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La didascalia di gabriele d'annunzio tra ritmo e immagine




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LA DIDASCALIA DI GABRIELE D'ANNUNZIO TRA RITMO E IMMAGINE



Senza dubbio è presente un sedimento dannunziano nella drammaturgia degli anni Venti - nel linguaggio metateatrale, nella frequente occorrenze della favola e del mito, nell'oltranzismo futurista e nello psicologismo pirandelliano

- come se il vate avesse in qualche modo preparato il terreno alla scrittura teatrale posteriore36. Di fatto, a cavallo tra i due secoli D'Annunzio è tra i pochi in Italia ad avvertire «l'esigenza di una nuova e diversa utilizzazione dello spazio scenico», concepito come una successione di quadri iconograficamente perfetti, e determinati «mediante un uso personalissimo della didascalia e di altri strumenti drammaturgici, scenografici e coreografici»37. Prima di Pirandello, D'Annunzio si oppone cioè alla reiterazione di un assetto scenico standardizzato, sovraccaricando i suoi scenari di dettagli e particolari allusivi; aprendo così un confronto diretto con la radicalità dell'offerta teatrale wagneriana e con la laboriosa costruzione psicologica del dramma simbolista, in seno al quale cominciavano a diffondersi le impronte maeterlinckiane o strindberghiane. In effetti, l'accuratezza con la quale Wagner percorre i quadri scenografici delle sue opere e la misteriosità dietro cui la didascalia di

Maeterlinck o di Strindberg lascia visualizzare, in trasparenza, un intreccio di percezioni e di sensazioni "atmosferiche", trovano una sintonia perfetta, pur da latitudini differenti, con il mondo spalancato dalla parola dannunziana38.

Il progetto di D'Annunzio mira all'onnicomprensività, raggiunta per forza di stimoli sensoriali (non solo visivi e sonori, ma anche, ineditamente, olfattivi e tattili); totalità che ripudia l'impolverata semplicità della pièce bien faite, il suo attenersi meccanico a forme scenografiche di repertorio e a una tipologia routinaria di messinscena. Fin dalle prime opere poetiche e massimamente nella progressione delle opere narrative e tragiche, si può rintracciare facilmente nell'opera del Vate un esteso sistema di correlazioni con l'universo iconografico; le fonti, ovvero i modelli figurativi, provengono dall'immaginario classico-mitologico, ritornato prepotentemente in auge nel milieu artistico di fine Ottocento, ove misero radice stilemi parnassiani; dall'inventario della classicità, dal quale preleva un ampio repertorio di pose, atteggiamenti e vocaboli mimici; da topoi biblici mediati dall'illustrazione rinascimentale. L'ibridazione e contaminazione di riferimenti iconici, inseriti nella redazione drammaturgica, se da una parte denuncia scopertamente i suoi debiti nei confronti della letterarietà, attitudine che lo attrae verso il virtuosismo stilistico e metrico, dall'altra si intreccia con un autentico e perfino

assillante interesse per i molteplici aspetti della messinscena39. Pertanto,

l'ipertrofia didascalica dannunziana non va soltanto riferita al surmenage psicofisico che si riscontra in ogni episodio della sua produzione, ma anche alla vocazione spettacolare dei suoi testi per la scena, densi di rimandi, metafore e visioni costantemente alla ricerca di un equilibrio plastico, cromatico, sonoro, dunque assolutamente teatrale.

Fluviali, estenuanti, meticolose, le didascalie di D'Annunzio sono

«frutto di pazienti ricerche d'archivio, di letture di antiche cronache, di trattati militari e di navigazione, di manuali di scienze e di archeologia, di testi di storia dell'arte e del costume, ma sono anche una testimonianza della cultura "vissuta" dell'autore nelle continue peregrinazioni in città, musei, templi e monumenti»40. La didascalia realizza una sinergia tra parola e immagine, tra lexis e opsis; come sintetizzò Silvio D'Amico, essa sembra scritta in modo tale da far nascere al momento della lettura «il senso che tutto sia squisitamente prestabilito»41.

