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Ricentrati in nessuna sorgente | Narrative Self e Liminal Mind in Company




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Ricentrati in nessuna sorgente | Narrative Self e Liminal Mind in Company


















Com'è ampiamente emerso nella prima parte, il maggiore risultato della cosidetta narratologia "post-classica" è quello di avere messo in risalto i molteplici nessi tra mente e narrazione. Da una parte, è stato investigato il modo in cui la mente del lettore extra- testuale processa e decodifica le informazioni finzionali, con quali risorse completa i vuoti del testo, e cosa in esso cerca e produce. Dall'altra, è stata postulata una sorta di analogia strutturale tra il funzionamento dei mondi di finzione e l'esperienza che normalmente facciamo del mondo reale e attuale. Un ulteriore supporto di questa analogia sembrerebbe trovarsi nel fatto che ogni esperienza del mondo fenomenico che compiamo in prima persona abbia nella nostra mente un corrispettivo qualitativo, sia cioè associata a particolari stati mentali che sono il modo in cui la nostra mente si rappresenta quanto ci accade sotto forma di qualità soggettive: questi stati mentali, che la filosofia della mente ha definito come qualia e la cui esistenza è molto dibattuta, sarebbero ciò che ci permette di descrivere cosa sentiamo, proviamo o percepiamo, e di renderci così in grado di comunicare la nostra soggettività in forma descrittiva, esprimendo le nostra interiorità per analogia tra ciò che fisicamente ci accade o è accaduto e il modo con cui questo è da noi percepito, le caratteristiche qualitative che corrispondo al "what-is-like" dell'esperienza: «One of the most distinctive features of conscious mental states is that there is "something it is like" to have them. There is something it is like for me to smell a rose, day- dream about my vacation, or stub my toe, but presumably for the rose there is nothing it is like to have an odor, and for the table leg there is nothing it is like to be kicked by my toe.» (Levine 1999:

893). In altre parole, ogni evento fisico e percettivo che ci accade nel mondo fenomenico avrebbe dei corrispondenti qualia nella nostra coscienza individuale.

L'esistenza dei qualia potrebbe essere cruciale per collegare il mondo attuale e il mondo virtuale, per giustificarne ulteriormente l'analogia e il transito dall'uno all'altro. Seguendo questa ipotesi, infatti, l'atto di lettura verrebbe ad essere nient'altro che una proiezione del lettore, un «fictional recentering» cognitivo (Ryan, 1991, 13-30) in un'altra coscienza, in un'altra «fictional minds» (Palmer, 2004) attraverso questi stati qualitativi, questi qualia mental states. In questa prospettiva, il nostro leggere storie potrebbe essere descritto come un mettere in atto, un assumere e interpretare (in senso attivo, performativo) questa dimensione qualitativa della coscienza attraverso la mente finzionali in cui siamo collocati e rilocati. Il salto cognitivo dal mondo extra-testuale verso i molteplici mondi individuali presenti in ogni finzione sarebbe così veicolata da questa qualità rappresentativa di un «consciousness factor» (Cf. ); come sottolinea Marie-Laure Ryan, «for the duration of our immersion in a work of fiction, the realm of possibilities is thus recentered around the sphere which the narrator presents as the actual world» (Ryan 1991, 22]. Il lettore ricostruisce di volta in volta un mondo per ciascuna prospettiva, per ciascuna fictional mind in cui viene situato. In seguito a questa svolta cognitiva, la teoria della narrazione ha iniziato ad abbandonare l'idea di una finzione come rappresentazione, a favore di una idea della risposta estetica come esperienza. (Cf.)

Ad ogni modo, l'ipotesi dei qualia appare piuttosto inutile o inutilizzabile per analizzare un testo come Company di Samuel Beckett. Di certo, se in questo racconto andiamo in cerca di una coscienza attraverso cui accedere allo storyworld, per situarci nel vantage point di una mente finzionale, non sembrano esserci punti di appoggio, pare non ci sia niente da afferrare: non ci sono coscienze da performare, o meglio, non ancora.


