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Il teatro




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IL TEATRO


hLe sacre rappresentazioni



Dopo la decadenza del teatro latino, di cui l'ultimo importante esponente è Seneca con le tragedie, in tutti i secoli successivi non esiste una vera forma di teatro, ma prende corpo nel 1200 un tipo di componimento a carattere religioso detto lauda lirica e drammatica (dialogata) a due o più voci che viene cantata o raccontata o recitata in concomitanza con la celebrazione di un rito liturgico. Nel 1300 prendono una più precisa fisionomia teatrale le laude drammatiche, che costituiscono un sicuro precedente per lo sviluppo del teatro religioso del 1400 (sacre rappresentazioni).

Nel 1400 segue nella letteratura religiosa lo sviluppo della sacra rappresentazione che consiste nello svolgimento scenico della lauda dialogata, componimento di drammi sacri tratti da episodi della storia biblica, vita dei santi ecc. La sacra rappresentazione è uno degli esempi tipici della derivazione degli spettacoli delle cerimonie religiose, di cui si rinvengono tracce presso tutti i popoli. Questa è uno spettacolo primitivo e ingenuo allestito generalmente sul sagrato delle chiese o nelle piazze cittadine su un rudimentale palcoscenico non a scena unica e fissa come nel teatro latino, ma multipla dove si allineavano uno accanto all'altro i luoghi più vari che sarebbero stati teatro dell'azione. Come gli ambienti tra loro più lontani sono presenti e contigui sul palco così le vicende, qualunque sia il loro tempo ideale, si svolgono senza alcun intervallo tra l'annunciazione dell'argomento e la licenza pronunciate da un angelo.

Forse da questo primitivo spettacolo religioso avrebbe potuto derivare un originale teatro nostrano (gli umanisti, infatti, hanno tentato di laicizzarlo, in altre parole, di utilizzare lo schema scenico della sacra rappresentazione per la narrazione di argomenti mitologici, o profani o allegorici come nel Timone del Boiardo), ma nella 2° metà del 1400 subentrò l'imitazione del teatro classico e la sacra rappresentazione sopravvisse solo ai margini senza possibilità di sviluppo.

hIl teatro Cortigiano

Dalla sacra rappresentazione nella 2° metà del 1400 si passa al teatro cortigiano diffusosi in tutte le corti. Questo teatro è destinato ad una forma di spettacolo diversa dalla precedente perché non viene più allestito sui sagrati delle chiese o sulle piazze ma nelle corti dei principi, tuttavia utilizzando la stessa tecnica della sacra rappresentazione della compresenza dei vari luoghi e tempi, però viene messa in scena la materia profana, mitologica che ha per personaggi gli antichi e i loro dei, il tutto per un pubblico raffinato e scelto formato da una schiera di cortigiani e cittadini di riguardo. Lo spettacolo è allestito come uno dei momenti del ricevimento a corte perciò assai breve, appena un intermezzo tra il ricevimento e le danze, e realizzato dal principe in una sala del palazzo come documentazione esemplare del proprio prestigio. Le opere teatrali importanti di questo tipo sono l'Orfeo di Poliziano, preparato per una recita alla corte dei Gonzaga, e il Timone del Boiardo, rielaborazione in forma scenica di un dialogo dello scrittore greco Luciano, rappresentato alla corte di Ferrara

hIl dramma pastorale

Su questa linea di genere letterario vanno collocate anche opere del 1500 come il Tirsi di B. Castiglione e l'Egle di G. Girardi Cinzio. E' la stessa linea che poi porterà ad un nuovo genere teatrale che avrà il maggior sviluppo nella 2° metà de 1500: la tragicommedia o dramma pastorale che riprende gli argomenti della poesia bucolica della letteratura classica, il mondo cioè dei pastori e delle ninfe arricchito da situazioni psicologiche tipiche della tragedia. Nel clima della controriforma questo genere consente agli autori di evadere dalla faticosa realtà contemporanea e di rifugiarsi in un'atmosfera di musicali dolcezze e nella rappresentazione di un'età incontaminata di serena delizia. I rappresentanti più importanti del dramma pastorale sono G. Battista Guarini (1538-1612) con il Pastor Fido, e T. Tasso (1544-1595) con l'Aminta. Ambedue queste opere furono rappresentate alla corte di Ferrara e pur presentando caratteristiche diverse nella struttura generale, evidenziano l'adeguamento al moralismo della controriforma. Infatti, il pastore e la ninfa dopo vari peripezie si ricongiungono e il loro amore, che nella letteratura classica era normalmente libero, in queste due opere si conclude con il matrimonio.

hLa commedia classica

Fin dalla 2° metà del 1400, sulla scia della riscoperta dei testi classica, incomincia a rifiorire anche il genere della Commedia classica. Le opere degli autori greci e latini sono studiate in lingua originale per recuperarne interamente i valori. Dopo il 1429, anno in cui vengono ritrovate dall'umanista Nicola Cusano, dodici commedie di Plauto, sorge un grande interesse per questo genere: vengono rappresentate ovunque le commedie di Plauto e Terenzio, ne vengono scritte di nuove in latino restando entro esperienze ristrette dirette ad un pubblico di studenti universitari e di circoli umanistici.

hLa commedia volgare

Un grosso passo avanti si ha quando le commedie latine vengono rappresentate in traduzione volgare (in terzine) nell'ambito delle feste e degli spettacoli di corte soppiantando il teatro che abbiamo chiamato cortigiano.

Uno dei centri principali di produzione di testi tradotti, di rappresentazione degli stessi e di creazione di testi originali è la corte di Ferrara al tempo di Ercole 1à d'Este. Ben presto però entrano in gara anche le altre corti: Mantova, Milano, Urbino, Venezia e naturalmente Firenze e Roma.

