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L' uomo giapponese e le sue tradizioni




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L' UOMO GIAPPONESE E LE SUE TRADIZIONI







Il labirinto dei nomi

Fino a non molti anni fa orientarsi nel labirinto dei nomi, che un giapponese può avere, era un' impresa quasi disperata. Ne furono elencati, addirittura, dodici tipi! Inoltre la questione è resa ancor più complicata dal fatto che i giapponesi possono cambiare abbastanza frequentemente nome: essi infatti hanno la possibilità di assumere, secondo gli avvenimenti, una nuova caratterizzazione e denominazione sociale, quando egli viene a far parte di nuovi gruppi. Anche in questo fenomeno è evidente che in Giappone viene data maggior importanza alla collettività, piuttosto che ai singoli individui. Un caso significativo è quello del matrimonio, per mezzo del quale i due contraenti vengono a creare un «gruppo» assolutamente nuovo rispetto a quelli ai quali appartenevano e hanno, quindi, per legge, la possibilità di scegliere una denominazione diversa: in pratica viene scelto il cognome del marito (per la riconosciuta importanza del capo famiglia o per naturali questioni di eredità), ma sono frequenti i casi in cui la coppia decide di adottare il cognome della famiglia della sposa o di altra famiglia, se esistono motivi per farlo. A parte i cambiamenti e i frequentissimi pseudonimi e soprannomi, i giapponesi hanno oggi due nomi come noi. I cognomi giapponesi hanno tutti dei significati abbastanza rintracciabili e nella maggior parte dei casi indicanti le origini agresti della razza: Tanaka significa «campo di riso», Nakamura «il villaggio dell' interno», Shimizu «acqua di sorgente», Kobayashi «piccolo bosco». I nomi personali sono di illuminata fantasia: ve ne sono di frequentissimi e di unici, perché creati, ad esempio, con ideogrammi che ricordano ai genitori qualcosa di personale come un luogo amato, un sentimento o una speranza. Anche per i nomi il significato è abbastanza rintracciabile, gentile per le ragazze, forte e virile per i ragazzi: Keiko «bambina felice», Kyoko «aurora», Satoko «bambina saggia», Fusako «bambina della spiga», Tetsuo «uomo di ferro», Hiroshi «ampio», Susumu «colui che avanza».


I primi anni di vita

Il Giappone è ricchissimo di bambini: di loro formicolano i templi, i giardini, le spiagge. Non sono solo tanti, ma anche belli: grassi e bruni, con le guance rosse e gli occhi vividi sotto le frangette ben tagliate. L' infanzia dei bambini giapponesi è libera e curata: nella famiglia essi godono di tutti i privilegi e, anche nelle case più povere, sono perloppiù ben nutriti e sorvegliati attentamente; per i primi anni, nella maggior parte dei casi, vengono portati sul dorso della madre, legati con solidi nastri di velluto scuro. Fino ai dieci anni sono quasi tutti prepotenti e vivaci: hanno diritto al posto a sedere in tram, vengono circondati di vezzeggiamenti e moine, subissati di giocattoli; poi tutto cambia: la disciplina si fa, quasi improvvisamente, severa e i ragazzi giapponesi ubbidiscono fino a quando, a loro volta, diventano padri. Il cambiamento è in sè giustificabile: i bambini sono considerati piccole cose indifese mentre nell' adolescente c' è già l' uomo che deve raggiungere e dare prova di meritarsi la sua maturità sociale e l' appartenenza al gruppo. Come tutti i bambini anche quelli giapponesi amano ascoltare le fiabe. Ma si tratta di racconti senza fate e invece popolatissimi di volpi maligne, tassi feroci, dispettosi gatti e folletti che vivono in un ambiente molto naturalistico. La più famosa fiaba è quella di Momotaro, il bimbo nato da un frutto di pesca (momo). Il racconto inizia bizzarramente con un' espressione che tutti i piccoli giapponesi conoscono: domburiko domburiko che significa «avanzando balzetton balzettoni».


