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Il rapporto tra la moda e il cinema




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IL RAPPORTO TRA LA MODA E IL CINEMA


1 Premesse

Nel XX secolo la moda ha contribuito in modo determinante alla rappresentazione di molti aspetti del femminile, delineando importanti modelli di donne, cui tutt'oggi si fa riferimento. Le nuove forme di produzione e di diffusione nate in questo secolo le hanno inoltre permesso di intrecciarsi con altri sistemi espressivi, come ad esempio il cinema, attraverso cui ha potuto esercitare una forte influenza sulla gente.

Se alla fine del XIX secolo l'arte borghese si era servita delle grandi esposizioni, quali canali collettivi e spettacolari attraverso cui trasmettere alcune coordinate del gusto estetico, nel Novecento è il cinema, invece, a determinare una diffusione senza precedenti non solo delle forme di abbigliamento, ma anche dei significati

Impliciti dell'abito e con esso dei modelli di comportamento1.

Il cinema è un mezzo di comunicazione di massa che, attraverso l'immagine, offre allo spettatore informazioni, idee, impressioni, emozioni. Il cinema offre un «senso» e come tale deve essere considerato un linguaggio: è un dispositivo che consente all'uomo di esprimersi ed interagire attraverso un repertorio di segni. Quindi non è altro che l'ambito di una significazione e di una comunicazione, ovvero il luogo in cui elaborare dei significati .

Ogni tipo di film, sia esso drammatico, comico, in costume, ecc., semplice o complesso, attraverso la scelta di certe riprese, di certi accostamenti tra inquadrature, segnala un tipo di vita, un ambiente, una società. Addirittura lo spettatore, attraverso il film, può conoscere quello che prima non aveva mai visto.

Il cinema coglie l'uomo nella sua vita autentica e lo scaraventa nel mondo della pellicola, dove ne congela il volto. Una volta sullo schermo il corpo dell'uomo acquista una nuova natura, quella dell'attore-personaggio, dettata dalla mimica, dal movimento,

dal contesto in cui si cala, da ciò che indossa.

Tra gli strumenti di cui il cinema si serve per creare senso ci sono gli abiti, cioè il rivestimento degli attori. Di qui l'importanza di andare a sviscerare il connubio tra cinema e moda, alla ricerca del significato che quel determinato abito, in quella specifica scena cinematografica vuole comunicare allo spettatore.

La moda e il cinema vivono l'una nell'altro e viceversa; il cinema si fa moda attraverso la collaborazione tra dive e costumisti e la moda usa il cinema quale mezzo pubblicitario più adatto per le sue creazioni.

Dunque sono le leggi dello spettacolo e non quelle della moda a regolare il funzionamento più profondo del cinema. In tal senso gli abiti sono semplici capi di abbigliamento; l'apparato cinematografico li trasforma in costumi, ovvero in un genere particolare di accessori che devono rispondere ai criteri generali a cui sono sottoposti tutti gli oggetti di scena .



2 Valore espressivo del costume nello stile del film

Il costume nella messa in scena cinematografica ha un ruolo fondamentale. Non è infatti un semplice accessorio decorativo con la funzione di vestire l'attore, ma è un elemento della forma del racconto (del film), fa parte della scenografia e contribuisce, creando un vero e proprio essere-personaggio, a produrre senso filmico.

Nella sua materialità il costume, per il modo in cui combina in sé forme, colori e tessuti, è un segno. Ed è un segno iconico quando riproduce abiti storicamente esistiti e realmente usati. Pensiamo alla riproduzione di un abito barocco. Siamo in presenza di segni iconici poiché di tutte le caratteristiche dell'originale il costume conserva solo quelle essenziali - taglio, forma, motivi della stoffa (più leggera per facilitare l'attore nei movimenti di scena). Ciononostante esso ci rimanda, appunto, ad un abito barocco e ci illude della sua pesantezza significandola .

