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Le fattispecie estintive del rapporto di lavoro possono essere individuate:
Non costituiscono, al contrario, causa di estinzione del rapporto il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa (art. 2119, ult. co., c.c.).
Il recesso unilaterale: generalità
Il nostro codice ha accolto il principio generale, già presente nel R.D.L. 1825/1924 sul contratto d'impiego privato, della libera recedibilità (ad nutum) di entrambe le parti del contratto di lavoro con il semplice preavviso , senza essere tenute ad alcuna giustificazione. L'art. 2118 c.c. prevede, infatti, che "ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità. In mancanza del preavviso, il recedente è tenuto a versare all'altra parte un'indennità equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata al prestatore per il periodo di preavviso". Questa forma di licenziamento, detta comunemente ad nutum, fermo restando il preavviso, non presupponeva alcun obbligo di motivare il provvedimento da parte del datore. Accanto al recesso ordinario con preavviso, il Codice prevede che il recesso di entrambi i contraenti del contratto di lavoro possa essere immediato- e dunque senza preavviso o c.d. straordinario, nei rapporti a tempo indeterminato o prima della scadenza del termine in quelli a tempo determinato- qualora si verifichi una "causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria del rapporto" (recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c.). Al riguardo va segnalato che non si è in presenza di due negozi di recesso diversi, uno semplice e l'altro per giusta causa, bensì di un unico tipo di negozio, rispetto al quale la giusta causa costituisce solo un presupposto che esonera dal preavviso. Ciò significa che, qualora si accerti che una suddetta causa non sussista, ferma restando la validità del recesso intimato, il recedente dovrà rispondere per il mancato preavviso. Inoltre, l'art. 2119 c.c. stabilisce che, in caso di dimissioni per giusta causa, al lavoratore spetta l'indennità di mancato preavviso. La ratio della norma sta nel fatto che, essendo l'interruzione del rapporto conseguenza di un fatto dipendente dal datore questi è obbligato a corrispondere tale indennità, in virtù della sua natura risarcitoria.
Licenziamento individuale
La disciplina codicistica fin ora descritta continua ad applicarsi alle dimissioni del lavoratore, viceversa il potere di recesso del datore di lavoro è stato oggetto di vari interventi limitativi. Tali interventi hanno introdotto, a carico del datore, un generale obbligo di giustificazione del recesso, a garanzia del quale è stata predisposta in favore del lavoratore, a seconda dei casi, una tutele reale (reintegrazione nel posto di lavoro) o solo obbligatoria (alternativa tra riassunzione o pagamento di una penale a titolo di risarcitorio).
La prima disciplina legislativa vincolistica venne introdotta con la legge n. 604 del 1966 che, mantenendo intatta la libertà di dimissioni, regolamentò invece i licenziamenti individuali, dichiarando illegittimo il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo; nel caso di licenziamento ingiustificato, il datore era obbligato alla riassunzione o , in mancanza, al pagamento di una penale a titolo di risarcimento del danno (tutela obbligatoria). Tale normativa era applicabile, però, solo a imprese con più di 35 dipendenti (per cui per quelle con meno di 35 continuava ad applicarsi la discipina codicistica).
Un decisivo passo in avanti sul piano sul piano della effettività della stabilità del posto di lavoro è stato poi compiuto con la legge n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori), che, all'art. 18, prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, quando il giudice ritenga non sussistere la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento (c.d. tutela reale). Il suo campo di applicazione era limitato, però, alle unità produttive con più di 15 dipendenti.
Restavano così prive di tutela, ancora assoggettate alla disciplina del libero recesso, consistenti fasce di lavoratori, in particolare quelli dipendenti dalle piccole imprese. L'esigenza di tutelare anche questi lavoratori contro il licenziamento ingiustificato, specie in ragione del numero crescente degli occupati in tali imprese, ha portato all'emanazione della L. 108, 1990, la quale ha ridisegnato la disciplina preesistente, sia ridefinendo il campo di applicazione della tutela reale e di quella obbligatoria, sia sancendo esplicitamente il generale principio della giustificazione del licenziamento (c.d. recesso vincolato), salvo le eccezioni previste dalla legge e qui di seguito esaminate.
