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La donna nell'Islàm




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La donna nell'Islàm





L'argomento che noi affrontiamo in questo breve saggio è quanto mai vasto e complesso. In questa sede si possono solo offrire degli spunti, indicare alcune direttive di studio e di indagine nei campi più svariati, come meglio vedremo fra poco, lasciando ad eventuali altri contributi di approfondire l'uno o l'altro aspetto dei temi accennati.

È obbligatorio per noi partire comunque da quel periodo in arabo chiamato Giahiliyya, cioè il periodo della gentilità araba, prima dell'avvento dell'Islàm nel VII secolo della nostra era. Nel periodo antecedente quel VII secolo, che fu definito di ignoranza o di barbarie dagli stessi storici arabi, cioè ignoranza della vera religione e del vero Dio, ci troviamo di fronte ad una Penisola arabica distinta già dagli autori classici greci e latini - per esempio Erodoto, Eratostene, Strabone e Plinio - in tre zone con caratteri molto diversi: una è l'Arabia del Nord, l'Arabia Petraea, così chiamata dalla celebre città carovaniera di Petra, una città interamente scavata nella roccia: la zona tutta fu al centro di una civiltà di carattere aramaico-ellenistico, e viene ricordata anche per la presenza di una regina, Zaynab, più nota come Zenobia in Occidente, che ebbe il coraggio di ampliare le frontiere del suo regno fino ad annettersi l'Egitto e una gran parte dell'Asia Minore, e di resistere a Roma: vinta, fu fatta prigioniera e seguì il carro del vincitore legata con catene d'oro. Siamo nel 272 d.C., e l'imperatore cui mi riferivo è Aureliano, che ne distrusse la splendida città di Palmira.

Da Petra, le cui imponenti rovine si possono oggi ammirare in Giordania, spostiamoci nell'Arabia del Sud, in una zona corrispondente più o meno allo Yemen geografico: qui fiorirono splendide civiltà sudarabiche, in rapporti anche commerciali con gli Assiri e i Babilonesi, e con gli antichi Egizi. Intorno al Mille a.C., una figura di donna ci viene alla memoria: è la regina di Saba, celebre per la visita a Salomone: una visita di cui parla l'Antico Testamento, ricordata anche nei Vangeli, e riferita pure dal Corano.[1] Sugli elementi contenuti nel Corano, e in ogni caso già desunti da tradizioni ebraiche, copte, etiopiche, si sviluppa anzi tutta una leggenda arabo-islamica sui due personaggi, che copre un arco di tempo abbastanza esteso in quanto giunge fino al XVII secolo, quando ne ritroviamo eco chiarissima perfino in un capolavoro della letteratura malese. Né il ricordo della regina di Saba si esaurisce con l'Oriente arabo-islamico: esso anzi persiste nella letteratura, musica e arte del nostro Occidente, da Lascelles Abercrombie a Kipling, da Haendel a Gounod, da Piero della Francesca al Tintoretto.

Ma questa zona, l'Arabia Felix dei classici, che gli antichi autori descrivono come la terra dell'incenso, dell'oro, degli aromi e dei profumi, e che ebbe una sua particolare struttura fino al VII secolo, quando infine entrò nell'orbita dell'Islàm, non è ancora quella che ci interessa. Per il nostro argomento, è indispensabile fare riferimento alla terza zona d'Arabia, la cosiddetta Arabia Deserta, con le oasi della Mecca e di Medina, e tanti altri centri minori; una zona - in arabo chiamata Higiàz - che politicamente oggi fa parte dell'Arabia Saudita. È questa la zona dell'antica società beduina, che crede in un politeismo rozzo e imperfetto, che si distingue per l'imperante poligamia, per l'assenza di una fede nella trascendenza e nella vita ultraterrena, che vive di pastorizia e di rapina: qui il nomade - beduino vuol dire 'nomade' - esiste da tempo immemorabile, costretto dalle dure leggi ambientali e climatiche ad una vita di stenti e di fatica, non conoscendo altro organismo politico e sociale se non quello della tribù, che con stretti legami tiene insieme tutti i suoi membri. Una vita davvero grama, sottoposta alle pressioni di una natura inclemente e desertica, e ingentilita dalla poesia, alla quale questa società ha consegnato il più durevole ricordo della sua esistenza. Alla poesia appunto, come fonte importante per la ricostruzione della società nomade, possiamo fare riferimento: vi troveremo delineato l'atteggiamento del Beduino verso la donna, all'alba dell'Islàm.

In questa poesia, la donna è quasi sempre vista come oggetto di desiderio, o altrimenti presentata come gretta, avara, gelosa custode del patrimonio domestico, e apostrofata spesso con lo stesso tono di virile superiorità del greco gynai; ma l'atteggiamento del Beduino verso la donna - bisogna dire - si presta a valutazioni contraddittorie. Infatti, è anche vero che nello stesso periodo la donna ha una certa importanza nella società araba. Gode anche di relativa libertà e autonomia, favorita proprio dalla vita stessa del deserto e dai caratteri del nomadismo: non mancano, nel periodo pagano, donne eroine, poetesse, che sapevano far valere e apprezzare la loro dignità di "persona".