Se Città morta (1901) e soprattutto Francesca da Rimini (1901) sono opere già complesse, per il numero dei personaggi impegnati in articolati movimenti di gruppo e per la precisione dei riferimenti e dei luoghi42, è con La figlia di Iorio (1904) e La Nave (1905) che la corposità delle didascalie dannunziane tocca probabilmente il suo livello apicale, pervadendo una scrittura attenta sia alla definizione dell'imponente macchina scenografica che

alla coreografia dell'azione43. Ma ancora con Fedra (1909), dramma musicale in tre atti su musiche di Ildebrando Pizzetti44, e con Martyre de Saint Sebastien (1911) su musiche di Debussy, coreografie di Fokine, allestimento scenico e costumistico di Leon Bakst, le esasperate pulsioni erotico-sentimentali trovano nelle indicazioni sceniche una virtuosistica prosa capace di disvelare «profumi, lucori, palpitazioni»45. Il sensuale lirismo sul quale D'Annunzio allinea la sua ricerca drammaturgica diventa qui struttura portante, senza per questo rinunciare alla precisa scienza delle proporzioni, dei decori e della linea

coreografica, meditata sulla base del rapporto con la compagnia dei Ballets Russes. Così, nella quarta mansione, la morte del Santo, come una flagrante raffigurazione di un rapimento estatico: «(È il rantolo della gola trafitta, l'ultimo sospiro, il supremo richiamo. La bella testa si piega sulle spalle nitida come il marmo cinzio strofinato di profumo: le alette d'un dardo vibrano ancora all'ascella. L'ammirabile colpo s'affloscia, stirando le braccia tenute

dai legami)»46.

Il Musikdrama dannunziano è un ampio disegno che cerca di trasmettere al lettore, non meno che al pubblico della rappresentazione teatrale, la sostanza affettiva dei personaggi, il loro respiro interiore, la loro consistenza iconico-performativa. Per tradurre in spettacolo il suo ideale di poesia, nel momento in cui è egli stesso a collaborare alla realizzazione dei suoi drammi, D'Annunzio concerta i suoi allestimenti muovendo dall'elementare quanto insopprimibile bisogno del vedere. Agli albori del secolo le 'prime' dannunziane, eventi d'eccezione per le scene italiane, capaci di conseguire anche risonanza internazionale, imprimono uno spiccato aggiornamento all'assettata e ormai infiacchita prassi spettacolare, ponendosi come traguardo

la ricostruzione storica e il vigore del mondo classico47. Aspirazioni a cui D'Annunzio dedica le sue massime energie, rinforzate anche dal sodalizio, umano e artistico, stretto con Eleonora Duse48.

Caso esemplare dell'ideale di "poema visibile" perseguito dal Vate è la stesura della tragedia "pastorale" La figlia di Iorio, che, pur in assenza della Duse, raggiunge i palcoscenici nel 1904. «Con un'insistenza degna di sottolineatura, nelle lettere di D'Annunzio a Michetti per l'allestimento della Figlia di Iorio il poeta chiede che la messinscena non snaturi i tratti favolosi,

da accadimento atemporale, impressi al testo drammatico»49, che l'azione

retroceda cioè in una temporalità labile, sospesa tra affidabile realtà storica e atmosfera leggendaria, quella delle narrazioni popolari o delle favole mitologiche. Tutto questo può avvenire solo evitando che vi siano mistificazioni "teatrali", del genere cioè di quelle che limitavano la messinscena «alle solite parapettate di tela o di carta, e l'arredamento al

"trovarobato" più convenzionale»50. Nelle memorie di Virgilio Talli compare

un'annotazione significativa in merito alla straordinaria messinscena, che documenta lo sforzo di documentazione compiuto dall'autore e confluito nelle didascalie, e lo sforzo, non meno impegnativo, di traslazione della materia poetica in materia visiva:



Fin dall'autunno, a novembre inoltrato, Michetti [.] si era accinto a preparare tutto quanto sarebbe occorso all'allestimento scenico del poema del suo fratello spirituale. Ma dopo una settimana di lavoro a tu per tu con le sole didascalie del testo, l'impegno si era rivelato di una vastità preoccupante. [.] Ferraguti [si tratta di Arnaldo Ferraguti, pittore verista e aiutante di Michetti] non si era fatto pregare e da Milano era corso a Francavilla; e per un mese maestro e allievo, armati del copione della tragedia, avevano camminato le terre d'Abruzzo [.] per requisire abiti antichi, tappeti rustici, arnesi pastorali, culle, zampogne, aratri, sacchi di cuoio, zucche, maioliche, mestoli, tutto un raro corredo adatto a stilizzare ambienti e creature51.



