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Il teatro antico




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Il teatro antico

Argomenti di lavoro: Latino, Greco, Filosofia, Arte







Considerazioni preliminari


Il teatro, in tutte le sue forme, ha avuto, specie nell'antichità, sempre un potere di contestazione esplicita e questa opposizione alla realtà sociale è sempre divenuta il principio motore di ogni creazione artistica.

Nei passaggi da una struttura sociale ad un'altra e nei disordini che essi comportano possiamo considerare le cause e le condizioni delle creazioni artistiche.

Bisogna, infatti, rilevare che i grandi periodi creativi si realizzano quasi tutti in momenti di rottura sociale: la creatività drammatica greca è al culmine nel momento in cui gli effetti del lento passaggio dalla vita rurale patriarcale alla vita urbana si fanno sentire con maggiore intensità; è il caso del 480 a.C., anno della battaglia di Salamina, battaglia che comporta un mutare della società.

A quest'epoca corrisponde il momento in cui nelle città greche si impone una nuova originale forma sociale, tanto per il funzionamento del sistema politico, economico e giuridico di questo, tanto per la veemenza dei conflitti che opposero le città le une alle altre, ed è a quest'epoca che corrisponde anche una fioritura improvvisa di importanti opere teatrali a cui fa seguito poi un'interruzione repentina.

La forma teatrale, quindi, risulta una forza sociale la cui funzione è quella di situarsi in maniera nuova in rapporto agli eventi ed agli altri gruppi umani; la manifestazione teatrale ha incarnato, perciò, spesso, il conflitto tra censure sociali e libertà del futuro, profilando sulle scene individui in lotta contro l'ordine stabilito.

Il teatro greco diventa, quindi, anch'esso funzione essenziale della vita della  ed è portatore di una problematica politica e sociale essendo stato il poeta sollecitato da specifiche situazioni che hanno determinato il suo atteggiamento e la sua creazione: non possiamo, infatti, dimenticare come in qualsiasi forma artistica si rifletta la posizione dell'artista nella vita del tempo.

Il patrimonio mitico, cresciuto su di un terreno sociale ben diverso (la società tribale di re, sacerdoti e pastori), poteva essere reinterpretato in funzione dei nuovi problemi della città e della sua politica.

La reinterpretazione del mito in senso moderno fu assolta soprattutto dal teatro tragico, che divenne un momento centrale nella vita della comunità ateniese; fu, nello stesso tempo, rito religioso, dibattito ideologico e riflessione collettiva a cui partecipavano, spesso a spese dello Stato, tutti i cittadini ateniesi.

In Grecia, ed in particolar modo ad Atene, quindi, le rappresentazioni teatrali furono un grandissimo "fatto sociale" e molto più che ai nostri giorni un fenomeno di massa; esse diverranno, inoltre, sempre più una conquista, un mezzo di conoscenza, uno specchio della società, un legame sociale.

Non possiamo se non ripetere che il teatro fu un vero centro di vita intellettuale che agiva efficacemente sulle masse sia dal punto di vista estetico che da quello educativo e culturale.

Non solo il teatro con le sue rappresentazioni , ma anche gli edifici furono utilizzati come centri di vita e servirono spesso come luogo di adunanze così per le assemblee come per i giudizi.








































Il quadro storico


Nelle città dell'Asia Minore fin dal sec.VIII, l'aristocrazia s'impadronì del potere, spesso mediante un progressivo smembramento delle prerogative regali, che venivano assunte dai magistrati annuali.

Così una minoranza di privilegiati per nascita e beni di fortuna (gli Eupatridi) concentrava nelle sue mani il possesso della terra e l'autorità.

Ma nel VII sec. il regime oligarchico fu minacciato dallo sviluppo economico, conseguente all'espansione del popolo greco.

Dall' VIII al VI sec., difatti, un vasto movimento di colonizzazione portò alla fondazione di città greche su tutte le coste del Mediterraneo e dei mari adiacenti, dal Ponto Eusino alla Spagna.

L'urto fra le città greche in contrasto fra loro, sia per l'innato particolarismo, sia per la diversità dei regimi economici e politici, fu ritardato da una serie di guerre con la Persia.

Questa grande potenza in fase di espansione, impadronitasi verso il 540 a.C. delle città greche dell'Asia Minore, cercava di raggiungere la linea del Danubio e minacciava la Grecia, cui tagliava le indispensabili comunicazioni con le regioni cerealifere del Ponto Eussino.

Le guerre, scoppiate in seguito alla rivolta delle città ioniche dell'Asia Minore nel 499, rese famose dalle vittorie greche di Maratona (490), di Salamina (480) e di Platea (479), dimostrarono il valore dell'oplita greco e, insieme, l'incapacità delle polis a unirsi: se infatti un congresso aveva raccolto a Corinto i rappresentanti di diverse città greche (481), le più lontane, come Siracusa e le città di Creta, erano rimaste indifferenti, mentre la Grecia settentrionale parteggiò addirittura per i Persiani; così, dopo la vittoria del capo Micale (479) mentre gli Ateniesi continuavano la lotta, i contingenti spartani, invece, ritornarono in patria.

In tal modo si acuiva l'antagonismo tra i due Stati, che avevano ugualmente contribuito alla vittoria.

Per merito specialmente dell'ateniese Aristide fu conclusa fra Atene e la maggior parte delle città della Ionia e dell'Ellesponto un'alleanza, detta "Prima confederazione ateniese" o "Lega delio-attica", che si proponeva di sottrarre tutte le città greche dell'Asia al giogo persiano (478-477).

La lega, la cui sede amministrativa era a Delo, rispettava l'autonomia delle città, ma affidava la presidenza del Consiglio federale e la direzione delle operazioni di guerra ad Atene, i confederati, sotto il comando di Cimone, portarono a compimento, con la vittoria dell'Eurimedonte (468), la liberazione delle città greche dell'Egeo, che fu sancita, nel 449-448, dalla pace di Callia conclusa fra Atene e il re di Persia.

Nel frattempo, la confederazione si era, di fatto, trasformata in un vero e proprio «impero marittimo» di Atene, che riscuoteva a proprio profitto il tributo (phoros) degli alleati e fondava numerose cleruchie sui loro territori.

Padrona del mare, Atene cercò allora di estendere la Grecia, venendo in urto con Corinto e con la Lega peloponnesiaca, che faceva capo a Sparta.

Ma la sconfitta (454) della spedizione mandata in aiuto dell'Egitto, che lottava per l'indipendenza dalla Persia, segnò per l'imperialismo ateniese una battuta d'arresto e nel 446-445 una pace trentennale, stipulata fra Sparta e Atene, riconobbe la coesistenza delle leghe ateniese e peloponnesiaca, dividendo la Grecia in due zone di influenza.

Questa pace non poteva, in realtà essere che una tregua, ma permise che in Atene, guidata da Pericle, la civiltà greca avesse la sua piena fioritura.

Un'implicita assimilazione dei secc. V e IV falsa tradizionalmente il giudizio che si dà della civiltà greca alla vigilia della conquista di Alessandro.

Se è vero che l'attività economica si manteneva intensa, nonostante l'emancipazione industriale dei paesi barbari del Ponto Eusino e l'estensione del commercio verso i paesi orientali e se è vero che la produzione artistica e intellettuale rimaneva copiosa, sorgevano però nuovi preoccupanti problemi di carattere istituzionale e sociale.

