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Tesina per l'esame di Stato - GOLOSA.IO?!




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Tesina per

l'esame di Stato






GOLOSA.IO?!





















INTRODUZIONE


GOLOSA.IO?!


Ho deciso di analizzare l'argomento di questa tesina, LA GOLOSITA', dopo aver scoperto, devo ammettere con sommo dispiacere di essere intollerante a due delle sostanze maggiormente diffuse negli alimenti che consumiamo tutti i giorni: il lievito e il cacao.

Per una golosa impenitente quale sono, rinunciare a PANE e NUTELLA non è stata un'impresa da poco! Specie se si considera che insistenti spot pubblicitari inneggianti agli aspetti positivi di cibi light e bevante a zero calorie, si alternano ad efficaci campagne di marketing sostenute da importanti aziende dolciarie (Ferrero, Perugina, Motta, Barilla solo per citarne alcuni) unite a  colossali catene di fast-food.

Nel frattempo però in edicola fanno bella mostra di sé decine di testate giornalistiche che settimanalmente ci propinano i consigli, a loro dire, migliori per conquistare con pochi (?) sforzi la perfetta forma fisica, soprattutto se ci troviamo in prossimità dell'estate e dobbiamo superare la fatidica temutissima "prova bikini".

Ricapitoliamo: da una parte la ricerca spasmodica di un "involucro" perfetto, il nostro corpo, dall'altra il fenomeno preoccupante dell'obesità in costante crescita nel mondo occidentale.

Che significato possono avere, mi chiedo, in tutto questo, espressioni come EDUCAZIONE ALIMENTARE, NUTRIZIONE SANA ED EQUILIBRATA, DENOMINAZIONI D.O.P. (Denominazione di Origine Protetta e D.O.C.G. (Denominazione di Origine Controllata e Garantita)?













.E GLI ALTRI?


Fortunatamente oggi esistono voci contro corrente alle comuni abitudini di una cattiva alimentazione. E' il caso di un professore di Matera che all'inizio dell'anno scolastico 2007-2008 ha imposto agli alunni della sua classe di bandire totalmente merendine e leccornie varie dalla "dieta scolastica", nonché il tanto sospirato intervallo.

Un'iniziativa rivolta tanto ai giovani quanto ai genitori che si sono trovati a dover assistere alla "terapia di gruppo" scolastica, increduli della coinvolta partecipazione dei figli da sempre ostili a frutta e yogurt. Un articolo interessante, che spinge alla riflessione: uno dei ragazzini ha affermato altresì di non voler far parte della stragrande maggioranza dei suoi coetanei sovrappeso.

I genitori, dunque, figure primarie dell'educazione, hanno perso la competenza nel creare e mantenere un regime alimentare sano ed equilibrato per la crescita dei loro figli?

A vedere il contenuto di certi carrelli della spesa che si aggirano tra i corridoi dei supermercati.parrebbe proprio di sì!

L'inusuale iniziativa del Professore è un esempio importante che sembra evidenziare come soltanto un'esigua parte della società sia attenta alla cultura di una alimentazione sana ed equilibrata.
















CHI MANGIA PIANO.


In realtà proprio in Italia, nel 1986 nasce Slow Food, un'associazione internazionale che oggi conta 86 000 iscritti, con sedi in Italia, Germania, Svizzera, Stati Uniti, Francia, Giappone e Regno Unito. Da un'idea di Slow Food è nata Terra Madre, il meeting mondiale tra le Comunità del Cibo, che giungerà nell'ottobre 2008 alla sua terza edizione.

L'intento di Slow Food è quello di dare la giusta importanza al piacere legato al cibo, imparando a godere della diversità delle ricette e dei sapori, a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione e degli artefici, a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio.
Slow Food afferma la necessità dell'educazione del gusto come migliore difesa contro la cattiva qualità e le frodi e come strada maestra contro l'omologazione dei nostri pasti; opera per la salvaguardia delle cucine locali, delle produzioni tradizionali, delle specie vegetali e animali a rischio di estinzione; sostiene un nuovo modello di agricoltura, meno intensivo e più pulito.






La sua missione è:

. EDUCARE al gusto, all'alimentazione, alle scienze gastronomiche.
. SALVAGUARDARE la biodiversità e le produzioni alimentari tradizionali ad essa collegate: le culture del cibo che rispettano gli ecosistemi, il piacere del cibo e la qualità della vita per gli uomini.
. PROMUOVERE un nuovo modello alimentare, rispettoso dell'ambiente, delle tradizioni e delle identità culturali, capace di avvicinare i consumatori al mondo della produzione, creando una rete virtuosa di relazioni internazionali e una maggior condivisione di saperi.


La filosofia di Slow Food parte dalla riscoperta del piacere attraverso la cultura materiale. Il piacere è quello alimentare, dotto, sensibile, condiviso e responsabile. Per avvicinarsi a questa conquista, che deve essere di tutti, bisogna innanzi tutto riflettere sulla lentezza, recuperare ritmi esistenziali compatibili con una qualità della vita che deve essere totale.
Non è un'eresia dire che il piacere alimentare - spesso tabù, represso, riservato soltanto ad élite facoltose - va democraticamente perseguito per tutti nel mondo. Non è eresia lavorare perché anche i più poveri ne possano godere. Dire piacere alimentare significa ricercare le produzioni lente, ricche di tradizione e in armonia con gli ecosistemi; significa difendere i sapori lenti, che scompaiono insieme alle culture del cibo; significa lavorare per la sostenibilità delle produzioni alimentari e quindi per la salute della Terra e la felicità delle persone.

Slow Food è consapevole che uno dei nodi centrali, tra le sfide cui ci mette di fronte la post modernità, è il sistema di produzione, di distribuzione e di consumo del cibo.
Stando dalla parte di chi produce, distribuisce e consuma in maniera buona, pulita e giusta il sistema può cambiare, e renderci tutti più felici, non frenetici, non omologati, non soli.
Lentamente, Slow Food lavora per avere più bellezza, più piacere, più diversità nel mondo. Perché tutti possano godere del loro territorio e dei suoi frutti, perché tutti abbiano diritto alla propria libertà alimentare, in piena fratellanza e nel rispetto del pianeta su cui viviamo.