La straripante nomenclatura ospitata dalle didascalie dispone un'aggregazione di icone, raccogliendo materiali scenici eterocliti e incongrui in un seducente inventario di sostantivi non comuni, desueti o inediti, nel martellato allinearsi di hapax versificati. Questo disegno, all'apparenza esasperatamente mimetico, è tuttavia assai dissimile dalla matrice che in quegli anni distingueva l'attività di uomini di teatro come Antoine o Stanislavskij. Le indicazioni dannunziane avviano piuttosto un procedimento iperrealistico, nei suoi connotati di decostruzione del reale e di visione in profondità: gli elementi, sebbene prelevati con inappuntabile scrupolo filologico e per così dire iperconnotati, nondimeno si fanno emblema e schermo di una natura altra, nebulosa, trasognata, a-storica, in una parola: inventata.

Come arriva a sostenere Artioli, «la didascalia dannunziana quasi mai è ancorata a un valore soltanto letterale. Dotati di valenze simboliche, lo spazio, gli oggetti, i gesti, i costumi sono cifre di una vita nascosta che ha poco in comune con gli aspri calchi mimetici cui indulgeva Michetti»52. Forme di realismo che D'Annunzio reprime proprio scavando un solco tra l'oggettività radicale della ricostruzione verso cui la materia scenica si dirigeva e

l'ipocentro che sta in quelle indicazioni. Declinando a modo proprio la poetica

del paesaggio-stato d'animo penetrata nel dibattito estetico nazionale53, l'autore intesse legami di corrispondenza, relazioni osmotiche tra il "vero" e il "velo", tra l'osservazione filologica e la rappresentazione del «pensiero oscurato della Natura»54. «Maestro nell'uso degli spazi simbolici, D'Annunzio utilizza il materiale visivo per impaginare i suoi conflitti d'anima, le sue raffinate Psicomachie»55: così, se i personaggi somigliano talora a statue parlanti, simboli a una dimensione come le forme del mito56, in cui la voce è consonante all'armonia del corpo, gli oggetti mostrano una sorta di abbandono glossolalico, raccontando con la loro presenza la materia viva degli ambienti in cui sono posizionati come punti di fuga. In questo caso le ingiunzioni delle lavoratissime e saporose didascalie hanno valore iussivo, ancor più di quelle che presentano i personaggi, talora ellittiche e sbrigative57. Che si tratti di catene di metafore58 sostenute da un ritmo paratattico, di prolungate e bizantine ecfrasi59, sature di reminiscenze classiche60, di agitate e vigorose scene di massa immerse in uno spazio plastico-acustico61, o ancora di geometriche

scene costruite intorno a microcosmi affettivi62, la lingua delle didascalie mostra quasi sempre una significativa omogeneità di registro con quella delle parti dialogate. Il venir meno della frizione linguistica tra le componenti drammaturgiche contribuisce, talora in maniera compiaciuta, a comporre un tessuto testuale poetico - perché uniformemente trattato con i segni riconoscibili della lirica - ed epico - essendo direttamente e stilisticamente

riconducibile all'autore63.

Nell'insieme di sensazioni verbalizzate da D'Annunzio si può scorgere, come ha fatto Anna Barsotti, l'eco del rapporto artistico con la Duse, come se la ricchezza delle sue facoltà recitative si riversasse nelle indicazioni sceniche, e in queste si cristallizzasse64. La fisicità e la fisionomia dell'attrice incidono cioè nei frangenti mimici inclusi nei corsivi dell'autore, «nelle curvature, come negli scatti repentini, quel ricorrente disequilibrio del corpo, piegato in avanti, anche con il viso tra le ginocchia»65.

La pagina del Vate sa assorbire e riadattare pigmenti di ogni genere.

Recentemente Giovanni Isgrò ha sottolineato l'influenza del cinema nell'"orientamento registico" dannunziano66; la qualità "cinematografica" della scrittura dannunziana era peraltro già stata notata da Adriano Tilgher, e individuata proprio nelle didascalie, la cui importanza «cresce a mano a mano che dai primi si scende verso gli ultimi lavori, nei quali il dramma [.] sempre più cede il passo alla scenografia alla danza ai cori musicali ai quadri plastici, scultorei o pittorici, e aspira a risolversi in cinematografia»67.