Il licenziamento
ad nutum dopo
dei dirigenti, i quali risultano esclusi dalla disciplina limitativa dei licenziamenti in base al dettato della legge stessa, che la dichiara espressamente applicabile ai soli operai, impiegati e quadri intermedi. Tale esclusione è stata ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale in considerazione del connotato fiduciario del rapporto di lavoro dirigenziale. Tuttavia, la giurisprudenza ha affermato che la recedibilità ad nutum si applica ai soli dirigenti c.d. apicali, cioè di quelli ai vertici dell'impresa.
Va detto, inoltre, che nei confronti dei dirigenti opera l'obbligo di comunicazione in forma scritta del licenziamento, nonché la tutela contro il licenziamento discriminatorio, ma anche che, in realtà, i dirigenti godono di una tutela di tipo obbligatorio contro i licenziamenti prevista dai contratti collettivi di categoria. Questi ultimi hanno introdotto un obbligo di giustificazione del licenziamento del dirigente, nonché la possibilità di ricorrere ad un collegio arbitrale, il quale, ove accerti l'insussistenza della giustificazione, può condannare il datore al pagamento di una c.d. indennità supplementare, avente natura risarcitoria, che si aggiungerà all'eventuale indennità di mancato preavviso;
dei lavoratori domestici;
degli atleti professionisti;
dei lavoratori ultrasessantenni, in possesso dei requisiti pensionistici;
dei lavoratori in prova
dei lavoratori dipendenti da organizzazioni di tendenza.
Limitazioni temporali del licenziamento
Prima di esaminare la disciplina limitativa del licenziamento, è opportuno ricordare che il Codice civile ha previsto periodi di limitazione temporale della facoltà di recesso del datore, durante i quali è escluso il licenziamento ad nutum e consentito solo quello per giusta causa: ai sensi dell'art. 2110 c.c. la facoltà di licenziamento trova un limite nei casi in cui il prestatore, essendo nell'impossibilità di effettuare la prestazione per infortunio, malattia gravidanza e puerperio, viene a trovarsi in condizioni di bisogno (incapacità temporanea di lavoro e di guadagno).
Si tratta di un limite meramente temporaneo, valevole solo per il periodo di comporto determinato dalla legge (lavoratrici madri e lavoratori padri) o dai contratti collettivi (infortunio e malattia), al termine del quale il datore riacquista il potere di licenziare il secondo la disciplina generale: il decorso del periodo di conservazione del posto è assimilabile, dunque, all'impossibilità sopravvenuta della prestazione del lavoratore, legittimando il recesso datoriale.
Una situazione analoga (sospensione del rapporto e diritto alla conservazione del posto di lavoro) è stabilita anche per l'ipotesi di chiamata alle armi, di chiamata a funzioni pubbliche elettive ed ai lavoratori che godono di congedi per motivi di cura e formativi.
Va detto comunque che, secondo la giurisprudenza e la dottrina dominanti, l'eventuale licenziamento privo di giusta causa comminato nei suddetti periodi di sospensione del rapporto, purchè formalmente e sostanzialmente valido, è meramente inefficace, cioè in grado di produrre i suoi effetti alla scadenza di tali periodi.
Solo per le lavoratrici madri ( e padri) nonché dei lavoratori che godono di congedi di cura e formativi, siffatto licenziamento è da considerarsi nullo.
Limiti sostanziali al potere di licenziare
A norma dell'art. 1, L. 604, 1966 nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato il licenziamento può avvenire solo per giusta causa ai sensi dell'art. 2119 c.c. o per giustificato motivo.
L'art. 3 della L. 604 dà una definizione di quest'ultima nozione, distinguendo tra un giustificato motivo soggettivo ed uno oggettivo. Il primo si realizza quando il prestatore di lavoro incorre in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali; per la determinazione di tale nozione si fa di solito riferimento all'art. 1455c.c., che richiede, affinché il contratto possa essere risolto, che l'inadempimento non sia di scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse dell'altro contraente. Anche se dottrina e giurisprudenza ritengono non vincolanti per il giudice le tipizzazioni operate dalla contrattazione collettiva, va segnalato che i contratti collettivi svolgono un importante ruolo di chiarificazione del dettato legislativo, individuando le ipotesi in cui ricorre il giustificato motivo soggettivo (in particolare elencando le infrazioni disciplinari che, per la loro gravità, legittimano il licenziamento). Inoltre, sulla base dei principi generali in materia di risoluzione per inadempimento, il licenziamento deve essere comminato in un termine congruo al fine di soddisfare i requisiti dell'immediatezza e tempestività: un eccessivo lasso di tempo tra il fatto contestato e l'esercizio del potere di recesso potrebbe far dubitare della sussistenza di quell'interesse.