Parrebbe quindi che la Filosofia del Gusto promossa dal Prof. di Matera, riceva larghi consensi da più parti. Ad esempio, gli School Garden sono stati promossi proprio da Slow Food Usa, su idea di Alice Waters, l'attuale vicepresidente di Slow Food internazionale, a metà degli anni '90, che decise di proporre nelle scuole un nuovo metodo di educazione alimentare, basato sull'attività pratica nell'orto e sullo studio e la trasformazione dei prodotti in cucina. Nacque il progetto The Edible Schoolyard.




Il progetto si è esteso agli orti scolastici italiani nel 2003, in occasione del Congresso internazionale tenutosi a Napoli. Durante questo incontro, l'associazione si è data come obiettivo quello di creare un orto in ogni convivium. Alla fine del 2005 si potevano già contare una cinquantina di orti scolastici, distribuiti in tutta la penisola, dalla Sicilia al Piemonte. Al Congresso nazionale di Slow Food Italia, tenutosi a Sanremo a giugno 2006, il progetto italiano ha preso il nome di Orto in Condotta e si è proposto l'obiettivo ancora più ambizioso di creare una rete nazionale di 100 orti.
Il progetto Orto in Condotta è triennale, il suo programma è basato principalmente sull'educazione alimentare ed ambientale, attraverso attività in classe e nell'orto. I formatori Slow Food si occupano delle lezioni di aggiornamento con gli insegnanti e degli incontri con i genitori.
Ogni anno le attività ruotano attorno ad una tematica precisa:
- 1° anno: l'orto e l'educazione sensoriale;
- 2° anno: l'educazione alimentare e ambientale;
- 3° anno: la cultura del cibo e la conoscenza del territorio.
La comunità dell'apprendimento, costituita dalla condotta Slow Food, dagli insegnanti, dai genitori, dai nonni e dai soggetti che si interessano delle attività dell'orto, nasce con l'avvio del progetto ed ha il compito di contribuire alla formazione delle giovani generazioni sui temi del cibo e dell'ambiente.
Orto in Condotta ha una rete italiana che comprende numerose scuole in tutta la penisola, esse possono conoscersi e scambiare le loro esperienze in occasione delle manifestazioni internazionali Slow Food, prima tra tutte Terra Madre.


L'ARTE IN TAVOLA O "LA TAVOLA" NELL'ARTE?


Parlando di golosità il riferimento all'arte è spontaneo. Dalla corte dei Medici fiorentini alle opere di Pop-Art (pop è l'abbreviazione dell'inglese popular, popolare), la cucina con i suoi vizi, e le sue abitudini, è campo di rappresentazione artistica.

Nel corso dei due decenni successivi alla seconda guerra mondiale, l'America ha vissuto un periodo di benessere e di crescita economici fino ad allora senza precedenti. La società fu inondata da una grande quantità di beni di consumo e da un diluvio di immagini -da quelle dei cartelloni pubblicitari e dei fumetti a quelle degli imballaggi dei prodotti esposti sugli scaffali dei supermercati- che fornirono a molti artisti una nuova fonte iconografica. L'arte degli anni Sessanta che si appropriò entusiasticamente delle immagini popolari e della emergente cultura della merce fu genericamente definita Pop, un termine usato in riferimento ad un'ampia gamma di artisti e stili. Tra gli esponenti più significativi di questa tendenza ricorderemo Claes Oldemburg, Andy Warhol,

Tom Wesselmann e Wayne Thiebaud.


Verso la metà degli anni cinquanta, alcuni Artisti avevano incorporato giornali e oggetti di uso comune nelle loro opere. Stoffe usate, pneumatici e animali impagliati erano inseriti nei "combine paintings" come nuove sperimentazioni. Basandosi su questi esperimenti, alcuni artisti d'avanguardia attivi nel corso degli anni Sessanta decisero di rappresentare soggetti banali, prelevati dal loro ambiente quotidiano. Tra umorismo ed ironia, le loro opere esaltano l'America, volgendo, al tempo stesso, in ridicolo la sua sovrabbondanza di beni materiali.

Dai cartoni animati alle bottiglie di CocaCola, qualsiasi cosa era degna di essere scelta come soggetto di un'opera d'arte. Per sottrarsi all'influenza del mercato, gli artisti svilupparono un nuovo modo di fare arte in cui era accordata una posizione di primo piano all'idea e non all'oggetto fisico. Questi giovani pittori e scultori che si distinguevano per il loro radicalismo tentarono di cancellare ogni distinzione tra i soggetti dell'arte "elevata/pura" e i sottoprodotti della cultura contemporanea. Come spiegò Andy Warhol, "Gli artisti pop producono immagini che chiunque passi per Bradway potrebbe riconoscere in una frazione di secondo - fumetti, tavoli da pick-nic, pantaloni da uomo, celebrità, tendine da bagno, frigoriferi, bottiglie di Coke - tutte la grandi cose moderne che l'Espressionismo astratto ha tentato in ogni modo di non notare".

Rifiutando l'approccio soggettivo della precedente generazione di artisti, così come i suoi scopi elevati e le sue forme espressivi emotivamente caricate, gli artisti pop mimano i "freddi" metodi della riproduzione meccanica sfidando la tendenza tradizionalmente dominante nella storia dell'arte a privilegiare gli oggetti fatti a mano a svantaggio di quelli prodotti dalle macchine.

James Rosenquist, ad esempio, che aveva lavorato come pittore di cartelloni pubblicitari, impiegò tecniche pittoriche più tradizionali per giustapporre immagini in scala gigante di soggetti prosaici.

Claes Oldenburg invece, era attratto principalmente dagli oggetti anche anonimi, contemporanei, come le torte. Realizza enormi sculture in gesso dipinto raffiguranti gelati. Hot-dog e quant'altro tutto ciò che la popolazione americana consuma negli anni 60.


Come molti altri artisti legati alla Pop-Art, Oldenburg è infastidito dalle etichette, il desiderio massimo è di creare uno stile che lo distingua dalle forme d'arte soggettive e personalistiche sopprimendo la distinzione fra arte "nobile" e arte "commerciale". Il cibo in quanto consumo si carica nei suoi lavori di un'accezione negativa perché viene svalutato del suo ruolo primario e ridotto a prodotto commerciale.