Le antiche donne arabe, se al pari di quelle della Grecia e di Roma antica «con le mani filavano la lana e con gli occhi vigilavano che la minestra non bruciasse» - come dice uno scrittore latino[4] - non trascuravano l'educazione della intelligenza e dell'animo: le prerogative della donna superiore, nel deserto, non consistevano soltanto nella bellezza, ma nella nobiltà del sangue, nella generosità dei sentimenti e dello spirito, in un alto e dignitoso concetto del proprio onore. Queste doti dell'animo si insegnavano e si trasmettevano nella semplice comunione della tribù, si ereditavano da madre a figlia senza interruzione. Nella tenda le giovani donne imparavano ad amare la gloria dei loro padri o fratelli, a sentirsi fiere del sangue arabo; a ripetere i racconti e le gesta degli antenati, i nomi e i versi dei poeti, le leggende della tribù, secondo un vero e proprio insegnamento di psicologia e filosofia sociale, impartito in precetti pratici e proverbi, trasmesso mediante la conversazione, l'unica grande e reciproca scuola degli Arabi. E nello stesso tempo, la donna costituiva in modo speciale l'ispirazione dei poeti, in un paese in cui fra due immense distese ardenti del cielo e delle sabbie quasi tutti crescevano con una notevole disposizione a far poesia, al culto dei metri e del verso. Infatti, cominciare un poema nell'età preislamica - e per imitazione anche dopo - senza celebrare le lodi o abbandonarsi al rimpianto della donna amata, era una cosa per lo meno altrettanto strana quanto nella antica tradizione classica della nostra scuola retorica poteva essere l'inizio di un poema epico senza l'invocazione alle Muse.

Queste brevi notazioni sintetiche - pur se ancora molto ci sarebbe da dire - ci lasciano intravedere nel mondo arabo della Giahiliyya la vita materiale, intellettuale e sociale della donna, di quella donna dall'indole ardente e appassionata, dalla profonda sensibilità, che la rendeva capace spesso della più nobile abnegazione e del sacrificio di se stessa.

La condizione della donna araba, con l'avvento dell'Islàm, doveva mutare notevolmente. Il Corano, il libro sacro della nuova religione monoteistica predicata da Maometto, proclama l'inferiorità della donna. Va qui ricordato che il testo sacro dell'Islàm non si considera semplice ispirazione divina elaborata da Maometto, bensì vero e proprio dettato celeste di Dio all'uomo. In altre parole, bisogna tenere presente il concetto fondamentale che l'Islàm è una teocrazia; che Dio è a capo della comunità musulmana e ne è il legislatore; che le leggi, dunque, non sono emanazione della volontà umana, ma divina. Da questo principio nasce una importante conseguenza, che l'osservanza cioè della legge divina non è soltanto un obbligo religioso, ma un dovere civile. Religione e diritto, etica e legge, sono praticamente i due aspetti della volontà divina su cui si fonda e regge la comunità musulmana, la cui Legge religiosa trova le sue fonti nel Corano, nelle tradizioni del Profeta, nel cosiddetto consenso della comunità stessa. È qui impossibile un lungo discorso, e tenteremo soltanto di richiamare alcuni esempi fondamentali, data la vastità della materia.

Alcuni versetti coranici ci permettono, ad esempio, di affermare che l'uomo domina la donna per diritto divino. Leggiamo i più significativi: «Gli uomini sono superiori alle donne perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri, e perché essi danno dei loro beni per mantenerle; le donne buone sono dunque devote a Dio e sollecite della propria castità, così come Dio è stato sollecito di loro; quanto a quelle di cui temete atti di disubbidienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiscono allora non cercate pretesti per maltrattarle, perché Dio è potente ed eccelso».[5] Qui si giustifica nettamente la supremazia dell'uomo, fra le altre cose anche per la sua superiorità economica, un fatto non soltanto di quell'epoca e della Penisola arabica, ma che sussiste ancora in numerosi paesi. A questi versetti, infatti, che potrebbero turbare una coscienza occidentale, vorremmo aggiungere la citazione di un passo dello studioso tedesco August Bebel, che così dice: «Secondo il diritto tedesco, la donna in rapporto all'uomo è sempre inferiore; l'uomo è il padrone cui ella deve obbedienza assoluta. Se disubbidisce, il codice prussiano concede all'uomo il diritto a un castigo corporale moderato nei confronti della donna Non essendo indicati in nessun luogo la forza ed il numero dei colpi, l'uomo può decidere sovranamente a questo riguardo».

Una delle accuse più frequenti rivolte dall'Occidente al Profeta dell'Islàm, è quella di un sensualità forse eccessiva. Se da una parte le notizie sulla sensualità di Maometto hanno fornito materia a uno degli argomenti più abusati dai polemisti e rigoristi cristiani fin dal Medioevo per denigrare l'Islàm in genere, d'altro canto è giusto precisare che parecchi dei suoi matrimoni ebbero natura e finalità politiche. In realtà il Profeta fu un uomo sensuale, né più né meno dei suoi contemporanei, con la differenza che a motivo della sua posizione ebbe probabilmente maggiori tentazioni e maggiori occasioni per soddisfarle, a volte facendo intervenire in fatti della vita privata rivelazioni divine, come è il caso di quei versetti[7] che gli permisero di sposare addirittura la moglie del proprio figlio adottivo, della quale si era invaghito. Ma dobbiamo a questo punto fare delle precisazioni. Già l'antica società araba era poligama. La vita nomade, le continue razzie e i rapimenti di donne riempivano i ginecei di concubine, oltre alle mogli "legittime", per cui erano pochi davvero i casi di monogamia. I vincoli matrimoniali erano comunque molto deboli, e la facilità del divorzio estrema. Per un semplice capriccio l'uomo poteva ripudiare una donna; analoga facilità vi era, nell'epoca preislamica, per il ripudio del marito da parte della moglie.