Evoluzione e fascino della donna

Bisogna smettere di pensare alla donna giapponese sottomessa nella vita di famiglia e della società. Innanzitutto ella è realmente la regina della sua famiglia e della sua casa: nella maggior parte dei casi è l' amministratrice esclusiva delle entrate della famiglia. Il marito consegna generalmente alla moglie la maggior parte del suo stipendio e la donna gli evita preoccupazioni che riguardino l' andamento domestico. La donna giapponese non è solo un' amministratrice accorta, ma anche l' autorità più ascoltata nella scelta della moglie per il figlio e della carriera da far seguire ai suoi ragazzi. La legge giapponese contempla un' assoluta parità di diritti fra uomo e donna, sia per quanto riguarda il diritto matrimoniale (amministrazione del patrimonio familiare, ragioni di divorzio, ecc.) sia per quanto riguarda le carriere pubbliche: in Giappone vi sono state nel dopoguerra parecchie donne deputatesse, senatrici, giornaliste e scrittrici molto lette, architette di grido, attrici popolarissime, qualche donna diplomatico e ministro, parecchi sindaci e numerose sindacaliste. Ma la cosa che stupisce di più della donna giapponese moderna, è la sua capacità, pur lavorando in tutti i campi con fatica e responsabilità, di rimanere gentilissima, femminile ed aggraziata.




La cerimonia del tè e l' origami

Il cha-no-yu (o cerimoniale per la preparazione del tè) rientra ancor oggi nel bagaglio di educazione di una ragazza della buona società.

La cerimonia comincia con la preparazione della stanza da parte dell' ospite che la decora nel modo più raffinato e modesto: la teiera è un tetsubin (bricco di ferro battuto) con rilievi appena affioranti, le tazze, di ceramica grezza, sono fatte a mano, di colore pacato, di aspetto umile. Per prima cosa gli utensili per la cerimonia del tè, le tazze, i colini di bambù intrecciato, i cucchiai di liscio legno chiaro, vengono fatti passare tra gli ospiti che ammirano il loro aspetto disadorno e raffinato e lo commentano. Un cucchiaio di polvere odorosa e verdissima di tè macinato viene messo nella tazza, l' ospite vi versa dell' acqua calda e mescola con uno speciale arnese finchè la bevanda diventa schiumosa e omogenea; indi passa la tazza all' ospite di maggiore importanza che la porta alla fronte, la riabbasssa alle labbra, l' assaggia (il tè è amarissimo) e passa al vicino la scodellina rotandola leggermente. Così la tazza continua il suo giro. E' chiaro che non si tratta di una cerimonia gastronomica, ma di un modo delizioso di stare insieme in silenzio, cioè di stare da soli in compagnia. Significati così profondi e delicati non ha l' origami, che non è un' arte vera e propria, ma una tecnica, un passatempo di buon gusto. L' origami, che è la tecnica del piegare fogli di carta di diverso colore in figurazioni complicatissime di animali, fiori e oggetti, ha origini probabilmente religiose: deriverebbe infatti dalle cerimonie shintoiste, dove si usava come simbolo di purificazione una piccola figura di un uomo costruita in carta. Vi sono circa un centinaio di figure ottenibili con la tecnica dell' origami che è complicatissima anche perché non fa uso di forbici.


Le consuetudini alimentari

L' elemento più importante della tavola giapponese è il riso, il piccolo e gustosissimo riso locale, che si mangia bollito e quasi sempre senza condimento. Esso accompagna ogni vivanda, apre e chiude i pranzi e costituisce per molti il cibo principale o addirittura l' unico (la parola gohan indica infatti il riso bollito e significa anche "pasto"). I pasti del giapponese sono tre: al mattino, piuttosto presto dato che solitamente non ci si alza dopo le sette, la famiglia si riunisce: la padrona di casa distribuisce il fumante gohan, mangiato in fretta con l' aiuto delle bacchettine, pesce o uova e verdura. Alla sera i venditori di soba calda (specie di spaghetti), di patate e uova lessate, di castagne, cantilenando passano per le strade e le massaie giapponesi possono così evitare di preparare la cena. A mezzogiorno invece, ogni persona che lavora o studia non potrà far altro che consumare un frugalissimo bento, date le distanze immense che nelle enormi città giapponesi separano i quartieri degli affari e delle fabbriche da quelli residenziali. Il bento, una specie di cestino da viaggio, è una scatoletta di legno chiaro che contiene sempre riso, pesce e verdura spezzettati, e un paio di bacchettine o hashi, che è ancor oggi, nonostante forchette, cucchiai e coltelli siano usati nei pasti all' occidentale, la posata più diffusa e del resto perfettamente congeniale al cibo giapponese che non ha infatti bisogno di essere tagliato. I giapponesi servono prima gli uomini, lasciano nel piatto le vivande non gradite, si alzano, vanno e vengono durante un pranzo, e infine dimostrano con piccoli rutti la loro soddisfazione al padrone di casa. Raramente si hanno dei dialoghi, anche durante i banchetti, ma piuttosto dei monologhi, dal momento che ogni commensale a turno fa un discorsetto abbastanza lungo e, mentre gli altri continuano a mangiare in silenzio, spiega loro fatti personali ed episodi che raramente sembrano risvegliare l' interesse altrui. Si tratta in fondo di un modo di rompere quel muro di riservatezza al quale i giapponesi sono abituati fin dall' infanzia e che impedisce loro la comunicazione; essi inoltre non possiedono affatto il gusto della conversazione futile e fine a se stessa.