Nel IV sec. la maggior parte delle città greche attraversavano una crisi, sia quelle aristocratiche, come Sparta, che si volsero verso una plutocrazia sempre più insolente, sia quelle democratiche come Atene, la quale, dopo brevi tentativi oligarchici (rivoluzione dei Quattrocento [411], tirannide dei Trenta [404-403]), cadde in una demagogia sempre più arrogante.

La città-Stato fu minacciata non solo dall'interno ma, in uguale misura, dall'esterno: inconsciamente il mondo greco avvertiva il suo fallimento politico.

Gli oratori Gorgia, Lisia, Isocrate predicavano la necessità dell'unione, giungendo fino ad augurarsi un regime monarchico; così l'impotenza delle città-Stato avviava la civiltà greca, in processo di trasformazione, verso un rivolgimento della sua organizzazione politica.












Il teatro greco


Struttura architettonica ed organizzazione scenica


A Creta

A Creta alcuni sacri recinti, ove sembra si svolgessero cerimonie religiose con danze e cori, possono essere riconosciuti tra i luoghi che in età più remota furono adibiti a rappresentazioni teatrali.

In Grecia

Fu in Grecia, comunque, dopo un periodo (quello più antico della storia di Atene) in cui le rappresentazioni avevano luogo nell', che l'area destinata agli spettatori assunse in origine la forma di gradinate a squadra, con un'angolazione che venne poi smussandosi fino a determinare una sede inclinata e semicircolare, come luogo stabile da cui assistere a manifestazioni religiose e artistiche.

Il teatro in età classica

Gli esemplari più antichi sono identificabili nelle strutture di Eleusi e di Torico, databili al VII sec. a.C., mentre si può assumere, come forma compiuta e paradigmatica dell'evoluzione architettonica per l'età classica, il teatro di Dioniso Eleutherios in Atene, situato sulle pendici meridionali dell'acropoli entro il  ("recinto sacro") di Dioniso, complesso e funzionale nell'eleganza definita dell'impianto.

L'"orchèstra"

L'area occupata dagli attori, chiamata ("orchestra" ossia il luogo delle danze), di forma variamente trapezoidale / semicircolare o circolare e del diametro di ca. m. 20, era situata di solito in una zona piana, affiancata a un pendio, delimitata all'intorno da un canale ricoperto di lastre, ampio poco meno di m. 1, detto  ("euripo"), che convogliava le acque defluenti dalla collina.

L'altare di Dioniso

Talvolta un rilievo in pietra segnava con maggiore evidenza lo spazio dell'orchestra, il cui piano in terra battuta celava sotterranei e "praticabili", ricavati per esigenze di scena; al centro doveva essere primitivamente la ("altare"), di forma circolare e con la statua di Dioniso, altare che serviva sia per offerte sia come punto di riferimento per i movimenti del coro .

Le "pàrodoi"

L'accesso al teatro avveniva o dall'alto (come spesso oggi) o attraverso le ("passaggi laterali"), spesso lievemente inclinate, arricchite da statue e dediche votive, utili agli attori e agli spettatori, chiuse da porte solo in età più tarda. Da quella di destra, per convenzione, entravano i personaggi provenienti dalla città, dall'altra di sinistra quelli che giungevano dalla campagna.

La "cavea" [9]

Il pendio, con i sedili sistemati a gradinata, costituiva la cavea, costruita nel sec. IV al posto dei sedili di legno, generalmente a semicerchio abbondante intorno all'orchestra; era divisa in tredici cunei da dodici scalette verticali, mentre i  ("corridoi") separavano orizzontalmente i settori secondo il prestigio di chi l'occupava.

I sedili

I primitivi sedili in legno furono successivamente sostituiti, originariamente, con sessantasette seggi in pietra od in marmo pentelico, con schienali e braccioli di varia forma e dignità per i personaggi più autorevoli (quello centrale era assegnato al sacerdote di Dioniso).

I pannelli scenici

La scena, tangente all', era originariamente una costruzione improvvisata con tendaggi e pali, ma in età classica assunse una linea architettonica stabile come sfondo all'azione, alla quale spesso si adeguava; si ebbero infatti riproduzioni della facciata di un palazzo reale o di un tempio, rocce, grandi sepolcri e altari; talvolta su  (tavole dipinte issate lungo le antenne, quando servivano, altrimenti calate dentro la fossa scenica per mezzo di corde) o prismi girevoli erano raffigurati paesaggi di città o di campagna; pedane, gru, fosse e rotaie di scorrimento venivano impiegate per gli artifici scenici necessari.

I parasceni

Due strutture laterali, dette  ("parasceni"), definivano con maggior compiutezza l'edificio di fondo, in cui si aprivano le porte, tre normalmente, a indicare vicine o lontane provenienze.

Dietro erano i luoghi riservati agli attori, ai costumi e agli attrezzi.

Gli attori

A proposito di attori ricordiamo che questa professione era riservata esclusivamente ai maschi.

Il mestiere di "istrione", infatti, diversamente che in Roma, era tenuto in grandissima considerazione (gli attori professionisti erano spesso remunerati come divi dello Stato) e, quindi, ruoli preminenti non potevano essere affidati se non a donne libere: ma queste vivevano preminentemente in casa , né si faceva comunemente uso di ragazzi per simulare le voci femminili (anche se brevi parti infantili sono contemplate in più di una tragedia).

Protagonisti e "spalle"

Il ruolo del protagonista (in origine lo stesso autore della tragedia) era preminente e secondo e terzo attore ("deuteragonista" e "tritagonista") dovevano stare al loro posto; senza contare gli innumerevoli ("personaggi muti"; per lo più cittadini presenti sulla scena come guardie di scorta, ancelle, giudici, .).

Plurifunzionalità dell'attore

D'altronde la professione doveva essere certamente molto impegnativa, se, a prescindere dalla nitidezza della voce e da un'acconcia gestualità, soli tre attori erano costretti ad interpretare otto-dieci personaggi (per l'"Edipo a Colono" si ipotizza che il personaggio di Teseo fosse interpretato da tutti e tre gli attori, a turno).

I costumi degli attori

Per quanto riguarda i costumi (forse introdotti da Eschilo) indossati dagli attori fondamentale era il ("chitone"), una tunica a maniche lunghe abbellita da ornamenti e legata da una cintura sotto il petto (chitone ionico) o più corta ed aperta sui fianchi (chitone dorico); sul chitone veniva indossato o un (lungo mantello raccolto sulla spalla destra) o una ("clamide"), un mantello corto portato sulla spalla sinistra.

Anche il colore dei costumi era importante (il nero indicava lutto o sventura, il porpora la dignità regale, .), ma i personaggi erano distinguibili pure da particolari caratterizzanti (ad esempio, la , cioè il bastone, per i vecchi; la spada per il guerriero; una ghirlanda per il messaggero; .).

Ad incrementare la già notevole statura dell'attore, imbottito e munito di un ("parrucca") per motivi scenici (cioè per essere distinto anche dagli spettatori posti sulle ultime gradinate), era diffuso l'uso del ("coturno"), un tipo di calzatura che, nata con suola bassa, ma resa più spessa in epoca tarda, aumentava di buoni venti centimetri. la solennità del personaggio interpretato.

Le maschere

La maschera, il cui uso è attestato nell'arte greca con implicazioni religiose molto prima del dramma, era la caratteristica più importante dell'attore greco.

Fatta di lino / sughero / legno e munita di una parrucca, pur con una fisionomia fissa (viso dipinto di bianco per le donne, di grigio per gli uomini ) ed una bocca leggermente aperta per il solo fine di fungere da megafono (la scena poteva distare dagli ultimi spettatori anche m. 90), era fondamentale per attori che dovevano sostenere anche dieci ruoli diversi e, quindi, accessoriata (colore, forma, natura dei capelli; varietà dei copricapi; .) in modo tale da poter ottenere da pochi tipi una serie di personaggi dissimili.

