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Intervista: prof. g.b.traverso




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Intervista: Prof. G.B.Traverso

Istituto di Medicina Legale


Siena, 21 marzo 2000



Prima di iniziare l'intervista, il Prof. Traverso mi chiede quali sono gli argomenti su cui questa verterà. Gli spiego che vorrei parlare del problema psichiatrico in carcere per i detenuti imputabili e di come, se vi sono, questi incidano sul trattamento penitenziario e se sia ipotizzabile, secondo lui, un intervento psichiatrico in una istituzione totalizzante come il carcere.

- La prima cosa che si potrebbe dire, rispetto al problema del disturbo psichiatrico in carcere, è che in Italia mancano ricerche serie su questo tema. E' un vuoto che andrebbe colmato. Anche perché nelle popolazioni degli altri paesi si sono attrezzati da questo punto di vista e la letteratura internazionale ha una sua crescente mole di ricerca proprio su questo problema. Tanto che nell'arco degli ultimi uno-due anni si è cercato di fare qualche azione attiva sia sul Ministero di Grazia e Giustizia sia sul Ministero della Sanità sia a livello regionale, per fare in modo di costruire un piano di ricerca su questo settore specifico. L'ostacolo è infatti quello di avere l'autorizzazione a questo tipo di ricerca quindi ad accedere al carcere e a fare degli scrinning sui detenuti. Sappiamo dalla letteratura internazionale che molta parte della popolazione detenuta, a qualunque titolo, presenta problemi psichiatrici. Ovvero di sofferenza psichiatrica, di disagio psichico, di difficoltà, come diceva lei. Se non addirittura malattie psichiatriche ben conclamate. Su questo argomento direi che ne sappiamo poco. Sappiamo poco sul consumo di psicofarmaci in carcere per esempio. Un conto è averne una generica percezione. Io ho lavorato per anni in carcere come esperto ex art.80, ma non è che si conosca a fondo il problema. anche solo per conoscerne le tipologie. Nella nostra testa si costruiscono degli stereotipi che potrebbero non corrispondere in termini di realtà alle diagnosi psichiatriche che si potrebbero fare in carcere. Diagnosi che potrebbero essere estremamente utili non solo in termini curativi, diciamo, questo è un settore un po' più 'pericoloso', ma anche in termini diagnostici e di valutazione per quello che riguarda la recidiva. Si parla tanto del problema della sicurezza da una parte, del problema che si trovino in libertà detenuti, titoloni del tipo 'Liberato ammazza ecc.' e dall'altra nessuno si preoccupa di approntare strumenti di valutazione che possano essere più adeguati a diagnosticare situazione in cui ci possa essere un pericolo. Non ci possiamo nascondere dietro a strani spettri. E' necessario che il tecnico, che il criminologo, che lo psichiatra diventi sempre più equipaggiato, più conscio del suo lavoro e delle sue implicazioni. Non ci possiamo spaventare delle conseguenze di un parere dato che implica o meno l'adozione di una misura. Questo accade, ma non dovrebbe essere così. Bisognerebbe essere messi in grado di poter esprimere un giudizio serenamente.

- Mi potrebbe parlare della sua esperienza come esperto in carcere?

- Sono stato esperto ex art. 80 nell'adulto a Marassi a Genova, sono stato nel minorile come psicologo a Bosco Marengo.

- Che tipo di rapporto c'era con la popolazione detenuta?