I volgarizzamenti di testi plautini si inaugurano con i Manechini rappresentati a Ferrara nel 1488 e nei decenni successivi. Questo e altri volgarizzamenti sono importanti perché educano il gusto del pubblico e lo preparano ad accogliere i testi più complessi di Machiavelli e Ariosto.

Si vuole fissare la nascita della commedia volgare nel 1503 con il Formicone di Mantovano che ha però scarso interesse. La vera paternità spetta a Ludovico Ariosto che non è solo autore ma è anche regista e organizzatore degli spettacoli. Egli scrive e fa rappresentare la prima delle sue commedie, la Cassaria, nel 1508.

Seguono fino al 1529 le altre sue commedie: i Suppositi, il Negromante, la Lena, gli Studenti (completata dal fratello). Seguono altre commedie di perfetta qualità come la Calandria del cardinale Bibbiena del 1513, la Mandragola e la Clizia di Machiavelli del 1518 e 1525, la Cortigiana di Pietro Aretino del 1525, la Venexiana anonima e di carattere più spregiudicato rispetto a tutte le altre menzionate.

Con le commedie di Ariosto e la Clandria del Bibbiena si pongono le basi di una codificazione che, in varia misura per tutti gli autori, costituisce un punto di riferimento:

w Il modello è generalmente Plauto o Terenzio, preferito Plauto.

w Intrecci e tematiche di questi testi si basano sullo sconvolgimento temporaneo di un microcosmo familiare provocato da due passioni: l'amore e l'avidità di denaro. I personaggi rappresentano dei caratteri di solito contrapposti fra loro (avaro- prodigo, intelligente- sciocco) che vengono personificati da una serie di opposizioni fisiche (giovane- vecchio, uomo- donna), sociali (ricco- povero, servitore- padrone), di parentela (moglie- marito, padre- figlio). Si tratta degli stessi ingredienti della commedia latina alla quale si aggiungono gli elementi della novella (a partire da Boccaccio) che offriva intrecci, personaggi e materiale linguistico più vicini al pubblico del 1500.

w La riscoperta della Poetica aristotelica in periodo umanistico detta, come nel teatro greco e latino, le regole riguardo all'unità di tempo, di azione e di luogo che vengono seguite fedelmente anche se non rigidamente. L'unità di luogo impone l'utilizzo della scena fissa e unica con la presenza di un solo luogo teatro dell'azione. L'unità di tempo impone che l'azione si svolga nel giro di 24 ore (massimo 30). Anche l'azione principale è unica.

w Ogni commedia è composta, come la latina, da un prologo e cinque atti (Ariosto). Il prologo nella maggior parte dei casi non informa sulla commedia come in Plauto, ma serve come occasione di dibattito letterario come in Terenzio.

w Secondo i modelli latini vi è la presenza di tipi fissi, di personaggi topici: lo sciocco, l'amante che deve conquistare la sua donna, il vecchio babbeo ecc. A questi si aggiungono altri due tipi specifici del 1500: il pedante, personificazione comica dell'uomo di cultura sclerotizzato nelle sue citazioni latine (ripreso poi da Molière nelle sue commedie), e lo spaccone nel quale si possono cogliere allusioni agli spagnoli (soprattutto accentuate nella Commedia dell'Arte).

w La lingua utilizzata è il volgare o il dialetto (per la commedia dialettale Ruzante). La lingua è importante perché i diversi livelli linguistici utilizzati corrispondono alla stratificazione sociale dei personaggi. Dopo il 1550 si accentua il legame del personaggio con la sua caratteristica inflessione linguistica (il pedante = latino macheronico).Perciò nella commedia, c'è una miscela linguistica nella quale c'è posto per la lingua sociale a livello alto e spesso sublime per i personaggi d'elevata posizione sociale, per il parlato o il dialetto per i personaggi di basso livello sociale. Nel contempo la lingua è un espediente di comicità. La cristallizzazione di questo procedimento approderà alle maschere regionali dialettali della Commedia dell'arte. La lingua della commedia si muove quindi in una direzione di plurilinguismo e sperimentalismo, opposta alla codificazione fatta da Pietro Bembo.




Nella 2° metà del 1500 e nel 1600 la commedia mantiene i caratteri fondamentali assunti durante il maturo rinascimento: l'imitazione dei classici, apporto della novella di Boccaccio, viva aderenza alla realtà e alla vita comune del tempo, rispetto non sempre rigido delle regole aristoteliche.

Diretta ad un pubblico letterariamente più colto continua ad avere i suoi esemplari soprattutto in Toscana, però il valore letterario della commedia di questo periodo è modesto. Ricordiamo Michelangelo Buonarroti il Giovane per la ricchezza della lingua popolaresca cittadina e l'uso della parlata del contado fiorentino.

hLa Commedia alla spagnola

Nel corso del 1600 acquista grande diffusione anche la cosiddetta Commedia alla spagnola. Nell'ambito della situazione politica della nostra penisola si diffonde dalla Spagna la conoscenza di autori teatrali come Lope de Vega, Calderon della Barca, le cui opere attestano profondità di pensiero e conoscenza dell'animo umano della vita. Il dramma spagnolo sia di soggetto religioso, sia di argomento profano (di avventura e di coppa e spada) rivela grande libertà d'ispirazione e si distacca dalle norme classiche, si avvale dell'elemento fantastico e meraviglioso per indagare nella mente umana e mettere a fuoco problemi morali. Gli imitatori italiani del dramma spagnolo, mirando a soddisfare un pubblico avido di spettacoli insoliti e meravigliosi secondo il gusto barocco non colgono i valori più veri, cioè l'assenza concettuale, sentimentale delle opere originarie ma ne derivano azioni sceniche nelle quali danno rilievo solamente agli intrighi romanzeschi e avventurosi.