Di quelle del sec. V ci sono pervenute scarse informazioni, ma scavi effettuati a Lipari hanno portato alla luce terrecotte raffiguranti personaggi teatrali che consentono di contare ben 44 tipi da collocare nell'arco di tempo che va dalla prima metà del sec. IV alla metà del sec. II a.C..

Nel periodo d'oro della tragedia (sec. IV) la maschera diventa più imponente e presenta una bocca decisamente sproporzionata al resto del volto.

Il coro [16]

Accanto agli attori c'era il coro, i cui componenti ("coreuti"; prima 12, poi 15; vestiti con chitone o, se schiavi, con un farsetto), oltre a godere anch'essi di stima pubblica, erano preparati da un istruttore (a volte lo stesso autore della tragedia) e pagati dal "corego", un ricco ateniese disposto ad addossarsi il peso della sponsorizzazione del dramma.

I coreuti, una volta entrati in scena, si sistemavano, per facilità di manovra nel cambiare gli schemi, su cinque file di tre elementi.

Di esso null'altro sappiamo e, anche se gli autori ci hanno fornito nomi di balli e schemi di movimento ("la tenaglia", "mani sulla testa", "la danza del bastone", .), non ne forniscono spiegazioni, né chiariscono la posizione del coro nei momenti di non-attività.

Il teatro in età ellenistica

In età ellenistica si venne accentuando l'importanza dell'edificio scenico, che assunse un valore architettonico decorativo, nella forma, divenuta stabile, di costruzione lunga e stretta; la fronte, rivolta verso gli spettatori (fronte scenica) e movimentata con nicchie, portici, fondali e pannelli dipinti, era sopraelevata rispetto all'orchestra, ormai occupata dal pubblico; gli attori tragici (a differenza di quelli della commedia che agivano in prossimità degli spettatori) recitavano su una pedana, profonda anche 3 m, sostenuta da colonne o da murature, ornate da statue, semicolonne e grandi vasi di bronzo per la risonanza.

L'edificio scenico, ormai divenuto una costruzione a più piani, talora si apriva sul lato opposto all' in un portico monumentale .


Il teatro greco come forma d'arte


Le origini

Il teatro greco ebbe origine nell'Attica nella forma del dramma satiresco, della tragedia e, quindi, della commedia, in stretta connessione con il culto di Dioniso e con le sue feste esaltanti che, operando la comunione dell'umano con il divino, crearono l'ambiente adatto perché sensibilità, passioni e fantasia dessero vita a una finzione drammatica.

Infatti dal ditirambo lirico, in cui i coreuti, disposti a circolo (cori ciclici) con il corifeo in mezzo, esponevano in un canto univoco con più o meno particolari un mito o una leggenda concernenti il dio, si passò al ditirambo dialogato, in cui coreuti e corifeo assumevano le parti di due interlocutori, l'uno che interrogava, l'altro che rispondeva.

Bastò che al corifeo, che rappresentava Dioniso, e ai coreuti, costituenti lo stuolo dei suoi seguaci, si aggiungesse un secondo personaggio, perché si avessero gli elementi essenziali del dramma.

L'innovazione, feconda di successivi ampliamenti, fu attribuita dalla tradizione a Tespi, ritenuto comunemente l'inventore della tragedia.

Con lui, pertanto, l'elemento tragico si sarebbe scisso da quello comico, con il quale era mescolato nel dramma primitivo, e Dioniso, con le sue edificanti avventure, sarebbe stato sostituito dagli eroi e dalle loro dolorose vicende.

Feste ed agoni

Tra il 536 e il 532 a.C., per volontà di Pisistrato, ad Atene venne data la prima rappresentazione organizzata dallo Stato e furono istituiti annuali agoni tragici.

Circa un cinquantennio dopo (486 a.C.) pure la commedia, nata anch'essa dal culto di Dioniso e collegata con le feste in suo onore, da spettacolo privato divenne pubblico e regolato da norme precise (agoni comici).

Nel V e nel IV sec. a.C. in Atene e, in misura minore, come è presumibile, in talune altre città elleniche l'attività teatrale fu intensa e feconda.

Essa si svolgeva normalmente, poiché i Greci combattevano solo a fine primavera ed in estate, nel corso delle tre importanti feste dionisie (piccole dionisie o rurali [che si svolgevano nel mese di Poseidone, cioè a dicembre/gennaio], lenee [attuate nel mese di Gamelione, cioè a gennaio / febbraio; così chiamate da Lenai, uno dei seguaci di Dioniso ], grandi dionisie o urbane [tenute nel mese di Elafebolione, cioè a marzo / aprile] ) e talvolta delle antesterie ; ne era soprintendente l'arconte eponimo nelle grandi dionisie, l'arconte re nelle lenee, ai quali veniva riservata la designazione del cittadino abbiente obbligato ad assumersi la coregia e l'ammissione dei concorrenti al concorso drammatico.

Nello spirito competitivo proprio dell'indole del popolo greco, i tre poeti scelti negli agoni tragici dovevano presentare una tetralogia (tre tragedie e un dramma satiresco), mentre i tre (più tardi cinque) degli agoni comici gareggiavano con una sola commedia .

L'autore, che talvolta anche fungeva da attore, o il corego stesso o un esperto corodidascalo curava l'istruzione del coro, la distribuzione e recitazione delle parti e l'allestimento scenico, che, primordiale agli inizi, si arricchì via via di ingegnosi espedienti.

Una commissione di cinque cittadini per la commedia, forse di dieci per la tragedia, estratti per lo più a sorte, giudicava le opere presentate e stabiliva le graduatorie di merito.

Dopo il verdetto, l'arconte redigeva un resoconto ufficiale con tutte le notizie relative ai drammi rappresentati.

Raccolte da Aristotele nelle sue Didascalie, pervennero a noi, insieme con gli argomenti ("Hypothéseis"), con i testi manoscritti delle singole opere .

I vincitori, l'autore, l'attore e in seguito anche il corego erano premiati con una corona di edera e di alloro e con un tripode di metallo, che spesso veniva dedicato a Dioniso.

Sorto dal popolo e promosso per le esigenze e l'educazione del popolo, il teatro in Atene concentrava l'attenzione e l'interesse di tutti i cittadini .

Ai poveri, perché potessero assistere agli spettacoli, era concesso dallo Stato un sussidio di due oboli ("theorikón"): sussidio, comunque, destinato ad aumentare con il tempo.

La tragedia: specchio dei tempi

Ad eccezione del dramma satiresco (che, pur muovendo dal mito, lo sfruttava in modo umoristico), della farsa burlesca, del mimo e del pantomimo, rivolti a soddisfare un diletto di breve durata, la drammatica ateniese del V e IV sec. a.C. nelle sue forme più significative (Eschilo, Sofocle, Euripide) è legata alle condizioni del tempo e ne riflette i fatti e i problemi di maggior rilievo.

La tragedia nella mirabile fusione di epica e lirica e nell'armonia dei mezzi espressivi della parola, del canto e della danza, adombra nella rappresentazione del mito la realtà quotidiana nei suoi contrasti politici e sociali e nelle sue ansie morali e religiose .

Nell'età ellenistica il teatro perse l'originale carattere religioso e civico.