In questo breve capitolo vorrei proporre l'idea che questo vuoto, questa mancanza di una «accomodation» (Lewis 1999: 339-59) all'interno di una coscienza finzionale, di un fictional self, sia precisamente il punto di partenza cognitivo del modello narrativo su cui Company si struttura. Attraverso le risorse della narrazione, Beckett continua a investigare, a trent'anni di distanza da L'Innommable, ancora il problema del self, dell'identità e del suo rapporto con la narrazione, con un ulteriore scatto in avanti formale nella sua ricerca. In particolare, infatti, quello che vorrei suggerire è che in Company non ci sia una coscienza da performare precisamente perché l'evento che ha luogo nel testo, il "what-is-like" di cui fare esperienza, è la stessa nascita di una coscienza, il raggiungimento e la tentata acquisizione di un self.

Naturalmente, può apparire piuttosto scontato sostenere che il problema affrontato in Company sia il problema dell'identità e della coscienza di sé. Tuttavia, quello che è sorprendente notare è la quantità di aspetti teorici e sfumature fenomenologiche collegate all'argomento del self, che Beckett sembra condividere con il recente dibattito interno alle scienze cognitive. Mi pare che, tra le molte alternative disponibili nella contemporanea teoria della coscienza, ci siano tre definizione di self con cui Company può essere messo in relazione, che funzionano come una avantesto teorico da cui il testo si sviluppa.



(1) La prima definizione è la cosidetta NON-EGOLOGICAL PERSPECTIVE. Ricorrere a un passo del Treatise of Human Nature di David Hume può essere probabilmente il modo più veloce ed espressivo per riassumere questa posizione rispetto all'inesistenza del self:


For my part, when I enter most intimately into what I call myself, I always stumble on some particular perception or other, of heat and cold, light or shade, love or hatred, pain or pleasure. I never can catch myself at any time without perception, and never can observe anything but the perception. When my perceptions are remov'd for any time, as by a sound sleep; so long am I insensible of myself, and may truly be said not to exist. [Hume. 1888,

252]




Qui, Hume spiega come rivolgendo lo sguardo e l'attenzione al proprio interno, non trovi nulla di simile a ciò che abitualmente e discorsivamente è solito chiamare «myself», nessuna entità compatta, ma solo una serie di percezioni e sensazioni descrivibili solo tramite una cromotopìa di luce e ombra - straordinariamente simile a quella utilizzata da


Beckett da Murphy fino a L'Innommable, fino a Company (Cf. parte II, § 1.1) , o una serie fluttuanti e opposte sensazioni di freddo e caldo, dolore o piacere, odio e amore. Secondo questa prospettiva non "egologica", che a partire da Hume è tutt'ora condivisa dalla maggior parte della contemporanea fenomenologia, dunque, non esiste nessuna unità compatta al nostro interno, ma solo una serie di sensazioni slegate, la cui composizione in un'unica prospettiva singolare altro non è che una costruzione idealistica, un'illusione della nostra mente, una fallacia fenomenologica. Nella teoria non-egologica, conosciuta anche come una non-ownership view, «experiences are egoless; they are anonymous mental events that simply occur" [Zahavi, 2005, 100].



(2) Il secondo concetto chiave dietro Company, che abbiamo già a più riprese avvicinato in questo studio, è il cosidetto NARRATIVE CONCEPT OF SELF. Riprendendone brevemente l'assunto principale, in quest'ipotesi il soggetto è l'oggetto della sua stessa narrazione, o meglio il self è solamente un processo continuato di narrazione e collazione dei propri ricordi in una storia coerente. Lo smarrimento insito in questa paradossale circolarità, dove il soggetto cerca in se stesso il proprio fondamento, è meravigliosamente espresso in un passo di quello che può essere considerato come il monumento letterario di questa pratica di ricognizione; mi riferisco naturalmente alla Recherche di Proust, a cui Beckett dedicò il suo ancora importante saggio giovanile, nel 1931:



Grave incertitude, toutes les fois que l'esprit se sent dépassé par lui-même ; quand lui, le chercheur, est tout ensemble les pays obscur où il doit chercher et tout son bagage ne lui sera de rien. Chercher ? Pas seulement ; créer. Il est en face de quelque chose qui n'est pas encore et que seul il peut réaliser, puis faire entrer dans sa lumière. (Proust [1913] 1988 : 45, corsivo mio)



Qui Proust illustra perfettamente quanto l'idea stessa di una ricerca di se stessi sia parzialmente corretta, in quanto, lontano dall'essere una pesca cognitiva, il recupero di qualcosa di smarrito, il processo di narrazione e di composizione dei ricordi con cui il self viene portato alla luce comporta un atto di creazione.