L'ipotesi di giustificato motivo oggettivo si realizza in presenza di ragioni inerenti 'all'attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa'. In tal caso la legge riconosce una prevalenza delle esigenze dell'impresa rispetto a quella del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Al giudice è inibito il potere di sindacare il merito delle scelte imprenditoriali del datore che hanno determinato il licenziamento. Il giudice può, però, valutare la sussistenza del nesso di causalità tra le scelte organizzative dell'imprenditore ed il provvedimento di licenziamento.
Va evidenziato che, comunque, la giurisprudenza prevalente ritiene legittimo solo il licenziamento che costituisce per il datore l'extrema ratio: quello che interviene, cioè, in mancanza di ogni reale possibilità di recupero del lavoratore nell'organizzazione produttiva. La prova di tale impossibilità grava sul datore di lavoro.
La giurisprudenza, infine, riconduce nell'ambito del giustificato motivo oggettivo alcuni casi di licenziamento che, benché collegati alla persona del lavoratore, non possono rientrare nell'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo perché non integrano un inadempimento: così è a dire, ad esempio, per il licenziamento per superamento del periodo di comporto, giustificato dal perdurare dell'impossibilità temporanea del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa; per l'ipotesi di carcerazione preventiva del lavoratore; ed infine ipotesi collegate all'esigenza dell'impresa, come la soppressione di mansioni o del posto di lavoro
È, peraltro, a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare l'effettività delle ragioni poste a base del licenziamento e l'impossibilità di una diversa proficua utilizzazione dei lavoratori licenziati.
Giusta causa
La nozione di giusta causa si ricava anzitutto dall'art. 2119c.c., che contempla la possibilità per ciascuna delle parti di recedere dal contratto prima della scadenza del termine se il contratto è a tempo determinato, ovvero senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. Anteriormente all'emanazione della L. n. 604, la dottrina e la giurisprudenza ritenevano giusta causa di licenziamento, oltre all'inadempimento del lavoratore, anche ogni altro fatto idoneo a menomare il rapporto di fiducia personale, considerato connotato essenziale del rapporto di lavoro. Tale orientamento muta dopo l'entrata in vigore della L. 604/1966, alla luce della quale si attribuisce alla giusta causa un significato più ristretto, riportando il concetto di fiducia entro i limiti oggettivi dell'affidamento del creditore nell'esattezza dei successivi adempimenti, generalmente rilevante in tutti i rapporti di durata. In tal modo, il concetto di giusta causa trova 'una puntuale definizione nella stessa nozione di giustificato motivo soggettivo, dal quale si differenzierebbe solo per la particolare gravità dell'inadempimento' (GHERA), e cioè solo da un punto di vista quantitativo, non anche qualitativo. Il comportamento del lavoratore deve essere valutato caso per caso dal giudice, anche quando - come di solito accade - esso sia espressamente previsto dai contratti collettivi come giusta causa di licenziamento. In altri termini, il giudice è chiamato a verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione legale di giusta causa, e, dunque, in concreto, a verificare se le mancanze addebitate al prestatore siano così gravi da imporre la risoluzione del rapporto anziché l'irrogazione di sanzioni disciplinari.
La legge vieta espressamente -disponendone la nullità- il licenziamento per motivi discriminatori, per causa di matrimonio e quello delle lavoratrici madri.
Oltre ai limiti sostanziali di cui si è appena detto, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti procedurali, attinenti alla forma del licenziamento, infatti l'art. 2 della L. 604 stabilisce che il licenziamento deve essere comunicato al lavoratore per iscritto.