- Nell'adulto, a Genova, avevamo addirittura cominciato con dei gruppi di discussione molto liberi, prima ancora della legge del 1975, in cui eravamo riusciti ad instaurare un buon rapporto con certo gruppo di detenuti che sceglievamo e che venivano bisettimanalmente per alcune ore. In questi gruppi si discuteva di mille problemi: dai problemi contingenti come il vitto o della doccia che non riuscivano a fare, a problemi di introspezione più personologica, all' interpretazione della carriera criminale, al significato che per ciascuno poteva avere ricorso al delitto. quindi un approccio più psicologico all'uomo delinquente. Poi con l'entrata in vigore della legge penitenziaria ci fu un problema legato al fatto che il Ministero legava in qualche modo l'osservazione al trattamento. La situazione così per alcuni di noi era diventata insostenibile: si riteneva che l'osservazione ai fini della concessione di misure alternative ecc. fosse incompatibile con l'attività di vero e proprio trattamento. Questo perché da una parte si era operatori fiscali, diciamo, dall'altra si voleva operare ai fini di risocializzazione e di vero e proprio trattamento. Secondo noi ci doveva essere una divisione tra coloro che facevano l'osservazione finalizzata all'adozione delle misure, altri potevano eventualmente fare opera di trattamento, separatamente. Il Ministero non accettò di fatto questa divisione, perché diceva che l'osservazione era un'attività che doveva precedere necessariamente il trattamento e ciascuno di noi doveva fare tutto. Allora alcuni di noi vennero via dal carcere. Altri rimasero.

- Ci fu paradossalmente un'inversione di tendenza?

- EH, L'entrata in vigore della legge nel nostro gruppo distrusse alcune cose che avevamo cercato di fare. Nel minorile era molto più semplice, perché lì le cose sono molto più informali, c'era veramente uno scambio con i ragazzi che passavano gran parte della giornata fuori dalla cella. Si poteva, attraverso attività ludiche e ricreative fatte insieme a loro, sperare, era più una speranza, secondo me, in ambiente molto coartanti, perché Bosco Marengo era un convento del '500 immerso in una sperduta pianura dell'alessandrino con venti sotto zero, con soffitti altissimi e troppo piccoli termosifoni che non potevano produrre nullaio andavo praticamente vestito da sci, però almeno sul piano umano c'erano maggiori possibilità. Non come nell'adulto dove le cose erano molto formali. Avevamo questi gruppi di sei/sette persone ciascuno.non potevamo fare di più per avere una cosa che potesse avere un piccolo senso. Poi questi ruotavano, perché alcuni poi uscivano, altri non volevano più venire, ma comunque aveva un senso risocializzante nel senso che avevano la possibilità di parlare con alcuni di noi in modo assolutamente libero, nel senso che queste notizie che eventualmente fornivano, queste discussioni erano coperte dal segreto professionale anche perché eravamo partiti come concessione da parte del direttore.

- Quindi sarebbe possibile, almeno teoricamente, ipotizzare un trattamento psichiatrico in carcere?

- Mah, sa la parola possibile ha dei risvoltiè ipotizzabile, sì è ipotizzabile. Alcuni direbbero, anche gli psicanalisti, che è ipotizzabile soltanto formalmente, ma che sostanzialmente non si può trattare in carcere. Il perchéperché non si può stabilire un vero rapporto terapeutico, dato l'ambiente, data la costrizione, anche se c'è un tentativo di fare cose concrete. Si tratta di capire cosa vuol dire trattamento, che può essere interpretato in molti modi. Io penso che un errore che è stato fatto un po' ovunque sul piano internazionale e che ha condizionato i risultati e che ha condizionato anche le politiche carcerarie con giri di vite. Io ricordo nella metà degli anni settanta ero negli Stati Uniti e venne fuori proprio in quel periodo, fui il primo a citarlo qui in Italia, un grosso lavoro di un certo Martinson che fu intitolato 'Nothing works'[1] . Niente funziona in carcere nel senso del trattamento. Lui aveva, allora, con un gruppo di collaboratori valutato un enorme numero, più di duecento, aveva selezionato sul piano metodologico centinaia di ricerche sul trattamento, ricerche descrittive di singoli programmi di trattamento con i risultati che avevano eventualmente dato. Poi aveva sottoposto queste ricerche ad una singola ricerca valutativa selezionando questi programmi, questi articoli che riportavano questi programmi, in termini di serietà sul piano metodologico che risultassero ricerche, sull'efficacia del trattamento, di un certo valore. E aveva selezionato ricerche che descrivevano tutta la possibile gamma di interventi di trattamento sia in carcere che in libertà.