(3) Una terza posizione, costituitasi in ambito neurologico e confermata da numerosi dati empirici di riscontro, cerca di integrare le due prospettive elencate sopra, in una distinzione operata su due livelli di coscienza. Si tratta della partizione, proposta dal neuroscienziato portoghese Antonio Damasio, tra una CORE CONSCIOUSNESS e una EXTENDED CONSCIOUSNESS, e dei relativi CORE SELF e AUTOBIOGRAPHICAL SELF. Questa definizione di Damasio merita di essere riproposta per esteso, in quanto sarà attraverso essa che cercheremo di analizzare quanto accade in Company. Il neuroscienziato spiega come la core consciousness:



"provides the organism with a sense of self about one moment - now - and about one place - here. The scope of core consciousness is the here and now. Core consciousness does not illuminate the future, and the only past it vaguely lets us glimpse is that which occurred in the instant just before. There is no elsewhere, there is no before, there is no after." Damasio, 1999,

16-17]




A livello superiore, biologicamente dipendente da questa prima forma di coscienza, si sviluppa un'estensione più complessa, che coincide con quanto normalmente pensiamo quando ci riferiamo a una coscienza, nostra o altrui, vale a dire come una extended consciousness: of which there are many levels and grades, provides the organism with an elaborate sense of self - an identity and a person - and place the person at a point in individual historical time, richly aware of the lived past and of the anticipated future, and keenly cognizant of the world beside it" [Damasio, 1999, 16-17].



Il primo livello è indipendente dal secondo, poiché, come evidenziato da test effettuati su pazienti con disturbi neurologici «when extended consciousness is disrupted, as exemplified by patient with profound disturbance of autobiographical memory, core consciousness remains intact» [Damasio, 1999, 121-122].



Con queste tre distinzioni in mente, e in particolare con quest' ultima via integrativa suggerita da Damasio, siamo ora pronti a comprendere come il problema del self, venga letterariamente trasposto da Beckett in un racconto di particolare densità, pur nelle sua breve estensione. Quanto accade, alla luce delle definizioni appena viste, pur trovandoci davanti a un testo in cui la nozione di "intreccio" o di sequenza narrativa appare quanto mai insufficiente e inadatta, potrebbe essere riassunto come un percorso cognitivo da un core self verso un autobiographical self: una voce arriva a qualcuno sul dorso nel buio, narrandogli i suoi stessi ricordi, e cercando di fargli confessare «Yes, I remember». In realtà, le cose sono di gran lunga più complicate di questo schematico tratteggio, e questo percorso verso un approdo identitario, lontano dall'essere uno sviluppo naturale e privo di impedimenti, si trasforma in narratologico campo di battaglia, dove l'acquisizione e la conquista di un sé autobiografico, e con esso di un'identità, sembra destinata a fallire.

Nella nostra esperienza del mondo, in condizioni non patologiche, non ci è fortunatamente concesso di sperimentare cosa si celi al di sotto del nostro livello di coscienza autobiografica, poiché la nostra mente si occupa di tessere i nostri ricordi in una continuità da cui ricaviamo la stabile sensazione di un passato, di un futuro e di un'identità: ci tiene lontani dallo spaventoso hic et nunc della nostra core consciousness, dalla condanna a un presente senza finestre e luce. Nessuno, quindi, potrebbe rispondere alla domanda su cosa significhi essere privati di questa coscienza estesa che, pur essendo il punto da cui la nostra identità narrativa si sviluppa, è uno stato mentale funzionalmente inaccessibile.