Oldenburg denuncia il degrado della cucina, il piacere ormai svanito del gusto e con le sue sculture stimola la curiosità sensibile del consumatore  avviandolo al reale scenario consumistico.

Il suo percorso lavorativo  di rappresentazione dell'"ORRIDO" spasimo americano per il cibo esalta il potere dell'arte contemporanea decodificabile. In questo modo si possono comprendere agi e disagi del vivere di quell'epoca.




Espressione di golosità del tutto sensoriale della quale ora come allora a noi parla la pubblicità di un prodotto. Per forma d'arte fortemente innovativa questa della Pop-Art e come Oldenburg stesso afferma: "è la prima volta che un'arte urbana non sentimentalizza l'immagine urbana ma la usa così com'è ". Una citazione interessante, già dalla scelta lessicale: l'arte "usa" non rappresenta, è diventata un mezzo utile anche lei, parallela alla logica materialistica della società.


Oldenburg porta avanti  un'opera di smantellamento dei valori dell'arte che possiamo riscontrare nello stile scelto dall'artista.

Stile rintracciabile in una, se non la più significativa produzione di Oldenburg: "French Fries and Ketchup" è una scultura "soffice" poiché realizzata con tela di canapa e vinile riempiti di kapok. Patatine e ketchup sono gli alimenti che tipicamente etichettano gli americani.

Le patatine fritte sono disposte disordinatamente su un piatto rotondo e sopra di loro è posta una "colata di ketchup" inserita con una forma curvilinea irregolare di un rosso acceso che fuoriesce dal piatto.Questo particolare del ketchup che "cola" dal piatto rivela la comune tecnica dell'artista, sommaria ed approssimativa.

Infatti sia le patatine che la salsa sono riprodotte e modellate senza troppa attenzione alla resa naturalistica.


Già negli anni '60, quelli della fine delle vacche magre e l'inizio della ricerca del "mangiar bene", come ricorda Stefania Aphel Barbini nel libro "Così mangiamo", le french fries spopolavano.

E' impressionante come si sia rapidamente diffuso il consumo di questo alimento.

Studi recenti hanno dimostrato che i prodotti agricoli maggiormente diffusi e consumati sono patate e pomodori, ma il fatto sconvolgente su cui riflettere è che il consumo di questi prodotti avviene sottoforma di patate fritte e ketchup!

L'accezione di "orrido" di cui si carica la scultura di Oldenburg era pienamente azzeccata al suo tempo quanto al nostro.


























L'approfondimento



UN MATERIALE LEGGERO PER UN CIBO PESANTE: IL KAPOK


È una pianta della famiglia delle MALVACEE, l'albero raggiunge un'altezza di 60-70 metri ed è dotato di un tronco massiccio che raggiunge e 3 metri di diametro. Gli alberi adulti producono diverse centinaia di pigne.

Le pigne contengono i semi circondati da una fibra lanosa e giallastra costituita da LIGNINA e CELLULOSA.

La specie è diffusa in AMERICA CENTRALE, CARAIBI, SUD AMERICA, AFRICA, è stata introdotta ed ormai naturalizzata in ASIA in particolare a GIAVA, in THAILANDIA e nelle FILIPPINE.

Il kapok, con la sua densità di 0,35 g cm, è la fibra naturale più leggera del mondo. Questa caratteristica ha indotto per molto tempo a ritenere impossibile filare il kapok dato che basta un alito di vento per far volare via le sue fibre.

Il kapok è una fibra cava lunga da 2 a 4 cm con circa l'80 per cento d'aria incorporata. Le fibre vengono estratte a mano da bacelli lunghi 10-15 cm.

Fino a poco tempo fa il suo uso era limitato all'imbottitura di materassi, trapunte ed imbottiti; ma ora dopo gli sviluppi in materia di filatura, alcune aziende di abbigliamento hanno introdotto il kapok nelle loro collezioni producendo soprattutto pantaloni. E' una fibra totalmente biologica in quanto cresce spontaneamente in natura e non è coltivabile.

Particolarmente indicato per chi soffre di allergie.





IL GUSTO METTE LE AAALI.!


Meno cupa e più divertente è invece la cucina futurista che troviamo esposta appunto, ne il Manifesto della cucina futurista (1930) e La cucina futurista (1932), pubblicati da Martinetti e Fillia, in cui si afferma che l'umanità si deve alimentare con nuovissime vivande in cui esperienza, intelligenza e la fantasia sostituiscono economicamente la quantità, la banalità, la ripetizione, insomma una cucina originale e artistica, provocatoria.

I futuristi si sono occupati anche di gastronomia dal momento che il loro progetto di rivoluzione "antipassatista" era globale, ovvero riguardava ogni aspetto della società, ogni comportamento dell'individuo; per tale motivo non potevano trascurare l'homo edens, quell'uomo che nell'arte del mangiare, del nutrirsi, dello scegliere un determinato cibo, un determinato modo di stare a tavola, rivela al mondo una parte di sé, facendo intuire la sua estrazione, la sua cultura, le sue ambizioni, lo stile dei suoi gusti. Il mangiare per i futuristi dev'essere un'occasione di festa, di espressione delle loro potenzialità intellettuali nonché della loro ideologia.

L'aerovivanda, per citare un piatto del loro stravagante menù, fa riferimento ad un mezzo di trasporto mitico per i futuristi, simbolo di alta tecnologia, velocità, dinamismo, competizione: l'aereo (durante gli aerobanchetti le tavole erano disposte con inclinazioni d'angoli che riproducevano il veivolo). L'aerovivanda è un cibo tattile, perché con la mano destra si mangiano frutti e verdura, mentre con la mano sinistra si accarezza una tavola di carta vetrata, velluto, seta, il che crea impressioni e sensazioni di movimento, dinamizzate da rumori, suoni musicali e profumi.

IL GUSTO DI AVERE


Dal consumismo spropositato della Pop Art americana attraverso la cucina "fastidiosa" dei futuristi, il passo verso quella "nostrana" del Verismo verghiano è breve. Spesso la golosità sconfina nell'ingordigia, correlata alla cupidigia che è da intendersi come bramosia o ricerca spasmodica dell'accumulo di ricchezze e di beni materiali.