Per quanto riguarda, invece, i motivi la norma non ne impone
la contestuale comunicazione: ove essa non sia stata effettuata, il lavoratore
può richiederli entro 15 giorni dalla comunicazione del recesso e, in questo
caso, l'imprenditore deve farli conoscere entro 7 giorni dalla richiesta. La
ratio della norma è chiara: da un lato,
La sanzione prevista contro l'inosservanza degli adempimenti formali previsti dall'art. 2 della L. 604, 1966 è sempre l'inefficacia del licenziamento. Trattandosi di inefficacia, è evidente che il datore potrà, comunque, legittimamente rinnovare in forma scritta, con efficacia ex nunc, il licenziamento viziato nella forma.
In conclusione, si deve avvertire che la giurisprudenza ha elaborato l'ultimo principio secondo il quale la validità e quindi la legittimità del licenziamento per giusta causa è subordinata alla legittimità, validità, tempestività ed immediatezza della sua adozione e, quindi, della relativa comunicazione, tenendo conto, comunque, del tempo necessario al datore per svolgere gli opportuni accertamenti.
Tale elemento costituisce, infatti, la principale discriminante per l'applicazione al lavoratore della c.d. tutela reale, consistente nella condanna del datore alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno da questi subito, ovvero della c.d. tutela obbligatoria, che consiste nella condanna del datore alla riassunzione del lavoratore o, in alternativa, al pagamento di una indennità determinata dal giudice tra un minimo ed un massimo legislativamente previsti; la scelta tra le due soluzioni spetta allo stesso datore.
Ora per stabilire se la tutela accordata al prestatore sia
quella reale oppure quella obbligatoria occorre far riferimento alle dimensioni
dell'impresa, sotto il profilo del numero dei dipendenti, tenendo presente che
nel computo vanno compresi anche i lavoratori a tempo indeterminato parziale in
proporzione all'orario effettivamente svolto, mentre non vanno computati il
coniuge ed i parenti entro il secondo grado del datore, i lavoratori assunti
con contratto di apprendistato e di inserimento e, con riferimento all'impresa
utilizzatrice, i lavoratori assunti con un contratto di somministrazione.
Dunque, l'art.
Sotto il profilo della sanzione il datore è obbligato a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro, e ciò in forza dell'ordine contenuto nella sentenza di condanna. L'art. 18, L. 300 affida l'esecuzione di tale ordine allo stesso datore, il quale è tenuto a ripristinare il rapporto invitando il lavoratore a riprendere servizio. Con tale invito il datore adempie all'obbligo di reintegrazione, mentre in sua assenza verserà in situazione di mora credendi, con la conseguenza che il lavoratore nonostante l'inattività, avrà diritto alle retribuzioni. Di contro, a fronte di tale invito il lavoratore dovrà, a sua volta, ottemperare entro 30 giorni, decorsi i quali il rapporto si intenderà risolto per dimissioni. Come si evince da questa disciplina, la reintegrazione si configura come una sanzione del licenziamento illegittimo e nello stesso tempo come un obbligo di fare che, in quanto tale è infungibile ed incoercibile. Il legislatore, pertanto, è ricorso ad una forma di coazione indiretta prevedendo che: qualora non sia possibile per volontà del datore l'esecuzione della prestazione e quindi la prosecuzione materiale del rapporto, ne sia garantita la prosecuzione come vinculum iuris. In tale prospettiva l'art. 18 stabilisce che il datore di lavoro sia tenuto alla reintegrazione ed al pagamento di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto e comunque non inferiore a 5 mensilità a titolo di risarcimento del danno per il periodo che va dal licenziamento fino all'effettiva reintegrazione. In aggiunta all'indennità, la legge, impone anche il versamento dei contributi assistenziali e previdenziali relativi al periodo che va dal licenziamento alla reintegrazione. La funzione bivalente, risarcitoria e punitiva, del meccanismo dell'art. 18, potrebbe indurre a ritenere che la commisurazione dell'indennità alla retribuzione sia stata utilizzata dal legislatore secondo un modello rigido, derogatorio rispetto alla regola generale (art. 1223c.c., in base al quale, il risarcimento viene commisurato all'effettiva perdita patrimoniale del creditore), di modo che non sarebbe invocabile il principio della detraibilità dell'aliunde perceptum o percipiendum, dal periodo che va dal licenziamento alla sentenza di condanna alla reintegrazione. Sul punto, tuttavia, va segnalato l'opposto orientamento della Corte di Cassazione, che ritiene possibile la detrazione dell'aliunde perceptum o percipiendum (ad es. i compensi percepiti dal lavoratore lavorando altrove), e contemporaneamente ammettendo la prova del maggior danno subito dal lavoratore.
