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La questione italiana




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La questione italiana

I. La categoria dei colletti bianchi e l'ordinamento giuridico italiano

Con terminologia mutuata dall'esperienza giudiziaria anglosassone[1], si definisce comunemente come "reato dei colletti bianchi" il fatto antigiuridico, normalmente di natura patrimoniale, posto in essere da chi ha abusato del suo ufficio, della sua qualità professionale o carica istituzionale, ovvero della posizione sociale, strumentalizzando la posizione lavorativa-economica per porre in essere una condotta penalmente rilevante e conseguire illeciti vantaggi.

La citata tipologia delittuosa è venuta particolarmente all'attenzione della magistratura di sorveglianza in seguito alla conclusione della fase dei processi di "tangentopoli"[2].

Tangentopoli cominciò il 17 febbraio 1992, quando il pubblico ministero Antonio Di Pietro chiese ed ottenne la cattura di Mario Chiesa[3], un membro del Partito Socialista Italiano, per una tangente di 7 milioni. Fu l'inizio della prima inchiesta di Mani pulite. Nell' aprile 1992, molti industriali e politici, furono arrestati con l'accusa di corruzione. Le indagini iniziarono a Milano, ma si propagarono velocemente ad altre città, man mano che procedevano le confessioni degli arrestati .

L'11 marzo 1993 si costituisce Francesco Pacini Battaglia che svela la presenza di 500 miliardi di fondi neri Eni, (l'Ente nazionale idrocarburi), usati per pagare mediatori e fornitori esteri e per finanziare i partiti di governo in Italia. Il flusso di accuse, arresti e confessioni non si arrestò.

Nel frattempo iniziò il processo a Sergio Cusani[5]. Cusani era accusato di crimini collegati ad una joint venture tra Eni e Montedison, chiamata Enimont. Anche se non era una figura di primo piano, il fatto che i crimini di cui era accusato fossero collegati all'affare Enimont coinvolse come testimoni molti politici di primo piano .

Col passare dei mesi, le indagini si allargarono oltre i confini della politica: il 2 settembre 1993, fu arrestato il giudice milanese Diego Curtò,per avere incassato una tangente di 320 milioni per la custodia delle azioni Enimont. Il 21 aprile 1994, 80 uomini della Guardia di Finanza e 300 personalità dell'industria furono accusate di corruzione. Alcuni giorni dopo, l'amministratore della Fiat ammise la corruzione con una lettera ad un giornale.

Il 13 luglio 1994, il governo Berlusconi approva un decreto legge che vieta la custodia cautelare in carcere per una lunga lista di reati, tra cui la corruzione e la bancarotta fraudolenta .

Nel 1998 Cesare Previti, ex manager Fininvest e parlamentare eletto nelle liste del partito di Silvio Berlusconi, evitò il carcere per l'intervento del Parlamento, anche se il suo partito ed i suoi alleati erano all'opposizione. Bettino Craxi invece accumulò diversi anni di condanne definitive, lasciando l'Italia per Hammamet in Tunisia, dove rimase fino alla sua morte,il 19 gennaio 2000.

A Milano, la città in cui è nata Mani pulite, la metropoli delle 1.408 condanne definitive per corruzione, concussione, finanziamenti illeciti ai partiti e relativi falsi in bilancio aziendali, il sistema delle tangenti continua come prima.

Oggi gli indagati sono in maggioranza, oltre che imprenditori, funzionari e impiegati delle pubbliche amministrazioni, anche se non mancano i politici. Come nella vecchia Tangentopoli scoperta proprio a Milano nel 1992. Qualche differenza, però, balza agli occhi.

Innanzitutto, oggi gli indagati e perfino i condannati non pagano alcun prezzo politico, non ricevono alcun contraccolpo d'immagine davanti all'opinione pubblica, né tantomeno sono emarginati dai loro partiti. Anzi spesso fanno carriera, magari con la forza che deriva loro dalla conoscenza di dinamiche e fatti interni al partito.

Una seconda differenza con la Tangentopoli classica è che oggi, in alcuni casi, gli imprenditori non hanno più bisogno di pagare tangenti per ottenere favoritismi. Il sistema è diventato, in qualche modo, automatico[8].