Giovanni Verga, autore siciliano di fine '800 fotografa uno spaccato della società contadina chiusa nei valori della tradizione locale, narrando vicende di personaggi "tipizzati" che rincorrono obiettivi pratici dedicandosi alla ricerca di ricchezza e di benessere di vita.

Verga tratta queste tematiche fin dai primi lavori che nel 1883 vengono raccolti e pubblicati ne

"Le novelle rusticane" in cui compare il racconto "La roba" . "La roba" è l'esemplificazione immediata della legge esclusiva del profitto, che vede il protagonista Mazzarò, personaggio statico e oltremodo materialista, vivere un dramma che lo porta alla disperazione: la presa di coscienza che con la morte si dovrà separare per sempre da tutte quelle cose per cui ha sacrificato una vita intera privandosi di qualsiasi affetto e distrazione. Personaggio dedito al sacrificio che degenera nell'autolesionismo, la cui bramosia di accumulo di "roba" lo porta alla perdita di ogni valore morale, arriva al punto da contabilizzare persino la spesa sostenuta per la morte della madre:


"..sua madre, la quale gli era costata anche dodici tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.."


Mazzarò possiede infinite distese di campi, ulivi e vigneti della Piana di Catania:


"..tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell'assiolo nel bosco.."






E' un omiciattolo che mangia non più di qualche pezzo di pane al giorno e sembra quasi disdegnare l'enorme quantità di prodotti agricoli che l'hanno reso immensamente ricco:


"..egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch'era ricco come un maiale.."


Personifica l'avarizia, l'attaccamento morboso ai propri beni per ottenere i quali lavora quattordici ore al giorno con la schiena piegata come gli interi villaggi di contadini che lavorano le sue terre:


"..i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati.."


Nessun vizio né perdizione alcuna, solamente dedizione incondizionata al lavoro, al guadagno e alla logica dell'accumulo, come sostiene Verga:


"Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba"


Nonostante sia un omiciattolo analfabeta privo di istruzione, con la furbizia e l'impegno diviene il padrone di territori spropositati al punto da chiedersi come possa amministrare tutta la sua roba. Qui si  percepisce che il protagonista possiede paradossalmente una mente brillante quanto chiusa in cui la furbizia la fa da padrona e non necessita di alcuna forma di istruzione o di cultura:


"..ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo.."


Uomo di affari che gode nell'osservare tutto il profitto del suo lavoro, inganna i proprietari riuscendo a sottrarre loro case e terreni con abilità di raggiro:


"..a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma comprava subito un pezzo di terra.."


Tuttavia, alla fine si troverà a dover fare i conti con la vecchiaia e l'avvento prossimo della morte che inevitabilmente gli porterà via tutto ciò per cui per una vita intera ha così duramente lavorato:


"..di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla!.."


Verga rappresenta in questa novella la volontà di arricchirsi che viene prima  o poi ostacolata dai fenomeni naturali lasciando l'uomo impotente davanti al crollo di ciò che ha realizzato.


L'autore utilizza la tecnica narrativa dell'impersonalità propria del Verismo italiano che determina una grande svolta evolutiva del genere del romanzo in rapporto al Positivismo ed al Naturalismo europei. In apertura della novella Verga  impiega un narratore che esprime un punto di vista più alto, quello di un ipotetico viandante che passa per i possedimenti del protagonista per caso. Introdurre questo personaggio è un espediente per presentare l'ambientazione della vicenda secondo uno sguardo esterno. Gli aggettivi e gli avverbi utilizzati nella prima sequenza ("tristemente", "tristezza", "noia", "lentamente") chiarificano la visione pessimistica dell'autore che si nasconde dietro la tecnica dell'impersonalità. Ad una prima lettura infatti, non si percepisce la presenza soggettiva del narratore che rimane completamente estraneo ai fatti, non dimostra mai riprovazione nei confronti di Mazzarò per i metodi impiegati per arricchirsi facendo sembrare il comportamento del protagonista assolutamente normale.


Un ulteriore supporto allo straniamento di chi scrive è il discorso indiretto libero, il quale contribuisce ad eliminare ogni commento del narratore facendo invece parlare il personaggio stesso. Entrando poi nel vivo della vicenda, il punto di vista del narratore "assente" arriva a coincidere con quello di Mazzarò e a questo punto traspaiono sottolineature e giustificazioni dei comportamenti del protagonista.

Il linguaggio cambia, si colora di inflessioni dialettali e sintassi proverbiali facendo cogliere al lettore l'ammirazione del "narratore popolare" nei confronti di quest'uomo che si è creato da solo partendo dal nulla, impiegando solamente le sue capacità.

La parte finale invece, stravolge del tutto la sequenza dei fatti: dopo essersi reso conto di non poter portare con sé tutta "la roba" dopo la morte, si mette a picchiare con un bastone i suoi animali:




"..sicchè quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: -roba mia, vientene con me!-"


Questo comportamento risulta estraneo alla logica economica che ha sempre mosso ogni sua azione e proprio in conclusione ci viene presentata la trasformazione di Mazzarò che da grande uomo d'affari diventa un ridicolo omiciattolo che non comprende il suo fallimento né ciò che la vita gli ha insegnato.
































MAMMA, HO FAME.


Dalla grottesca e antitetica situazione economica di fine Ottocento descritta dal Verga, direttamente ai giorni nostri: il quadro non è certo meno preoccupante se consideriamo che un terzo della popolazione mondiale consuma i due terzi delle risorse presenti sulla terra.

Il vertice FAO (Food and Agricolture Organization of the United Nations) svoltosi a Roma dal 3 al 5 giugno 2008 sarà ricordato soprattutto per la battaglia dei bio-carburanti, il così detto "petrolio verde" perché prodotto con i cereali.