Mentre l'organizzazione degli spettacoli passava dai coreghi agli agonoteti, funzionari statali, la tragedia , perdendo ogni carica emotiva , si ridusse a esercitazione letteraria o, per un processo di progressiva profanizzazione, si trasformò nella commedia «nuova» (Menandro).











Il teatro a Roma

Venuto meno pressoché completamente il contatto con la vita culturale e politica del tempo, il teatro si svincolò da ogni intento educativo per diventare un semplice quanto diffuso divertimento delle folle e delle corti ellenistiche.

Con siffatto carattere e tale funzione fu accolto in Roma verso la metà del III sec. a.C. e costituì, nel suo contenuto profano, la manifestazione più appariscente di festività religiose e di celebrazioni di avvenimenti gloriosi.

La produzione teatrale, sebbene mostrasse in genere preferenza per i modelli greci (Plauto, Terenzio, Cecilio Stazio), non trascurò la produzione indigena e quella precedente di provenienza etrusca, osca e italica (fescennini, satura, atellana, mimo).

Cercò pure il genere di contenuto nazionale, nella tragedia con la praetexta, nella commedia con la togata, predominando fra le manifestazioni artistiche del mondo latino per circa un secolo e mezzo dell'età arcaica. In seguito, nell'ultimo secolo dell'epoca repubblicana e durante l'Impero, il teatro da una parte lasciò sempre più posto alle lascive rappresentazioni del mimo, dall'altra subì via via maggiormente la concorrenza degli spettacoli del circo, dei giochi gladiatori, delle naumachie, ecc.

La drammatica propriamente detta, rimasta in onore presso le classi colte, si esaurì nella riesumazione di opere del passato o nella loro rielaborazione, come nelle truci tragedie di Seneca, destinate alla privata o pubblica recitazione, o nella commedia del «piagnone» (Querolus) modellata sulla Aulularia plautina.


All'avvento del cristianesimo la condanna della Chiesa, volta soprattutto contro la troppo libera vita degli attori, e l'arretramento culturale provocato dalle invasioni barbariche determinarono nell'alto medioevo l'affievolirsi e infine la scomparsa di ogni attività teatrale, ridotta all'esibizione di pochi guitti vagabondi nelle piazze dei mercati.





















La tragedia


Rappresentazione scenica caratterizzata dalla serietà dell'azione, destinata a suscitare pietà o paura, dal capovolgimento della situazione, per lo più dalla buona alla cattiva sorte, dallo stile (`sublime' o `tragico') adeguato alla dignità e al rango dei personaggi.

Le caratteristiche, definite da Aristotele nella Poetica e dalla precettistica retorica, definiscono il genere letterario legato alla cultura greca del sec. V a.C. e rappresentato in primo luogo dai 33 drammi superstiti di Eschilo , Sofocle , Euripide ; essi trattano argomenti mitici, anche se non è del tutto escluso l'argomento storico, come testimoniano i Persiani di Eschilo, la più antica tragedia pervenuta (472 a.C.) e due titoli di Frinico ancora anteriori (La presa di Mileto, Le fenicie).

L'etimologia del termine

Il termine tragedia (dal gr. tragos, `capro' e odé, `canto') è stato interpretato come riferito al sacrificio rituale che forse concludeva la rappresentazione originaria, o ai costumi dei coreuti (Aristotele), o al premio destinato al dramma migliore .

La questione delle origini

Le diverse interpretazioni sono connesse con la questione delle origini della tragedia, fondamentale nella filologia classica e irrisolta.

In generale si suppone che elementi originari della tragedia siano le trame buffe dei cori satireschi e il ditirambo cantato in onore di Dioniso, entrambi di origine peloponnesiaca; quando dal ditirambo si staccò, per instaurare uno scambio di battute, un attore ("hypocrités"), divenne rappresentazione.

Secondo Orazio, autore di questo processo fu Tespi, mentre per Erodoto il ditirambo fu portato a dignità letteraria da Arione che, secondo il Lessico Suda, gli avrebbe conferito anche lo stile tragico.

Questi due elementi si unirono con il culto degli eroi e, alla fine del sec. VI a.C., in Attica, i contenuti mitico-religiosi dell'epica e della lirica corale si sovrapposero a quelli originari: le parti cantate (cori) mantennero un linguaggio simile al dorico della lirica corale, quelle dialogate adottarono metri più vicini al parlato (tetrametro trocaico e trimetro giambico ), già usati ad Atene da Solone.

Il contenuto serio dei vari cicli epici (troiano, tebano, argivo) spiega l'indipendenza della tragedia attica dai miti di Dioniso : essa non è più un fatto rituale, anche se il legame con il culto dionisiaco è provato dalle occasioni della rappresentazione e dal dramma satiresco che, in coda alle tre tragedie, costituiva il pezzo conclusivo della tetralogia rappresentata.

L'ipotesi aristotelica

Tralasciando le ipotesi antropologiche del Murray e del Thomson e, poi, del Lindsay , miranti a collegare la nascita di un fatto letterario di così vasta risonanza a riti culturali primitivi (quali sono riscontrabili in civiltà prettamente agrarie), ma anche quella del Cantarella, tenendo conto che un'opera d'arte, appunto perché grandissima, non la si può considerare solo per quella che è, ma va vista in un determinato contesto, ancora oggi sembra più attendibile quella dell'origine dionisiaca della tragedia (Aristotele, Poetica, 1449a), che in tali termini può essere sintetizzata.

"Accettando l'ipotesi della comune nascita di tragedia e di dramma satiresco (genere quest'ultimo solo successivamente divenuto autonomo e, d'altronde, convissuto con la tragedia nelle tetralogie in cui addirittura faceva uso di uno stesso coro) ed accogliendo l'ipotesi di un'origine della tragedia dal ditirambo (da attribuire, secondo Erodoto I 23-24, ad Arione quando questi si trovava alla corte del tiranno di Corinto), si giunge alla seguente conclusione. La tragedia nacque in ambiente peloponnesiaco per, poi, subire cambiamenti nel passaggio in quello attico, fermo restando l'uso delle maschere un vero e proprio mezzo magico per immedesimarsi nel dio. Quando nell'Attica all'inizio del sec. VI penetrarono i ditirambi, forse già drammatici, trovarono un ambiente in cui era vivo il culto dei vari eroi (Aiace, Oreste, .), un ambiente che si servì del nuovo tipo di spettacolo per rievocare le luttuose gesta degli Atridi e col tempo privarlo di ogni aspetto dionisiaco. Di qui l'opportunità, dopo le luttuose e tristi vicende dei vari eroi, di riesumare l'antico e gaio dramma satiresco e di rasserenare gli spettatori proponendolo dopo la rappresentazione di tre tragedie e costituendo la tetralogia."

Da Tespi ad Euripide

Eschilo ebbe vari predecessori (Tespi, Cherilo, Pratina, Frinico), ma con lui fu introdotto il secondo attore e fu fissata la divisione tradizionale (prologo, parodo o ingresso del coro, tre episodi, seguiti dal canto del coro o stasimo, epilogo) e la tragedia ebbe tutte le sue caratteristiche essenziali: il mito, che ne costituisce il nucleo, rappresenta il "riconoscimento" e al tempo stesso la "ridiscussione" della tradizione da parte della comunità civile con la mutata sensibilità etica.

Sofocle , che introdusse il terzo attore, sposta l'attenzione dal significato complessivo del mito all'individuo-eroe, visto nella sua tragica opposizione al destino (Aiace, Edipo Re) e nella sofferente fedeltà al dovere eroico (Elettra, Antigone).

Per Eschilo e Sofocle , sia pure in modo diverso, la legge che governa il mondo è un disegno armonico e giusto, ma impenetrabile alla ragione umana.