- Libertà durante la pena o dopo

- Libertà intesa come misura alternativa, come 'parole'[2], 'probation' , programmi in carcere, programmi di intervento psico-sociali di psicologia dinamica, interventi incentrati sul lavoro. Aveva poi sottoposto a valutazione critica i risultati di queste ricerche e alla fine aveva concluso che, su un piano statistico generale, nessun tipo di intervento di fatto funzionava, anzi qualcuno aveva in realtà prodotto un peggioramento della situazione. Laddove la variabile dipendente rispetto a questo tipo di valutazione era il recidivismo, perché per lungo tempo la recidiva era stata considerata la variabile centrale dipendente per controllare l'efficacia del trattamento. Intanto io penso che un tipo di ragionamento del genere, cioè fondare sulla recidiva la valutazione dell'efficacia sia sbagliato, perché il trattamento può fallire in termini di recidiva, ma questa è una limitazione. Ci possono infatti essere degli effetti benefici di certi programmi di trattamento che dovrebbero essere valutati. E' chiaro che se noi vogliamo utilizzare i programmi di trattamento in carcere, ma anche fuori come misura alternativa ai fini di prevenzione della recidiva, probabilmente abbiamo fallito. A parte alcuni esempi che poi di fatto c'erano anche nella ricerca di Martinson, alcuni casi in cui la recidiva veniva ridotta a esempi isolati che per lui non facevano, proprio perché isolati, storia sul piano statistico. Per prendere come esempio la psicoanalisi in carcere, tanto per considerare la più difficile da realizzare, tutti quegli studi non portavano a niente. Poi magari c'era un esempio in cui di fatto si era riusciti a fare qualcosa di buono. Questo significa che la recidiva è una variabile che evidentemente è influenzata da mille fattori di rischio sui quali il piccolo, modesto intervento può poco, perché erano difficile da etichettare come 'trattamenti', quindi la critica poteva essere invece che niente funziona, che realmente non potessero essere definiti tali. Per fare un esempio se lei voleva riscaldare Bosco Marengo con quel piccolo termosifone si poteva pensare che fossero soldi sprecati, perché aveva un'incidenza di un grado sui meno cinque, tanto valeva chiuderli. Allora quando si valuta l'efficacia di un trattamento bisogna che questo trattamento che eroga sia almeno sufficiente a produrre davvero un piccolo cambiamento.

- Lei avrebbe delle proposte da fare in questo ambito?