È giusto allora ricordare che nel Corano, portando a quattro il numero delle mogli, il Profeta veniva a raffrenare e regolamentare quella poligamia che in precedenza era senza limiti. Il passo in questione è il seguente, l'unico di tutto il testo sacro che si riferisca alla poligamia: «Sposate quante donne vi piacciono, due, o tre, o quattro; ma se temete di non esser giusti con loro sposatene una sola, ovvero le ancelle in vostro possesso; questo sarà più adatto a non farvi deviare».[8] I Musulmani moderni spesso interpretano questo passo come un appello alla monogamia, in quanto un uomo sposato con più donne - si dice - non potrà trattarle tutte allo stesso modo. Di fatto, ricordiamo che oggi la poligamia è stata abolita in diversi Paesi arabi e musulmani, ma volendo attenerci all'esegesi tradizionale del Corano, alla prassi seguita per lunghi secoli in tutto il mondo dell'Islàm, e alle opinioni dei giuristi, diremo che nella sostanza il Corano ammette la poligamia e il concubinato, raccomanda con insistenza il matrimonio per assicurare la moralità privata, per moltiplicare il numero dei credenti e per distinguere l'Islàm dalle religioni che pongono in onore il celibato; raccomanda sì in parecchi versetti la castità, ma solamente al di fuori dei legami di matrimonio e/o di concubinato, mentre il celibato è addirittura sconsigliato, sulla scia di un detto attribuito al Profeta, che si sarebbe così espresso: «Sono un uomo come tutti gli altri, che mangia pane e passeggia per i mercati, e ha rapporti con donne; e chi non segue questa mia sunna non è dei miei».

D'altra parte il matrimonio, secondo il diritto islamico, è un contratto che ha per oggetto il semplice godimento fisico con una donna. Il marito acquista cioè il diritto di usare la persona della donna, la quale si concede mediante una specie di dono nuziale mentre l'uomo si obbliga a mantenerla.[10] La differenza tra il matrimonio e il concubinato - la osserviamo solo da un punto di vista strettamente giuridico - è che il concubinato si stabilisce semplicemente sul fatto del possesso: il matrimonio invece è un patto che si contrae fra il rappresentante della sposa - chiamato wali - e il fidanzato. Il wali, cioè il rappresentante della donna, viene indicato da una rigorosa gerarchia, basata sul principio che il parente maschio più vicino ha la precedenza sugli altri. Senza offrire il lungo elenco di questa gerarchia, ricordiamo fra le persone che possono fungere da wali il figlio - nel caso che la donna ne abbia già uno -, il padre, il fratello, il nonno paterno, e in caso di necessità lo stesso giudice o un qualunque musulmano. È lecito all'uomo sposare una donna di religione diversa; alla donna invece è vietato contrarre matrimonio con un uomo che non sia musulmano. È abbastanza semplice per l'uomo la possibilità del ripudio e del divorzio, più difficile invece è per la donna. Qui osserviamo come la cosa, nel corso dei secoli, ha acquistato conseguenze non indifferenti, e potremo accennare ad esempio alla prostituzione nell'Islàm. Non solo essa fu tollerata, malgrado lo sdegno dei teologi e dei giuristi che di volta in volta hanno levato la loro voce contro un fenomeno incompatibile con l'etica islamica, ma addirittura fu riconosciuta dalle autorità e certe volte sottoposta a una forma di tassazione che alimentava l'erario. La precocità dei matrimoni presso i Musulmani, che potevano prendere quattro mogli legittime e inoltre quel numero di concubine più che altro consentito dalla loro situazione economica, farebbe pensare l'amore prezzolato non molto diffuso nella civiltà arabo-islamica. Invece i giovani di ceto modesto non potevano iniziarsi diversamente all'esperienza sessuale, e il matrimonio legale implicava oneri che gli uomini del popolo non erano in grado di assumersi. Al contrario, come stavamo dicendo, la facilità del ripudio della moglie da parte del marito gettava spesso sul lastrico molte donne che non sempre avevano la possibilità di ritornare in seno alle loro famiglie d'origine. I miei riferimenti sono specialmente rivolti all'epoca classica e medievale, ma le attestazioni di tale fenomeno - condannato dal Corano - sono così estese nei tempi da farcelo considerare ancora attuale ai giorni nostri, come può essere constatato anche dal semplice viaggiatore e dal comune turista.

Nel complesso, penso non si possa negare che la donna - nel passaggio dal paganesimo all'Islàm - è stata sottoposta ad un certo svilimento, tradotto in pratica nella sua clausura nei ginecei o harem; nella sostanziale ammissione di diritto della sua inferiorità rispetto all'uomo, e comunque in una sottomissione che si manifesta in vari campi della vita sociale.

Ad esempio, il diritto islamico sancisce il principio che la testimonianza di un uomo vale il doppio di quella della donna, nel senso che debba essere pareggiata da quella di due donne; nelle moschee, di solito esse stanno in disparte dagli uomini, e addirittura alcuni giuristi musulmani, basandosi sull'autorità di varie tradizioni profetiche, hanno fatto non pochi tentativi di impedire alle donne la preghiera nelle moschee: una donna preoccupata della propria reputazione non doveva, nella misura del possibile, lasciare la casa finché fosse sposata. Nella trilogia dello scrittore egiziano Nagìb Mahfùz, premio Nobel per la letteratura nel 1988, opera ambientata al Cairo nella prima metà del nostro secolo, troviamo la figura di una donna, di nome Àmina, moglie di un mercante: dopo il matrimonio essa non è mai uscita di casa se non in vettura chiusa, per andare a visitare la madre. Profittando dell'assenza del marito, desidera soddisfare il più grande sogno della sua vita, quello di recarsi alla moschea di Huseyn, vicino casa sua, e in ciò è incoraggiata dai figli, rappresentanti della nuova generazione. Quando il marito viene a saperlo la ripudia, pur essendo lei la madre dei cinque figli, la quale negli anni lo aveva circondato di un affetto devoto.