hLa Commedia dell'Arte

Il teatro di cui abbiamo parlato finora appartiene alla sfera letteraria. Già dalla 2° metà del 1500 abbiamo un'altra produzione teatrale, che sorge al di fuori del mondo letterario, che punta sul teatro come spettacolo e non come testo letterario, che valorizza non l'autore ma l'attore e che avrà un grandissimo consenso di pubblico (perché non proponeva profondità di pensieri e sentimenti ma sola occasione di divertimento): La Commedia dell'Arte. Essa ha origine quando si formano le prime compagnie fisse di comici professionisti (la prima è del 1545 a Padova) che sono al tempo stesso attori e musici, mimi e acrobati, e quando sorgono i primi teatri stabili. L'attività di queste compagnie sarà fiorente fino ai tempi del Goldoni.

Il processo di formazione della commedia dell'arte è molto discusso dagli studiosi, pare comunque che la maggior parte sia concorde nel sostenere che gli attori del teatro non letterario (non scritto) utilizzassero gli intrecci, i personaggi e le diverse inflessioni linguistiche presenti nella commedia del 1500: i furbi, gli sciocchi, il vecchio, il babbeo ecc., lo scambio di persona e l'agnizione. Questi intrecci e personaggi vengono via via cristallizzati i "tipi fissi" (in "maschere fisse") di cui sono scontate e prevedibili le vicende e la cui identificazione risulta sempre più facile agli spettatori per la ripetitività del linguaggio, del costume, dei gesti nelle varie commedie (es. Pantalone è il vecchio mercante veneziano, capofamiglia danaroso ma avaro, caratterizzato dal costume rosso e nero e dal ricorso dialetto veneziano). In tutte le commedie i personaggi hanno le stesse caratteristiche, sono dei "tipi", delle "maschere fisse"; questa fissità della maschera determina innanzitutto la chiusura da ogni sviluppo psicologico ed inoltre comporta la fissità del ruolo dell'attore che per tutta la sua carriera interpreterà sempre la stessa maschera. L'attore perde anche agli occhi dello spettatore la sua vera identità, le sue connotazioni analogiche: basti ricordare il ruolo di Charlot interpretato da Charlie Chaplin in cui la maschera ha sopraffatto l'attore.

Alcune tra le maschere della commedia dell'arte, note ancora oggi, hanno origine regionale, rappresentano cioè i caratteri considerati più caratteristici degli abitanti di una determinata regione di cui parlano anche il dialetto (Pantalone -veneto, Balanzone- bolognese ecc.)

Il termine "Arte" significa "mestiere", ad indicare il carattere non dilettantesco ma professionale delle varie compagnie teatrali. Infatti, la recitazione degli attori si fonda soprattutto sulla capacità di improvvisazione. Infatti, la caratteristica peculiare della commedia dell'arte è la mancanza di un testo scritto; gli attori seguono un canovaccio o scenario opera del capocomico, nel quale sono annotati semplicemente gli sviluppi dell'azione e al massimo la successione delle scene. Entro lo schema impostato dal canovaccio ciascun attore inserisce la propria inventiva sia improvvisando, sia attingendo ad un patrimonio di dialoghi, di sonetti ("chiusette" per concludere un dialogo), di Tirate cioè soliloqui di un personaggio, concetti che venivano tramandati da una generazione all'altra di comici e che l'attore utilizzava, come dei prefabbricati nel punto giusto, a comporre la commedia.

L'azione resa vivace da canti, danze, duelli, cadute e bastonature, veniva arricchita anche da "lassi" una sorta di gaf, compromesso tra la barzelletta e la scena comica. A tutto ciò si aggiunge poi la componente mimico-acrobatica, di derivazione giullaresca.

La fama dei comici dell'arte fu vastissima in tutta Europa, ebbe grande successo in Spagna e in Francia dove, dal 1653 al 1697, una compagnia italiana recitò stabilmente al Palais Royal, alternandosi con quella di Molière.


Approfondimenti:

hIl teatro greco

Tutte le notizie che si hanno sull'origine del teatro greco vengono tratte dai resti archeologici, dalla pittura vascolare e dalle fonti scritte dagli scrittori del tempo. Si pensa che il teatro greco abbia avuto origine dalle feste religiose in onore del dio Dioniso. Dal VI secolo a.C., epoca a cui si fa risalire l'origine del teatro fino all'epoca ellenistica (III-I sec. a.C.) il teatro è connesso al culto di Dioniso. Durante queste feste, che si svolgevano in primavera, gli abitanti di Atene formavano delle processioni che facevano terminare con un sacrificio, davanti all'altare del santuario della divinità e durante le quali eseguivano canti ditirambici. Pare che il ditirambo si sia trasformato poi in tragedia, contenendo in sé tutti gli elementi essenziali di essa, come la poesia il canto e la danza, e che questa trasformazione sia avvenuta ad opera di Tespi.

Durante le Dionisie cittadine o Grandi Dionisie si faceva un concorso tra le varie tribù dell'Attica per stabilire quale fosse il miglior cantico ditirambico e un concorso tra i poeti Greci con in palio tre premi da assegnare: al miglior corega, al miglior poeta e al miglior attore. Oltre alla tragedia, più tardi verso il 501 a.C., si introduce nelle gare il dramma satiresco e solo nel V secolo a.C. la commedia.