I 5000 delegati presenti all'assemblea si dividevano tra favorevoli e contrari. Secondo l'ex capoeconomico della banca mondiale Paul Collier, gli incentivi per produrre cereali trasformati successivamente in carburante sono una delle ragioni immediate della crisi alimentare. Della stessa opinione è anche Paul Wolfowitz, attuale presidente della stessa banca mondiale il quale disapprova totalmente gli aiuti alla produzione di etanolo in quanto distorcono la produzione deviandola dal cibo all'energia, ma a tal proposito l'asse Stati Uniti-Brasile ha difeso a spada tratta le proprie produzioni di etanolo da mais e canna da zucchero. Di fronte al messaggio lanciato del segretario generale dell'ONU, Ban Ki  Moon secondo cui occorre aumentare le derrate alimentari del 50% entro il 2030, la questione degli OGM è considerata la centro del vertice come soluzione ipotetica alla fame nel mondo. Italia e Stati Uniti si trovano di comune accordo indicando nella diffusione degli organismi geneticamente modificati un elemento indispensabile per sconfiggere la fame nel mondo. Lo stesso Paul Collier, condivide l'abolizione del divieto sui prodotti OGM in quanto il surriscaldamento globale renderà presto possibile la sola coltivazione di mais geneticamente modificato su scala industriale.

Secondo l'American Enterprise Institute, il centro studi che si occupa di questioni internazionali di sviluppo economico, il problema principale non sono i sussidi UE e USA, bensì i dazi all'import dei paesi in via di sviluppo. Limitare gli scambi con dazi all'importazione di derrate scoraggia gli investimenti e la produzione interna. Neppure in questo caso si trova un accordo unanime: Argentina Venezuela e Cuba non intendono rinunciare ad ostacolare l'export dei propri agricoltori. Nel  documento finale del vertice FAO 2008 risulta soltanto un accenno alla sfida rappresentata dai bio-carburanti (e di tutte le altre questioni trattate non restano che sei miliardi e mezzo di dollari da destinare a quasi un miliardo di affamati). L'invito alla comunità internazionale è quello di continuare gli sforzi per liberalizzare le politiche agricole, riducendo le barriere al commercio.Il sensato e lungimirante intervento del Papa:
























"Fame e mal nutrizione sono fenomeni inaccettabili in un mondo pieno di risorse e consumista. Occorre globalizzare la solidarietà e assumere misure coraggiose per rispettare la dignità dell'uomo: dà da mangiare a colui che è moribondo per la fame altrimenti lo avrai ucciso".

L'approfondimento:


il parere di Tim Lang, Professore statunitense di "Policy of Food"


Abbiamo un nuovo lessico. Biocarburanti, biomassa, agrocarburanti, bioenergia, biogasolio, bioalcol. di colpo, i politici prendono decisioni e impongono cambiamenti con il prefisso bio davanti a diverse parole. In sostanza, fanno tutte parte di un unico discorso, molto vecchio ma oggi politicamente molto attuale: l'energia. Dal Medio Oriente alla Cina, dall'Africa alle Americhe e all'Europa, ogni governo mette in discussione il presupposto dell'abbondanza del petrolio. La rivoluzione "bio" riguarda l'uso della terra per produrre un'energia alternativa a quella estratta dagli strati profondi della crosta terrestre sotto forma di carbone, petrolio o gas.
La cosiddetta prima generazione di biocarburanti fa sì che messi essenziali per l'alimentazione come il mais o il grano siano convertiti in equivalenti del petrolio, da usare perlopiù per le automobili. Questo modello oggi domina il mercato dei biocarburanti, con il sostegno dei governi europei e statunitense. È stato però criticato in quanto alimenta le auto degli occidentali benestanti (e obesi) anziché le bocche degli indigenti e fa salire i prezzi di prodotti alimentari essenziali.

I prezzi mondiali del riso, del grano, della soia e del mais sono decollati a partire dal 2005 quando i biocarburanti sono diventati importanti a livello internazionale. La replica dei tecnologi è stata una seconda generazione di biocarburanti fabbricati con gli scarti dei prodotti agricoli oppure piante particolari come il Miscanthus. Ora emerge una terza generazione che utilizza alghe e tecniche di fermentazione particolari per "coltivare" energia; i suoi fautori affermano che si tratta della forma più efficiente e biodegradabile.

La soluzione giusta?
A prima vista, i biocarburanti sembrano una scelta sensata. Il mondo è alle prese con una crisi energetica. Le fonti non rinnovabili - carbone, petrolio, gas - hanno limiti finiti. La terra + il sole + l'acqua + il lavoro dell'uomo + la tecnologia possono fornire messi. Perciò perché non "coltivare" energia? È semplice. Risolta la crisi energetica!





























Il problema è che non è così semplice. I biocarburanti inoltre non colmano il buco energetico causato dalla diminuzione delle riserve petrolifere in un periodo di domanda crescente. Dal punto di vista alimentare l'incubo dei biocarburanti è che aggravano le crisi alimentari presenti, a maggior ragione quelle future. La Cina ha conosciuto un'inflazione alimentare del 18% nel 2007 e ha messo fine al regime dei biocarburanti, temendo immediati disordini sociali.

Ma i moniti sul fatto che i biocarburanti non sono il toccasana non hanno impedito ai governi di usare la politica e i fondi pubblici per sostenere il mercato e le industrie dei biocarburanti.
Come si è determinato questo pasticcio politico? La risposta in breve è che le economie dominate dall'Occidente, nonostante i moniti sull'uso massiccio del petrolio come forza motrice del consumismo, sono andate avanti senza tenerne conto. Auto, beni di consumo, cibo, abitazioni, turismo: quale che sia il settore economico, dipendiamo dal petrolio.
È stato calcolato che un'economia alimentare "avanzata" come quella europea dipende dal petrolio per il 95%. Gran parte dei presunti progressi dell'agricoltura intensiva si è basata su combustibili fossili. Essi hanno permesso di sostituire i trattori agli animali; hanno creato i fertilizzanti; hanno consentito il trasporto in massa del cibo; hanno permesso la sostituzione della manodopera lungo tutta la catena alimentare, non ultima la Terra.


Le scelte dei governi:
I responsabili della politica dei governi e della grande industria alimentare hanno finalmente preso coscienza dei pericoli dell'attuale uso massiccio del petrolio e sono consapevoli del cambiamento climatico e della necessità di pensare al carbonio e ai gas a effetto serra. Lo Stern Report on Climate Change calcola che la sola agricoltura sia responsabile del 14% dell'emissione di gas serra. I fertilizzanti rappresentano il 38% di tali emissioni.