Una sociologa riferisce che nelle piccole città marocchine, ancora all'inizio degli anni Sessanta, la donna non entrava nelle moschee, spesso anche perché non era al corrente del rituale della preghiera, ma soprattutto perché si temeva che ci andasse per incontrare un innamorato.[12] La letterata turca Halide Edìb racconta nelle sue memorie, pubblicate a Londra nel 1926, che da piccola - e dunque intorno all'ultimo decennio del secolo scorso - si recava con la nutrice in una moschea di Istanbul per la preghiera solenne alla fine del ramadàn, il mese durante il quale si osserva un periodo di digiuno dall'alba al tramonto di ogni giorno. Ella descrive come un pio musulmano senta la preghiera islamica: «L'imàm in piedi davanti al mihràb, le spalle girate verso l'uditorio, apriva la preghiera. È meraviglioso pregare quando si è diretti da un imàm. Egli recita ad alta voce i versetti che di solito si ripetono nella preghiera. Si inchina, si prostra, la fronte tocca il suolo. Ogni movimento è un ritmo prodigioso, complicato; non c'è niente di più armonico. Il resto è silenzio eterno».

A tal punto nella scrittrice turca restò impresso questo episodio, che ce lo descrive in modo trasognato all'inizio della sua opera autobiografica. Diremo per inciso che le donne, in verità, non possono fare da imàm che nei grandi harem, cioè davanti a una comunità esclusivamente femminile.

Il grande scrittore e islamista egiziano Ahmad Amìn, morto nel 1954, così ci parla del modo in cui conobbe la futura moglie nell'opera autobiografica intitolata La mia vita: «Il volto senza velo a quel tempo - siamo nel 1916 - era ancora agli inizi, e soltanto un numero limitato di donne istruite aveva il coraggio di andare a viso scoperto. Il matrimonio era per lo più soggetto alle vecchie tradizioni: un giovane sentiva da un amico o un parente che il tal dei tali aveva una figlia in età da marito, oppure lo poteva apprendere da una mezzana di professione che visitava le case, raccoglieva informazioni, vedeva lì un giovanotto o una fanciulla nubile che desiderava sposarsi e agiva da intermediaria tra le famiglie del futuro marito e della futura moglie, avvicinando le une alle altre. Un parente del giovane allora andava a parlare con il padre o con il tutore legale della donna, e gli dichiarava il desiderio di quello. Se il tutore della donna accettava, il giovane avrebbe allora mandato la mamma e alcune donne della propria famiglia a vedere la ragazza: se esse gliela descrivevano favorevolmente, egli si avviava al matrimonio senza averla mai vista o averne conosciuto l'aspetto, l'indole e il carattere; tutte cose che avrebbe conosciuto dopo la conclusione del contratto e in seguito alle nozze».[14]

Così successe al nostro scrittore, che mandò la madre e la sorella per conoscere la donna, e si avviò poi al matrimonio sulla base delle loro indicazioni. Riflettiamo che il passo citato è relativo ai primi del Novecento, ma teniamo presente che in vari Paesi dell'Islàm le cose vanno ancora oggi allo stesso modo, e non ci resterà che volgere la stessa esperienza al femminile.




Abbiamo visto come il Corano attribuisca alla donna una posizione sociale subordinata rispetto all'uomo, come esiga da lei sottomissione alla volontà maschile. Tale condizione trova espressione - per quanto se ne dica in contrario - assai chiara nel seguente detto attribuito al Profeta: «Se si potesse ordinare ad un essere umano di prostrarsi davanti ad un altro, così sarebbe della donna davanti all'uomo». Tuttavia, anche se si cercò di tenere lontane le donne dalla vita pubblica, alcune di esse, per la loro personalità specifica e per i loro meriti, ebbero un ruolo molto importante nella storia o nella vita culturale dei Paesi islamici e perfino nei primi tempi dell'Islàm: qui ci basta pensare a Khadigia, la prima moglie del Profeta, paragonata da un detto a Maria madre di Gesù quanto all'umiltà e alla dolcezza; ad 'À'isha, la più giovane e prediletta delle mogli, che dopo la scomparsa del Profeta diventò una autorità rispettata, spesso consultata su ciò che Maometto aveva detto o fatto in determinate occasioni - cosa molto importante, diciamo tra parentesi, perché i detti del Profeta hanno per la comunità musulmana valore normativo e giuridico - e ancora a F®flima, che ebbe in seno alla comunità islamica un valore del tutto particolare, legandosi alla dottrina più o meno esoterica dei Musulmani shiiti e subendo quasi una specie di divinizzazione che qui è fuori luogo discutere: ma quanto all'ambito storico, basterà ricordare che da lei prese nome la dinastia dei Fatimiti, che regnò in Egitto dal 909 al 1171, quando poi fu distrutta dal buon Saladino, il campione della guerra santa contro i Crociati. Né solo in Egitto troviamo la dinastia dei Fatimiti, ed anzi anche nel periodo arabo-islamico della nostra isola; e fatimita fu un liberto arabo-siciliano di nome Giawhar che lasciò la Sicilia e nel 969 fondò in Egitto una nuova capitale, al-Qàhira, l'attuale Cairo.