È ancora sconosciuta ad oggi l'origine della commedia. Secondo Aristotele deriva da komos, villaggio, e potrebbe voler dire canto del capro. Si ipotizza che fosse una sorta di rito propiziatorio che nei villaggi si usava in determinati periodi dell'anno. In queste feste, a scopo satirico, si usava portare il fallo e si usava provocare gli altri con battute di carattere piccante per esorcizzare l'impotenza ed altre situazioni sgradevoli legate al sesso o comunque ad argomenti bassi. Gli autori Greci di tragedie del VI sec. a.C. sono: Tespi, Cherilo, Pratina e Frinico. Di essi non conosciamo alcun dramma.

Si desume dalle poche fonti che i drammi, di argomento più mitologico che storico, fossero interpretati da un solo attore, il quale usava le maschere per cambiarsi di ruolo. Gli autori Greci di tragedie del V sec. a.C. sono: Eschilo, Sofocle ed Euripide. Gli autori Greci di commedie dal VI al V secolo a.C. sono:

Epicarmo

Chionide

Magnete

Ecfantide

Cratino

Cratete

Eupoli



Aristofane

hOrigine, struttura e funzione del teatro in grecia

Per i greci non solo il teatro è uno spettacolo, ma un vero e proprio rito collettivo, con funzione persino di purificazione. Infatti, secondo Aristotele, tutte le forme di teatro, ma prevalentemente la tragedia avevano una funzione catartica in quanto servivano a rappresentare l'inconscio umano. Si arrivo addirittura all'istituzione del theoricon, sussidio messo a disposizione dei meno abbienti al fine di accedere al teatro. A detta della Poetica di Aristotele, pare che la tragedia (da tragos cioè capro, l'animale che simboleggia Dioniso) tragga la propria origine dai cori ditirambici fatti in onore di Dioniso, che da spontanei assunsero via via forma letteraria di cantici da cerimonia, cantati dagli adepti sotto la direzione di un capo. Il teatro presentava sempre un altare a lui dedicato, e generalmente era collocato su una collina fuori dalla polis, al fine di migliorare l'acustica.

Si attribuisce a Tespi (uno dei primi autori drammatici del VI secolo a.C.) la trasformazione del capocoro in attore che cominciò a pronunciare parole di contenuto non più legato al mito di Dioniso, alle quali rispondeva il canto del coro, che costituì poi il nucleo centrale del dramma. Nell'antico teatro greco il coro era composto dal canto e dalla danza, accompagnati dalla musica, ed aveva la funzione del narratore interrompendo l'azione per commentarla e spiegarla. Si assiste allo spettacolo seduti sui gradoni (cavea) che circondano la scena. L'edificio, all'aperto ed a forma di semicerchio, consta, infatti, di tre parti: la Cavea ossia il luogo in cui si vede, la Scena, dove si recita ed, infine, l'orchestra cioè il luogo deputato per le danze (da orcheomai che vuol dire ballare).

Le notizie riguardo le scene e le macchine, utilizzate ne l teatro greco sono fornite da Aristotele, Polluce (sofista e grammatico greco del II sec. d.C.) e Vitruvio (trattatista latino). La scena greca si avvaleva delle tre porte della skené, una grande al centro per l'ingresso dell'attore principale, quella di destra per il secondo attore e quella a sinistra doveva rappresentare una prigione, un deserto o un tempio in rovina. C'erano numerose macchine teatrali che servivano a creare la scena e gli effetti speciali.

Per la scena c'erano dei prismi triangolari dipinti su ogni lato, girevoli, sistemati alle due entrate laterali. Per gli effetti c'erano le macchine per produrre suoni e fulmini, botole da cui spettri e spiriti facevano la loro apparizione, torri, piattaforme basse su rotelle, una carrucola con un gancio che serviva a sollevare e abbassare le divinità, gru per portare via in fretta i cadaveri, anche se nell'epoca più antica non potendosi mostrare le scene di violenza, esse venivano introdotte o raccontate da un messaggero.

A questo proposito, possiamo dire con tranquillità che la struttura del teatro greco è un esempio insuperato di acustica: anche nelle gradinate più lontane è possibile ascoltare i dialoghi come si fosse ad un palmo dal parlante. In grecia prese maggiormente piede la tragedia, mentre a Roma ebbe sorte migliora la commedia. Gli attori della tragedia avevano una lunga tunica e delle scarpe che li rendevano decisamente più alti; inoltre avevano delle maschere di legno, che esaltavano le caratteristiche dei personaggi stereotipati.

hGli abiti e le Maschere

Gli attori della commedia si presentavano con tunica corta e calzari bassi.Gli abiti convenzionali degli attori Greci erano una tunica lunga dal collo fino alle caviglie, con le maniche lunghe fino alle mani, ornata da vivacissimi disegni colorati e figure simboliche, i colori dovevano servire a esprimere lo stato d'animo di un personaggio. Oltre la tunica gli attori indossavano un mantello. Naturalmente il re portava una corona, i vecchi si appoggiavano a un bastone e così via altri accessori per caratterizzare i personaggi.