Tuttavia, come abbiamo visto ne L'Innommable, lo scopo di Beckett è esattamente quello di retrocede oltre gli strati di coscienza linguistica che ci proteggono dal comprendere l'origine di ciò che siamo, trovando strade di ricerca letteraria per fendere il tessuto narrativo della nostra identità, portandoci il più vicino possibile all'inizio del paradosso linguistico con cui prendiamo forma. In Company, mi pare, Beckett trovi il modo di farci sperimentare cosa sia un core self, traducendo questo impossibile "what-is-like" con espedienti narrativi e narratologici. Come rendere, infatti, non discorsivamente (come fa Damasio) l'incosciente e contingente solitudine di un core self, privato di un livello superiore che lo informi della sua biografia, fornendolo con essa di una prospettiva spaziale e temporale? Per Beckett, questa la mia lettura, equivale ad essere un personaggio vuoto, quella che chiamerò una liminal mind, ancora senza passato, né nome, nel buio di uno storyworld non ancora creato. Per descrivere questo particolare e sperimentale tipo di mente finzionale, ho preferito l'aggettivo "liminale", al posto di "minimale", poiché Lubomir Dolezel ha già precedentemente utilizzato quest'ultimo per descrivere una coscienza estesa, una fictional mind compiuta, dotata di identità e biografia, in quello che lui definisce come un «one-person world» (Dolezel 1999: 47); al contrario, quello che vorrei indicare con il concetto di "liminal mind", è una core consciousness in un mondo che potremmo definire come un "no-person world". Dunque, come è possibile permettere al lettore di fare esperienza di un core self, e non semplicemente rappresentarne dall'esterno la condizione di incoscienza identitaria?

Prendiamo le mosse dall'inizio del testo, per porre in evidenza alcune strategie testuali. L'incipit del racconto recita:



A voice comes to one in the dark. Imagine.



Dopo questo "imagine", vi è uno spazio tipografico, una pausa visiva e logico-sintattica, come in seguito a ciascuna delle cinquantasette sezioni, o stanze narrative. Come suggerisce Wolfgang Iser, ciascun vuoto, ogni blank testuale, stimola il lettore a una maggiore attività interpretativa nella risposta estetica. Ogni qualvolta il lettore si trova davanti a un blank, a un'ellissi o a una mancanza di informazioni, è spinto a completare con l'immaginazione quanto manca (Iser 1978: 182-203). In questo senso, penso che il posizionamento di questo silenzio grafico a inizio testo vada letto come una sorta di punto di accesso, una soglia di entrata ancora sprovvista di guide luminose, che ha l'unico scopo di trascinare il lettore all'interno dell'oscurità, creando un effetto di caduta o di sprofondamento immaginativo che Iser definisce come un «suction effect», frutto di questa negatività del testo in entrata, proprio dove normalmente il lettore si aspetta i primi rudimenti e orientamenti per ricostruire il mondo in cui si appresta ad accedere: «One might say, in this respect, that negativity transform the work into a kind of suction effect: because the reader seems to be relentlessly drawn into the world, the text opens up for him» (Iser 1989: 140).

A potenziare questo effetto di aspirazione, di trascinamento del lettore tramite l'attivazione senza guide della sua risposta estetica, il verbo "imagine", collocato tra due punti fermi e seguito da una pausa tipografica, può essere visto come un imperativo diretto frontalmente al lettore (in quello che, nella teoria degli atti linguistici si direbbe un atto "perlocutivo"), invitato a prendere posto, a situarsi nella mente finzionale di questa indistinta figura nel buio. Non sono il primo a notare questa possibile verticalizzazione del testo, che sfonderebbe la barriere tra testualità ed extra-testualità, creando un ambiguità in cui è per il lettore impossibile stabilire se l'imperativo sia indirizzato dalla voce a questo qualcuno nel buio, o se invece la sua traiettoria giunga fino alla sua posizione al di fuori del testo; tra gli altri, Shlomith Rimmon-Kenan si è chiesto, infatti: «Is "Imagine" a quotation of the voice's appeal to the "one", or is it addressed to the reader by the extradiegetic narrator? This ambiguity establishes form the start a parallel between the position of the one and the reader» (Rimmon-Kenan 1996, 94). L'ambiguità nelle sue forme visive, logiche e semantiche è un fenomeno studiato dalle scienze cognitive (Tanenhaus and Sedivy, 2001, 14-15), poiché altamente informativo rispetto al funzionamento dei nostri schemi mentali, del modo in cui i nostri frames di referenza vengono attivati da diverse forme di stimolazione. Per risolverla, perché il lettore possa decidere a favore di una sola tra le interpretazioni possibili, occorrerebbero ulteriori, precedenti e successivi frames d'appoggio (Cf. § 1.2, p. 32), mentre a seguire troviamo al contrario un vuoto sia grafico che semantico. Beckett sembra conoscere molto bene il vasto potenziale di questo fenomeno di ambiguità semantica, e sfruttarlo fin dall'inizio del testo per avvicinare il lettore allo smarrimento conoscitivo della figura confinata nel buio, in attesa di ricevere dettagli su di sé.