Un costume (anche l'abito reale) non deve mai poter passare

inosservato. Se un personaggio entra in scena e ne esce senza aver detto nulla, e senza che lo spettatore sia riuscito a capire qualcosa di lui, il costume è fallito e il suo autore non ha assolto il suo compito. Non si tratta, in effetti, di fare un vestito bello o brutto, ma di vestire una personalità. Solo se il modo di vestire del personaggio ci informa sul suo stato e sul suo carattere noi possiamo dire che il suo vestito è riuscito da un punto di vista cinematografico5. Per questo una delle peculiarità che definisce il costume deve essere l'amplificazione, cioè la sua messa in rilievo affinché lo spettatore lo noti .

L'amplificazione è la prima regola di cinematografizzazione dell'abbigliamento, cioè "quel tanto di eccesso che permette alla spettacolarità di instaurarsi". Come regola di trasformazione che presiede al divenire immagine dei costumi, l'amplificazione non

opera solo sulle qualità materiali, ma anche e soprattutto nella

messa in relazione tra abito e altri elementi propriamente cinematografici. Così il costume, come si dà a vedere nel contesto

cinematografico, non è fatto solo di stoffa, ma, in quanto abito filmato, di luci, di angolazioni, di dettagli.

Ecco perché di fronte a dei costumi cinematografici, esposti ad esempio in un museo, possiamo provare un senso di delusione: il museo manca di tutti quei canali e contesti dai quali il costume trae significato - luci, angolazioni, dettagli appunto -. Quindi in questo caso i costumi ci colpiscono per la loro ovvietà e difficilmente riescono a riattivare l'immagine filmica che la nostra memoria ha conservato di essi. E ci ritroviamo stupiti di qualche perla ingiallita o di cuciture imperfette .

La seconda regola che il costume cinematografico deve rispettare è essere una indicazione di ruolo - pensiamo al gangster, al cow-boy o al detective - è un'indicazione psicologica del personaggio.

Inoltre il costume, in quanto segno, può stare per il personaggio, significandone metonimicamente alcuni tratti, come la modestia, la ricchezza, la nazionalità. Oppure nel corso della narrazione può sostituirsi al personaggio e diventarne metafora. Questo succede, ad esempio, quando un costume, una volta divenuto segno di identificazione di un personaggio, è in grado di rappresentarlo in sua assenza: un indumento inquadrato in un determinato contesto rimanda immediatamente al personaggio che l'ha indossato e in più, a seconda degli oggetti di cui è circondato, fornisce un'indicazione sugli stati di tempo e luogo del personaggio e su ciò che sta avvenendo fuori campo .

Possiamo quindi concludere che il carattere dei personaggi e del momento vissuto, sullo schermo si concretizza in gran parte con l'aiuto del costume.






Nascita ed evoluzione del costume cinematografico


Il riconoscere che il costume ha la capacità di esprimere sia il carattere sia il ruolo degli esseri animati sullo schermo è indice di una sua evoluzione storico-concettuale, per cui da abito lasciato al caso è divenuto mezzo di espressione della natura intima del personaggio.

A quando possiamo fare risalire la nascita vera e propria del costume cinematografico, quale elemento che nel film serve a dire qualcosa al pari di un paesaggio, della mimica o di un dialogo?

All'inizio del XX secolo, quando il lungometraggio comincia a muovere i primi passi, i produttori si affidano ancora all'improvvisazione lasciando che siano gli attori stessi - soprattutto le attrici - a provvedere ai costumi di scena. E' nota la vicenda secondo cui, durante la lavorazione di "Birth of a Nation" (Nascita di una nazione, di Griffith, 1915), i costumi furono realizzati in casa dall'abile e intraprendente madre dell'attrice protagonista, Lilian Gish. E chi non disponeva di una "mamma Gish" prendeva in prestito gli abiti di scena dai magazzini teatrali o da noleggiatori di costumi. Bisogna aspettare gli anni Venti perché i produttori si rivolgano a dei veri professionisti del settore e perché ciascuno studio cinematografico di un certo livello disponga di un proprio reparto costumi, con un gruppo fisso di abili progettisti, cappellai, sarti e cucitrici .