Le calzature, di nome coturni, avevano un'alta suola di legno, spesso dipinta con colori simbolici, esse servivano a elevare l'attore per renderlo più visibile agli spettatori più lontani. Contribuivano a ergere l'attore anche gli onkos, delle parrucche molto alte. Riguardo le maschere abbiamo notizie da Polluce (sofista e grammatico greco del II sec. d.C.). Da lui si evince che le maschere usate dagli attori Greci fossero molte, fatte di stoffa gessata, corredate da parrucche, esse avevano la capacità di amplificare la voce come fossero dei microfoni. Naturalmente la maschera serviva a caratterizzare il personaggio, quindi era fatta in modo tale da indicare l'età, il ceto di appartenenza, lo stato d'animo e il carattere di un personaggio.

hIl teatro rinascimentale e barocco ('500-'700)

Col Rinascimento italiano si afferma, sia contro il teatro più o meno ingenuamente religioso sia contro quello goffamente buffonesco, il teatro erudito. Nato dallo studio dei classici greci e latini che tra la fine del sec. XV e il principio del XVI, a Roma, Firenze e altrove furono riportati su scene improvvisate, davanti a un pubblico raffinato, talvolta addirittura nel testo, ma assai più spesso tradotti il teatro del Rinascimento foggia le sue tre forme tipiche: il dramma pastorale, creazione italiana che fra i secoli XVI e XVII invade molti paesi europei; la commedia umanistica, che trasmette all'Europa l'eredità comica dei Greci e dei Latini; e, assai più frigida e meno imitata, la tragedia, ricalcata su Euripide e specie su Seneca. Il teatro diviene, allora, divertimento di signori e di principi, di cardinali e addirittura di papi (Leone X); insomma, senza escludere il gran pubblico, è per eccellenza fenomeno di corte. Dapprima i suoi interpreti sono gentiluomini, accademici, studenti; eccezionale è un caso come quello del cardinale Ippolito d'Este, che fa recitare a Roma dai suoi domestici, cuochi e stallieri, una commedia del Molza e del Tolomei, del reato con tale afflusso di pubblico che si deve trattenerlo con le guardie. A ogni modo si tratta sempre di attori dilettanti; e gli spettacoli del genere sono promossi non da impresari, ma da mecenati o da enti culturali, come accademie e simili. Ma già nella prima metà del sec. XVI s'è rivelato il fenomeno nuovo, l'apparizione degli attori professionali, detti perciò comici a dell'arte. Da molti storici si è parlato di costoro come di genialissimi ma rozzi improvvisatori, emersi dalla farsa plebea; in realtà, essi o almeno i più famosi, quelli cioè che già nella seconda metà del secolo avevano avuto enorme successo in quasi tutti i paesi d'Europa erano metodicamente esperti nell'arte loro (in cui dovevano avere gran parte le doti mimiche, acrobatiche, coreografiche, musicali, ecc., dato che recitavano davanti a spettatori la massima parte dei quali non ne intendeva la lingua). Interpreti acclamati di opere regolari (Aminta e Pastor Fido furono per la prima volta recitati da loro), essi conseguirono però la massima fama, come si sa, nella cosiddetta commedia improvvisa, dove i personaggi erano stilizzati in altrettanti tipi fissi, o maschere. Ma queste non erano se non la trasformazione dei caratteri della commedia classica; alla quale erano di regola attinti anche i loro 'scenari', o intrecci. Si aggiunga che i più famosi comici dell'arte erano quasi tutti colti e letterati (al punto che recentemente il Pirandello, in uno scritto polemico, ha voluto addirittura considerarli come autori che facevano anche gli attori); e si comprenderà come e perché, pur non avendo creato opere di poesia in quanto rinunciarono a scrivere, essi adempirono tuttavia al compito di trasmettere dall'Italia a tutta l'Europa, oltre i principi dell'arte dell'attore moderno, le formule e i modi dell'eterna sostanza comica ereditata dalle letterature classiche (Roma, Magna Grecia, Grecia). Interessante è poi la commedia dell'arte anche come documento sociale e morale, in quanto la sua abituale sconcezza, che sollazzava principi, re e regine, può dare un'idea del costume dell'alta società nei secoli XVI, XVII e XVIII. Questo, e la vita nomade e irregolare dei comici - fra cui non mancarono gli scapestrati e i delinquenti, mentre per la prima volta, dopo la millenaria parentesi medievale, riapparvero in scena le donne - provocò contro la professione dell'attore i rigori della Chiesa, con censure e scomuniche la cui applicazione variò di paese in paese, ma che più o meno durarono sino e oltre la fine del sec. XVIII. Gli attori, sia italiani sia quelli che sul loro esempio si erano educati negli altri paesi, si difesero riparandosi dietro lo scopo morale o religioso o benefico (in Spagna, ottennero la protezione della Chiesa col dare una parte degli introiti ai poveri e si malati), e ricorrendo alla protezione dei sovrani. Questi dal canto loro, sia cattolici sia (ma più di rado) protestanti, accordarono spesso (non sempre; ci furono periodi di severità, e anche di persecuzione) la loro protezione al teatro. Ma, in cambio, ne regolarono la vita e l'organizzazione con leggi e privilegi che, concessi a qualche compagnia, si tradussero in ferree restrizioni per le altre, e spesso in un vero e proprio regime di monopolio: altrove si è esposto come i re di Francia e d'Inghilterra abbiano disciplinato questa materia delle licenze per recitare concesse a un dato numero di teatri e di compagnie e non più, e delle sovvenzioni ad essi accordate. Intanto, nel nuovo tipo di teatro a palchetti che gli architetti italiani hanno creato dopo la nascita di un nuovo spettacolo genuinamente italiano, il melodramma, si rispecchia lo spirito d'una