Una terza differenza tra la vecchia e la nuova Tangentopoli è il fatto che deve essere più accurata la ricerca della prova. Lo dimostra la storia del sindaco di Bollate, piccolo centro alle porte di Milano. L'8 febbraio 2000, otto anni dopo quel 17 febbraio 1992 in cui fu arrestato Mario Chiesa e partì Mani pulite, a Milano viene arrestato, con le stesse modalità di Chiesa, un collaboratore del sindaco di Bollate. Con una somma di 25 milioni appena intascata, in banconote da 100 a 500 mila lire che un maresciallo della Procura, su denuncia di un imprenditore taglieggiato, aveva fotocopiato e chiuso in una busta         bianca.

L' imprenditore Alfredo Leuzzi, proprietario di un fast food nell'hinterland milanese, voleva costruire un McDonald's a Bollate. Aveva chiesto la licenza edilizia, l'attendeva dal 1990 e finalmente alla fine del 1999 aveva sperato che la situazione si sbloccasse. Ma si era sentito chiedere da Triacca una tangente di 150 milioni "per il sindaco". L'imprenditore ha finto di accettare, ma ha denunciato tutto ed allora è scattata la trappola: microspie, una minitelecamera, le banconote fotocopiate dalla procura. Consegnata la prima rata della somma pattuita - 25 milioni- sono arrivati i carabinieri, che hanno pronunciato la stessa frase detta a Mario Chiesa: 'Questi soldi sono nostri'.
Per il sindaco Nizzola il processo, per concussione, si è concluso nel 2004 con una condanna a 3 anni. Ma per il portaborse Triacca nell'ottobre 2001 il giudice del Tribunale di Milano Roberta Cossia lo condanna (con rito abbreviato) a 3 anni e 4 mesi. In appello la pena viene poi ridotta a 2 anni.

Alfredo Leuzzi, si vede anche accogliere la richiesta di risarcimento dei danni, che andranno poi 'quantificati' in una successiva causa civile, perché l'imprenditore ha subito perdite di notevole entità: dopo il suo no alle tangenti, infatti, il Comune di Bollate ha bloccato la pratica con argomentazioni pretestuose, tanto da far scadere il piano edilizio. Ma il tribunale civile respinge la richiesta di risarcimento[9], e anzi impone a Leuzzi di 'rifondere metà delle spese legali' al colpevole: mille euro.

Le più significative pronunce giurisprudenziali in materia di concessione delle misure alternative ai c.d. "tangentisti" sono state emesse dai Tribunali di Sorveglianza di Milano e Torino.

Il leading case in materia è costituito dal caso deciso con ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Torino del 15.10.97 (Rossanigo) in rapporto all'istanza di affidamento in prova al servizio sociale formulata da soggetto condannato per peculato aggravato, avendo distratto a proprio vantaggio delle ingenti somme di denaro destinate ad un ospizio per poveri[11] .

In quell'occasione il Tribunale ha ritenuto di concedere la richiesta misura sul rilievo che la funzione retributiva della pena si era già realizzata, avendo l'istante presofferto un periodo di custodia cautelare in carcere; che l'interessata era priva di precedenti penali e che, successivamente al fatto commesso, era stata allontanata dalla posizione lavorativa che aveva illecitamente strumentalizzato per la commissione degli abusi ( di tal che era ragionevole escludere il pericolo di recidiva specifica).

Il Tribunale si è posto quindi il problema della concreta determinazione delle prescrizioni che l'affidata avrebbe dovuto rispettare per garantirsi il positivo esito della misura e la conseguente declaratoria di estinzione della pena[12]

In proposito il Tribunale ha osservato che il contenuto prescrittivo della messa alla prova ha il duplice scopo di evitare la possibile recidivazione del reo e di reinserire lo stesso nella società.

Se il primo aspetto doveva ritenersi ormai superato alla luce dell'allontanamento della condannata dall'ambiente lavorativo, all'interno del quale erano maturate le condotte delittuose, il secondo profilo era ancora attuale: infatti, era ben vero che il soggetto proveniva da nucleo familiare normoinserito e all'apparenza perfettamente integrato socialmente, ma, ha osservato il Tribunale, "l'appartenenza o meno alla società civile di un individuo non può essere determinata dal suo censo, ma dal grado di rispetto delle fondamentali regole del vivere comune che lo stesso manifesta nel corso della sua vita".

Nella fattispecie, emergeva dagli atti che l'agente aveva commesso il reato per incrementare ulteriormente il proprio tenore di vita, sottraendo alle pubbliche necessità una somma consistente, avvalendosi della posizione di rilevo all'interno della USL ove prestava servizio.