Il bestiame è la seconda grande fonte delle emissioni di gas serra del settore agricolo con il 31%. Uno studio del 2006 dell'Unione Europea sull'impatto dei consumi ha rilevato che il settore del cibo e delle bevande è la fonte più rilevante di emissione dei gas serra, rappresentando il

20-30% dei vari impatti ambientali delle forme più diffuse di consumo in Europa.

Di fronte a simili indicazioni, i governi, i grandi utilizzatori di petrolio e i vari responsabili dei gas serra sono sollecitati a trovare un modo per uscire dalla crisi incombente. Non sorprende che si siano dedicati ai biocarburanti con tanta alacrità: sembravano offrire la soluzione tecnica ideale al problema.

Ma le politiche dei Paesi interessati hanno continuato a variare rotta e il risultato è che i biocarburanti non hanno ridotto il prezzo del petrolio, arrivato nel 2007 a 100 dollari al barile. Inoltre la  prima corsa ai biocarburanti per sostituire il petrolio sta ora rallentando. Se si destina loro la terra, ne resta di meno per il cibo. L'Ocse ha calcolato che gli Usa, il Canada e l'Unione Europea avrebbero bisogno di impiegare dal 30 al 70% dell'area attualmente coltivata per soddisfare appena il 10% del loro fabbisogno di carburante per i trasporti. Qualunque valutazione ragionevole della questione giunge alla conclusione che non esiste un facile rimedio.

La nuova sfida politica è come affrontare i nuovi punti cruciali:


- energia/petrolio;

- uso della terra;

- cambiamento climatico;

- acqua;

- lavoro;

- demografia/popolazione;

- salute pubblica (in particolare il cambiamento di dieta, con più carne e bevande analcoliche e le loro conseguenze).

Si profilano due scenari futuri per i biocarburanti. Nel primo si mette l'accento su un loro perfezionamento; le speranze si appuntano su quelli di seconda e terza generazione. I fautori di questa opzione sostengono che l'uso della terra per produrre energia può contribuire a colmare il divario.

La seconda posizione suggerisce che la crisi energetica/biocarburanti è un'ulteriore prova che occorre concepire un sistema alimentare realmente sostenibile. Ciò significa probabilmente vincoli all'eccesso di consumi (meno per l'Occidente, più per il Sud). Si può liberare la terra per nutrire più bocche se si mangia in modo giudizioso, si riducono gli sprechi e si nutre il suolo anziché scavarlo.


Una cosa è chiara: i biocarburanti non sono una soluzione alla sfida energetica più di quanto l'ingegneria genetica sia la risposta unica all'esigenza di aumentare l'approvvigionamento alimentare. Diffidiamo da chi propone soluzioni uniche. Oggi abbiamo di fronte un mondo più complesso e sfaccettato. Ma i politici saranno all'altezza della situazione? Molte vite, molti futuri dipendono da questo.                                                       

Tim Lang

MENO TERRA, PIU' PRODUZIONE


Nel lontano 1962, il premio Nobel Amartya Sen, dimostrò che vi è una relazione inversa tra l'estensione dell'azienda agricola e la resa di raccolto per ettaro: più sono piccole, maggiore è la produzione.
In alcuni casi le differenze sono enormi: un recente studio in Turchia ha mostrato come fattorie con meno di un ettaro, in proporzione, sono venti volte più produttive di aziende con oltre 10 ettari. Risultati simili sono stati rilevati in India, Pakistan, Nepal, Malesia, Thailandia, Filippine, Brasile, Colombia, Paraguay Insomma, sembra che la regola sia più che verificata.




vs






Le ragioni del fenomeno sarebbero che i piccoli produttori lavorano di più e meglio la terra. La fattorie sono spesso a conduzione familiare, quindi vengono abbattuti i costi del lavoro mentre la qualità dell'operato è in media migliore rispetto a quello degli operai. Curando maggiormente i propri appezzamenti e spendendo più tempo nella manutenzione dei terrazzamenti e dei sistemi d'irrigazione, i piccoli produttori possono coltivare più intensivamente la terra. I miracoli economici in Sud Corea, Taiwan e Giappone sono iniziati in buona parte con una riforma agraria che ha ridistribuito la terra. Un altro vantaggio, anche in questo caso macroscopico, è il minor impatto ambientale dell'agricoltura su piccola scala, poiché i contadini sono custodi della terra, e non gli sfruttatori, contrariamente a quanto avviene nelle vaste monocolture. Nonostante questo, l'agribusiness sta demolendo il sistema dei piccoli produttori. Estendendo diritti di proprietà intellettuale su ogni aspetto della produzione, immettendo sul mercato semi terminator, le multinazionali fanno sì che possa sopravvivere nel mercato agricolo globale solo chi ha accesso a grossi capitali, vedi le grandi aziende. Per non parlare del sistema dei sussidi largamente usato nell'Ue e negli Usa che avvantaggia soprattutto le grandi fattorie.

IL GUSTO TRA SACRO E PROFANO


I dolci, si sa, migliorano  l'umore, sono ricchi di magia e rappresentano l'apice di esibizioni sociali, racchiudono nelle simbologie decifrate segni nascosti linguaggi che spaziano dal sacro al profano, presentano il fasto ed il quotidiano. Resistere alle lusinghe dei dolci è quasi impossibile.



































Anche se l'invenzione del dessert è degli ultimi tre secoli l'attrazione per il dolce è antica quanto l'uomo. A partire dalla nascita: il latte materno è il primo dolce che assaggiamo. E il dolce è il primo gusto che percepiamo sulla punta della lingua. I primi dolciumi risalgono al Neolitico con la creazione dei biscotti primordiali: un impasto di cereali lasciati a macerare nell'acqua e "cotti su pietre arroventate dal fuoco. Da quel momento i dolci sono apparsi sui banchetti reali babilonesi e tra i faraoni egiziani fino ad arrivare ai greci che offrivano ad Artemide, dea della caccia, ciambelle a mezza luna. In questo percorso storico il dolce ha compiuto un'evoluzione preparativa: partendo da una "pappa" di cereali misti alle ciambelle al miele siamo giunti ai pasticcini zuccherati. Preparare una torta è un rito magico ricco di simboli: abbondanza e protezione divina.