società gerarchica e fastosa, che anche a teatro vuole la separazione delle classi: i principi e gli ottimati ai posti d'onore, i gaudenti nei palchi dove si fa conversazione, si amoreggia, e all'occorrenza si mangia e ai beve, e infine gli umili (quando ci sono) negli infimi posti. La sala illuminata (malgrado le raccomandazioni in contrario di qualche scenografo) non meno sfarzosamente del palcoscenico, e popolata, specie nelle grandi rappresentazioni liriche e coreografiche, da un pubblico in costumi fulgidissimi, è già uno spettacolo essa stessa. Sovente le stampe dell'epoca, fatte per documentare lo splendore d'una messinscena, si danno cura di riprodurre anche il teatro e gli spettatori. Più lentamente tutto ciò si diffonde negli altri paesi, dove ancora in parte del sec. XVII il teatro rimase spesso affidato ad artisti girovaghi e avventurieri, se non lestofanti e ladri: chi voglia farai un'idea di ciò che fossero, per esempio, gli artisti spagnoli, via via accampati nelle piazze e nei cortili dove recitavano davanti a folle di spettatori che lanciavano frutta e sassi, legga il Viaje entratenido del De Rojas; o, per i francesi, il Rosnan comique di Scarron; o le descrizioni del pubblico incredibilmente eterogeneo che frequentava gli spettacoli drammatici dell'età elisabettiana. Con un pubblico di tal genere furono alle prese Lope de Vega e Calderòn, Shakespeare e Molière. Ed è solo fra il Sei e il Settecento che, sotto l'impulso italiano, ai corrales di Madrid, ai teatri di tipo popolare come il Globe shakespeariano, e a quelli misti come l'Hôtel de Bourgogne di Parigi dove il pubblico grosso stava in piedi nel parterre e i signori nella galleria o addirittura in poltrona suul proscenio, si sostituiscono via via i nuovi e belli teatri all'italiana. Ciò, s'intende, non impedisce la insistente sopravvivenza degli spettacoli plebei, più o meno irregolari; a Parigi i théatres de la Foire, e in tutte le metropoli, e in provincia, guitti e saltimbanchi, sempre cari al popolino e spesso anche alla piccola borghesia, continuano come possono il loro mestiere. D'altra parte, in periodo di Controriforma, quando più si acuisce la guerra che alcune chiese protestanti e, anche per reazione, la cattolica, fanno al teatro (comprese le degenerate rappresentazioni religiose: contro le recite del famoso mistero del Vieux Testametzt in Francia, riboccante di indecenze, dové intervenire il parlamento), si delinea il fenomeno del teatro edificante che si rifugia nei collegi. La tradizione si può far risalire a Rosvita; ma le sue origini prossime sono italiane (le laudi del Savonarola nel chiostro di San Marco, l'oratorio di San Filippo a Roma). Essa è coltivata specialmente dai gesuiti e, sul loro esempio, dagli altri ordini religiosi che si dedicano all'insegnamento, maschile e femminile. Eccezionalmente, produce anche opere di gran classe, come l'Esther e l'Athalie, scritte da Racine per le educande di Saint Cyr. Ma in genere i trionfi del teatro gesuitico riguardano soprattutto la messinscena, che specie in Francia, e più ancora in Germania e in Austria, raggiunge grandi splendori. La moda dei teatrini di corte, o addirittura di salotto, si diffonde pure nell'alta società del Settecento. E si può dire che solo a questo tipo appartiene, dalla metà del sec. XVII a tutto il XVIII, il nascente teatro russo; dove Pietro il Grande accoglie però anche il pubblico estraneo, e a cui Caterina Il dà nuovo impulso. Come si vede, a veri e propri spettacoli d'arte la folla è tuttavia ammessa solo in parte, e nelle massime città: l'autentica arte drammatica è, salvo rari periodi, inaccessibile alla maggioranza della popolazione. Le battaglie letterarie di un Corneille e d'un Racine, le lotte di più vasta portata sostenute da un Molière, o, in Italia, quelle di un Goldoni, che pure sono seguite da un certo pubblico borghese nelle città dove si svolgono, interessano soprattutto un élite; le gazzette le descrivono e le commentano, ma ilcerchio degli spettatori è sempre ristretto. Quanto agli attori, il contegno della società a loro riguardo è incerto e contraddittorio. Sospetti all'autorità civile, e respinti, come si è detto, dalla Chiesa, che almeno in certi paesi li considera viventi in peccato e non li ammette ai sacramenti neanche in punto di morte se non rinnegano l'arte loro, spesso però sono idolatrati dal pubblico, e divengono familiari agli Stessi sovrani. Per citare solo gli esempi più noti, si ricorderanno i re di Francia che proteggono e ammettono alla loro intimità alcuni famosi comici italiani dell'arte, e particolarmente Luigi XIV, regalmente benevolo verso l'attore-autore Molière; sebbene l'Accademia creata dal cardinale di Richelieu rifiuti d'ammettere nel suo seno, appunto perché esercita un mestiere 'infame', l'autore de L'Avare, e alla sua morte pressoché improvvisa il parroco stenti a concedergli i funerali religiosi, che hanno luogo solo per l'intervento, sollecitato dalla corte, dell'arcivescovo di Parigi, e in forma pressoché clan- destina, senza nessuna pompa. Incidenti analoghi si verificano, del resto, anche in morte d'altri attori, e specialmente attrici, celebri. Difatti, se taluna di queste è celebrata per le sue virtù non solo d'artista ma di donna - come nel 1604 Isabella Andreini, Cantata dal Tasso, dal Marino, dal Chiabrera, e da altri poeti italiani e francesi - la più parte menano vita dissoluta, e il loro nome ai mescola agli scandali del tempo: dalla Duparc, l'amica di Racine, morta in circostanze tragiche, per le quali caddero sospetti fin sull'insigne poeta, alla Lecouvreur, la cui esistenza avventurosa e morte pietosa