Il contenuto precettivo delle prescrizioni avrebbe dovuto dunque assolvere la finalità di far percepire alla condannata le conseguenze negative per la società del reato commesso, in funzione specialpreventiva, e attenuare le stesse attraverso una prestazione di "dare".

In ordine poi a quest'ultimo aspetto, il Tribunale in quell'occasione evidenziò come non fosse possibile imporre una prescrizione restitutoria (risarcitoria in forma specifica) poiché l'interessata aveva nel frattempo dilapidato le somme illecitamente sottratte alla istituzione pubblica, e si trovava in disagiate condizioni economiche. Si optò allora per una prescrizione restitutoria "per equivalente", disponendo che l'affidata prestasse la propria opera a titolo gratuito, per tutta la durata della messa alla prova, in favore dello stesso ospizio per poveri danneggiato dalla condotta antigiuridica dell'affidata.

Tale prima pronuncia in materia di riparazione rieducativa mette in luce una serie di problematiche che i giudici hanno dovuto e devono affrontare nello sforzo interpretativo di adattare istituti e misure quali l'affidamento in prova al servizio sociale. Evidentemente gli istituti furono pensati dal legislatore del 1975 in rapporto a reati commessi da soggetti appartenenti alle fasce svantaggiate della società, espressione di marginalità e sottocultura che mal si conciliavano con la cornice socio-economica e culturale dei condannati per i reati dei "colletti bianchi".

Le prime pronunce giurisprudenziali citate hanno risolto concettualmente il problema di adattamento sopra evidenziato modellando il concetto di disadattamento sociale su parametri etico-giuridici piuttosto che su profili di carattere socio-economico o lavorativo, sottolineando conseguentemente il principio che ogni delitto è manifestazione di disadattamento sociale poiché manifesta la mancata adesione alle regole della società civile e al principio di doverosità del rispetto delle leggi.

La peculiarità delle fattispecie dei "white collars crimes" ha poi indotto la giurisprudenza di merito a creare, nei casi in questione, dei parametri altrettanto peculiari per valutare la ricorrenza dei presupposti di concedibilità delle misure alternative alla detenzione.

Si è infatti inizialmente puntato a soluzioni di tipo "contrappassistico" (come nel caso sopra esaminato), in grado di collegare la prestazione riparativa al reato commesso, appagando le esigenze di vendetta sociale.

Successivamente, la giurisprudenza del Tribunale di Sorveglianza di Milano, occupandosi dei condannati di "tangentopoli", ha enucleato ulteriori parametri: si è verificato se il soggetto avesse manifestato segni di resipiscenza rispetto al reato commesso, o avesse compiuto una seria e reale revisione critica del comportamento, prestasse un'attività lavorativa estranea all'ambito in cui era maturato il reato commesso, o, infine, se avesse integralmente risarcito il danno.

In particolare, sotto il profilo del risarcimento del danno, si è registrata nell'esperienza concreta dei Tribunali di Sorveglianza l'obiettiva difficoltà di ricostruire con sufficiente attendibilità la situazione economica e patrimoniale dei condannati, tanto per la scarsa incisività degli strumenti di indagine a disposizione[13] , quanto per la forbice temporale che spesso separa il periodo di commissione del reato dal momento in cui il Tribunale di Sorveglianza procede per la concessione della misura alternativa.

Le difficoltà sopra accennate producono spesso un'ulteriore problematica connessa alla concreta scelta del giudice tra prescrizioni restitutorie di tipo risarcitorio (dazione pecuniaria in favore della vittima del reato, privata o istituzione pubblica) ovvero riparatorio (prestazione di attività a titolo di volontariato); scelta evidentemente collegata sia alla accertata attuale possibilità materiale di adempiere del condannato quanto alla concreta praticabilità di opzioni diverse in rapporto all'attualità di progetti di inserimento lavorativo a sfondo solidaristico presso enti pubblici o privati.[14]

A fronte dei citati tentativi della giurisprudenza di merito di dare contenuto riparatorio alle misure alternative alla detenzione (in particolare nel caso dell'affidamento in prova al servizio sociale) si deve registrare l'atteggiamento della Suprema Corte Cassazione che, con una serie di pronunce rese in rapporto a casi-pilota, ha fissato una serie di principi che sembrano limitare significativamente l'ambito di operatività delle prescrizioni riparative elaborato dai Tribunali di Sorveglianza.

Anzitutto, è stata esclusa la possibilità di subordinare la concessione della misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale all'offerta da parte dell'istante di un progetto restitutorio previamente concordato con il giudice ed eventualmente con la parte offesa.