Edipo è stato toccato dal miracolo nel dolore, che gli apre la strada alla saggezza, alla comprensione, cioè, della legge che per l'uomo è oscura: all'iniziazione. Il destino si trasforma in una specie di oscura provvidenza. Con questa interpretazione il volto del male assume i lineamenti misteriosi della divinità. Il dolore diviene apparenza.

La tragedia primitiva, perciò, è un Mistero; ed essa non è tanto la rappresentazione dell'uomo, quanto dell'operare del destino.

Per questo, ancora, la tragedia greca presenta, in ognuno dei tre grandi tragici, una differente interpretazione del fatalismo.

L'interesse di Euripide si appunta invece sulle sofferenze e le peripezie cui l'individuo è costretto dalla irrazionalità delle sue passioni o dalle forze iperumane che presiedono la realtà.

L'unità concettuale del mito, venuta meno già con Sofocle che abbandona il nesso trilogico di Eschilo, si dissolve nell'incontrollabile molteplicità dei casi individuali.









La tragedia nei secoli

Il teatro latino ripropose la tragedia secondo schemi già codificati nel sec. III-II a.C. (Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio, Accio), con un maggior numero di tragedie di argomento storico (preteste), ma di tale produzione è giunto pochissimo.

Comporre tragedie divenne un esercizio di scrittura: le tragedie di Seneca sono pensate per la declamazione e caratterizzate dalla esasperata passionalità dei personaggi e dalla violenza spesso macabra dell'azione. Il teatro tragico come fenomeno popolare, con le sue caratteristiche scenografiche, come la maschera e i costumi, il canto e la danza, scompare definitivamente.

Il medioevo recupera il senso del tragico con la sacra rappresentazione, mentre la tragedia umanistica, a partire da A. Mussato, riprende alcuni aspetti di quella senecana ed è caratterizzata da un fine didattico-politico legato a situazioni storiche contingenti.

Solo nel sec. XVI, con le traduzioni dei tragediografi greci e con la diffusione della Poetica di Aristotele, nasce la tragedia regolare (G. Trissino, Sofonisba, 1514), fedele alle unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, in endecasillabi sciolti (dialoghi) e stanze petrarchesche (cori).

A Seneca si rifà invece l'Orbecche (1541) di G.B. Giraldi Cinzio e la tragedia moderna si evolve su tale antitesi, tra tragedia regolare e senecana.

Nella struttura prevale il modello di Seneca (5 atti dialogici).

La tragedia regolare, classicheggiante, attenta all'armonica costruzione dell'intreccio, prevale in Francia, mentre l'intensità patetica, la mossa drammaticità dell'azione e lo stile barocco del modello senecano si impongono in Italia, Inghilterra e Spagna.

In Italia l'influenza di Seneca prevale nel Re Torrismondo (1587) di T. Tasso e il suo influsso si riscontra anche nella tormentata materia religiosa di F. Della Valle e nel passionale eroismo dell'Aristodemo di C. de' Dottori.

Il modello del teatro del sec. XVIII fu la Merope (1713) di A. Maffei, ma i suoi esiti più alti sono le tragedie classicheggianti di V. Alfieri, in cui il conflitto tra tirannide e libertà e quello interiore tra volontà e una insondabile perplessità dell'animo coincidono.

A partire da A. Manzoni (Conte di Carmagnola e Adelchi), vengono abolite le unità aristoteliche e si assiste al mutamento della tragedia in dramma storico.

In Francia nel sec. XVI il modello classico raggiunge alti risultati con P. Corneille e J. Racine; nel sec. XVIII, nonostante esempi tradizionali, ispirati a Seneca (Voltaire) la tragedia evolve nel dramma borghese, affiancato poi dal dramma storico romantico (V. Hugo).

In Inghilterra l'aristotelismo ebbe superficiale diffusione, mentre a Seneca si rifecero T. Kyd e C. Marlowe, in cui la predilezione per l'orrido si fonde con motivi popolari; con le opere di W. Shakespeare, con la loro varietà di registri, dal tragico al comico all'elegiaco, compresenti nello stesso dramma, viene del tutto superata la concezione classica della tragedia.

In Spagna il teatro tragico classico ha un ruolo marginale e, se pure nel sec. XVII ebbero una certa influenza sia il teatro senecano sia il dramma elisabettiano, resta dominante la tradizione nazionale e popolare.

In Germania il teatro del sec. XVIII risente del modello classicista francese e shakespeariano, mentre le esperienze di J.W. Goethe e F. Schiller tendono a conciliare la sensibilità romantica con la concezione classicistica dell'arte.

Se l'Ifigenia in Tauride di Goethe e la Morte di Empedocle di F. Hölderlin, sono tragedie classiche nello stile e nel contenuto, la complessa problematica storica, filosofica e psicologica che caratterizza il teatro non è più identificabile con il genere letterario della tragedia di fatto esauritosi.

L'esaltazione dell'elemento popolare propria del romanticismo diverge radicalmente dalla eccezionalità delle situazioni che costituiscono la tragedia e ne giustificano la solennità dello stile.

A partire dal sec. XIX il teatro unisce due elementi che la tragedia aveva separato profondamente: la serietà dei problemi e dei conflitti e la quotidianità dei personaggi, ponendo fine ai due generi letterari (tragedia e commedia) che separatamente li rappresentavano.
















