hanno poi dato origine, come ai sa, a racconti e melodrammi romanticheggianti. Ma accade pure che l'arte giunga a redimere qualche grande attore, almeno agli occhi della società intellettuale, dai pudori o dai pregiudizi del secolo. Nel sec. XVIII, Garrick diverrà l'idolo del più eletto mondo britannico, al punto che non ai esiterà a seppellirlo nell'abbazia di Westminster, accanto a Shakespeare (che pure era Stato attore di mestiere); onore poi concesso a un altro autore-attore, Sheridan, malgrado gli stravizi che avevano inquinato la sua esistenza e addirittura, si dice, causato la sua morte.Chi riporta il gran pubblico a teatro, anche con l'idea di tornare agli esempi delle democrazie classiche, è la rivoluzione francese. Essa vuol fare il teatro non più per le élites, ma per il popolo; proclama di voler trasformarlo, da scuola di corruzione a uso delle classi gaudenti e corrotte, a scuola di virtù. I teatri di Parigi diventano, allora, una specie di succursale dei comitati rivoluzionari; quel che vi ai rappresenta, è di gusto assai discutibile; gli autori, incerti fra gli ideali delle decantate virtù greco-romane (che li riportano alla tragedia classicista e alla sua morale), e le proclamate libertà nuove (talché si provano in una quantità di lavori di propaganda, fra i quali non uno e rimasto nella storia dell'arte), invitano gli spettatori alla discussione, alla disputa, al tumulto; gli spettacoli si svolgono tra roventi entusiasmi, e incidenti clamorosi. Al tempo del consolato e poi dell'impero, Napoleone amico personale del grandissimo Talma, che dopo la sua caduta lo ripagò con notevole ingratitudine - si fa protettore del teatro, promovendone l'incremento, e disciplinandone l'attività pratica, con leggi insieme amorose e severe. L'ultima è, come si sa, quella per la riforma della Comédie-Francaise, a tutt'oggi il più antico teatro d'Europa, che vanta le sue origini dalla troupe di Molière sussidiata dalla cassetta privata di Luigi XIV, e che Napoleone riorganizza col famoso 'decreto di Mosca', firmato nel momento più critico della sua vita, dalla reggia degli zar da lui occupata. Sennonché il rinnovamento del teatro, non solo francese ma europeo, si deve al Romanticismo. Per esso il dramma vuol diventare l'agitatore dei grandi problemi proposti dagli spiriti più vigili all'anima delle folle. Da esso muoverà il teatro dell'Ottocento, la cui caratteristica essenziale sarà appunto il suo profondo desiderio di creare una nuova morale, e di esercitare una profonda influenza sociale. I primi bandi e squilli in questo senso erano partiti dalla seconda metà del sec. XVIII, in Italia grazie all'Alfieri, in Francia grazie al Diderot, e soprattutto in Germania grazie al Lessing, e al movimento intitolato dal famoso dramma del Klinger, Sturm und Drang: le speranze in una nuova e libera umanità, la vita giustificata in sé, l'ansia d'una perpetua ricercca proposta non più come mezzo ma come fine, il culto dell'io, della sensibilità e della passionalità, il ripudio delle vecchie regole così etiche come estetiche, il ritorno al senso della natura e dell'infinito, l'adorazione per Shakespeare campione di tutte le virtù, l'attesa d'una grande arte nuova e d'un grande teatro tedesco e universale che ne sia la suprema espressione, sono via via i sogni del Herder, del cenacolo degli Schlegel, e dello stesso Goethe che, particolarmente riguardo al teatro, ne fa oggetto del suo Wilhelm Metster, e consacra gran parte della vita all'attività non solo di drammaturgo ma anche di direttore di teatro, istruttore d'attori e regista. L'influenza del teatro nella Germania di quell'epoca è, effettivamente, immensa. Schiller è salutato non solo poeta drammatico, ma maestro di vita; dopo il trionfo dei suoi Masnadieri, giovani della buona società abbandonano il tetto familiare per farsi banditi.In Francia il teatro romantico, specie per opera di colui che ne vien ritenuto il profeta, Victor Hugo, non tanto s'effonde nei fremiti della fede tra melanconica e vagamente religiosa dei romantici tedeschi, quanto si fa accusatore del passato monarchico e cattolico, e propagandista d'un ottimismo laico, demagogico e umanitario. Certo non entrano in queste formule il breve teatro del Vigny, ch'è intimamente aristocratico, né quello più dovizioso del Musset, che però dopo un infelice esordio scenico rimane per lunghi de- cenni estraneo alla ribalta e confinato nel libro. Ma, dalla prima dell'Hernani in poi, le grandi battaglie teatrali, con polemiche e zuffe fra gli spettatori, si combattono intorno ai drammi di Hugo (sebbene il poeta non abbia certo dato in essi i frutti migliori del suo ingegno). Né vogliono esser battaglie soltanto estetiche; ma concretare in qualche modo un aspetto della lotta fra tradizione e rivoluzione, reazione e libertà. Caratteri più bonari ebbe il romanticismo inglese, fatta eccezione per gli atteggiamenti fra satanici e immoralisti del Byron, il cui teatro del resto fu un fenomeno soprattutto letterario. In Italia il teatro romantico - che diede i suoi massimi fiori nei due capolavori essenzialmente mancati, ma ricchi di particolari stupendi, d'Alessandro Manzoni - presto dai cauti accenti religiosi, di carità e giustizia cristiana, passò a quelli nazionali. Le sale degli spettacoli italiani ospitarono, travestiti e compressi, gli inni alle idee del Risorgimento; successo in gran parte politico fu quello della Francesca del Pellico; interamente politico quello delle tragedie del Niccolini; patrioti gli autori, gli attori, le attrici, tanto che alla più grande fra essi, la Ristori, il Cavour si rivolgeva come ad 'ambasciatrice d'Italia'.