Così, in seguito a questo blank testuale, il lettore è collocato nella posizione di questo imprecisato "one", anche se attraverso la prospettiva obliqua di una narrazione in terza persona, la cui diagonale è però annullata dall'effetto aspirante dell'ambiguità semantica. Ora, mentre il lettore è collocato in questa posizione, trova solo le informazioni che un core self si suppone possa avere; come il seguente passaggio mostra, i deittici si rivelano uno strumento efficace a restituire questa esperienza, da cui la nostra mente normalmente è al riparo, ossia il "what-is-like" di uno stato di coscienza liminale:


To one on his back in the dark. This he can tell by the pressure on his hind parts and by how the dark changes when he shuts his eyes and again when he opens them again. (C, 3)




Come ho sottolineato nella citazione, tutto ciò che questo "one" può affermare rispetto alla sua situazione è che lui è sul dorso nel buio dal momento che riconosce la percezione visiva in corso come propria («his eyes») e non ha dubbi sul fatto che la pressione del suolo sia diretta contro le propria schiena («his hind parts»). Ritornando alla definizione di Damasio, questo minimo senso di proprietà dell'esperienza, questa soggettività puntuale e unicamente diretta a quanto accade nel presente, è la qualità definitoria di un core self. Tuttavia, questa garanzia percettiva con cui il lettore attribuisce quanto accade a questa figura nel buio, sembra poco dopo minata da una crescente incertezza, ancora affidata ai deittici:



Only a small part of what is said can be verified. As for example when he hears, You are on your back in the dark. (C,3)



Qui, l'ambiguità semantica espande il suo ruolo cognitivo. Al livello attuale, extra-testuale, il lettore si sente convocato direttamente dalla voce, attraverso il deittico pronominale di seconda persona, e inizia a pensare che potrebbe essere non solo virtualmente quel "qualcuno" a cui la voce parla. Il deittico "you" produce quella che David Herman ha definito come un «ontological hesitation between what is actual and what is virtual whithin the storyworld» (Herman 2002, 338). Questa capacità di proiezione e aspirazione del lettore della deissi, di cui Beckett fa largo uso e che Angela Moorjani ha analizzato come una

«deictic projection» (2008), è una risorsa potente per trasformare la rappresentazione letteraria di un problema cognitivo in un'esperienza incentrata sul lettore. L'esitazione indotta da questo indebolimento dei confini diegetici, porta quest'ultimo a porsi le medesime domande della figura sul dorso nel buio:



May not there be another with him in the dark to and of whom the voice is speaking? Is he not perhaps overhearing a communication not intended for him? (C,4)



Questa erosione della superficie del testo, che situa il lettore nello stesso disorientamento della mente finzionale, può essere descritta come una metaforica frattura geologica di una dorsale oceanica; in questa metafora, la funzione cognitiva dei deittici, secondo l'uso deviato a cui Beckett sembra destinarli, è di surriscaldare lo strato diegetico fino a produrre delle spaccature, attraverso le quali attivare un transito tra la posizione extratestuale del lettore e il livello di oscurità di questa mente liminale. Questo gesto di frattura affidato al linguaggio è quanto Debra Malina descrive come una «metaleptic move» (2002: 27), dall'interno verso l'esterno del mondo finzionale, e vice versa. Il compito di questo gesto verticale è di impedire al lettore un eccesso di visione che gli permetterebbe, se lasciato al sicuro in una posizione esterna, di tentare di interpretare questa mente finzionale come un soggetto, e dare un senso alla narrazione, mentre il senso di quest'ultima si realizza proprio nella mancanza d'identità, di un personaggio compiuto, essendo la presentazione di un core self non ancora nato alla luce della coscienza biografica: ciò a cui assistiamo, spiega Malina, è un «erasure of all boundaries, collapsing all levels into one; and the absorption of the reader into narrative - ultimately not only the diegetic reader, who is already inside, but even the higher-level counterparts, who, if left outside, would insiste on reconstructing the narrative and its subject» (2002: 27).