Ho toccato la Sicilia, e ricordo che la dominazione arabo-islamica dell'isola si colloca dall'827 al 1072, anno in cui i Normanni sbarcano a Palermo. Ma l'influsso culturale dell'Arabismo dura ancora per un altro secolo, per tutto il periodo normanno, e in parte anche svevo. Sappiamo che l'imperatore Federico II fu in realtà, politicamente, nonostante le sue simpatie per la cultura araba e per l'Islàm, colui che combatté gli ultimi nuclei musulmani rimasti nell'isola, e che li deportò a Lucera in Puglia. Ebbene, un episodio della resistenza musulmana dell'isola contro Federico II ha come protagonista ed eroina una donna musulmana di Entella: una giovane che ebbe il coraggio, con un espediente, di tendere un inganno all'imperatore e di fare strage di centinaia di uomini del suo esercito per vendicare il padre.[15]

Durante i secoli, nell'Islàm, si è considerata negativamente l'ascesa al trono di una donna, avversata da tradizioni di questo tipo: «Se gli uomini ubbidiscono alle donne, sono votati al declino», o ancora: «Mai un popolo può prosperare se concede autorità a una donna». Tuttavia, nel corso della storia islamica, ci sono sempre delle donne che esercitano un'influenza politica sui califfi, gli emiri, i sultani, ovvero occupano posti decisivi. Molto raramente, comunque, e per periodi assai brevi, le donne sono salite al trono. Ne abbiamo esempi nell'Egitto del XIII secolo, con la sultana Shàgiarat ad-durr (siamo nel periodo in cui S. Luigi IX re di Francia viene preso prigioniero sul campo di battaglia di al-Mansura); e con questa sultana, di origine turca, per la prima volta in un Paese islamico furono coniate monete col nome di una donna. Un altro esempio, nello stesso periodo, lo abbiamo a Delhi, in India: una donna della dinastia moghul, chiamata ar-Ràziyya, regnò effetti-vamente dal 1236 al 1240: il padre, nonostante avesse figli maschi, pensò che nessuno dei fratelli avesse qualità migliori di lei per reggere l'impero e la designò come suo successore. La fanciulla abbandonò le vesti femminili e si vestì da uomo: precoce manifestazione esteriore di emancipazione della donna nell'Islàm degna di essere segnalata. Portava il turbante e si mostrava in pubblico senza velo, forse pensando così di accrescere la sua autorità. Anche le madri dei sultani ottomani, particolarmente durante l'epoca del declino della dominazione turca, rappresentarono un fattore importante nell'esercizio del potere, e la cosa fu tenuta in considerazione sia dai loro alleati che dai loro avversari politici.


* *


Quando parliamo di Islàm, ci riferiamo a tutto un mondo in cui la religione si mescola alla politica, la storia alla poesia e alla letteratura, la società alle tradizioni e al diritto. In altri termini, la stessa parola «Islàm», che indica l'abbandono fiducioso a Dio, la dedizione completa alla Sua volontà, non esprime soltanto il significato di «religione islamica» ma anche di civiltà e cultura di tutti quei popoli che ne hanno accettato il suddetto messaggio religioso. Nel periodo classico della sua storia, l'Islàm mise assieme un impero più vasto di quello conquistato da Alessandro Magno, un impero che andava dall'Andalusia al cuore dell'India e all'Indonesia, per cui araba fu la lingua di quella civiltà e cultura alla quale diedero contributo popoli differenti: Turchi, una parte di Mongoli, e quindi Persiani, Indiani, Arabi stessi e via dicendo. Oggi si contano circa novecento milioni di Musulmani nel mondo, sparsi in varie zone dell'Africa e dell'Asia, ma anche in Europa e nelle regioni dell'ex Unione Sovietica. Ci troviamo dunque di fronte a una civiltà estesa nel tempo e nello spazio, ed ecco perché voler trattare compiutamente della donna nell'Islàm implicherebbe non un breve contributo ma un consistente volume. Fra l'altro, resteranno qui taciuti argomenti invece interessanti e suggestivi, quali la presenza delle donne nel misticismo islamico, nella magia, nel folclore, e soprattutto nella letteratura. Quanto mai suggestivo sarebbe, per esempio, esaminare la donna nella celebre raccolta delle Mille e una notte, dove le avventure mirabolanti condite di erotismo, i viaggi in paesi strani e meravigliosi, i poeti, i letterati, gli eunuchi, le prostitute, le megere, le ruffiane, i filtri d'amore e le pozioni magiche, tutto insomma contribuisce a creare l'atmosfera inimitabile e suggestiva di quest'opera in veste araba, che tuttavia non è frutto caratteristico della letteratura araba vera e propria. La celebre raccolta comunque ci illumina sul mondo femminile, intravisto fra le cortine degli harem o liberamente circolante per le piazze e le vie, con le ancelle e le schiave sempre pronte allo scherzo, all'avventura, all'intrigo. Non solo umili schiave ma fanciulle e signore di ottima famiglia hanno i loro legami amorosi più o meno leciti e le loro passioni, si dichiarano esse stesse all'uomo che amano, partecipano a ricevimenti, gite, scampagnate. Ne risulta una varietà e libertà di rapporti fra i sessi superiore a quanto ci si aspetterebbe dagli schemi tradizionali della donna musulmana sempre segregata e velata, con un senso per lo più spontaneo e innocente di gioia di vivere e di abbandono incolpevole al piacere dei sensi; ed una estrinsecazione naturale della sessualità che si può assumere emblematica di tutta la civiltà arabo-islamica.[16]

Si potrebbe ancora parlare dell'amor cortese nella letteratura araba,[17] o vedere la donna nel Libro dei Canti e nelle leggende popolari che ad esso si ispirano; o altrimenti studiare la produzione poetica e letteraria femminile attraverso i secoli, si intende in vari Paesi dell'Islàm e quindi non solo in quelli arabi ma nei persiani e turchi; o infine vedere la presenza delle donne nell'arte e nella miniatura musulmana, dalla Siria e dall'Egitto all'India. Noi qui dobbiamo contentarci di osservazioni generali nel campo religioso soprattutto e sociale; e con queste osservazioni vorrei avviarmi alla conclusione del presente scritto.


