condizioni economiche si fanno sempre più disastrose.


Questi sono i risultati inevitabili del cosiddetto co­munismo di guerra, conseguenza necessaria della guerra civile e del sabotaggio dei proprietari, dei direttori di fabbrica e degli azionisti, passati in gran parte nelle file della controrivoluzione.

Con progressione vertiginosa le industrie vengono nazionalizzate, e lo stato è costretto a improvvisarne la gestione non tanto per edificare il so­cialismo, quanto per salvare l'economia russa dall'estremo collasso.

Anche più urgenti di quelli dell'industria sono i problemi del­l'approvvigionamento e dell'alimentazione, cui lo stato provvede assumendo il monopolio del commercio del grano e ordinando che «ogni eccedenza di raccolto venga messa a disposizione del go­verno dei soviet, a profitto dei bisogni sociali». Ma le requisizioni privano talvolta il contadino anche del necessario e gli tolgono co­munque ogni incentivo a produrre, sicché i raccolti si riducono.


Nonostante le immani difficoltà, la rivoluzione tro­va comunque le forze sufficienti per tener testa a tutti i nemici e per assicurarsi la vittoria finale. Se la guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi, questo risultato paradossale si spiega, innanzitutto, con la superiorità politica della rivoluzione che, pur attraverso il caos, sa esprimere una classe diri­gente che emerge non per privilegio di nascita ma per intelligenza e per autentica dedizione alla causa.


La rivoluzione vuol eliminare il dominio di classe e restituire agli sfruttati la loro dignità, ricono­sce alle donne piena uguaglianza di diritti con gli uomini, si propo­ne di assicurare alle nuove generazioni i mezzi materiali e morali che ne permettano il pieno sviluppo, vuole costruire una scuola ca­pace di liberare le masse dal loro endemico analfabetismo, vuole infine riscattare la Russia dall'arretratezza e dal sottosviluppo.

Il fronte della controrivoluzione non offre invece né idee né spe­ranze. Le armate «bianche» sono solo l'espressione postuma di un regime crollato nella vergogna, i corpi di spedizione stranieri perseguono finalità estranee o ostili agli interessi del popolo russo, le formazioni militari di varia estrazione «socialista» sono, nella migliore delle ipotesi, costituite da idealisti che non si rendono conto di essersi schierati dalla parte della pura reazione: dalla par­te di quei generali zaristi che non esitano a ricorrere al terrore bian­co pur di restaurare nelle campagne il vecchio regime di proprietà.



La superiorità politica della rivoluzione si traduce in termini militari con la formazione dell'Armata Ros­sa (gennaio 1918), che Trotzki affida al controllo di commissari po­litici e al comando di alti ufficiali sicuramente fedeli alla causa so­cialista. Sul fronte interno la Ceka, Commissione Speciale di im­placabile durezza, combatte «contro la reazione, la speculazione e il sabotaggio» con i metodi sommari del terrore rosso. Come già durante la rivoluzione francese, l'essenza del terrore rosso è la lotta contro il nemico di classe, sicché l'origine sociale e la professione degli imputati diventano elementi di prova della loro colpevolezza, vera o presunta.

Con questi strumenti e con questi metodi la rivolu­zione riesce ad avere la meglio: entro il marzo del 1920 i «bianchi» sono scacciati da tutta la Siberia. Nel corso del 1921 la Georgia, l'Armenia, 1'Azerbaigian e il Turkestan sono ri­conquistati. Nel 1922 anche l'ultimo corpo di spedizione straniero abbandona il territorio russo, sgomberando la base di Vladivostok.

La Russia recupera così in Oriente i confini dell'anteguerra. Diver­sa invece è la situazione in Occidente, dove i trattati di pace hanno fatto sorgere o rafforzato gli stati compresi tra la Finlandia e la Ro­mania (ingrandita della Bessarabia), e dove la Polonia, grazie ai so­stanziosi aiuti ricevuti dalla Francia, è riuscita a imporre alla Rus­sia la pace di Riga (18 marzo 1921) e si è impadronita di vasti terri­tori abitati da Ucraini, Russi Bianchi e Grandi Russi.

