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La fonte contrattuale di regolamentazione del rapporto




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la fonte contrattuale di regolamentazione del rapporto

Il problema della fonte del rapporto di lavoro: il prevalere delle tesi contrattualistiche e la configurazione del contratto di lavoro come contratto di scambio

Una delle questioni più dibattute dalla dottrina giuslavoristica è quella concernente l'origine contrattuale oppure no del rapporto di lavoro. Si possono distinguere, al riguardo, due diversi orientamenti di pensiero, in quanto:



da un lato, vengono sostenute tesi che possono essere definite acontrattualistiche, perché, pur nella varietà delle ricostruzioni e delle argomentazioni addotte, negano che la disciplina del rapporto di lavoro debba essere costruita in chiave contrattuale. Muovendo infatti dall'art. 1321 c.c., il contratto è l'accordo tra due o più parti, per mezzo del quale si costituisce un rapporto giuridico patrimoniale, se ne disciplina la struttura e se ne regolano gli effetti, allora possono sorgere dubbi sulla natura contrattuale del rapporto di lavoro, il cui contenuto (e cioè il regolamento contrattuale) è determinato in grandissima misura da fonti estranee all'autonomia contrattuale individuale. Tuttavia benché fondate, queste considerazioni non potrebbero portare alla conclusione della acontrattualità del rapporto di lavoro; si può, infatti, obiettare che quasi tutta la disciplina regolatrice di tale rapporto è una disciplina inderogabile che, però, non ha natura strettamente imperativa potendo in ogni momento derogata dall'autonomia privata, anche se soltanto con disposizioni di favore per il lavoratore;

dall'altro, si propugnano tesi cosiddette contrattualistiche perché muovono dall'opposto rilievo che il rapporto di lavoro derivi necessariamente dal contratto, benché di quest'ultimo il Codice Civile non dia alcuna definizione, limitandosi alla disciplina del rapporto.

Nell'ambito del primo orientamento, discorrendo in termini sintetici, possono ulteriormente distinguersi:

la teoria istituzionalistica, che - configurando l'azienda quale comunità necessaria di cui, sia pure con ruoli diversi, fanno parte tanto il datore che il lavoratore, legati dall'identico sentimento di appartenenza - esclude che il rapporto di lavoro abbia natura contrattuale in quanto in esso è fortemente limitata l'autonomia negoziale del prestatore, autonomia di cui il contratto è invece la massima espressione;

la teoria della prestazione di fatto, propugnata da quanti, facendo leva sull'art. 2126, co. I, C.C. ('La nullità o l'annullamento del contratto non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione'), sostengono che il rapporto di lavoro trae origine dalla materialità della prestazione di fatto, svincolata cioè da una fonte contrattuale. In altri termini, se i normali effetti del rapporto di lavoro subordinato si producono come conseguenza dell'esecuzione della prestazione, nonostante la nullità o l'annullamento del contratto, si deve ammettere che fonte del rapporto è non il contratto, ma la prestazione di fatto.

Le teorie suesposte sono però generalmente respinte dalla dottrina dominante che, seguita anche dalla giurisprudenza, si fa portatrice di concezioni contrattualistiche, individuando la fonte del rapporto di lavoro nel contratto ed osservando:

con riferimento alla tesi istituzionalistica, che i limiti dell'autonomia negoziale nella disciplina del rapporto non escludono la libertà di consenso al momento della sua costituzione. L'accordo delle parti resta pur sempre la fonte del rapporto, anche se esso non ne costituisce la fonte esclusiva, bensì una fonte concorrente con le norme legislative e le norme contrattuali;

con riferimento alla tesi della prestazione di fatto, che proprio dalla lettura dell'art. 2126, co. I, c.c., si evince che l'ordinamento ricollega la costituzione del rapporto individuale di lavoro all'esistenza di un titolo contrattuale, anche se nullo o annullabile. Difatti, la norma sopraccitata, riconoscendo effetti al contratto nullo od annullabile, implicitamente conferisce rilevanza al contratto come fattispecie produttiva degli effetti stessi.



Una volta accolta la tesi contrattualistica, sorge però il problema di individuare la natura giuridica del contratto di lavoro. Questo viene di volta in volta configurato in vario modo, cioè a dire:

ora come contratto associativo, nel senso che realizza una comunione di scopo tra le parti (datore e prestatore) in vista del perseguimento di un interesse comune ad entrambe (in primo luogo, l'interesse comune alla prosperità dell'impresa);

ora come contratto di adesione, le cui clausole sono predisposte unilateralmente dal datore, essendo il lavoratore solo libero di aderire o meno;

ora, infine, come contratto di scambio, caratterizzato dalla sussistenza di reciproche posizioni di supremazia e di soggezione delle parti.

Quest'ultima concezione è quella seguita dalla dottrina più accreditata, che, tuttavia, incontra il problema ulteriore dell'inquadramento del contratto di lavoro negli altri contratti di scambio.

Un primo tentativo di risoluzione della questione si sviluppa nel senso di ricondurre il contratto alla compravendita, attribuendo alle energie lavorative la natura di beni immateriali che si staccano dalla persona del prestatore e che costituiscono, dunque, l'oggetto dello scambio. Tuttavia, in senso critico, è facile porre in evidenza l'impossibilità di scindere le energie dalla persona del lavoratore; impossibilità da cui deriva, a voler accogliere la concezione in discorso, la conseguenza di ritenere il lavoratore oggetto del contratto, con un'inaccettabile lesione della sua dignità.