Tale opzione interpretativa discende dalla considerazione che in tal modo si verrebbe a subordinare l'obbligo costituzionale di fare trattamento e rieducare il reo all'attuazione del ristoro del danno da reato; e sul rilievo che il risarcimento nei confronti della vittima del reato è previsto dalla legge quale prescrizione e condizione risolutiva rispetto all'esecuzione della misura: dunque, normativamente, un post rispetto al prius rappresentato dalla effettiva concessione del beneficio da parte del Tribunale di Sorveglianza.

Sotto altro profilo, la Suprema Corte ha stigmatizzato la decisione del Tribunale di Sorveglianza di reiezione della domanda di affidamento in prova al servizio sociale formulata da soggetto, condannato per concussione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti politici[15].

I giudici di merito avevano, infatti, motivato la decisione di rigetto sulla considerazione che l'istante era soggetto perfettamente integrato socialmente e non necessitava dunque del processo di reintegrazione nella società cui l'affidamento in prova è finalizzato, che si sarebbe dedicato alla cura dei propri interessi privati e non si sarebbe dedicato a lavori o attività socialmente utili ( e dunque sarebbe stata vanificata la finalità rieducativa/riparatoria della misura richiesta); che l'interessato non aveva compiuto alcun processo di revisione critica della propria condotta delittuosa.

La Corte ha disatteso completamente l'impostazione dei giudici di merito e, nel cassare la decisione del Tribunale di Sorveglianza[16] ha osservato preliminarmente che ogni reato è di per se manifestazione di "disadattamento sociale", quantomeno inteso quale insofferenza nei confronti dell'ordinamento statuale, e che la revisione critica del soggetto e l'effettuazione di attività a contenuto sociale non sono parametri decisivi su cui valutare la concedibilità o meno della richiesta misura.

Con la citata decisione la Cassazione ha rilevato, anzitutto, che la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale, nata in un'ottica di applicazione a soggetti socialmente svantaggiati, ben può essere applicata anche nei confronti di soggetti "iperintegrati" (quali a es. i condannati di tangentopoli), poiché l'esigenza di rieducazione - intesa quale reinserimento sociale - è presente in rapporto all'una e all'altra categoria di condannati, essendo la violazione della legge penale ex se sintomo di un carente adattamento sociale.

In secondo luogo, la Corte afferma, in ordine alla tipologia di attività lavorativa o comunque risocializzante (che avrebbe costituito - secondo i giudici di merito - la vera sostanza della misura alternativa) che, in rapporto al beneficio della messa alla prova, la scelta in ordine all'attività cui l'affidato dovrà dedicarsi nel corso della misura non può costituire parametro di giudizio in ordine alla reale o fittizia volontà di reinserimento del soggetto, né a maggior ragione, può ritenersi necessaria alla più efficace rieducazione del condannato.

Il contenuto della citata pronuncia della Corte non può che destare perplessità in particolare in ordine alla enunciazione del concetto di "disadattamento sociale", che viene descritto quale elemento immanente nella commissione di qualsiasi reato mentre la stessa lettera di articolate disposizioni dell'ordinamento penitenziario evidenziano espressamente l'essenza dell'antisocialità nell'insieme delle carenze fisio-patologiche, culturali, familiari e sociali che sono state di ostacolo al condannato rispetto ad un ordinata e pacifica vita nella società civile .

Ben maggiori perplessità desta poi l'affermazione che l'attività lavorativa o comunque prestata anche a titolo di volontariato non possa né debba essere valutata sotto il profilo dell'attitudine rieducativa della medesima, con riferimento alle finalità di reinserimento sociale poste a fondamento della misura dell'affidamento in prova al servizio sociale: ciò tanto per il fatto che tale nuovo indirizzo sconfessa completamente la giurisprudenza della stessa Cassazione sulla valenza rieducativa dell'attività lavorativa; quanto soprattutto perché si finisce per non comprendere più quale sia il contenuto sostanziale del beneficio penitenziario in esame (la mera "buona condotta"?) e si finisce per svuotare completamente di significato la misura, che, persa ogni valenza riparatoria, finisce per divenire nulla più che un simulacro di esecuzione della pena inflitta.




II. Inadeguatezza del sistema delle misure di esecuzione extamuraria rispetto ai colletti bianchi.

Con altra pronuncia, la Cassazione ha annullato l'ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano reiettiva dell'istanza di affidamento in prova al servizio sociale formulata da Sergio Cusani[17].