hGoldoni e la riforma della commedia

Quando Goldoni intraprese la sua attività di scrittore per il teatro, la scena comica era dominata dalla 'Commedia dell'arte', in cui gli attori improvvisavano le battute senza seguire un testo scritto solo sulla base del canovaccio, una sorta di scaletta che indicava le azioni della commedia. Goldoni, come esso afferma in alcune opere di carattere teorico, (Il teatro comico e Memories) si mostrava molto critico verso la commedia dell'arte; i motivi de suo rifiuto erano: la volgarità in cui era caduta la comicità, la rigidezza stereotipata a cui si erano ridotti i tipi rappresentati dalle maschere, la ripetitività della recitazione (gli attori ripetevano sempre gli stessi lazzi), le stesse azioni e battute convenzionali oramai prevedibili. Ma la ragione della riforma non si appoggiava su queste degenerazioni, quanto sull'impianto stesso della commedia dell'arte e sulla visione del reale che proponeva. Il bisogno di una riforma nasce già nello spirito del razionalismo arcadico che aspirava alla semplicità, all'ordine razionale al buon gusto. Già in ambito arcadico erano nati tentativi di riforma da parte di alcuni autori toscani (Giovan Battista Fagiuoli, Iacopo Angelo Nelli, Girolamo Gigli) ma i loro tentativi erano solo letterari e confinati nel chiuso delle accademie. Goldoni però non era un letterato, ma un uomo di teatro che lavorava a diretto contatto con il pubblico, di cui ne conosceva i gusti e le preferenze. Goldoni ebbe anche la fortuna di vivere a Venezia, dove il teatro era molto radicato, sia per la presenza di sale sia per le compagnie che vi lavoravano. La 'riforma' non vuole solo modificare un genere letterario ma vuole incidere sullo spettacolo, nei suoi rapporti con la vita sociale. Goldoni, nella prefazione alle commedie, afferma che nella sua riforma non si è ispirato a modelli libreschi, ma gli unici libri su cui ha studiato sono 'il mondo' e 'il teatro'; la realtà e la scena. Goldoni vuole proporre testi che piacciano al pubblico ma che allo stesso tempo sia 'verisimile', cioè attinente alla realtà. Per questo Goldoni si oppone alle maschere, troppo stereotipate; ad esse sostituisce i caratteri, colti nella loro individualità e varietà psicologiche. Per Goldoni i caratteri sono finiti in base al genere (ad es. l'avaro, il geloso, il bugiardo) ma infiniti nella specie, ci sono infatti infiniti modi di essere avari, gelosi e bugiardi. La ricerca dell'individualità è propria della civiltà borghese: l'arte classica rappresentava categorie di individui, quella borghese rappresentava i singoli individui. L'adesione di Goldoni a caratteri prettamente borghesi deriva sia dalla sua condizione sociale sia dall'ambiente in cui vive; Venezia, pur nella sua arretratezza, era caratterizzata dalla presenza di una solida classe borghese. I caratteri goldoniani non sono mai collocati su uno sfondo neutro, sono radicati in un contesto sociale ben definito. Secondo Goldoni i vizi e le virtù degli individui assumono diverse caratteristiche a seconda dell'ambiente sociale in cui si sono formati. Le commedie di Goldoni vengono divise in 'commedie di carattere' e 'commedie d'ambiente': le prime intendono a delineare una figura, le seconde a delineare un ambiente sociale. Ma proprio per quanto detto prima le differenze sono solo quantitative, non qualitative; si da cioè più o meno spazio ad un carattere e ad un ambiente. Le commedie di Goldoni si differenziano notevolmente dalla letteratura dell'epoca contemporanea, classicheggiante e aulica, proprio per il loro contatto diretto con la realtà. La commedia goldoniana presenta molte affinità con la commedia borghese dell'illuminismo europeo e si avvicina di molto al 'genere serio' teorizzato da Diderot. La riforma vuole quindi restituire una dignità al teatro in generale, contrapponendosi sia all'eccessiva frivolezza della commedia dell'arte sia all'eccessiva tendenza eroica della tragedia. Il rifiuto dell'improvvisazione nasce dal fatto che gli attori, seguendo semplicemente il canovaccio e i generici non potevano fornire una rappresentazione completa del reale. Goldoni incontrò delle opposizioni alla sua riforma: in primo luogo quella degli attori, che si trovavano a ricoprire un ruolo secondario e che non erano abituati ad imparare a memoria un testo scritto; in secondo luogo quella del pubblico, oramai affezionato alle maschere e alle battute della commedia dell'arte. La riforma, proprio per ovviare a queste avversità, fu graduale: Goldoni scrisse prima solo la parte del protagonista (la prima commedia con queste caratteristiche fu il Momolo cortesan); in seguito passo alla stesura delle parti di tutti i personaggi (La donna di mondo). Egli fu molto abile nel mantenere le maschere modificandole però dall'interno e facendole assomigliare sempre più a caratteri individuali, fino a giungere alla loro completa eliminazione. Il pubblico iniziò ad apprezzare il nuovo teatro e Goldoni ebbe un gran successo. L'unico grande ostacolo con cui dovette ancora misurarsi fu la nobiltà: le commedie di Goldoni schernivano spesso l'aristocrazia e ciò poteva essere rischioso dato che a Venezia c'era un governo di tipo oligarchico. L'ironia di Goldoni si dirige verso i barnaboti (gli abitanti del quartiere di san Barnaba a Venezia), gruppo di nobili che per le loro tendenze avventuriere erano disprezzati dall'aristocrazia al potere; oppure si dirige verso nobili di altre città, come, ad esempio, Napoli, Firenze e città dell'Emilia Romagna. Basti infatti ricordare che nella commedia più nota di Goldoni, La Locandiera, il marchese di Forlimpopoli e il conte d'Albafiorita sono rispettivamente uno emiliano e l'altro toscano.



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