In ogni cultura il dolce rappresenta un premio che l'uomo si è concesso per festeggiare qualcosa o più semplicemente per gratificarsi. Mangiare dolci ci fa sentire bene. Un effetto non solo psicologico dato che i dolci innescano una cascata di reazioni biochimiche). Il dolce natalizio come il panettone si spinge verso l'alto perché si avvicina al divino. Quello pasquale invece è attorcigliato su se stesso più legato alla terra e alla morte. Persino le pillole medicinali hanno origine dai dolci antichi: provengono dalla consuetudine di nascondere con la copertura di miele il cattivo sapore di erbe curative.

Ricca di simbologia è la torta nuziale la cui tradizione risale al Medioevo. All'epoca si usava ammucchiare biscotti e pasticcini portati dagli invitati: più alto era il cumulo maggiore sarebbe stata la felicità dei coniugi. Da questa montagnola nacque nel 1600 la torta a più piani ricca di significati: la forma circolare rappresenta la protezione divina, i diversi strati sono le scale della vita da affrontare insieme e i cigni sulla cima rappresentano la fedeltà coniugale. Proseguendo l'excursus storico del dolce giungiamo finalmente alla nascita della pasticceria moderna che ebbe luogo in Francia nel 1700. Anche l'abitudine di mangiare i dolce a fine pasto fu introdotta Oltralpe nell'800 con il rito del dessert (dal verbo desservir, sparecchiare). Prima i dolci si consumavano durante tutto il pranzo.

IL GUSTO DI SAPERE ATTRAVERSO IL SAPORE

Nel 1968 Lévy  Strauss esaminava le credenze e i costumi delle società indigene americane. "Si può sperare di scoprire come la cucina di una società costituisca un linguaggio nel quale questa società traduce inconsciamente la propria struttura o addirittura rivela, sempre senza saperlo, le proprie contraddizioni'.
L'obiettivo di Lévi-Strauss consisteva nel mostrare come numerose indicazioni sociali e culturali derivate dai miti si possano in ogni epoca ricondurre ad un nucleo esiguo di princìpi strutturali, che riducono le distanze tra le società umane evidenziandone le radici comuni. Così, confrontando credenze e comportamenti propri della nostra cultura con altri provenienti da culture lontane nello spazio e nel tempo, è possibile cogliere il loro carattere significativo: quando si riferiscono al modo di stare a tavola, all'educazione delle ragazze o alla cottura dei cibi, i miti e le usanze dicono in realtà molto di più; per quanto appaiano casuali, sono il mezzo attraverso cui si esprimono le strutture mentali di un intero popolo.


Analogamente, l'antropologo britannico Jack Goody ha focalizzato la sua attenzione sulle modalità di trasmissione del sapere culinario, sulle connessioni tra classi e stratificazione sociale e distinzione di gusti, strumento di rivendicazione di un certo status sociale o anche di una certa identità etnica.

Inoltre cucinare significa simbolicamente sottomettere la natura (gli ingredienti, i materiali grezzi) e ridurla in cultura (il piatto finito).



Si tratta di un processo alchemico, magico, come ci ricorda Claude Fischler, in cui occorre esorcizzare la potenziale pericolosità del cibo: il cibo è qualcosa infatti che si introduce, attraverso la bocca, nel nostro corpo. E' un corpo estraneo, potenzialmente pericoloso, contaminante: così egli spiega le costruzioni simboliche attorno al cibo, i suoi miti e riti [Fischler1992]
L'alimentazione fa parte delle pratiche fondamentali del sé, dirette alla cura del sé attraverso il costante nutrimento del corpo con cibi considerati culturalmente appropriati che, oltre a costituire una fonte di piacere, agiscono simbolicamente come materie prime per rivelare l'identità di un individuo a se stesso e agli altri [Lupton 1999].


La condivisione dello stesso cibo, in famiglia, in occasione di determinati avvenimenti sociali, nella quotidianità, introduce le persone nella stessa comunità, le rende membri della stessa cultura, le mette in comunicazione.


Il dono del cibo ad esempio, getta un ponte tra noi e l'altro, e in tutte le società ha sempre avuto un peso rilevante nelle dinamiche sociali. Nella civiltà occidentale a San Valentino gli innamorati si regalano cioccolato, sotto forma di cioccolatini: regalare cioccolato è una sorta di promessa di dolcezza e bontà al partner







Il cibo è anche strumentale nel sottolineare le differenze, tra gruppi, culture, strati sociali, e serve a rafforzare l'identità di gruppo, a separare e distinguere il 'noi' dagli 'altri' [Bourdieu 1983]. Nelle questioni etniche il cibo assume un ruolo importante: nei secoli passati ad esempio le culture altre venivano stigmatizzate definendole 'cannibali'. Gli altri, i popoli esotici d'oltremare erano sicuramente cannibali, o comunque si nutrivano di cose disgustose per i civilizzati popoli occidentali L'accusa o il sospetto di cannibalismo era rivolta a varie popolazioni africane, asiatiche, americane, aborigene, australiane, e provocava repulsione negli europei
Attualmente l'alimentazione è uno dei display più importanti per delimitare barriere ideologiche, etniche, politiche, sociali, o al contrario uno dei mezzi più utilizzati per conoscere le culture 'altre', per mescolare le civiltà, per tentare la via dell'interculturalismo; il cibo è anche un meccanismo rivelatore dell'identità etnica, culturale, sociale [Scholliers 2001].
L'alimentazione infatti è una voce importante nella costruzione dell'identità personale, di genere [Counihan 1999] di classe, etnica e molti sociologi e antropologi hanno riscoperto il tema dell'alimentazione, in passato sottovalutato anche per il suo carattere quotidiano, a torto considerato banale

Il cibo è sovente utilizzato come metafora di ciò che è buono e di ciò che è cattivo.

L'antropologo Marvin Harris, nelle sue ricerche, ha sottolineato come le interdizioni alimentari, i gusti e i disgusti, le preferenze alimentari siano il risultato di adattamenti da parte degli attori sociali, per raggiungere un soddisfacente equilibrio economico, ecologico e nutrizionale [Harris 1990].


Le domande a cui tentano di dare una risposta gli antropologi attualmente impegnati nel settore non sono di poca importanza e riguardano soprattutto il destino delle 'cucine locali' nei prossimi decenni, i mutamenti sociali indotti dai gusti, la sfida tra l'omologazione dei gusti ormai planetaria e le 'piccole patrie' culinarie e infine il futuro delle biotecnologie.