Il primo costume concepito espressamente per il cinema sembra essere quello di Musidora, nel film "Vampires" di Feuillade (1916), anche se ancora qualcuno preferisce pensare all'abito indossato da Pearl White in "Les mistéres de New York" di Louis Gashier (1915). Comunque stiano realmente le cose, tutti sono concordi nel pensare al 1916 come ad un momento di storia del cinema in cui anche il costume arriva ad occupare un posto nel film, diventa non più solo un vestito, ma la prima caratterizzazione dell'eroe, la vera pelle dell'attore.

Ripercorrendo l'affermazione del costume cinematografico nella storia dobbiamo partire dal cosiddetto "film popolare". Qui

non ci si preoccupava tanto di ciò che più si addiceva alla figura dell'attore, quanto piuttosto di ciò che era necessario all'azione. Ancora, il "film d'art" si concentra soprattutto sulla parola, sui dialoghi, perdendo completamente di vista l'importanza di creare qualcuno di reale, che vivesse sullo schermo. Per cui anche il costume più seducente non poteva essere d'aiuto.

Diversamente sono andate, da subito, le cose per il "film comico". I comici, infatti, riprendendo la tradizione della commedia dell'arte, sentono l'esigenza di presentare il personaggio così come bisogna conoscerlo e riconoscerlo a prima vista. Di qui un costume tipico: pettinature eccentriche, cappelli ammaccati, bombette, occhialoni, grosse sopracciglia arcuate, vestiti clowneschi, calzini larghi, cravatte a fiocchetto, grembiule da garzone, visi molto bianchi, ecc. Un costume che in brevissimo tempo si precisa e trova la sua massima espressione nella figura di Charles Spencer Chaplin. La sua tenuta inimitabile - un frac - una volta trovata, non subì che minute trasformazioni che la portarono a raggiungere la perfezione nel personaggio di Charlot. E sono proprio i panni indossati, al di là della sua popolarità immediata, il segreto dell'intelligibilità e della capacità comunicativa di questo personaggio; panni che accentuano in modo evidente e divertente gli slanci ridicoli ed emozionanti, i gesti e le mimiche di questo artista unico .

Arriviamo agli anni Trenta. L'idea del costume cinematografico capace di far "vivere" il personaggio s'impone grazie al sorgere della più importante fra tutte le sartorie del mondo: Hollywood. Francesi, inglesi, italiani e tedeschi, nonostante la loro forza in campo cinematografico-artistico, vengono messi in ombra dagli eroi americani. E possono solo aspettare di lavorare per i grandi studios prima di potersi affermare come veri creatori di costumi, coinvolti nel mondo del cinema. Di qui le grandi figure di stilisti- costumisti di Hubert Givenchy, Christian Dior o le Sorelle Fontana.

Se infatti Hubert Givenchy non avesse vestito sul set e nella sua vita la sua amata attrice Audrey Hepburn, forse oggi lei, la "timida cerbiatta", non vivrebbe nel ricordo di milioni di persone.

Nel 1990, in occasione del Conferimento del "Golden Globe", la bella Audrey, nel frattempo divenuta un'impegnata ambasciatrice dell'UNICEF, si è presentata al cospetto dei suoi fans riuscendo senza nessuna fatica ad incantare il pubblico internazionale. Naturalmente indossava un abito Givenchy11.

Lo stesso possiamo pensare per Marlene Dietrich vestita con la linea new look di Dior; o per Ava Gardner indossatrice, e in alcune occasioni addirittura madrina, degli abiti firmati Sorelle Fontana. Era il 1953 quando l'attrice nel firmare il contratto da protagonista per il film "La contessa scalza" fece includere una clausola: «Gli abiti della Signora Gardner devono essere ideati e confezionati dall'atelier Sorelle Fontana di Roma» .

Nasce così una nuova figura. Quella dello stilista anche costumista che collabora con il regista alla sceneggiatura per creare, al di là del film, un modo di essere, di fare o di agire che influenzerà il pubblico, la gente comune e quindi la moda.