L. Moussinac, Il teatro dalle origini ai nostri giorni, 1984

I. Gallo, Il teatro greco, 1991

H.C. Baldry, I Greci a teatro, 1993

A. Reynaud - R. Andria, Il teatro e il diritto, 1993

Ecco come Erodoto (in VI, 112 - 118) la ricorda: Quando da loro era stato completato lo schieramento ed i sacrifici furono favorevoli, allora gli Ateniesi, appena furono lasciati andare, si slanciarono a passo di corsa contro i barbari. Lo spazio fra di loro era di non meno di otto stadi. I Persiani, allora, vedendoli avanzare di corsa si preparavano a riceverli, attribuivano uno stato di follia, certamente fatale, agli Ateniesi, vedendoli che erano pochi, e per di più che quelli si lanciavano di corsa non avendo essi nè cavalleria nè arcieri. Questo dunque i barbari pensavano. Ma gli Ateniesi, quando compatti si scontrarono con i barbari, combattevano in modo degno di ricordo. Primi in­fatti di tutti i Greci di cui noi abbiamo notizia usarono la tattica della corsa contro i nemici, per primi sostennero la vista dell'abbigliamento medo e gli uomini che l'indossavano, mentre fino a quel momento fra i Greci anche solo il nome di Persiani era motivo di terrore ad udirlo. Mentre essi combattevano a Maratona passò molto tempo. E al centro dello schieramento restavano vincitori i barbari, là dove erano schierati gli stessi Persiani ed i Saci. In questa parte dunque vincevano i barbari, e ope­rato lo sfondamento inseguivano i nemici verso l'interno; ad entrambe le ali invece restavano vincitori gli Ateniesi ed i Plateesi. E riuscendo vincitori, lasciavano fuggire quei barbari che si erano volti in fuga, e unite le ali combattevano invece contro quelli che avevano sfondato il centro del loro schieramento. Ed i Persiani che fuggivano li inseguivano trucidandoli, finchè giunti al mare ricorsero al fuoco e tentarono di impa­dronirsi delle navi. In questo combattimento cadde ucciso il polemarco Callimaco, dopo es­sersi mostrato uomo prode, e morì degli strateghi Stesileo figlio di Trasileo; inoltre Cinegiro figlio di Euforione allora, afferrandosi agli aplustri di una nave, cade con la mano mozzata da un colpo di scure, e altri degli Ateniesi cadono, in gran numero famosi. Di sette delle navi gli Ateniesi si impadronirono così; con le rimanenti i barbari ripresero a remare verso il largo allontanandosi e, presi a bordo dall'isola in cui li avevano lasciati gli schiavi fatti ad Eretria, doppiavano il Sunio, con l'intento di prevenire gli Ateniesi nel giungere alla città. Corre fra gli Ateniesi l'accusa che per trama degli Alcmeonidi essi avessero ideato questo piano: gli Alcmeonidi d'accordo con i Persiani avrebbero fatto se­gnalazioni con uno scudo ai Persiani mentre erano già sulle navi. Così dunque iniziavano il periplo del Sunio. Ma gli Ateniesi con la mas­sima celerità accorrevano a piedi verso la città, e li prevennero giungendo prima che arrivassero i barbari e si accamparono, una volta giunti, dal tem­pio di Eracle in Maratona ad un altro tempio di Eracle, quello del Cinosarge. I barbari allora, giunti in alto mare con le navi all'altezza del Falero, questo infatti era allora il porto di Atene, al di là di questo fermavano le navi e si volgevano indietro verso l'Asia. In questa battaglia di Maratona morirono dei barbari circa 6400 uomini, degli Ateniesi 192. Tanti ne caddero dalle due parti. E capitò lì che avvenisse questo prodigio, che un uomo ateniese, Epizelo figlio di Cufagora, combattendo nella mischia e mostrandosi uomo valoroso, rimase privo della vista, senza essere stato colpito in nessuna parte del corpo nè lontano nè vicino, ed il resto della vita lo passò da quel momento conti­nuando ad essere cieco. Ho sentito dire che riguardo alla sua avventura egli faceva all'incirca questo racconto, che gli parve che gli si fosse posto innanzi un oplita gigan­tesco, la cui barba ombreggiava tutto lo scudo. E questo fantasma passò ol­tre lui, ed uccise quello che era al suo fianco. Questo dunque seppi che Epi­zelo narrava.

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: 'Tale forma resterà tale sino alla seconda metà del sec. IV a.C.; in seguito subirà modifiche dovute al distacco della <<proedria>> dal resto dei sedili mediante un corridoio pavimentato che ne consentiva il camminamento'

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: 'Questa forma risulta solo ad Epidauro e ad Eniade'

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: 'Il punto in cui si trovava l'altare dell'antica orchestra non era solo la parte centrale del teatro, ma ne era il fulcro, il centro ideale.'

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: 'Sull'origine del <<kòilon>> del teatro di Atene gli studiosi hanno ipotizzato una scelta fatta dagli spettatori, questo sempre che non si voglia far derivare la sua origine da quella precedente del teatro di Torico in Attica'

Tra le più importanti macchine teatrali citate nell'"Onomastikon" di Polluce (stampato solo nel 1502) ricordiamo:

ekkuklhma - una piattaforma che permetteva di mostrare le azioni svoltesi all'interno

exwstra - piattaforma non girevole montata su ruote

mhcanh - un gancio che sollevava od abbassava le divinità (nelle "Nuvole" Aristofane sospende Socrate ad un cesto; nella "Medea" Euripide permette alla protagonista di uscire di scena su un carro di fuoco; .)

Jeologeion - una macchina su cui apparivano le divinità

geranoV - gru impiegata nei momenti di emergenza

ewrhma - carrucola con le stesse funzioni della mhcanh

skoph - un posto (un muro, una torre o un punto di avvistamento) da dove il "regista" sorvegliava l'azione

distegia - un secondo piano che permetteva agli attori di salire sul tetto di una casa

keraunoskopeion - macchina idonea a simulare fulmini

bronteion - un espediente (otri pieni di pietre rovesciate in recipienti metallici, forse di ottone) atto a simulare tuoni

"Quando si parla della donna greca, leggiamo in un saggio del Bonnard, ci si riferisce generalmente alla donna ateniese dei secoli V-IV a.C., del popolo, cioè, e dell'epoca che ci hanno lasciato un maggior numero di testimonianze, le quali, sia per la quantità, sia per il valore, hanno fissato il carattere della donna greca sullo schema della donna ateniese dell'età classica.

Quello che soprattutto ci colpisce della donna greca è il fatto che essa è esclusa dalla vita della "pòlis", e non solo dall'attività politica, ma anche da quella sociale e culturale.

La "pòlis" è una società creata da uomini, soltanto per uomini; la donna vive entro il suo perimetro vegetativo, non attivo.

Il suo mondo, regno o prigione, secondo i punti di vista, è la casa; le sue attività i lavori domestici; le sue virtù il silenzio, il pudore ed il rimanere tranquilla in casa propria.

Tutto quello che avviene fuori delle mura domestiche riguarda l'uomo e soltanto l'uomo; la donna non dia consigli e non procuri guai.

Il numero degli attori fu portato a due da Eschilo, a tre da Sofocle, mentre al 449 a.C. risale l'istituzione del premio per il "migliore attore protagonista" (un "oscar" ante litteram)

La struttura della maschera era ottenuta da un assemblaggio di cenci in una forma: su questo si stendeva uno strato di gesso; i dettagli del viso (colorito, labbra, sopracciglia) si rendevano con colori appropriati

Curiosità: La donna greca non aveva niente da invidiare alle sue nipoti d'oggigiorno per quel che riguarda la cura della persona. Essa faceva il bagno in casa, aiutata dalle sue schiave, a meno che non fosse un'etèra o una donna di bassa condizione, nel qual caso, almeno in età recenti, frequentava i bagni pubblici; si profumava con profumi costosi ed esotici e si 'truccava' con molta cura. I cosmetici, infatti, conosciuti forse nell'età più antica, erano usati in epoca classica anche presso le madri di buona famiglia, che ne facevano un uso moderato, mentre le etère ne abusavano; finchè in età ellenistica divennero l'indispensabile artificio per la bellezza di tutte le donne, specie di quelle di città. Il colorito pallido, conseguenza della vita chiusa e sedentaria, la prima ruga, la pelle rilassata e 'stanca' erano inconvenienti da correggere o da nascondere in ogni modo e a qualunque costo. Così si ricorreva al belletto bianco della biacca, al belletto rosso del minio, dell'ancusa o del fuco, che si spargevano sulle labbra e sulle guance con un apposito pennello, mentre si ombreggiavano le ciglia e le sopracciglia con un leggero velo di tintura nera di antimonio o di nerofumo. Se poi la tinta naturale dei capelli non soddisfaceva o, peggio ancora, rivelava qualche filo d'argento, allora si tingeva tutta la capigliatura in biondo oro o in nero ebano e, quando, purtroppo, la natura spietata faceva l'ultimo oltraggio, si ricorreva all'inganno della parrucca. D'altronde il desiderio che esse destavano nei loro amanti era la ragione stessa della loro importanza, specialmente in città quali Atene e Corinto. Generalmente erano belle, e si servivano soprattutto della loro bellezza per attirare gli uomini. Non ignoravano nessuno dei stratagemmi capaci di renderle ancora più seducenti, stratagemmi che le vecchie trasmettevano alle più giovani. Le donne della buona società non esitavano a ricorrere a simili stratagemmi per conservare l'interesse dei loro mariti. I belletti, i vestiti provocanti, le tuniche trasparenti di cui parla la Lisistrata di Aristofane sono tutte armi che le donne adoperavano per attirare gli uomini, mariti o amanti, quando volevano sedurli o trattenerli presso di sé. Non c'è da dubitare sul fatto che tra la condizione sociale della donna, eterna minorenne che passava dalla tutela del padre a quella del marito, e la sua condizione reale ci fosse, anche su questo piano, una certa distanza: si può notare, infatti, una realtà quotidiana diversa dall'immagine un pò troppo incolore che una semplice analisi della vita delle donne basata sulla loro condizione sociale e giuridica farebbe supporre.