Si è così costi­tuito un «cordone sanitario» contro la diffusione del bolscevismo, e di fatto le speranze di Lenin nella rapida espansione internazionale della rivoluzione sono tramontate; ma sui territori del vecchio im­pero degli zar può ormai costituirsi l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (1922).







La Nuova Politica Economica (NEP)



Date le condizioni economiche nelle quali si trova ridotta la Russia al termine della guerra civile, la vit­toria sul terreno politico e militare non basta a garantire la soprav­vivenza della rivoluzione: nel 1921 infatti, anche a causa di una ter­ribile siccità che ha falcidiato i raccolti, la carestia incombe su de­cine di milioni di Russi e intere popolazioni sono minacciate di morte per inedia.

Occorre perciò che si ristabiliscano con la massi­ma urgenza le capacità produttive del paese, anche a costo di smontare almeno in parte il comunismo di guerra e di reintegrare in qualche settore la proprietà privata.

La Nuova Politica Economica (NEP) - deliberata nel marzo del 1921 dal X Congresso del Partito comunista russo[7] e protrattasi sino al 1928, quando avrà inizio l'epoca dei piani quinquennali - con­servando allo stato il controllo delle leve principali dell'economia, come la grande industria e il commercio estero, opera una svolta ri­levante nei criteri e nei metodi.

Nelle campagne si abbandona la pratica di requisire la produzione eccedente il fabbisogno familiare, che viene invece lasciata alla libera disponibilità dei contadini; in un secondò tempo, si passa anzi dalla semplice assegnazione in usu­frutto della terra a una vera e propria ricostituzione della proprie­tà privata e si invitano i kulak ad arricchirsi, purché producano.

Nell'industria e nel commercio si reintroducono alcuni criteri tipici dell'economia capitalistica: i salari non sono più fissati dallo stato, ma vengono liberamente con­trattati in vista delle possibilità delle aziende, delle capacità dei la­voratori e della produttività. Il commercio interno viene largamen­te liberalizzato. Le industrie private, che peraltro non possono as­sumere più di venti operai per azienda, vengono incoraggiate, a condizione che esse forniscano allo stato una percentuale o una quota fissa della loro produzione. Le stesse aziende statali vengo­no gestite «in base al principio del rendimento commerciale», for­malmente identico a quello capitalistico del profitto, ma sostanzial­mente diverso perché in questo caso il profitto spetta allo stato e non a singoli privati.

Lo stato provvede altresì a reintegrare la rete dei trasporti fluviali e ferroviari che nel 1926, riparati gli immensi danni subìti, raggiungeranno i livelli dell'anteguerra; ricostituisce la banca nazionale, liquidata alla fi­ne del 1920, e la autorizza a svolgere le operazioni necessarie per la ripresa economica; riforma la moneta, ritirando le vecchie divise svalutatissime e sostituendole con un nuovo rublo, di valore stabile, garantito in oro e in valuta estera pregiata.

Relativamente alle condizioni di partenza, i risultati della NEP sono imponenti: la curva degli indici di produzione sale di anno in anno a ritmo sostenuto; nel 1922-23 la Russia sfiora il pareggio nella bilancia commerciale con l'estero; nel 1924-25 consegue il pareggio nel bilancio statale, che negli an­ni successivi presenterà addirittura un attivo.

Il nuovo corso non riguarda solo l'economia ma in­veste anche la politica estera, nella quale lo stato so­vietico cerca un compromesso fra le necessità di autoconservazio­ne e di potenza (comuni a tutti gli stati indipendentemente dal loro regime politico) e le sue specifiche premesse ideali che lo impegna­no a diffondere il comunismo e a patrocinare la Terza Internazio­nale (Komintèrn), fondata sin dal marzo 1919 per coordinare le lotte del proletariato su scala mondiale.