Dunque, il lettore è situato nella stessa posizione di un core self, o di quella che ho chiamato una liminal (fictional) mind, mentre una voce inizia a raccontargli di un passato («tell of a past. With occasional allusion to a present and more rarely to a future" [C, 4]»), e l'aggettivo indeterminativo è fondamentale poiché lo scopo della voce sarà quello di costringere la figura nel buio a riconoscerlo come il proprio. Questo racconto di memorie consiste di quattordici scene, riconducibili a differenti momenti cronologici nella vita della persona a cui appartengono, dall'infanzia fino alla vecchiaia, che la voce presenta alla figura nel buio in una sorta di cinematografo cerebrale, per usare un titolo di De Amicis ([1907] 1905), o, dal momento che ciò che la voce proietta sono frammenti di un vita, più simile al racconto di Delmore Schwartz (In Dreams Begin Responsibilities,[1935] 2004): La metafora del cinematografo non è priva di forza ermeneutica, poiché la distanza necessaria a parlare di una "proiezione", così come la distinzione tra quanto proiettato e lo spettatore in sala, è esattamente la scissione di cui Beckett ha bisogno per presentare, da una parte un core self che non ha ricordi, passato e futuro, e dall'altra la voce che lo spinge ad assumere quanto sente come la propria esistenza, portandolo cioè verso l'acquisizione di un autobiographical self.

Passando da metafore estetiche, ad analogie meno serene, ma decisamente più vicine alla componente cognitiva di Company, il processo attraverso cui una voce esterna cerca di indurre una persona a ricordare la propria esistenza, ricorrendo a un'esposizione di memorie e scene biografiche, è quello che in psicologia viene detto un test di

«autobiographical reasoning» (rubin e Greenberg, 2003: 53-87). Questo test viene normalmente somministrato a persone affette da amnesia (in seguito a danni del lobo frontale) come nella sindrome di Korsakoff. In questo disturbo cognitivo, un paziente è incapace di formare nuovi ricordi, è impossibilitato a metabolizzare il proprio futuro e costretto a ricombinare in modo confuso le memorie del proprio passato, a cui fatica ad assegnare un ordine e un senso di unità (Hirstein 2005: 43-52) - così, giocando sul duplice senso che in inglese ha la parola "back", indicando tanto una direzione temporale che, più concretamente la schiena o il dorso fisico di una persona, possiamo supporre Beckett voglia far coincidere la postura fisica e la postura mentale di questa mente liminale, così come il buio può essere inteso tanto in senso cromatico, che come vuoto cognitivo. Inoltre, nella sindrome di Korsakoff, come spiega Jerome Bruner, il paziente dimostra « a severe impairment with the ability to tell or understand stories» (2002), e anche questo aspetto trova riscontro nella resistenza della figura nel buio ad accettare e comprendere il senso di quanto gli viene raccontato. Come ha notato Lois Oppenehim, Beckett appare consapevole e interessato alla sindrome di Korsakoff almeno a partire da Murphy, e sembra essere stato inspirato da questo disturbo della memoria nel concepire la voce confabulatoria de L'Innommable (Oppenheim 2005: 64-65). Quello che vorrei suggerire è che in Company Beckett si spinga oltre la presentazione dell'io confabulante visto ne L'Innommable, spazializzando il problema, concependo un modello narratologico di test autobiografico per fare partecipare al lettore il paradosso della costruzione narrativa dell'identità, di cui l'ultimo capitolo della trilogia era una prima resa formale.

Il modello concepito da Beckett si compone così di un paziente, di un tester e di un supervisore che fa narratologicamente corrispondere a una liminal mind, a una voce narrante, e al livello di monitoraggio dell'autore che, in quanto interno alla laboratorio diegetico, possiamo definire come un autore implicito, che guida il narratore nell'instillare i ricordi nella mente del personaggio. Fin dall'inizio, Beckett sembra assegnare chiaramente a ognuno di questi agenti narrativi il proprio deittico:



Use of the second person marks the voice. That of the third that cankerous other. Could he speak to and of whom the voice speaks there would be a first. But he cannot. He shall not.