Polluce (sec. II d.C.) cita un repertorio per la sola tragedia di ben 28 maschere: 6 di vecchi, 8 di giovani, 3 di servi, 11 di personaggi femminili, tutti distinti per età, sesso e condizione; ben 44 per la commedia

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: 'I cori antichi erano <<cantati a tempo di danza e in cerchio>> intorno ad un altare e proprio questa è la descrizione fatta da Omero per la rappresentazione incisa sullo scudo di Achille'

§ Le trasformazioni del teatro di Dioniso

In età arcaica l'orchstra aveva la forma approssimativamente di un semicerchio, ma ben presto assunse un aspetto circolare (quella del temenoV di Dioniso doveva essere di ca. m. 27 di diametro);

verso la fine del sec. VI la scena in legno venne sostituita da una lunga costruzione rettangolare (di cui nulla ci è rimasto), tangente all'orchstra, con un'ampia porta al centro, edificio che serviva anche da deposito per gli attrezzi di scena;

nel corso del sec. V l'edificio divenne una skhnoJhkh ("magazzino") dove era riposto l'allestimento scenico; fino al 465, c'era un dislivello di ca. m. 2 tra l'orchstra ed il tempio di Dioniso che costringeva i primi tragediografi a strane messinscene;

agli inizi del sec. V l'orchstra fu fatta avanzare verso il pendio della collina, venne eretto davanti alla skhnoJhkh un edificio scenico rettangolare con avancorpi lignei, furono sistemati sulla collina sedili di legno e, con le mura di sostegno della cavea, si formarono le due parodoi

nel periodo di Pericle la scena di legno fu trasformata in un edificio stabile in pietra con paraskhnia laterali a due piani, la cavea fu divisa in tredici kerkideV ("cunei") forniti di klimakeV ("scale"), furono costruiti i primi proedria ("posti d'onore"), le parodoi passarono da metri 8 a metri 3 e si condusse intorno all'orchstra l'euripoV ("canale di scolo");

in età ellenistica l'edificio si trasformò in un portico post scaenam aperto verso la parte meridionale del recinto di Dioniso.

§ Le differenze tra il teatro di Licurgo e quello precedente

Fu incrementata la distanza tra la scena e la cavea;

L'orchstra conservò la forma circolare;

Vennero costruiti proedria di marmo;

Fu sistemato intorno all'orchstra il canale di scolo delle acque piovane;

Ai parasceni, ad un solo piano, vi si accedeva dal piano superiore dell'edificio di marmo;

La scenoteca venne trasformata in portico.

Poiché si svolgevano durante la brutta stagione, quando il mar Egeo era tempestoso ed impediva l'arrivo di gente da altre parti della Grecia, avevano risonanza solo locale: consistevano in grandi processioni per le vie della città ed in competizioni teatrali, quasi sempre commedie, che si svolgevano nel recinto riservato al dio quando ancora la rappresentazione teatrale non aveva un vero e proprio edificio quale fu il teatro.

Il rito preliminare consisteva nella rievocazione dell'arrivo di Dioniso da Eleutere tramite una processione, aperta dagli efebi, che accompagnava la statua del dio (da ciò possiamo capire quanto fosse sacro il carattere degli spettacoli nel mondo greco e come per i Greci la presenza degli dei fosse una costante di quasi tutte le attività quotidiane, anche se le gare drammatiche si svolgevano in onore di una sola divinità, Bacco, che non era solo il dio del vino, ma anche della fertilità e della vegetazione, le cui incarnazioni erano il toro ed il capro, i cui simboli erano l'edera ed il fallo, un dio che faceva appello alle passioni e non alla ragione, un dio in onore del quale ben trovavano posto le rappresentazioni delle tragedie e delle commedie): aveva luogo per primo, forse nell'8° o 9° giorno di Elafebolione; nello stesso 8° giorno si teneva, probabilmente, anche il proagone (che aveva luogo nell'Odeon fatto costruire da Pericle nel 444), mentre quello successivo, il 10°, era dedicato alla processione religiosa; i tre giorni che seguivano servivano a portare sulle scene, ogni giorno, tre tragedie, un dramma satiresco ed una commedia; le cerimonie avevano inizio all'alba, quando il teatro veniva purificato con il sacrificio di un porcellino lattante

Non comprendevano rappresentazioni teatrali, duravano tre giorni e costituivano una tipica festa di desacralizzazione del vino nuovo

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: 'Anche la commedia giocò un ruolo determinante nell'omogeneizzazione del corpo sociale fornendo un riferimento culturale del procedere dell'esperienza politica della polis. Aristotele, nella <<Poetica>>, indica l'origine della commedia nelle antiche processioni dei fallofori che avanzavano a ritmo di marcia. La definisce <<imitazione di persone più volgari dell'ordinario, non però volgari di qual si voglia specie di bruttezza o fisica o morale, bensì di quella sola specie che è il ridicolo: perché il ridicolo è una partizione del brutto. Il ridicolo è qualcosa come di sbagliato e di deforme, senza però essere cagione di dolore e di danno. Così, per esempio, tanto per non uscir dall'argomento che trattiamo, la maschera romana: la quale è qualcosa di brutto e come di stravolto, ma senza dolore>>'

L'argomento I della tragedia oggetto di studio nella traduzione di G. Paduano: "L'Edipo a Colono è legato in un certo qual modo all'Edipo Re. Scacciato dalla patria, Edipo già vecchio giunge ad Atene condotto per mano dalla figlia Antigone. Le femmine infatti erano più dei maschi attaccate al padre. Giunge ad Atene, come egli stesso dice, seguendo l'oracolo che gli aveva predetto che sarebbe morto presso le dee dette Venerande. Per primi lo vedono i vecchi del luogo che compongono il coro, e vengono a parlare con lui. Poi arriva Ismene e gli riferisce la lite tra i fratelli e la venuta di Creonte. Questi, giunto per ricondurlo in patria, se ne va senza esservi riuscito. Edipo riferisce a Teseo l'oracolo e chiude la sua vita presso le dee. Il dramma è meraviglioso; Sofocle lo scrisse già vecchio per ingraziarsi non solo la patria ma anche il suo demo: era infatti originario di Colono. Ma rendendo celebre il demo fece cosa gradita a tutti gli Ateniesi, perché Edipo nel dramma dice che essi non subiranno assedi e sconfiggeranno i loro nemici, predicendo anche che essi un giorno combatteranno coi Tebani e, secondo gli oracoli, vinceranno per il privilegio di possedere la sua tomba. La scena è nell'Attica, nel demo equestre di Colono, presso il tempio delle Eumenidi. Il coro è costituito da Ateniesi, il prologo è detto da Edipo."