Pertanto, è preferibile fare ricorso allo schema classico della 'locatio operarum', effettuando, però, un distacco di tale figura dalla categoria generale della locazione, il cui elemento essenziale consiste sempre in un dare. La 'locatio operarum' ha, invece, come contenuto un facere, cioè l'obbligo del lavoratore di prestare la propria opera al servizio del datore.

Così, il contratto di lavoro può, finalmente, essere definito come un contratto di scambio con il quale il prestatore si obbliga a mettere a disposizione dell'imprenditore, o altro datore, la sua attività, e questi si obbliga a corrispondere al prestatore di lavoro una retribuzione (SANTORO PASSARELLI).

Detto questo, occorre aggiungere come la disciplina del contratto di lavoro, proprio in dipendenza del prevalente concorso della fonte legale nella determinazione del regolamento contrattuale, presenti caratteristiche particolari anche in relazione ala rigidità ed alla estensione delle norme imperative che disciplinano il contenuto e dispongonogli effetti del contratto stesso.

I limiti a pena di nullità dei patti contrari, imposti all'autonomia negoziale nel rapporto di lavoro subordinato, mirano infatti a realizzare l'effetto della inderogabilità del regolamento contrattuale in virtù del quale le clausole volute dai contraenti in difformità dai precetti delle norme imperative di legge sono dalle stesse sostituite di diritto ai sensi e per gli effetti dell'art. 1419 c.c.. Al meccanismo della sostituzione legale va inoltre accomunato anche quello della inserzione automatica nel contratto dei precetti legali come effetto ulteriore della inderogabilità delle norme imperative. In effetti, nel rapporto di lavoro, l'autonomia contrattuale è ripartita in modo diseguale a causa della inferiorità della posizione economica del lavorare: proprio alla correzione di tale squilibrio è finalizzata non solo l'organizzazione e l'azione del sindacato ma anche la limitazione dell'autonomia privata imposta dalla disciplina imperativa legale. Va segnalato, peraltro, che tale disciplina imperativa è caratterizzata dalla unilateralità o flessibilità verso l'alto che le deriva dalla validità dei patti più favorevoli al prestatore introdotti dall'autonomia individuale o collettiva . Ed al riguardo va precisato che anche i precetti dell'autonomia collettiva sono dotati di efficacia inderogabile nel senso indicato.



La prevalenza del momento attuativo del rapporto sul momento dichiarativo dell'accordo non è soltanto un'operazione interpretativa funzionale all'accertamento, in via presuntiva, della volontà delle parti. In realtà tale prevalenza è anzitutto la conseguenza della compressione dell'autonomia individuale quale fonte regolatrice del rapporto di lavoro rispetto alle fonti ad essa sovraordinate: di qui il collegamento tra il tipo legale del contratto, identificato sul piano causale dalla subordinazione come vincolo funzionale alla collaborazione,ela disciplina imperativa del rapporto o statuto protettivo del lavoratore come persona e come contraente debole. Nel contratto di lavoro alla volontà delle parti è inibito separare la subordinazione dello statuto protettivo del lavoratore: la disciplina imperativa si sovrappone alla causa del contratto e conferisce alla subordinazione la funzione identificatrice del tipo legale. Per questo essa non può essere distaccata dal tipo legale del contratto di lavoro subordinato.

Quanto detto spiega perché le norme imperative poste a tutela dell'interesse del lavoratore hanno una funzione non già di mero ordine pubblico ma piuttosto protettiva, e quindi di tutela minimale, dell'interesse del lavoratore. Sotto questo profilo la compressione dell'autonomia negoziale serve piuttosto alla correzione del contenuto contrattuale che non alla sua riduzione entro i limiti del tipo o modello legale, di regolamento di interessi imposto dal legislatore all'autonomia privata. In tal modo il principio della inderogabilità del regolamento contrattuale imposto dalla legge e dai contratti collettivi si combina, in un rapporto di interdipendenza nei confronti dell'autonomia privata individuale, con il principio della prevalenza del trattamento più favorevole al lavoratore. In definitiva, la efficacia inderogabile della disciplina del contratto di lavoro opera attraverso il meccanismo della sostituzione legale delle clausole difformi e trae fondamento dal principio della effettività della tutela degli interessi del lavoratore.

La trattazione del rapporto tra regolamentazione autonoma e disciplina eteronoma non può dirsi conclusa senza affrontare il problema dei peculiari effetti che derivano dalla invalidità del contratto di lavoro. In linea generale tale invalidità è sancita solitamente nelle specie della nullità ed è l'effetto necessario della inosservanza dei limiti legali imposti dall'autonomia negoziale dei privati nella determinazione del contenuto del contratto. L'art. 2126 c.c. esclude la conservazione degli effetti del contratto invalido quando si sia in presenza di nullità derivante da illiceità dell'oggetto o della causa: il contratto relativo a prestazioni lavorative proibite da norme imperative di legge o contrarie all'ordine pubblico o al buon costume sarà dunque assolutamente inefficace. Al di fuori di questi casi, in tutte le altre ipotesi di annullamento e di nullità previste dall'art. 1418 c.c. la invalidità sarà temporaneamente inefficace e dal rapporto sorgeranno valide obbligazioni. Tale regola è rafforzata dalla esplicita disposizione dell'art. 2126, comma 2, c.c. secondo cui, quando la invalidità sia conseguenza della violazione di norme protettive del lavoratore, questi ha in ogni caso diritto ala retribuzione, la quale resta così garantita in ogni caso di effettiva prestazione di lavoro.


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