- Diciamo che le proposte son sempre belle, però devono essere fattibili. Io dico intanto, e con me qualche collega, non è una mia idea isolata, di valorizzare degli interventi psico-sociali che abbiano non degli obiettivi di chissà quale portata, ma degli obiettivi più limitati come il miglioramento della qualità della vita in carcere. Questo perché il carcere deve punire le persone attraverso la privazione della libertà, ma non deve degradarle a belve feroci, alcuni interventi si potrebbero fare migliorando le condizioni di vita in carcere. Io credo che migliorando le condizioni delle persone aumenta la possibilità rieducativa, anche se non mi piace il termine rieducazione, è molto contestabile. Rieduca il ribelle o rieduca perché non ha le stesse idee. Bisogna anche dare un significato alla delinquenza, perché è un termine dai mille contenuti. Dal politico di Tangentopoli a quello che ruba il melone, all'omicida che uccide la moglie a quello che fa il killer per la camorra.. Credo che facendo sì che non vi sia un rapporto conflittuale in carcere tra detenuti e agenti di custodia si possano già raggiungere dei risultati. Si sa che c'è un rapporto di grave conflittualità: da un lato l'agente di custodia reagisce in modo violento perché dice che il detenuto pretende da lui cose come se fosse il proprio servo, deve essere continuamente a disposizione e soddisfare qualsiasi necessità, l'agente si sente sfruttato, degradato, turni impossibili, lo sappiamo qual'è il clima in carcere. Ebbene non ci sono interventi possibili tesi ad eliminare questo tipo di problema, per esempio? Che aggiunge violenza alla violenza. Se da una parte il detenuto ha il diritto al fatto di non vedersi reagire contro violentemente, la guardia carceraria ha il diritto ad un lavoro umano, qualificato, ad una istruzione professionale superiore. Questo ridurrebbe in termini di conflittualità il rapporto interindividuale e quindi anche la violenza nel carcere. Forse questo è già un progetto ambizioso, ma, ad esempio, la doccia che può essere fatta una volta alla settimana, ora non lo so di preciso, ma comunque ci sono anche bisogni primari che potrebbero essere in qualche modo limitati. allora fare in modo che situazioni di questo genere vengano eliminate in modo tale che si innalzi la qualità della vita all'interno del carcere. E questo io penso che potrebbe ridurre la conflittualità, potrebbe ridurre la sofferenza, potrebbe ridurre il disturbo psichiatrico. Perché il disturbo psichiatrico è anche dovuto a questo tipo di rapporti che ci sono all'interno, a questo tipo di gestione totalizzante dell'istituzione della vita delle persone. Si parla sempre in termine di pericolosità, ma uno dei temi di grande interesse è la cosiddetta pericolosità istituzionale, cioè lo Stato che vuole che il carcere sia ordinato. Quindi obiettivi di minor portata, ma più raggiungibili e di non secondaria importanza. poi ci si preoccupa della singola storia, del singolo detenuto, ma che non si può cambiare in cinque minuti.

- Però di tempo ce ne è tantotutta la durata della pena.

- Mah, sì, ce ne è tanto per chi ha delle lunghe pene. E allora cosa rieduca? Cioè in un ergastolano o uno che deve scontare trent'anni cosa si rieduca?

- E tutti quelli dai cinque ai quindici anni'

- Sì, però insomma ritengo che sia molto difficile. Poi ad un certo punto bisognerà anche personalizzaree come si fa? Voglio dire ciascuno di loro avrà una sua storia, un suo significato, un suo vissuto, le sue problematiche.

- E' troppo costoso a livello di personale e di strutture.

- Diventa costoso e pericoloso di non ottenere i risultati, di rimanere ad un livello molto superficiale. Quello che si può ottenere è che una persona viva meglio con se stessa. Poi se prendiamo un campione di condannati, quando si è raggiunta una certa età la maggior parte delle persone cambia comunque. La delinquenza è nella fascia giovanile, per cui qualcuno potrebbe dire: basta aspettare. E' per quella fascia di persone dai diciotto ai trent'anni che si dovrebbe cercare di fare di più, ma sono anche le persone con minor margine di riuscita, perché sono proprio nel pieno della contestazione delle istituzione. Voglio dire, 'trattamento' ha un senso una volta dato un significato alla delinquenza. Per tornare al disturbo psichiatrico, qui davvero significa ridurre la sofferenza e trattare la malattia psichiatrica, ma poi non è detto che la malattia o il disturbo siano collegati con la delinquenza. Può favorirlo, ci sono alcuni reati che possono esserne condizionati, ma allora lì diventa un altro problema. Se io ho un delirio e uccido una persona è chiaro che bisogna che mi trattino il delirio. La delinquenza è una comobilità rispetto al disturbo psichiatrico, che va di pari passo, ma sono due cose diverse. Certo la malattia mentale, il disturbo psichiatrico possono rendere più facile l'adesione a questo tipo di modello. Anche lì si può curare un sintomo, un delirio, ma non si può curare una struttura di personalità. Visto che lei parlava di quanto incide il disturbo psichiatrico sul trattamento, guardi, in Italia è un problema che non conosciamo.