You cannot. You shall not. (C,4)



Anche se questo passaggio sembra stabilire tre rigide posizioni deittiche, disponendo cioè tre distinte zone diegetiche in questo laboratorio finzionale, proprio mentre al lettore sono presentate le regole normative con cui muoversi nel racconto, l'apparente chiarezza di questo memorandum di lettura sembra al contrario tradire un ulteriore disagio psichico dietro a queste indicazioni attributive, ossia quello che appare come un disturbo schizofrenico. Poniamoci, infatti, la seguente domanda: da quale posizione è articolato il segmento appena citato? L'utilizzo del deittico spaziale "that" per definire la terza persona attribuita a "the cankerous other", implicando una distanza, sembra collocare il lettore nella prospettiva della figura nel buio o della voce. Tuttavia, nella riga successiva l'uso della terza persona per definire l'impossibilità di parola, l'afasia della figura sul dorso nel buio («could he speak») sposta e strattona il lettore nella zona enunciativa del «cankerous other». Infine, nell'ultima riga l'uso negativo dell'ausiliario futuro "shall" in due differenti posizioni, quella del «cankerous other» e della voce, oltre ad aumentare la confusione del lettore, apre la possibilità interpretativa che sia una sola sorgente enunciativa a ripetere il medesimo comando, dove la seconda persona potrebbe decodificarsi questa volta come impiegata in un uso interiore, interno e rivolto dall'enunciatore a se stesso. Questa complicata rifrazione deittica fornisce così la chiave per una più profonda comprensione di quanto in Company accade: questa trinità narratologica è sprigionata in realtà da una sola e unica sorgente («Deviser of the voice of the hearer and of himself» ) affetta da una frammentazione di coscienza tipica di un disturbo schizofrenico, con la relativa percezione allucinata di voci aliene da sé e quelli che vengono definiti come pensieri spossessati o inserted thoughts (Stephens e Graham

2003: 117-133). La natura alienata del sé di cui Company è la resa narratologica è perfettamente mostrata in un passaggio come il seguente:



For why or? Why in another dark or in the same? And whose voice asking this? Who asks, Whose voice asking this? And answer, His soever who devises it all. In the same dark as his creature or in another. For Company. (C, 16)



Nel suo Why We Read Fiction, Lisa Zunshine che l'atto di lettura di un romanzo fa leva sulla nostra evoluta capacità cognitiva di risalire alla sorgente dei pensieri che vediamo espressi in un testo, nella nostra abilità di ricostruire una fonte solida e intenzionale per ogni singolo frammento di narrazione: « Fictional narratives, from Beowulf to Pride and Prejudice, rely on, manipulate, and titillate our tendency to keep track of who thought, wanted, and felt what and when."(Zunshine, 2006, 4-5). In Company, siamo costretti a fare l'opposta e disturbante esperienza di una impossibilità a tracciare la provenienza di quanto leggiamo, ad essere ricentrati, per ritornare al concetto di «fictional recentering» della Ryan, in nessuna sorgente:



By the voice a faint light is shed [.] Whence the shadowy light? [.] No source. (C, 12-13)




Questo tipo di deterioramento nella capacità di risalire alla sorgente di una rappresentazione linguisitica, compresa il proprio linguaggio interiore, è uno dei principali sintomi del disturbo schizofrenico Come spiega Christopher Frith, il fallimento nel processo di monitoraggio della sorgente linguistica può portare i pazienti schizofrenici a percepire: their own thoughts, subvocal speech, or even vocal speech as emanating, not from their own intentions, but from some source that is not under their control. Inability to monitor willed intentions can lead to delusions of alien control, certain auditory hallucinations, [and] thought insertion." [Frith, 1992, 133-134, citato in Zunshine, 2006: 55]



Ora, cerchiamo di fare il punto della situazione. In quanto lettori, in Company non godiamo certo di ottima salute. Nel performare le linee guida del testo facciamo esperienza di un disturbo cognitivo della memoria simile a quello legato a una sindrome di Korsakoff, e inoltre siamo forzati a ripercorrere una alienazione schizofrenica. Questa drammatica situazione neurologica, naturalmente, è veicolata da Beckett attraverso le risorse diegetiche della narrativa, di modo che il lettore può avvicinare questa condizione, questo non augurabile "what-is-like" dell'esperienza, situandosi in una liminal mind nel buio di uno mondo finzionale non ancora creato, in ascolto della voce del narratore come un tester per un esame di autobiographical reasoning, monitorato dalla terza posizione di un autore implicito.