In La Nave, di cui la casa Ambrosio di Torino produrrà una trasposizione filmica diretta dal figlio di D'Annunzio68, la scrittura didascalica raggiunge quella sapiente strutturazione dell'impianto narrativo che apparterrà ai primi kolossal, come i film di David Griffith o come Cabiria, il capolavoro di Giovanni Pastrone per il quale D'Annunzio scrisse le "didascalie", ovvero gli inserti scritturali intercalati per facilitare la comprensione della vicenda69. Giustamente Luciano Bottoni, a proposito della tragedia adriatica, scrive che

«le didascalie impongono lo scenario acustico-visivo con la perentorietà di una

sceneggiatura cinematografica attenta ai più minuti dettagli dell'azione come opsis erotica»70. Le didascalie che introducono i quattro episodi del poema drammatico, tutte aventi per incipit «Appare.», prevedono che l'occhio dello spettatore converga gradualmente verso i centri dell'azione e i luoghi ove si deposita il maggiore carico simbolico71. Quella, lunghissima, con la quale si apre il secondo episodio, pretende che la porta maggiore della basilica lasci vedere al suo interno le lampade decorate, i particolari della navata, la cattedra del Vescovo, il suo ricchissimo costume e finanche l'occhio torbido di questi, fisso nel vino da cerimonia. Un effetto di "zoom" che si dissolve nel "campo lungo" comprendente i commensali radunati al banchetto72.

Con tale ricerca del dettaglio, per sua natura anti-teatrale, avendo per esigenza tecnica primi e primissimi piani in grado di soddisfare didascalie che mettono a fuoco particolari anatomici, fisionomici e muscolari in lieve movimento, la logica della messinscena dannunziana tende a orientarsi «verso i meccanismi del teatro di posa, dove è possibile procedere a stacchi di

inquadratura, piuttosto che del teatro tout-court»73. Facendo della

luminotecnica «l'elemento portante di una fotografia in continua mutazione»74, che asseconda la variabilità psicologica e atmosferica delle situazioni, D'Annunzio adopera una scrittura che traspone il succedersi di impressioni con un andamento paragonabile ai movimenti di macchina scoperti dal cinema delle origini (peraltro molto vicino a un teatro di posa): carrellate, scorci, piani sequenza, oltre a tutti gli effetti, gli stacchi e le operazioni di montaggio75.

La visione cinematografica - intesa come mobilità del punto di vista, estensione della profondità di campo e animazione totale dello spazio scenico - è il fattore che avvicina il suo disegno progettuale a quello costantemente inseguito dai futuristi. Lo ammette implicitamente anche Marinetti quando afferma che «mentre nel 1° atto della Figlia di Jorio, i fatti si muovono sulla scena, ma con realismo troppo esteriore e, diremo così, cinematografico, nella mia sintesi Simultaneità io ottengo un dinamismo assoluto di tempo e di

spazio»76. L'inclinazione cinematografica che Marinetti è disposto a

riconoscere a D'Annunzio non è quella che porta a deformare la consequenzialità narrativa attraverso un montaggio non lineare, ma l'andamento di una visione panoramica e scorrente, e che ricorre nell'espressività dei personaggi a movimenti di studiata lentezza, gesti serpentini e scatti improvvisi, sorrisi immobili e pose sorvegliate.

Si tratta di una caratteristica che troviamo descritta in una serie di considerazioni di Sebastiano Arturo Luciani77:



Le più belle messe in iscena teatrali, diventano ben misera cosa di fronte ai prodigi del cinematografo. Non solo. Ma nel cinema il valore espressivo del particolare nel quadro scenico allarga e approfondisce singolarmente la funzione dell'elemento visivo.

Subendo l'influenza del nuovo genere di spettacolo, il teatro o meglio gli autori drammatici cercano di dare la massima importanza al particolare, fino al punto che una rappresentazione teatrale oggi può essere compromessa se manchi il più piccolo accessorio, e che non è possibile talvolta comprenderla se non si segue l'azione scenica con un binoccolo.

La riprova di questo fatto è nell'abuso delle didascalie, che spessissimo [.] finiscono con l'avere la stessa importanza del testo. La conseguenza è che il teatro non interessa tanto per le parole quanto per i gesti e i movimenti scenici, come il cinematografo; che si sposta cioè il centro di gravità dello spettacolo drammatico, che è nella parola78.



Al di là del tono complessivamente pessimistico, c'è un'osservazione particolarmente interessante, specialmente per quel riferimento al

«particolare», vale a dire il dettaglio decisivo per la comprensione, che la macchina da presa è in grado di individuare, zoomare e isolare nel montaggio, mentre a teatro deve essere necessariamente inserito e puntualizzato nelle indicazioni sceniche dell'autore.


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