L'incontro tra due sposi e la cerimonia nuziale

In Giappone esiste una forma di matrimonio chiamata 'miai kekkon'. Miai significa incontro, kekkon matrimonio. Si tratta di una specie di matrimonio combinato: ci si sposa dopo essersi conosciuti attraverso incontri non fortuiti, ma preparati dalle famiglie. Quando i giovani giungono ad un' età adatta per il matrimonio, la madre e le amiche di famiglia compilano mentalmente una lista di possibili candidati/e , scelti tra le persone amiche. Se ne discute in famiglia e si ascoltano le opinioni dell' interessato/a. I familiari organizzano quindi qualche incontro tra i giovani, uno spettacolo al kabuki (una delle forme più popolari di teatro tradizionale giapponese), una cena in un ristorante di tempura (un piatto di frittura di pesce, importato dai portoghesi e diventato uno dei più popolari piatti giapponesi), un pranzo in un ristorante o anche uno spettacolo di sumo (la lotta), se è la stagione. In questi incontri non vi è nulla di forzato: i due giovani si intrattengono chiacchierando con disinvoltura di vari argomenti. Se non nasce una reciproca intesa, tutto finisce lì ed è praticamente da escludersi ogni pressione da parte delle famiglie. In caso contrario seguiranno altri incontri.

Il matrimonio è preceduto da uno scambio di doni: nei tempi antichi i due fidanzati si regalavano rotoli di stoffa, di bella seta per kimono, ventagli Ma i giovani di oggi vi hanno sostituito una somma di denaro che lo sposo offre alla sposa e questa poi gli restituisce in parte. La cerimonio di solito avviene in una casa o in una dimora affittata dallo sposo appositamente: i genitori della ragazza vi hanno mandato qualche giorno prima il cosiddetto tansu, una specie di cassettone in legno, generalmente fornito anche di uno sportelletto segreto e pieno di bei kimono e, oggi, anche di sottovesti e camicie di nailon. La sposa arriva seguita dai parenti in gran gala e solitamente è abbigliata con il tradizionale kimono. La cerimonia che si svolge nella casa è semplicissima: consiste, in sostanza, nel brindare per nove volte in piccole coppe di sake. Il matrimonio in Giappone è la semplice dichiarazione di voler vivere insieme. Questa volontà determina la registrazione civile ed il cambiamento, ma non sempre, del nome della moglie. Il divorzio è contemplato dalla legge giapponese ed è abbastanza frequente.


Le infinite varietà di «kimono»

A Tokyo, Osaka e nei centri più frequentati dagli stranieri, più della metà delle donne che si incontrano per strada è vestita alla moda occidentale.Tuttavia il kimono è ancora molto usato e solitamente ogni ragazza ne possiede almeno uno o due (non è infrequente in campagna incontrare delle donne che anche oggi non hanno mai portato l' abito occidentale). Vi sono mille tipi di kimono, dagli yukata di cotone leggero bianchi e blu con cintura (obi) arancione o rosa, ai kimono da passeggio, di seta delicata a fiori o a righe, a quelli da cerimonia più sontuosi, di seta pesante dai colori accostati con gusto e arditezza; rosa e rosso, verde e blu, giallo, grigio e oro. Parte integrante del kimono sono l' obi, le geta, gli zori e il haori. L' obi è una cintura alta e rigida che si allaccia con un grande nodo di varia foggia; alcuni obi sono di materiale preziosissimo e costano parecchie decine di migliaia di yen e, come veri e propri arazzi dal disegno raffinato, fungono da gioielli, tanto più che le donne giapponesi portano raramente collane, braccialetti e spille. Le geta sono invece zoccoli che vengono calzati sopra a delle specie di ghette bianche. Lo zori è un sandalo ortopedico, variazione elegante della geta. Una signora elegante non rinuncia mai al haori quando esce: è una specie di corto soprabito di seta o di lana che segue la linea del kimono. Solo lo yukata, leggero abito da indossare nei mesi estivi, è naturalmente portato senza haori. Il kimono non è una prerogativa femminile: ma gli uomini lo indossano generalmente solo in casa; per le vie si possono vedere vecchi signori che non vi hanno rinunciato. D' estate invece anche le strade della città sono affollate di giovanotti che indossano tradizionalissimi yukata: l' uso si è mantenuto per la praticità di quest' abito nel clima estivo, umido e soffocante.