Questa tendenza, che si può riassumere nella formula della rivo­luzione permanente, dovette però presto essere attenuata nella pra­tica politica, nella quale prevalse la linea del socialismo in un solo paese. Fu così resa possibile l'inserzione del nuovo stato comunista nel concerto internazionale, dove esso avrebbe agito talora secondo i propri interessi più immediati ed urgenti, talaltra secondo le ra­gioni politiche che avevano presieduto alla sua fondazione.

Riconosciuto fra il '24 e il '25 dalle maggiori potenze, lo stato sovietico diventerà un punto di riferimento fondamentale della storia mondiale, sia per la grande influenza da esso a lungo eserci­tata sul proletariato di molti paesi industrializzati, sia perché la professata avversione all'imperialismo gli conferirà un alto presti­gio presso tutti i popoli sfruttati e sottosviluppati.



Eletta a suffragio indiretto e ineguale, la Duma era composta da una Camera Alta e una Camera Bassa. I suoi rappresen­tanti potevano esercitare solo un limitato controllo sul bilancio statale e sui ministri, e questi rispondevano delle loro scelte politiche direttamente allo zar. II sovrano inoltre manteneva il diritto di veto su tutte le decisioni della Duma

Gli elettori erano divisi in curie in base alle rispettive classi sociali, e ogni curia eleggeva i propri delegati secondo proporzioni diverse: i dele­gati erano infatti 1 su 2000 per i pro­prietari, 1 su 30 000 per i contadini, 1 su 90 000 per gli operai. Il voto di un proprietario, in altre parole, valeva come 15 voti dei contadini e come 45 voti degli operai.


Il mir era un'assemblea incaricata di ripartire i tributi e amministrare la giustizia, e che era a capo dell'Obscina, una comunità contadina di origine medievale. Con il tempo e con il consolidarsi dell'autocrazia zarista, il mir perdette la sua funzione iniziale, conservando la funzione di distribuire periodicamente le terre arabili ai membri dell'obscina. I mir mantennero tale funzione anche dopo le riforme del 1861, ma entrarono in crisi tra fine Ottocento e inizi Novecento, per essere poi aboliti durante la rivoluzione del 1917 di cui stiamo trattando.

Alla lettera, bolscevichi significa solo «appartenenti alla maggioran­za», così come menscevìchi significa «appartenenti alla minoranza». Nel congresso del 1903 le tesi dei bolsce­vichi ottennero infatti la maggioran­za dei consensi.

Grigorij Rasputin (1871-1916).Dotato di una forte personalità, Rasputin, riuscì nel 1905 ad introdursi negli ambienti di corte come santone e taumaturgo, ed esercitò un forte ascendente sulla zarina Alessandra, cui aveva promesso la guari­gione del principe ereditario Alessio, affet­to da emofilia. Poté pertanto intervenire nelle scelte politiche dello zar Nicola II, anch'egli soggiogato dai suoi presunti po­teri, favorendo la nomina o la destituzione di ministri, funzionari e alti ufficiali dell'esercito. La sua influenza e i suoi in­trighi suscitarono ben presto un crescente malcontento tra i circoli politici e militari vicini allo zar, che, visto inutile ogni tenta­tivo di allontanarlo dalla corte, organizza­rono una congiura e lo assassinarono (30 dicembre 1916). La zarina fece seppellire Rasputin con tutti gli onori ma, dopo la rivoluzione del febbraio 1917, il suo cada­vere fu esumato dalla folla e bruciato.

Secondo il calendario della Russia che non aveva adottato la riforma gregoriana, la data è il 23 febbraio, per cui si parla di rivoluzione di feb­braio. Noi seguiremo il calendario gregoriano (adottato anche in Russia nel 1918), indicando tra parentesi le date russe degli avvenimenti più im­portanti.

I bolscevichi avevano conservato la vecchia denominazione di Partito operaio socialdemocratico, rivendica­ta anche dai menscevichi, fino al marzo del 1918, quando il loro VII Congresso approvò la nuova denomi­nazione di Partito comunista russo (bolscevico).


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