Il cibo è talmente importante nella vita degli uomini che ha un ruolo fondamentale anche nella religione. Nel Nuovo Testamento, ad esempio, sono almeno tre i momenti in cui l'insegnamento di Gesù si collega al cibo: Le nozze di Cana, quando Gesù trasforma l'acqua in vino; La moltiplicazione dei pani e dei pesci e l'ultima cena.



Dietro ai sapori, agli odori, si nascondono tantissimi significati; dietro al gusto di sedere a tavola, ma anche di stare dietro ai fornelli, esiste una trama fitta di simboli e linguaggi che costituiscono il variegato panorama della scienza culinaria.
Il nostro corpo, la nostra psicologia, l'educazione, la cultura, l'ambiente, la storia, sono elementi fondamentali per ripercorrere e capire l'itinerario del piacere, poiché condizionano non solo la preparazione e la presentazione del cibo, ma anche la percezione visiva, olfattiva e la scelta di alcuni sapori al posto di altri. Esistono poi elementi spesso ignorati ma non meno importanti quali il desiderio, la creatività, la voglia, l'immaginazione che trasformano i cibi e la loro preparazione in un vero e proprio linguaggio. Chi ama cucinare generalmente scopre, ricerca, studia, fa esperienza, agisce secondo le sue conoscenze, i suoi retaggi e cerca, grazie alla fantasia, di creare per assecondare la necessità di comunicare stati d'animo e passioni. Non dovremmo scandalizzarci dunque, quando sentiamo definire la culinaria un'arte.


La storia dell'alimentazione, dunque, è una storia ricca di sorprese, di civiltà alimentari che cambiano, un mondo di gusti, sapori e profumi ancora tutti da scoprire. Un mondo che possiede naturalmente la sua storia, i suoi usi e costumi, i suoi artisti, le sue leggende, tradizioni, e perché no, i suoi eroi, scienziati, filosofi, musicisti e poeti.


IN CONCLUSIONE.?


In riferimento a quanto detto finora riporto uno stralcio dell'articolo di

C. Magris, apparso sul Corriere della Sera il 26 novembre 2007, come ago della bilancia fra  due poli opposti, caso Fao e consumismo spropositato: ".non si tratta di ghiottoneria, di gola, o di ingordigia. La tavola vuol dire coralità, amicizia, racconto, festeggiare il tempo che passa. La tavola così intesa è l'opposto della nevrosi che spinge ad aprire il frigorifero alle ore più impensate e a mettersi in bocca qualsiasi cosa ed è l'opposto della cena chic, costosa e quasi sempre pessima. E' un modo di affrontare con giovialità (Giove, nume olimpico) e con benevolenza la vita, così spesso insolente, maligna, insostenibile. Mettersi a tavola è un modo di far ordine, di arginare il caos, di dedicare alla nostra carne, fragile, peritura e destinata a corrompersi, l'attenzione ed il rispetto che essa -in alcuni momenti gloriosa, come dice la fede- merita. La tavola imbandita senza avarizia rallegra se non oltrepassa una giusta misura."

Un finale AD HOC sul tema golosità. L'ingordigia è sintomo di caos interiore, che devia la corretta alimentazione e il momento sacro della cena dalla giusta misura rompendo l'equilibrio voluto dallo stare a tavola per ritrovarsi e dedicare del tempo a noi stessi. La tavola rappresenta familiarità, un luogo che accomuna persone e pensieri, è l'occasione per raccontarsi, scambiare idee e scoprire nuove affinità. Attorno alla tavola ci si trova spesso anche per prendere decisioni dove il dolce scandisce l'evento, isola il momento finale. Sempre comunque il dolce cadenza i momenti importanti. Il suo compito è primario a tavola, nonostante si presenti in chiusura; al dolce spetta il potere di raccordare, come minimo comune denominatore, il percorso proposto dalle precedenti portate. La tavola così descritta suscita coralità, benessere psico-fisico, ristabilisce un evento meritevole della vita quotidiana, che troppo spesso ci obbliga a mangiare appollaiati su sgabelli negli snack bar. Il quadro appena delineato non è vissuto da chiunque, il percorso tracciato dalla tesi ci rende coscienti di una realtà opposta, e mostra come oggigiorno esista un divario abissale e vergognoso fra il mondo del consumismo occidentale e i Paesi sottosviluppati. Attualmente, la preoccupazione maggiore a cui i capi e la associazioni mondiali devono far fronte è quella di creare un livello minimo di dignità umana per ogni individuo, garantendo le condizioni necessarie ed indispensabili per la sopravvivenza. Solo così avremo la possibilità di ristabilire un equilibrio mettendoci a tavola per arginare il caos.



Ma fino a quel momento resteremo inchiodati ad una realtà che ci vizia inutilmente e ci propone squisite quanto poco salutari delizie, producendo cibi light per animali e cimentandosi in esperimenti di ogni tipo per ingolosirci.

La logica del mercato non sente il peso di una giusta ridistribuzione delle risorse alimentari (dà da mangiare a colui che è moribondo per la fame, altrimenti lo avrai ucciso). E noi? La società che ruota attorno ai Paesi benestanti trascina i "cervelli digestivi" in un vortice senza fondo, costringendoci poi a diete artificiose che reclamano EDUCAZIONE ALIMENTARE, NUTRIZIONE SANA, ETICHETTE CERTIFICATE E DENOMINAZIONI GARANTITE.


Il comportamento alimentare diviene in questo senso un importante 'rivelatore': l'uomo è ciò che mangia, certo, ma è anche vero che mangia ciò che è, ossia alimenti totalmente ripieni della sua cultura.























Bibliografia:



NEW YORK renaissance (dal whitney museum of american art)


G.G. Galardi, Dolci a corte. Dipinti ed altro


Focus. Marzo 2008. n° 186


Corriere della sera. 4-6 giugno 2008


Tempi e immagini della letteratura  5




Sitologia:



https://archiviostorico.corriere.it/


https://www.slowfood.it/


https://donnegolose.splinder.com


https://www.centroeducazionegusto.it/


https://www.leggendogodendo.com/






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