Beckett ha così trovato, nella resa narratologica di due disturbi mentali, la strategia per fare pratica al lettore il paradosso circolare del narrative self. Se, all'inizio, non può che situarsi nella posizione di una liminal mind senza sorgente linguistica, in seguito è costretto a performare e a ricostruire passaggi di testo in cui troppe sorgenti, troppi frames enunciativi, entrano in competizione, finendo per annullarsi l'un l'altro, e lasciandolo nuovamente ricentrato in nessuna sorgente. Inoltre, il disorientamento del lettore valica i limit del testo e lo coinvolge direttamente attraverso una verticalizzazione affidata alla deissi. Questo sconcerto, che oltrepassa i limiti del testo per svilupparsi a pieno nel lettore, è ciò che Porter Abbott definisce come «cognitive sublime», dove ciò che disorienta «does not belong to the text but to ourselves. In other words, if the experience of unknowing is textually induced, the unknown itself is still with us when we close the book" (Abbott, 2009, 132).

Questa è la cruciale differenza tra la rappresentazione dello smarrimento nella costruzione narrativa del sé descritta da Proust, e l'esperienza che di esso il lettora può compiere in Company. Ciò che in Proust è espresso con la metafora, per quanto potente, di un soggetto che è allo stesso tempo cercatore e «tout ensemble les pays obscur où il doit chercher», in Beckett diventa una performance narratologica; in questo senso, Company può essere descritto come una metafora performata.

Ora abbiamo numerosi elementi per diradare la densità del testo, e spingere verso una delle possibili interpretazioni del titolo di questo anomalo racconto cognitivo. Ancora una volta, Proust e, in particolare, la lettura della Recherche fatta da Beckett nel suo saggio a essa dedicato, possono aiutarci a trarre una conclusione. Per quanto possa apparire paradossale, ciò che Beckett ammirava maggiormente in Proust è quello che egli rileva essere una sorta di disturbo patologico, ossia la sua cattiva memoria. Come sostiene Beckett, Proust aveva una cattiva memoria «because he had an inefficient habit. The man with good memory does not remember anything because he does not forget anything. His memory is uniform, a creature of routine." (Beckett, 1931, 17). Beckett pensava così che il beneficio cognitivo che poteva essere ricavato dalla lettura del capolavoro proustiano consistesse non il piacevole percorso di ricostituzione del sé, attraverso la narrazione, quanto piuttosto l'evidenza della sua strutturale discontinuità. Nel suo studio giovanile, Beckett sembra così suggerire che l'essere umano non è in realtà altro che un core self, condannato all'epistemologicamente oscura contingenza e al caos sempre presente del qui e dell'ora, essendo il passato e il future solo i trucchi da mago dell'Abitudine, in particolare di una consuetudine linguistica e narrativa.

Tuttavia, penso che questa conclusione negativa penso sia insufficiente e parziale. Insieme alla fallacia fenomenologica di una costruzione narrativa dell'io, Beckett vuole fare sperimentare al lettore il bisogno umano di questo errore, la nostra necessità di raccontarci storie. In questo senso è possibile tracciare un'equivalenza tra la ragione che ci spinge ad avere bisogno di produrre e fruire di mondi finzionali e ciò che ci spinge ad costruirci un'indentità narrativa: per evitare la regione oscura che sta al cuore di noi stessi, oltre noi stessi e il nostro linguaggio, nel buio e nel silenzio di un core self.


E il metodo con cui Beckett indaga tutto questo attraverso la scrittura è strettamente cognitivo. Come uno scienziato, per fornire una spiegazione dei normali meccanismi fisiologici della cognizione, deve studiare le condizioni patologiche in cui questi hanno smesso di funzionare a dovere, così Beckett ci porta ad essere testimoni del nostro bisogno di unità e, in particolare, di unità narrativa, forzandoci a performare una situazione in cui questa è danneggiata e resa impossibile, ricentrandoci in una mancanza di sorgente. In questo paradossale ricentramento in un'assenza, il lettore sente l'impellente bisogno di trovare una coscienza da abitare, di qualcuno da impersonare, riposando nella sua storia e allottandosi dalla solitudine e dal buio di questo limbo cognitivo. Da questa prospettiva, Beckett sembra suggerire che l'atto di leggere storie e l'atto di inventare mondi finzionali siano entrambi legati alla nostra vocazione ad essere identità ingannate e ingannevoli, vincolate a una fallacia. Ad ogni modo, se come uomini viviamo ogni giorno la necessità di ingaggiare questo test narrativo, dalla cui riuscita dipende la nostra stessa esistenza come identità, è probabilemte più per un bisogno di raccontare, che per un bisogno di verità: dopo tutto, il test non è diretto alla verità, «the test is company» (C, 18).



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