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Da  circa un secolo e mezzo, un processo non privo di contraddizioni segna l'evoluzione del mondo islamico: le tradizioni cedono il passo a innovazioni introdotte dall'esterno; e da due generazioni almeno questo processo esercita una influenza sui vari problemi legati alla donna. Il modernista egiziano Muhammad 'Abduh, morto nel 1905, verso la fine del secolo scorso iniziò una nuova interpretazione del Corano, secondo la quale fra l'altro affermava che la poligamia dovesse trattarsi come un fenomeno storico e sociale, e faceva notare che l'Islàm non la raccomanda in modo assoluto ma soltanto a certe condizioni. Uno dei suoi allievi più celebri alla moschea-università dell'Azhar al Cairo, Qàsim Amìn, nel 1899 pubblicò un volume intitolato L'emancipazione della donna, cui due anni dopo fece seguire un altro saggio intitolato La donna nuova; in questi scritti egli sottolinea che la degradazione della donna, che si è accentuata nel corso dei secoli nei Paesi islamici, non aveva la sua origine nell'Islàm, ma era stata introdotta grazie a idee e costumi di popoli non arabi diventati in seguito musulmani. È un punto di vista a mio parere discutibile, che dimostra comunque l'avanzata in quel periodo dell'idea del nazionalismo arabo. La venerazione per la donna e l'uguaglianza dei sessi sono, secondo l'autore citato, principi fondamentali dell'Islàm. Più interessanti sono i concetti che egli esprime, che si possono così sintetizzare: le donne hanno diritto di istruirsi, di partecipare alla vita sociale e di esercitare una professione, in quanto sono esseri umani come tutti gli altri. I versetti del Corano in cui si parla di poligamia e di ripudio, di uso del velo e simili, devono essere interpretati diversamente da quanto si era fatto nel corso dei secoli, e compresi nel loro quadro storico.

Nel 1873, il khedive egiziano Isma'ìl fondava al Cairo la prima scuola femminile, e dava istruzioni perché le scolare potessero uscire di casa senza velo; ma all'epoca, ancora prematura, le giovani egiziane non vi erano ancora preparate. In Turchia, la prima scuola normale di maestre giardiniere fu aperta nel 1863; si voleva così impedire che le famiglie delle classi più elevate facessero ricorso a stranieri per l'educazione delle loro figlie. Fin dal 1893, e dunque all'epoca del sultano 'Abdulhamìd (che non fu un'epoca particolarmente liberale), alcune donne furono ammesse come libere uditrici alla Facoltà di medicina dell'Università di Istanbul, e nel 1899 fu loro permesso a tutti gli effetti il libero accesso alla laurea (ricordiamo per inciso che in Europa, per esempio in Germania, le donne poterono iscriversi nella Facoltà di medicina soltanto nello stesso anno). La si considerò questa, in Turchia, una necessità urgente, perché nei Paesi islamici all'epoca pochissime donne avrebbero pensato di farsi curare da un medico, o per meglio dire da un ginecologo.

Nello stesso 1899, la prima scuola femminile viene istituita in Iràq. La relativa rapidità con cui queste novità furono introdotte nei Paesi islamici dipendeva essenzialmente dalla situazione politica; per esempio l'Iràq, come la Siria e il Libano, fino alla fine della prima guerra mondiale fu una provincia turca; mentre l'Egitto, che nel 1882 fu occupato dall'Inghilterra, godeva di una sua diversa autonomia.

E proprio in Egitto, a partire dagli anni Venti del nostro secolo, le donne cominciarono a frequentare le Università. Lo scrittore egiziano Nagìb Mahfùz, che abbiamo già ricordato, in un suo romanzo ha il seguente passo sui rapporti tra studenti e studentesse: «Le nostre compagne, nel 1930, erano in numero molto ridotto, non più di una decina. La maggior parte di esse era ancora segnata dallo harem. Si vestivano in modo anonimo, evitavano i gioielli e i profumi, e sedevano tutte sole nella prima fila dell'aula ad anfiteatro, come se si trovassero in un compartimento di autobus riservato alle donne. Non ci salutavamo e non ci parlavamo. Quando era necessario domandare qualcosa o chiedere in prestito un quaderno, lo si faceva in modo prudente e timido, e la cosa non passava inosservata, ma attirava gli sguardi e dava luogo ad occhiate pettegole e a commenti salaci».

L'Università di Teheran, in Persia, fu fondata solo nel 1935, e qualche anno più tardi un decreto dello shah permise alle donne di frequentarla, e dopo la laurea di occupare anche posti governativi. Nel 1922 la prima donna medico aprì il suo ambulatorio in Turchia; nel 1927 vi fu la prima donna avvocato, e nel 1930 la prima donna giudice; mentre in Egitto le donne non possono esercitare la professione di giudice o di procuratore legale. È una cosa che invece è possibile in Iràq: le prime donne giudici risalgono al 1980. Spigolando ancora alcuni dati, che organizzeremo in conclusione, vorremmo citare qualche episodio sul velo, che varia di nome e di foggia da un Paese islamico all'altro.

Nel 1910, in Turchia, che pure era stata all'avanguardia nel settore della emancipazione e istruzione femminile, destò scandalo il fatto che una ragazza osò farsi fotografare in pubblico senza velo. In Iràn, nel 1928, il capo della polizia si fece vedere in un luogo di villeggiatura, in un celebre caffè, in compagnia della moglie (che comunque era velata); la cosa fece rumore ed altri però seguirono l'esempio, uscendo con le mogli, sorelle o amiche per andare nei bar, nei caffè o al cinema: una volta nella sala cinematografica, tuttavia, uomini e donne continuavano a sedersi separa-tamente. Infine nel 1936, quando lo shah di Persia emanò una legge che addirittura proibiva l'uso del velo, moltissime donne erano così legate alla tradizione che la legge dovette essere abrogata nel 1941. Il che dimostra che usi ormai stabiliti nel corso di secoli non possono cancellarsi dall'oggi al domani, con un colpo di spugna; per abolirli è necessaria una lunga educazione, non soltanto delle donne, ma anche degli uomini. E d'altra parte, quella legge persiana sulla proibizione del velo non modificava minimamente a quell'epoca, e neanche dopo, lo statuto giuridico della donna, né si poteva parlare di uguaglianza dei diritti. Certo si è che la condizione della donna varia notevolmente da un Paese islamico all'altro, sicché assistiamo a soluzioni differenti anche del modo in cui la donna vive e apprezza la propria emancipazione, o altrimenti sente se stessa. Un ultimo esempio può essere significativo in proposito: nel 1943 il sultano del Marocco Muhammad al-Khamìs provocò lo stupore del mondo presentando alla nazione la propria figlia senza velo; nella stessa data a Lahore, in India, durante una sessione della Womens Conference, alla quale partecipavano delegate musulmane di tutti i Paesi, la presidente del comitato tenne il suo discorso inaugurale: le sue parole furono trasmesse dall'altoparlante, ma il pubblico non poteva vederla perché era seduta dietro un paravento.[20]