L'art. 18 prevede, inoltre, un'ulteriore indennità risarcitoria, sostitutiva della reintegrazione; il lavoratore reintegrato, infatti, può nel termine di 30 giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza di reintegrazione, optare per la risoluzione del rapporto obbligando il datore, in alternativa alla reintegrazione, al versamento di un'indennità pari a 15 mensilità di retribuzione globale di fatto.
Reintegrazione nel posto di lavoro e procedura d'urgenza
Ai fini di accelerare i tempi della decisione è diffusa una prassi giudiziaria che tende a combinare, sotto il profilo processuale, la disciplina specifica dell'art. 18 con il procedimento cautelare d'urgenza previsto dall'art. 700 c.p.c. ( al lavoratore-attore incomberà l'onere di provare in via di cognizione sommaria l'illegittimità del licenziamento e l'esistenza di pregiudizio imminente ed irreparabile per sé ed i suoi familiari). Quando il licenziamento illegittimo sia motivato da intento di discriminazione sindacale, l'effetto della reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro può essere ottenuto anche attraverso lo strumento processuale dell'art. 28, l. 300/1970 per la repressione della condotta antisindacale. Va detto in proposito che l'art. 18 predispone una tutela rafforzata a favore dei dirigenti delle rappresentanza sindacali aziendali. Questa tutela rafforzata si articola su due piani: quanto al primo, la sentenza di condanna alla reintegrazione può essere anticipata con un'ordinanza in ogni stato e grado del giudizio. Questa ordinanza può essere emessa solo su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato e quando le prove addotte dall'imprenditore siano insufficienti a giustificare il licenziamento. Il secondo aspetto consiste nel rendere maggiormente oneroso l'inadempimento dell' ordine di reintegrazione: oltre alle retribuzioni al lavoratore, il datore è tenuto, a titolo di penale, al versamento di una somma al Fondo pensione dei lavoratori dipendenti e quindi all'INPS.
Tutela obbligatoria
La tutela obbligatoria, prevista dall'art. 8, L. 604, si applica all'area esclusa dalla tutela reale, vale a dire alle imprese che occupano fino 15 dipendenti per unità produttiva e comunque fino a 60 dipendenti globalmente ed è riferita esclusivamente alle sole ipotesi di illegittimità del licenziamento derivanti dalla sua mancata giustificazione. Entro il predetto campo di applicazione, formalmente residuale ma socialmente prevalente in quanto comprensivo del mondo della piccola impresa, la legge prevede che il datore di lavoro - imprenditore e non - è obbligato a giustificare il licenziamento; al tempo stesso, però, prevede che in assenza di giustificazione è tenuto a riassumere il prestatore entro 3 giorni o a risarcire il danno pagando un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avendo avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del lavoratore, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima di suddetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con un'anzianità di servizio superiore a 10 anni, e fino a 14 mensilità per il prestatore con anzianità superiore a 20 anni se dipendente da datore di lavoro che globalmente occupa più di 15 dipendenti.
Il licenziamento privo di giustificazione, quindi, nell'area di applicazione della tutela obbligatoria, non è annullabile (come in quella reale) ma solo illecito e dunque sanzionato mediante obbligazione risarcitoria: l'effetto estintivo è ugualmente realizzato.
Pertanto il problema resta aperto per le ipotesi di:
A) nullità del licenziamento della lavoratrice madre (e del lavoratore padre), del licenziamento motivato dalla domanda di fruizione dei congedi per motivi di cura familiare o di formazione, nonché del licenziamento per causa di matrimonio;
B) licenziamento inefficace per mancanza di forma;
C) licenziamenti illegittimi per violazione dell'art. 7 dello Statuto dei lavoratori.
A) Per quanto attiene alle indicate ipotesi di licenziamento, deve ritenersi che ad esse conseguono, tanto nell'area della tutela obbligatoria che in quella della libera recedibilità, gli stessi effetti civilistici: dalla sentenza che, accertata l'illegittimità del licenziamento, ne dichiara la nullità, deriverà la continuità giuridica del rapporto ex tunc e si potrà configurare una situazione di mora credendi del datore di lavoro.