- Senza considerare il fatto che certi tipi di disturbi sono provocati dal carcere stesso, quindi in un secondo momento rispetto al reato.

- Ovviamente, senza considerare appunto che può essere secondario. Anche lì sarebbe molto difficile e molto interessante capire quanto il disturbo preceda e quanto il disturbo poi si strutturi in carcere. Sono forme diverse. Quindi bisognerebbe veramente capire cosa vuol dire ci sono degli studi stupendi e molto approfonditi in letteratura sulla prevalenza del disturbo psichiatrico in carcere. Per esempio ci sono cose di cui mi sono occupato, abbiamo lavorato tanto con il Ministero, per la delinquenza sessuale; e lì il trattamento, la qualità della vitasiamo totalmente impreparati. Mi ricordo che le operatrici donne avevano dei problemi con i detenuti di interazione a livello relazionale, ma comunque tutti erano in gravissime difficoltà: l'agente, il direttore, l'assistente sociale, gli educatori e le educatrici. E' un problema particolare perché non si capisce bene se deve stare isolato o deve stare in gruppo con gli altri, ma ci sono problemi di reazione di sottocultura carceraria tra detenuti, quindi allora bisogna tenerli chiusi, d'altra parte questo tenerli chiusi se da un lato è protettivo, dall'altro può essere ulteriormente stigmatizzante per il soggetto. Io ho trovato questa situazione e, voglio dire, per eccellenza questo delinquente potrebbe avere bisogno di trattamento, si pensi al pedofiloAndrebbe studiato meglio.

- Secondo lei la pena come è ora è utile o negativa al cambiamento del detenuto?

- Anche questa è una domanda empirica, secondo me. Può essere molto scioccante e quindi può produrre effetti negativi. Comunque secondo me è quasi un passaggio obbligato. Il detenuto fa una scelta razionale. Per ciascuno di noi è difficile fare una cosa e facile farne un'altra: evadere le tasse anche per noi è facile, e magari lo facciamo. Però per noi penso sarebbe difficile pensare di introdursi e cominciare a rovistare in una serratura per entrare in casa. Invece per determinate persone è la cosa più normale, è la cosa che organizzano al bar, dicono: 'C'hai mica un posto dove andare?'. Qui il problema sarebbe di non incattivire il detenuto, perché poi bisogna vedere come è vissuta la pena. Certamente vista dall'esterno la pena sembra poco efficace, forse ha una maggiore efficacia rispetto alla popolazione generale, è funzionale perché così almeno la gente non si arma, altrimenti ci sarebbe ancor più violenza. Il problema psichiatrico in carcere è un problema recente, non sono molti anni che se ne parla in questo senso. Sicuramente necessiterebbe di essere approfondito molto, per ora non lo è.




In realtà il titolo del lavoro di R. Martinson (1974) era 'What Works?Questions and Answers about Prison Reform'


La parole è un istituto che comporta il rilascio condizionale del detenuto dopo aver scontato una parte della pena inflittagli. Durante il periodo di liberazione vi sarà, come nella probation, un'attività di supervisione tesa al controllo del corretto comportamento del beneficiario. Per l'Attorney General's Survey of Realease Procedures la parole è definita come:' The realease of an offender from a penal or correctional institution after he has served a portion of his sentence,under conditions that permit reincarceration in the event of misbehaviour', F. Adler, G. Mueller, W.Laufer (1994), Criminal Justice, New York.

La probation è una misura alternativa al carcere, disposta dal giudice contestualmente alla sentenza di condanna dietro parere favorevole di un organo ad hoc, il probation officer. Sottraendo totalmente il condannato all'esperienza carceraria, tende appunto ad evitare gli effetti negativi della pena detentiva, offrendogli la possibilità di una reintegrazione nella comunità esterna. Secondo la definizione di Adler-Mueller-Laufer(1994), op.cit.nota prec.,la probation è ' alternative to imprisonment, allowing a person found guilty of an offense to stay in the community under conditions and supervision'.

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