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L'antropologia medica




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L'antropologia medica delinea uno spazio di studio e di ricerca vasto ed eterogeneo.

Non tutti gli antropologi concordano nell'uso del termine "antropologia medica", ma tutte le possibili distinzioni terminologiche riguardano scelte accademiche, scelte politiche o semplicemente il tipo di lavoro che gli antropologi svolgono.


Verso la fine degli anni Settanta si configura l'antropologia medica come campo di riflessioni autonome.

Questa svolta coincide con la problematizzazione dei rapporti fra antropologia e biomedicina (medicina allopatica).

La biomedicina finora aveva rappresentato la lente attraverso cui gli antropologi guardavano alle medicine "altre", viste come sistemi dotati di una propria logica. Però gli antropologi giudicavano la logica / razionalità delle "altre" del medicine e non quella della propria. Ritenevano le proprie tecniche mediche come evolute, come se fossero al di là di qualsiasi condizionamento culturale e quindi non fossero passibili di analisi critica.

In realtà anche la medicina occidentale, come le altre medicine, può essere decostruita nella sua logica / razionalità.

È proprio nel momento in cui l'antropologia inizia a volgere il suo sguardo analitico verso il proprio contesto sociale che la biomedicina emerge nei termini di uno specifico sistema culturale.


L'antropologia medica nasce grazie a Arthur Kleinman e Byron Good che insieme fondano la "Scuola di Harvard".

L'antropologia medica nasce all'interno della medicina stessa (psichiatria), infatti di questa scuola facevano parte degli psichiatri (come Kleinman e Good).

Il presupposto di partenza di questi medici era che la biomedicina fosse un' etnomedicina e che, al pari delle altre medicine, potesse essere oggetto di critica. Essa è una medicina locale ed è interessata alle dimensioni biofisiche della malattia.

Le stesse categorie biomediche però sono categorie culturali che costruiscono una particolare interpretazione della malattia; queste categorie non sono universali, ma sono il prodotto di una scelta culturale.

Gli esponenti della scuola di Harvard introducono la distinzione tra disease e illness.

Per disease si intende un'alterazione nel funzionamento o / e nella struttura dell'organismo.

L' illness è il significato che l'esperienza di sofferenza assume per chi la vive in prima persona.

La differenza tra disease e illness consiste nel fatto che la prima è la definizione biomedica di che cos'è la malattia in base a dei valori specifici e quindi all'interno di un contesto scientifico-clinico, mentre la seconda è la visione della condizione di malattia dal punto di vista del malato all'interno di un contesto socio-familiare.

Questi studiosi comprendono l'importanza di considerarli entrambi.

L'incontro medico-paziente è quindi la performance in cui due differenti modi di pensare la malattia vengono messi in scena.

La proposta dei membri della scuola di Harvard è quella di indagare i processi di costruzione culturale dell'esperienza di malattia (ovvero l'illness).

Il limite di questi medici è che sono ancora troppo legati alla medicina occidentale; infatti ciò che cercano è ancora l'efficacia terapeutica.


Negli stessi anni altri studiosi partono da una diversa prospettiva: mettere in luce le dinamiche che stanno dietro alla biomedicina attuando un processo di decostruzione del sapere.

Michael Taussig indica come il compito dell'antropologia medica, lo studio dell'impatto del sapere e delle pratiche biomediche nella realtà sociale, quella che lui chiama la costruzione clinica della realtà. -> domanda: quale tipo di realtà - attori sociali produce la biomedicina?

In questa concezione i pazienti vengono considerati cartelle cliniche e vengono cancellati i loro vissuti esperienziali.

La biomedicina è un progetto politico di controllo sociale ("tutti gli individui devono essere sani"). Egli fa ciò oggettivando, rendendo comuni tutte le malattie (che diventano comuni e riproducibili così come tutto è standardizzato).


Il compito dell'antropologo in questo campo è un approccio archeologico. Egli deve scavare sotto strati di pratiche per capire cosa sta dietro l'ideologia medica. Nella prospettiva antropologica la biomedicina è un processo culturale da smascherare.


Negli stessi anni Allan Jong introduce il concetto di sickness che consiste sia nello studio delle condizioni sociali, politiche ed economiche che concorrono alla creazione di specifiche categorie mediche sia nelle condizioni che contribuiscono l'insorgere di un'esperienza negli afflitti. Quindi oltre a capire i sentimenti dell'afflitto si cerca di capire quali sono le dinamiche sociali, politiche ed economiche che portano l'afflitto a dire ciò che dice sulla sua condizione.


Barbara Smith studia la silicosi tra i minatori di carbone in Viriginia.

La Smith nota come la malattia non colpisce chiunque, ma colpisce solo in relazione alle diverse possibilità che hanno i lavoratori di respirare. "Questa malattia è un incorporazione dell'ineguaglianza".

Vi sono delle componenti sociali che stanno dietro alla categoria della silicosi -> si sono stabiliti parametri - valori della patologia. La biomedicina "crea" la patologia.

In questo caso si valuta la malattia in base all'impatto che ha avuto sull'individuo lavoratore, non in base a criteri di misurazione della massa.


Alla fine degli anni '80 esce un articolo scritto da Margaret Lock e Nancy Scheper-Hughes chiamato The mindful body. Secondo loro gli antropologi non si sono interessati allo studio del corpo, ma solo sulla malattia.