3 Il costumista cinematografico

Il cinema, ad un certo punto del suo corso, ha assorbito una nuova figura, quella dello stilista-costumista, il quale ha assunto uguale importanza, per la riuscita di un film, del regista stesso, degli scenografi, dei tecnici, ecc.

Nei primissimi anni Venti, quando il divismo inizia a prendere la rincorsa ed il cinema comincia a diventare popolare, dei costumisti ancora non si parla. Attori e attrici indossano i propri abiti e le attrici meglio vestite sono quelle che lavorano di più e quindi che guadagnano di più. In seguito, in pochi anni, quando le case cinematografiche si accorgono che il fan della singola star cerca di imitarne non solo il comportamento, ma anche il modo di vestire e ne copia atteggiamenti, gesti, pose, usa i suoi stessi prodotti, è allora che il disegnare abiti diventa una vera e propria arte, sempre in cerca di nuovi talenti. E già alla fine degli stessi anni Venti ogni studio ha il suo "costumista di fiducia" .

Il film "The jazz singer" (Il cantante di jazz, 1927) di Alan Crostand, segna l'avvento del sonoro e la conseguente introduzione dell'uso del microfono: da parte degli attori cambia il modo di fare cinema14. Tutti i rumori, per l'uso del nuovo strumento, adesso risultano amplificati. Di qui l'eliminazione obbligatoria di alcuni tessuti, quali il satin, il taffetas e persino il tulle, perché troppo fruscianti. E la conseguente adozione di nuovi tessuti come ad esempio lane morbide e crêpes, che portò presto i costumisti alle linee dolci degli anni Trenta. Anche i gioielli usati negli anni Venti, grossi bracciali, fili di perle, orecchini con pendenti vengono aboliti a causa del rumore metallico troppo amplificato dal microfono. Ed è così che i costumisti iniziano ad appuntare perle e pietre preziose direttamente sugli abiti.

Altre complicazioni e relativi cambiamenti arrivano con l'introduzione del colore. Il primo Technicolor che utilizza due colori (rosa salmone e verde con sfumature marroni), anche se introdotto negli anni venti, diviene di uso comune negli anni Trenta.

In generale, i colori inizialmente non erano naturali ed i film, essendo scarsi di dettagli, richiedevano l'utilizzo di una luce molto forte con tutte le conseguenze immaginabili per i costumi15.

Ancora problemi giungono nel 1953 con il Cinemascope: i costumisti, nella progettazione e fabbricazione degli abiti, devono tener conto del singolo dettaglio; tutto deve essere sempre ben rifinito, dal momento che le immagini proiettate, essendo molto grandi, mettono in evidenza qualsiasi segno sullo schermo. La conseguenza per i costumisti è di dover cucire addirittura a mano le cuciture esterne degli abiti perché i punti a macchina sarebbero troppo evidenti!

Ma è negli anni Trenta che si crea il vero e proprio legame tra cinema e costumisti che poi va rafforzandosi nel ventennio successivo, e diviene indissolubile nella Hollywood del periodo d'oro. Infatti è tra gli anni Trenta e Cinquanta che nascono quelle dive che per sempre hanno segnato la storia del cinema. Attrici del calibro di Greta Garbo, Marilyn Monroe, Marlene Dietruch, Audrey

Hepburn. ognuna di loro ebbe una caratteristica del volto, del corpo o più semplicemente dell'abbigliamento, che la rese un simbolo per tutte le donne del mondo. Basta pensare alla magrezza esibita in abiti essenziali e raffinatissimi di Audrey Hepburn, realizzati per lei da Givenchy e dalle Sorelle Fontana; o alle rotondità di Marilyn Monroe, che più che vestita sembrava dipinta .


3. 1 Il rapporto regista - costumista cinematografico

Il regista è il diretto responsabile dell'unità e della originalità dello stile che crea per il suo film. Ma altrettanto valore e responsabilità in questo compito dobbiamo riconoscerli al costumista, il quale deve saper caratterizzare l'aspetto dell'attore seguendo le circostanze drammatiche e psicologiche delle scene.         Dunque il "costumista ideale" è colui il quale è in grado di collaborare, con i propri mezzi, alla stesura della sceneggiatura. Il regista stabilisce il ruolo espressivo e l'azione che devono avere gli abiti, il costumista veste di un'anima il singolo scheletro dei personaggi.