Le celebrazioni del lutto

All' esterno delle case, oggi, la morte è annunciata da enormi corone di fiori di carta, per lo più bianche (un colore considerato triste tanto che è di cattivo gusto inviare fiori candidi a chi vive). Il funerale buddhista è il più diffuso; il sacerdote viene chiamato a leggere le scritture (Sutra) a fianco della salma, che viene poi deposta in una bara di piccole proporzioni. La moglie mette spesso vicino alla salma del suo caro una ciocca di capelli. Dopo la morte, trascorre almeno un giorno prima che si celebri il servizio funebre che è tenuto generalmente in un tempio o in una sala apposita. Generalmente il corpo viene cremato e le ceneri sono poste sotto una semplice pietra rettangolare sulla quale si scrivono alcune parole (brani di testi sacri, una poesia, un ricordo). Vi sono cimiteri di tutte le dimensioni: piccoli, raccolti in giardini fioriti di pruni, a fianco di case o templi; grandi, anzi sterminati, nei parchi delle città, sulle colline, o nei boschi. Tutti posseggono un' atmosfera poco funebre e risuonano di voci: bambini che giocano a rincorrersi, innamorati che passeggiano, vecchi che leggono il giornale. Più rari sono i funerali shintoisti; la bara è lunga e i religiosi sono parati di bianco, con la testa coperta da una specie di alto berretto di garza inamidata. Sopravvive ancora in Giappone un sistema di lutto abbastanza rigido: le prescrizioni riguardano i vestimenti, che devono essere chiari ed il cibo (abolita completamente la carne e consigliata la più assoluta frugalità). Vi è una festa dei morti che viene osservata in tutto il Giappone con enorme concorso del popolo: l' O-Bon, «la festa delle lanterne» in luglio: gli alberi dei boschi intorno ai templi sono illuminati da migliaia di lanterne di carta (chochin), le bancarelle splendono di lumi nella notte, il caldo estivo umido e soffocante ha consigliato a tutti un vestito leggero, l' allegro yukata di cotone a fiori blu, bianchi, rossi. La gente invade chiacchierando il recinto dei templi, giunge dinanzi al sacrario e batte in letizia le mani per invocare la divinità. I soliti personaggi delle sere di festa richiamano l' attenzione della folla: mercanti di bonsai, minuscoli vasi di porcellana, di grilli e semi (specie di cicale) in gabbiette di bambù, vecchietti con la barba alla cinese, appuntita, che leggono alla mano alla luce di un lanternino fioco, donnette che vendono pesci rossi in sacchette di plastica e certi campanellini che verranno appesi nella casa aperta nelle giornate estive in modo che possano tintinnare al vento anche più debole. La cerimonia raggiunge nel culmine della notte il suo splendore: mille, diecimila lanterne, formate a barchetta, col nome del defunto scritto in begli ideogrammi, vengono affidate alle acque di un fiume o di un lago e scivolano portate via dalla corrente fino a spegnersi lontano. Subentra una grande calma, una dolce tristezza, ma senza dramma: tutti tacciono o mormorano piano nel buio con gli occhi fissi alla propria lanterna. Ma il centro affascinante dell' O-Bon è il senso di aspettativa gioiosa dei morti che ritornano alle loro case: le porte di tutte le dimore sono spalancate, talvolta, in campagna, un fuoco brilla nel giardino a rischiarare la strada, la mensa è imbandita anche per i defunti, li si attende in letizia bevendo il sake (bevanda di riso) e giocando con i bambini, gli ultimi nati, i quali verranno idealmente presentati ai defunti. Così rivivono una tradizione ed una fede nella sopravvivenza degli spiriti e nei legami di sangue.


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