I giudici del merito avevano ritenuto non concedibile la richiesta misura sul rilievo della attuale pericolosità sociale del detenuto, derivante della carente revisione critica del condannato e del mancato raggiungimento della prova del suo certo distacco dal suo passato criminoso.

Nel caso del Cusani (di soggetto dunque socialmente "iperintegrato"), il Tribunale milanese aveva inoltre stabilito che la misura richiesta avrebbe dovuto garantire il recupero sociale del soggetto attraverso la sua piena resipiscenza rispetto ai fatti commessi in una con l'aspetto compensatorio della pena, soddisfatto attraverso manifestazioni di tipo altruistico che compensassero - appunto - il vulnus inferto dal Cusani alla società.

La Corte ha rilevato, nell'occasione, che la concedibilità della misura non presuppone affatto né il pentimento o la revisione critica del condannato rispetto ai reati commessi, né alcuna forma di manifestazione concreta di tipo riparatorio, essendo sufficiente che il Tribunale accerti che la misura dell'affidamento in prova al servizio sociale possa svolgere meglio che la detenzione in carcere la funzione rieducativa della pena stabilita dall'art. 27 della Costituzione, sulla base dei dati dell'osservazione penitenziaria che evidenzino un'iniziale processo di modificazione dell'atteggiamento antisociale del condannato.

La pronuncia citata evidenzia in termini forse ancor più pronunciati le problematiche connesse alla possibilità di dare un contenuto concretamente riparatorio alla misure alternative e , in particolare, all'affidamento in prova al servizio sociale in rapporto a reati commessi dai white collars . Invero, alla luce del citato orientamento della Cassazione, non sembra ammissibile subordinare la concessione delle misure alternative a soggetti responsabili di reati del tipo in esame alla valutazione della resipiscenza da questi manifestata, anche attraverso forme di restituzione delle somme illecitamente sottratte o distratte, ovvero attraverso forme di risarcimento per equivalente.

Resta tuttavia in piedi il potere-dovere del Tribunale di sorveglianza di imporre delle prescrizioni di tipo risarcitorio in ottemperanza al disposto dell'art. 47 comma 7 O.P., la cui formulazione novellata dalla citata legge n. 663/86 ha reso obbligatoria l'imposizione di quelle obbligazioni di solidarietà che antecedentemente erano soltanto eventuali.

In altri termini, se l'orientamento attuale della Cassazione sarà confermato, la conseguenza sarà di conferire più incisivo risalto alla valutazione che il Tribunale di Sorveglianza è chiamato a compiere in sede di verifica dell'esito positivo della prova, con particolare riguardo alla congruità dei comportamenti tenuti dall'affidato rispetto alle prescrizioni impostegli, al fine di ritenere effettivamente realizzata la rieducazione del condannato.

Tale giudizio sarà positivo non soltanto se il soggetto avrà orientato la propria condotta verso modelli di vita conformi al rispetto della legge, ma anche se l'affidato avrà posto in essere quelle attività lato sensu compensative dei danni provocati alla vittima e/o alla società attraverso la commissione dei reati.

E' evidente, comunque, che il sistema denuncia palesemente l'inadeguatezza degli strumenti normativi in possesso del giudice e in particolare l'assenza di una articolata e moderna panoplia di sanzioni penali applicabili a tipologie di reati e di agenti molto variegata.

I provvedimenti sinteticamente esaminati evidenziano, infatti, lo sforzo della giurisprudenza di merito di adeguare a nuove forme di criminalità e a nuove aspettative di giustizia effettiva, forme e istituti giuridici nati e pensati per situazioni affatto diverse.





Gli anglosassoni distinguono infatti i "white collars crimes" dagli "street crimes" o "delitti di strada

Nella prospettiva della cultura egemone è forte l'idea della incompatibilità tra status di criminale da un lato e ruolo pubblico nella sfera dell'economia e della politica dall'altro. Coerente a questa idea è l'esigenza di riconfermare la natura di classe della criminalità. Dunque, accanto alla difesa ad oltranza degli inquisiti potenti,portata avanti su alcune importanti testate nazionali, si aggiunge la denuncia nei confronti di una giustizia penale ritenuta colpevole di trascurare la lotta alla vera criminalità, quella che il sistema giudiziario preferisce ignorare per dare la caccia ai potenti.