B)
Quanto al licenziamento adottato senza il
rispetto delle formalità dell'art. 2, L. 604/1966 , non è suscettibile di
produrre alcun effetto, dunque è da considerarsi tamquam non esset, pur se rinnovabile ex nunc secondo i principi generali. Queste conclusioni valgono per
la tutela obbligatoria. Va ricordato che
C) Infine,per quanto attiene all'ipotesi di licenziamento disciplinare illegittimo per violazione dell'art. 7 Statuto dei lavoratori, la sua equiparazione da parte della giurisprudenza al licenziamento ingiustificato, rende direttamente applicabile, nell'area della tutela obbligatoria l'art. 8 della L. 604, 1966; mentre nell'area della libera recedibilità sarà dovuta solo l'indennità di mancato preavviso.
La
giurisprudenza dominante considera sempre di natura disciplinare il
licenziamento per giusta causa, con la precisazione che il licenziamento in
esame è quello intimato a motivo di una condotta colpevole del lavoratore (in
questi termini si è espressa fin dall'inizio: Corte Cost.
Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che ogni qualvolta il datore di lavoro intenda licenziare un proprio dipendente per un inadempimento di quest'ultimo, egli necessariamente deve esperire la procedura prevista dall'art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, vale a dire:
Il mancato esperimento di tale procedura costituisce un vizio insanabile che comporta, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale l'illegittimità del licenziamento intimato.
Quando un inadempimento del lavoratore costituisce un fatto così grave da giustificare il licenziamento?
In via generale, va detto che la maggior parte dei contratti collettivi indicano espressamente gli inadempimenti del lavoratore che costituiscono motivo di licenziamento. La giurisprudenza, tuttavia, ritiene che per l'esercizio legittimo del potere di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo non è necessaria l'inclusione dei fatti contestati nel codice disciplinare, quando tali fatti, secondo la coscienza sociale, certamente legittimano l'irrogazione della sanzione espulsiva.
Deve, inoltre, essere chiaro che, indipendentemente dalla qualificazione ad opera dei contratti collettivi del comportamento contestato, il Giudice chiamato a verificare la legittimità di un licenziamento disciplinare è tenuto a valutare l'esistenza di una giusta proporzione tra addebito e sanzione adottata.
Violazione della procedura ex art. 7 L. 300/70
Il licenziamento, in caso di inosservanza delle procedure dell'art. 7, deve essere considerato in generale illegittimo, ed assoggettato quindi al medesimo trattamento sanzionatorio stabilito per il licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo (tutela reale o obbligatoria a seconda delle dimensioni occupazionali). Per i rapporti rientranti nell'area della libera recedibilità è dovuta solo l'indennità di mancato preavviso.
Tentativo obbligatorio di conciliazione
Prima dell'emanazione della L. 108, 1990, il legislatore aveva previsto solo come facoltativo l'esperimento di un tentativo di conciliazione dapprima nell'are della tutela obbligatoria e quindi in quella reale. In caso di esito negativo della conciliazione, era inoltre consentito alle parti definire la controversia mediante arbitrato irritale.
Con l'art. 5 della L. 108, 1990 è stato, invece, introdotto, nell'area della tutela obbligatoria, un tentativo obbligatorio di conciliazione - da esperirsi in sede amministrativa, ai sensi degli artt. 410 e 411 c.p.c., ovvero in base alle procedure sindacali regolate dai contratti collettivi - come condizione di procedibilità della domanda giudiziale di accertamento dell'illegittimità del licenziamento. In difetto di tale presupposto, il giudice rileva, nella prima udienza, anche d'ufficio, l'improcedibilità della domanda, sospende il giudizio e fissa un termine di 60 giorni per la proposizione della richiesta del tentativo di conciliazione. Il processo deve essere riassunto dalle parti entro il termine perentorio di 180 giorni dalla conclusione della procedura conciliativa. A seguito del D.Lgs. 80, 1998 il tentativo obbligatorio di conciliazione è diventato condizione di procedibilità della domanda per tutte le controversie di lavoro,e dunque anche per quelle rientranti nella tutela reale.
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