In molti Paesi islamici, le organizzazioni femminili - alcune nate già dopo la prima guerra mondiale - sono intervenute e intervengono ancora a favore di una riforma del diritto di famiglia. Alcuni di questi Paesi, come la Libia a partire dal 1971, l'Arabia Saudita fin dalla sua esistenza, e ormai il Pakistan e l'Egitto, applicano a questo riguardo la sharì'a, la Legge religiosa dell'Islàm, nella sua forma originaria, priva di qualunque modifica o adattamento. Altri Stati hanno invece introdotto alcuni elementi di flessibilità. La maggior parte, sono rimasti legati alla Legge religiosa islamica nel suo insieme, ma sotto una forma che tiene conto dei nuovi motivi, delle nuove condizioni: nella sostanza, ed è questo molto difficile, si tende a mettere a punto una legislazione in armonia tanto con l'Islàm quanto con le esigenze della vita moderna.

Volendo tentare una sintesi delle più importanti modifiche introdotte, diremo che nel 1926 la Turchia ha adottato il codice civile svizzero. Era dunque il solo Paese che avesse rotto definitivamente con la Legge religiosa islamica. Ma nel caso dell'introduzione del matrimonio civile obbligatorio, bisogna dire che non è facile trapiantare una legislazione in un Paese in cui essa è sentita come estranea. Così, la popolazione rurale turca, fino ai nostri giorni, resta legata al matrimonio che avviene grazie all'imàm, il direttore della preghiera, per quanto la legge non autorizzi tale matrimonio se non dopo la cerimonia civile. Non è che il matrimonio effettuato di fronte all'imàm rappresenti un sacramento, ma esso è sentito in carattere con le leggi dell'Islàm in quanto permette sempre la poligamia e il talàq, cioè il ripudio della moglie. Così, il governo turco ha dovuto, negli ultimi cinquant'anni, promulgare ben sei leggi di "sanatoria", diremmo noi, destinate soprattutto a riconoscere come legittimi i figli nati da queste unioni.

Al di fuori della Turchia, l'unico Paese islamico che abbia ufficialmente e per legge proibito la poligamia è la Tunisia. Nel 1956, una legge fu promulgata a questo riguardo, e rendeva obbligatorio il consenso delle due parti per contrarre matrimonio. L'applicazione della legge sembra aver conosciuto inizi difficili, tanto è vero che a distanza di anni, nel 1964, fu necessario confermare ancora una volta che il matrimonio contratto da una persona già sposata non era valido, e che il bigamo era passibile di punizione.

Nella Siria, nel Libano, nella Giordania e nell'Iràq, fino agli anni Cinquanta, l'uomo che desiderava contrarre un secondo matrimonio doveva produrre per iscritto il consenso della prima moglie. In Iran, l'uomo deve inoltre provare al giudice delegato che è in grado di far fronte ai bisogni economici di una seconda moglie. Il consenso della prima moglie è dato di solito con una relativa facilità quando si tratta di donna economicamente dipendente dal marito, e perciò l'uomo può esercitare su di lei qualche pressione. Ma di fatto, ormai la poligamia è diventata rara nei Paesi islamici progressisti, e in ogni caso soprattutto nei centri urbani.

Un'altra novità introdotta in numerosi Paesi islamici è il limite minimo di età necessario a contrarre matrimonio: esso varia, a seconda dei Paesi, da 20 o 18 anni per l'uomo, da 17 o 16 e in alcune zone anche 15 per la donna. Queste misure sono anche motivate dalla volontà di frenare l'aumento delle nascite. È pure importante qualche altro elemento: in Tunisia e nella Repubblica Democratica dello Yemen, il legislatore ha previsto che la donna, quando è in grado di farlo, deve contribuire con il marito al sostentamento della famiglia; sono norme importantissime, perché in questo caso la donna non è più considerata come una creatura senza difesa e che ha bisogno di protezione, come già nel Corano. Ancora, alcuni cambiamenti nel diritto di famiglia limitano la possibilità di un ripudio arbitrario della moglie da parte del marito, per esempio in Algeria, dove già dal 1976 la Costituzione offre gli stessi diritti politici economici sociali e culturali alle donne, ed anzi un articolo (l'art. 81) dice espressamente che «la donna deve partecipare alla edificazione socialista dello sviluppo nazionale"»; qui un nuovo codice di famiglia ha visto la luce abbastanza di recente, nel 1984, ma ancora esistono una serie di incertezze che fanno emergere lo squilibrio tra società moderna e legittimazione islamica. Degno di nota è però che la stessa donna ha il diritto di chiedere lei il divorzio, in vari casi previsti dalla legge.[21]