Bettino Craxi, al tempo leader del PSI, negando l'esistenza di corruzione a livello nazionale, definì Mario Chiesa un mariuolo, una 'scheggia impazzita' dell'altrimenti integro Partito Socialista Italiano.

Una situazione grottesca accadde quando un politico socialista confessò immediatamente tutti i propri crimini a due carabinieri che erano arrivati a casa sua, per poi scoprire che erano venuti semplicemente per notificargli una multa.


Il processo fu diffuso sulla televisione nazionale, e fu una specie di passerella di vecchi politici messi a confronto con le loro responsabilità.

Il culmine del processo fu quando l'ex Presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, rispondendo ad una domanda, disse semplicemente 'Non ricordo'; Forlani era molto nervoso, e non si rese conto della saliva che si accumulava sulle sue labbra; questa immagine assurse a simbolo del disgusto popolare per il sistema di corruzione. Bettino Craxi invece ammise che il suo partito aveva ricevuto 93 milioni di dollari di fondi illegali. La sua difesa fu 'lo facevano tutti'.


Solo pochi giorni prima, i poliziotti arrestati avevano parlato di corruzione nella Fininvest, la maggiore delle proprietà della famiglia Berlusconi.

Ne è un esempio la vicenda delle forniture alla sanità lombarda. Nomine pilotate e appalti truccati: questo è il quadro emerso da un'inchiesta della procura di Milano. Il sistema sanitario è gestito non tanto per offrire un servizio ai cittadini, quanto per arricchire gli "amici" imprenditori. Nomine lottizzate politicamente, come ai vecchi tempi, e nuovi manager privati che, al pari dei vecchi amministratori pubblici, sostengono le lottizzazioni e truccano gli appalti.


La decima sezione civile nel novembre 2003 stabilisce che la vittima di una concussione - il cittadino taglieggiato da un pubblico ufficiale con metodi da vera estorsione - non ha alcun diritto certo di ottenere neppure un euro di risarcimento.

'Gli amici di Triacca', racconta Leuzzi, 'sono venuti a prendermi in giro: "Hai visto che succede a denunciare? Dovevi pagare e basta"'. E in procura molti magistrati commentano: è davvero la fine di Mani pulite, quanti cittadini avranno ora il coraggio di denunciare i corrotti?

Cfr. Fabio Fiorentin, Ordinamento penitenziario,misure alternative e "criminalità dei colletti bianchi", in Diritto & Diritti,luglio 2002.

Ai termini dell'art. 47 L. 354/75, infatti, il Tribunale di Sorveglianza, all'esito del periodo di messa alla prova del condannato, ha il potere-dovere di verificare l'esito positivo della stessa, che comporta la declaratoria di estinzione della pena in caso di giudizio favorevole, e, in caso contrario, la pronuncia di non-estinzione con conseguente ripristino della detenzione per un periodo che può essere uguale all'intera condanna subita


Le acquisizioni istruttorie ordinariamente consistono nella richiesta di informazioni alla curatela fallimentare in caso di procedure concorsuali ancora aperte, o di verifiche a cura della G:D.F. o degli uffici tributari in ordine alla situazione patrimoniale del condannato

Per supplire alla carenza di opportunità offerte dalla realtà esterna si sta sperimentando l'esperienza dei lavori socialmente utili (LSU) presso comunità montane, comuni o altri EE.LL. in applicazione di una recente normativa. E' tuttavia ancora presto per verificare gli esiti di tale sperimentazione. Ulteriori provvedimenti legislativi sono recentemente stati emanati per favorire il lavoro dei detenuti ( L. 22 giugno 2000, n.123).


Cfr. Fabio Fiorentin, Ordinamento penitenziario,misure alternative e "criminalità dei colletti bianchi", in Diritto & Diritti,luglio 2002.

( Cass. I, 9 dicembre 1997 , Armanini)

Sergio cusani,imputato e detenuto simbolo di tangentopoli,condannato a otto anni per la maxi-tangente nell'affare Enimont (la cessione,a un prezzo gonfiato,da parte di Raul Gardini delle sue quote Montedison all'ENI), è stato tra i pochi ad aver pagato con il carcere (4 anni)le proprie responsabilità a fronte di quasi 1400 condanne di cui 800 avvenute attraverso il patteggiamento,500 persone assolte e 400 casi passati in prescrizione.

Oggi Cusani è tornato a svolgere la sua professione di avvocato questa volta al servizio dei più deboli. È Presidente di Liberi,associazione per l'assistenza ai detenuti e alle loro famiglie.


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