Secondo loro ci sono poi tre tipi di corpo:

-individuale: percezione soggettiva del proprio corpo; esperienza soggettiva del body-self del corpo cosciente: la nostra è soltanto una delle tante possibilità storiche di costruire e vivere la corporeità;

-sociale: corpo come simbolo che permette all'individuo di mappare, immaginare, classificare la realtà sociale, culturale e naturale;

-politico: è il risultato delle diverse forze di potere che si esercitano sul corpo. Viene stabilito ciò che è normale e ciò che è patologico e deviante.

Nasce l'idea del corpo come metafora per esprimere un disagio: non è più un'entità passiva, ma emerge come processo che produce significati ideologici, culturali e non come dato biologico.

La malattia viene vista come un momento di resistenza del corpo, esso rientra all'interno dell'assetto sociale. L'individuo cerca di sfidare l'ordine egemonico oppure ne prende coscienza.

Nasce così una nuova idea: malattia come strumento per esprimere sofferenza sociale.


A questo punto la scuola di Harvard rivede la sua posizione: "Ora l'attenzione deve cadere sullo studio dell'esperienza intersoggettiva di sofferenza, all'interno di specifici mondi morali locali" (Kleinman).

La malattia è concepita qui come processualità, i piani dell'esistenza si intrecciano con essa così come gli attori sociali si intrecciano con la malattia.

Tutto ciò è il mondo morale locale regolato da leggi proprie, anche se non sono sensate socialmente nella realtà sociale abitudinaria.

"Nel momento in cui la malattia ristruttura la vita dell'individuo è necessario un approccio narrativo" (B. Good). Narrando si ricostruisce il senso della malattia, si situa l'evento nella propria vita, nell'economia autobiografica.

Per Good quando l'individuo si ammala c'è la "dissoluzione del mondo", si guarda dal di fuori il mondo e ci si accorge che tutto è inserito in un sistema e che la crisi è controllabile con la narrazione. Ammalarsi cambia la rappresentazione che si ha sulla vita e cambiano anche gli altri.

L'approccio narrativo consiste nella ricostruzione del mito d'origine della malattia, si ricostruisce la malattia e se ne da un senso.


Paul Farmer introduce il concetto di violenza strutturale.

La violenza strutturale è un tipo di violenza che la società esercita nei confronti di specifiche categorie di soggetti. Questo tipo di violenza non richiede un soggetto per essere compiuta poiché è all'interno delle strutture sociali.

Questa violenza è un prodotto culturale che corre su due assi specifici:

-quello del genere: la legittimazione dell'oppressione attraverso le costruzioni culturali della femminilità che giustificano la marginalità e la debolezza sociale delle donne;

-quello delle discriminazioni perpetrate in nome di una qualche differenza "razziale" o "etnica": sono concetti privi di alcun fondamento scientifico, ma che vengono utilizzati nel promuovere iniqui assetti di potere fra differenti gruppi sociali;

a questi due assi può esserne aggiunto un terzo:

-quello della differenza culturale: all'interno della società alcune persone vengono emarginate poiché hanno tratti culturali diversi (es: appartenenza religiosa, abbigliamento, modo di pregare, di occupare lo spazio ecc..).

Quindi vi sono delle dinamiche che creano disuguaglianza e che hanno a che fare con le strutture dello Stato. Per via di questa violenza strutturale alcune persone si ammalano.

In questa prospettiva la malattia è concepita come un processo sociale che si iscrive nelle vicende individuali, principalmente attraverso le limitazioni esercitate sulla capacità di azione.

Emergono quindi come centrali per l'antropologia i temi della giustizia e dei diritti umani. La violazione dei diritti umani è un sintomo di più profonde patologie del potere ed è connessa alle condizioni sociali che determinano chi soffre e chi ne è immune.


Didier Fassin si scaglia contro l'approccio che non tiene conto del ruolo che giocano le forze sociali, economiche e politiche nel promuovere le condizioni che espongono alcuni individui a specifici rischi in virtù della loro debole posizione all'interno di assetti ineguali di potere.

Riprende il concetto di biopolitica di Focault: regime socio-politico in cui la società detiene il controllo; è un regime di sorveglianza e di controllo di tipo panoptico, cioè di estensione capillare della visibilità dei soggetti da parte delle istituzioni.

Fassin riprende il concetto di nuda vita di Agamben: la vita intesa nella sua mera componente biologica privata di ogni sua componente sociale.

Egli mette compie uno studio sul diritto di cittadinanza per gli immigrati francesi; ad essi vengono concessi i permessi di soggiorno solo se mostrano sul proprio corpo i segni di una malattia. Lo Stato infatti vuole controllare la diffusione della malattia, ma non può farlo se essi minacciano la salute pubblica, deve quindi curare questi immigrati.

Quindi il corpo viene ridotto a sola componente biologica, a nuda vita. Il corpo diviene inoltre il terreno di regolazione di specifici rapporti sociali fondati sul paradigma della biolegittimità.

Secondo Fassin lo statuto privilegiato concesso al corpo ha influito sulla coscienza che gli immigrati hanno della propria identità. La società condanna molti stranieri irregolari ad esistere ufficialmente in quanto malati. Si può quindi parlare di incorporazione delle condizioni sociali dell'immigrato.

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