Il ritorno all'Islàm delle origini, così come è incoraggiato in Libia e in Arabia Saudita, può esser compreso in modi differenti. Diremo per concludere che di fronte a una occidentalizzazione superficiale e sentita da molti come fallace e deludente, si può osservare in questi ultimi anni, perfino nelle classi sociali più elevate, la tendenza a un ritorno cosciente verso le antiche tradizioni dell'Islàm. Ne consegue addirittura che l'emancipazione della donna, orientata verso modelli occidentali, è vista in stretta relazione con gli errori di una politica di tipo colonialista e imperialista, e per questo molti la rifiutano. La donna cioè, per quanto a fatica abbia già o cominci ad acquistare un ruolo (a seconda dei Paesi) non soltanto in seno alla famiglia ma anche nella vita sociale, politica e culturale oltre che scientifica, si rivolge sempre di più all'Islàm: è un atteggiamento politico, destinato a provare che l'Islàm è una alternativa, dopo i tanti secoli di splendore culturale del passato, all'Occidente. L'Occidente cioè sarebbe visto come l'immagine della corruzione, l'Islàm resta l'immagine dei valori morali. È insomma la crisi di identità della donna nell'Islàm di oggi, che cerca il ritorno alle proprie radici religiose e culturali per recuperare la parte migliore di se stessa.




 Per l'Antico Testamento, si veda soprattutto il passo di I Re 10, 1-13, ripreso quasi con le stesse parole in II Cronache 9, 1-10. L'accenno evangelico alla "regina del Mezzogiorno" è in Mt XII, 42. Nel Corano, si veda la sura XXVII, in particolare 15-44.

 Cfr. G. Gabrieli, Della leggenda di Salomone e della regina di Saba secondo una tradizione araba del sec. XI, Lecce, 1896, p. 9.

 Nella letteratura araba del Novecento, un famoso dramma si ispira all'amore di Salomone per la regina: è quello di Tawfìq al-Hakìm (celebre autore egiziano m. nel 1987), pubblicato in prima edizione al Cairo, 1943. Se ne può leggere una versione italiana di Andrea Borruso, Salomone e la regina di Saba, Palermo, 2004.

 L'espressione è di Marco Terenzio Varrone, detto il Reatino, m. nel 27 a.C.

 Corano, IV, 34.

 Il passo è tratto dall'opera Die Frau und der Sozialismus, Stuttgart, 1891, p. 209. Non mi pare che il volume sia stato tradotto in italiano.

 Corano, XXXIII, 37-39.

 Corano, IV, 3.

Cioè 'modo di condursi', 'comportamento', 'costume'. Dal vocabolo prendono nome i Sunniti, che costituiscono la stragrande maggioranza dei Musulmani nel mondo: sono coloro che appunto si fondano sul modus vivendi del Profeta.

 G.-H. Bousquet, insigne islamista francese, insiste sul concetto e ribadisce che il matrimonio musulmano «est essentiellement un acte par lequel une femme, souvent sans être consultée, doit se mettre sexuellement à la disposition d'un mari, s'il y a lieu à côté de trois autres épouses, et d'un nombre illimité de concubines, pour être renvoyée incontinent, dès qu'elle a cessé de plaire, sans qu'aucune idée d'association entre les époux n'intervienne». Il passo è citato dal suo volume L'éthique sexuelle de l'Islam, Paris, 1966, p. 136.

 Cfr. A. Mazahéri, La vie quotidienne des Musulmans au Moyen Age, Paris, 6a ed. 1951, p. 64.

 Cfr. V. Maher, Women and property in Morocco, Cambridge, 1974, p. 127. Sulla "clausura" delle donne si veda J. Minces, La femme voilée, Paris, 1990, in particolare pp. 66-77, con essenziali riferimenti bibliografici. Ampio spazio ha dedicato allo studio delle donne nell'Islàm la scrittrice e sociologa marocchina F. Mernissi, della quale ricordiamo soltanto Le harem politique, Paris, 1987, e Les sultanes oubliées, Paris, 1990.

 H. Edib, Memoirs, London, 1926, p. 72.

 Il passo è citato dalla edizione di Andrea Borruso, La mia vita, Genova, Marietti, con testo arabo a fronte, in due volumi, I, pp. 42-43.

 Cfr. E. Lévi-Provençal, Une héroïne de la résistance musulmane en Sicile au début du XIIIe siècle, in «Oriente Moderno», XXXIV, 1954, pp. 283-288. Il passo di una fonte araba relativa a questo episodio è stato tradotto da F. Gabrieli, nel volume di F. Gabrieli e U. Scerrato, Gli Arabi in Italia, Milano, 1979, p. 748.

 Cfr. A. Borruso, La vita sessuale nella letteratura araba, nel volume Arabeschi, Milano, Angeli, 2002.

 A questo argomento ha dedicato un interessante studio J. Vadet, L'esprit courtois en Orient dans les cinq premiers siècles de l'hégire, Paris, 1968.

 È l'opera del celebre letterato Abu'l-Farag al-Isfahani (m. nel 967), una vera miniera di notizie importanti per lo storico, il letterato, lo studioso delle tradizioni e del costume.

 Si veda al-Mar®y®, Cairo [1965], p. 160. Di NaT¬b MaΩf,˙, premio Nobel per la letteratura nel 1988, sono state tradotte in francese e quindi in italiano varie opere, per esempio Passage des miracles, Paris, 1970, Récits de notre quartier, Paris, 1988, Vicolo del mortaio, Milano, 1989.

 Cfr., per queste notizie, l'opera di W. Walther, Die Frau im Islam, Leipzig, 1980, pp. 160-175, passim.

 Il lettore interessato potrà rivolgersi, per questo argomento, al recente volume di R. Aluffi Beck-Peccoz, La modernizzazione del diritto di famiglia nei paesi arabi, Milano, 1990, con ampia bibliografia di scritti sia in arabo che in lingue europee.

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