In questo rapporto tra regista e costumista potrà capitare che quest'ultimo debba fungere da semplice consigliere, limitandosi a stabilire i disegni dei figurini; oppure, altre volte, dovrà contribuire allo sviluppo stesso della regia e prolungare il suo ruolo, che andrà al di là dell'esecuzione dei vestiti, sino al teatro di posa e durante le stesse riprese. Allo stesso modo accadrà che sia il regista a mettere mano nei costumi affinché questi siano conformi ai suoi propositi.

La "scenografia umana" in un film è essenziale. Mentre si può pensare ad un film senza scenografie - navi, mare, cielo,.- non è altrettanto facile concepire un film senza costumi, a meno che non si voglia dipingere il Paradiso terrestre.

Il creatore di questa scenografia ha dunque un compito molto più complesso di quello di un figurinista di alta moda o di uno scenografo teatrale. Egli deve, come lo stilista, creare la «moda»; ma se questa moda cinematografica da una parte può ispirarsi a quella corrente, dall'altra deve però eliminare ogni caratteristica che sia troppo legata al momento storico. Infatti, tra la realizzazione di un film e la sua programmazione pubblica corre sempre un minimo di sei mesi e spesso di più se si tratta di grandi produzioni. E poiché la moda, per sua natura, è effimera e provvisoria, si corre il rischio che i costumi del film siano già passati di moda quando questo è presentato in pubblico. La moda cinematografica deve quindi essere una stilizzazione, una trasposizione della moda. E questo non succede solo per la moda attuale, ma anche per quella degli anni che ci hanno preceduti. Il disegnatore di costumi deve conoscere l'evoluzione di queste mode e saper scegliere, in una stessa epoca, le forme più fotogeniche, ricercando il gusto dell'epoca, i dettagli che la caratterizzano.

Dunque, non esiste prova più dura per un modello, di quella di sottoporsi al giudizio dell'obbiettivo cinematografico17.






Beltrami-Carmignani, La fabbrica delle illusioni, Museo S. Ferragamo, Milano, 1990, p. 41

Casetti F., Teorie del cinema, Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, 1993,        p. 62

Engelmeier P. W., Cinema e Moda. Moda nel Cinema, Mazzotta, Milano, 1997, cfr.      p. 7-9

Celefato P., Moda e Cinema. Macchine di senso. Scritture del corpo, Costa & Noaln, Milano, 1999, p. 21


Verdone M., Scena e costume nel cinema: antologia storico-critica, Bulzoni, Roma, 1986, p. 50

Celefato P., Moda e Cinema. Macchine di Senso, scritture del corpo, Costa & Nolan, Milano, 1999, cfr. p. 22-23

Volli U., Per il politeismo. Esercizi di pluralità dei linguaggi, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 38

Celefato P., Moda e Cinema. Macchine di senso. Scritture del corp, Costa & Noaln, Milano, 1999, cfr. p. 24-28

Engelmeier P.W., Cinema e Moda. Moda nel Cinema,Mazzotta, Milano, 1997, p. 11

Verdone M., Scena e costume nel cinema, Bulzoni, Roma, 1986, p. 11-13

Engelmeier P.W., Cinema e Moda. Moda nel Cinema, Mazzotta, Milano, 1997, cfr.      p. 11-12

Cit. da Fontana M., Specchio a tre luci, a cura di Cimagalli D., Nuova Eri, Torino, 1991, p. 94

Cit. Silvera M. e Somarè M., Moda di celluloide, Idealibri, Milano, 1988, p. 164

Cfr. Brunetta G., Storia del cinema mondiale, Vol. I, Einaudi, Torino, 1999, p. 182

Ibidem, p. 184

Cit. Silvera M. e Somarè M., Moda di celluloide, Idealibri, Milano, 1988, introduzione

Verdone M., Scena e costume nel cinema: antologia storico-critica, Bulzoni, Roma, cfr. cap. I e II

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