U. Albini ("Nel nome di Dioniso, 1991") delinea, attraverso testi significativi, lo spettatore del tempo:

esprime la sua antipatia contro chi entra in teatro e non è gradito masticando rumorosamente i cibi e tirando proiettili di ogni genere [Demostene, Contro Midia 226; Aristotele, Etica nicomachea 1175b 12/14]

riceve, spiritosamente, un sacco pieno di pietre da un audace autore di parodie perché, eventualmente, se ne possa servire [Ateneo, Sofisti a banchetto 406f]

si alza in piedi per protestare o, poiché non ha sentito, per chiedere all'attore di ripetere i primi tre versi [Cicerone, Disputazioni tusculane IV 29 63]

fischia, schiamazza, pesta i piedi, batte fragorosamente le mani, chiede il bis, esagera con grida e strepiti [Platone, Repubblica 492b]

si scatena perché un autore riceva il primo premio e cerca di condizionare il giudizio [Eliano, Storia varia II 13]

urla scompostamente cercando, in tal modo, di sancire la bravura di interpreti e scrittori [Platone, Leggi 700c/701a]

fa parte di una claque [Plutarco, L'adulatore 63a]

E il mito, che sta alla base della tragedia, così come della vita del tempo, non ha mai dato adito a sicure interpretazioni, ma, di volta in volta, è stato inteso come. 'racconto intorno a dei, esseri divini, eroi e discese nell'al di là' [Platone], 'espressione altamente complessa dello spirito umano del quale rivela attraverso la dissimulazione tendenze inconsce' [Freud], 'realtà umana e cosmica che si concretizza e si determina in una unità originaria che si può solo ascoltare ed intuire' [Kerényi], 'narrazione di eventi accaduti in una realtà che ha determinato la nostra realtà ed ha carattere sacrale' [Pettazzoni], 'funzione mediatrice ad opera dei suoi modelli per risolvere le contraddizioni' [Levi-Strauss], .

V. Citti, Tragedia e lotte di classe in Grecia, 1978: "La tragedia rappresenta, a livello ideologico, lo strumento principale attraverso il quale nella polis ateniese si esercita questa lotta di classe e si riproducono le situazioni sociali necessarie per lo sfruttamento dei soggetti: essa era particolarmente adatta a questa funzione per le ampie possibilità di elaborazione del consenso che le venivano dai vari livelli di messaggi con cui coinvolgeva il pubblico. [.] Rispetto a questa funzione fondamentale della tragedia non è univoco l'atteggiamento dei diversi operatori culturali che sono i poeti tragici. Se complessivamente essi si muovono nell'ambito dell'ideologia dominante ed al servizio di essa, è nondimeno possibile additare degli scarti rispetto a certi aspetti del sistema esistente di potere, minori in Sofocle, più decisamente accentuati in Eschilo, vistosi in apparenza, sia pur limitati da pesanti antinomie, in Euripide."

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: 'Nella tragedia si possono rintracciare i seguenti elementi: a) la presenza e lo studio delle caratteristiche fisiche, morali e intellettuali dell'eroe (a questo proposito va ricordato che la letteratura occidentale inizia la sua storia proprio con la presentazione di personaggi eccezionali; la figura dell'eroe, descritta e rappresentata attraverso un'azione che progressivamente si intensifica e diventa tragica, è il centro su cui si focalizza l'azione; l'eroe si scontra con forze su cui non potrà mai vincere: di qui l'orribile e spesso il sanguinario); b) la struttura degli eventi, vale a dire lo schema delle azioni da cui scaturisce la tragedia; c) la presenza del mito come elemento rintracciabile in quasi tutte le tragedie (il mito non è nient'altro che il complesso delle idee comuni appartenenti a tutta la polis e raffigurato fantasticamente; non a torto i personaggi tragici sono stati considerati come archetipi; ed è proprio la presenza del mito a garantire la pragmatica della comunicazione tra attori e spettatori; si può definire questo teatro come teatro autenticamente popolare, nel senso che esso parlava a tutto il popolo della polis senza distinzione di classe, di ricchezza, di cultura); d) l'altezza della caduta, rappresentato da un eroe che da una posizione di felicità e di potere cade in quella dell'infelicità e dell'impotenza; e) la verosimiglianza (lo spettatore poteva riferire gli eventi drammatici a fatti o cose sperimentati o sperimentabili da lui stesso); f) i personaggi della tragedia non dovevano essere mai vittime passive, ma possedere nel grado più alto la coscienza della tragedia che stavano vivendo; g) la catarsi finale; h) lo stile alto e sublime.'

Di Sabato: La vera funzione della tragedia è la catarsi. Lo stesso Aristotele parla di purificazione dal 'timore' e dalla 'pietà' perché tali sentimenti si trasformino in 'piacere'; e se il popolo greco ebbe un bisogno ancestrale di ricercare 'il vero' soprattutto nell'uomo, possiamo interpretare il processo catartico come un vero e proprio processo cognitivo: lo spettatore, nell'assistere allo spettacolo, anche se a livello inconscio, 'immedesimandosi' si rivela a se stesso portando, senza accorgersene, dall'inconscio alla coscienza tutti quegli istinti più reconditi del proprio essere fino ad allora celati. E' questo il momento più dionisiaco; da questo punto, che non deve essere superato, ancora una volta gradualmente, la tensione va diminuendo fino a raggiungere di nuovo un punto zero, che coincide con la 'soluzione', e, quindi, la 'ricomposizione' e di nuovo il controllo del logoV sul JumoV. [.] La tragedia doveva essere mimesi di una ed una sola azione che doveva verificarsi in un sol luogo ed in un solo giorno proprio per agevolare lo svolgersi del processo catartico.

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: 'Ad avallare le differenze tra il teatro greco e quello romano vi è Vitruvio che nel trattato <<De architectura>> dice <<Se noi diamo al proscenium maggiore lunghezza dei Greci, lo si deve al fatto che da noi tutti gli artisti recitano sul palcoscenico e l'orchestra è riservata ai seggi dei senatori. L'altezza del proscenio non deve superare i cinque piedi cosicchè le persone sedute nell'orchestra possono vedere tutta l'azione degli attori. I Greci hanno l'orchestra più larga, un palcoscenico più arretrato, poiché da loro, se gli attori tragici o comici recitano sul palcoscenico, gli altri artisti, coristi e strumentali agiscono nell'orchestra>>'

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: 'Nel teatro romano la cavea era costruita su archi a volte ed era un perfetto semicerchio unito alla scena attraverso logge a volte dette <<vomitoria>> che coprono gli antichi <<parodoi>>; la scena era ampiamente decorata: nella parte frontale aveva tre aperture e sui lati altre due porte, il tutto era completato e coronato da colonne di vari ordini. Un elemento tipico del teatro romano era il <<pulpitum>> che, alto 5 piedi, prendeva il posto dell'iniziale proscenio greco. I sedili di rappresentanza erano detti <<tribunalia>>. In tutto il suo complesso il teatro romano risultò molto più fastoso: decorazioni, arcate, scalinate riempivano la scena che risultava nel suo insieme molto elaborata. Bisogna, infatti, ricordare che in questo tipo di teatro sulla scena potevano essere inseriti elementi mobili di legno come prati, monti, utilizzati per le diverse e molteplici rappresentazioni. L'edificio, infine, era completato da una copertura di protezione, detto <<velarium>> ed anche dal sipario che i Romani avevano costruito ed inserito al di sotto della scena facendolo risalire dal basso verso l'alto al termine delle rappresentazioni.'

Èschilo (Eleusi 525 - Gela 456 a.C.) Poeta tragico greco. Di origine aristocratica, combatté a Maratona, Salamina e a Platea. Si affermò nell'attività drammatica verso il 485 a.C. e dopo il 471 a.C., ottenuta la vittoria negli agoni drammatici con la trilogia cui appartengono I persiani, si recò alla corte di Gerone di Siracusa; tornato ad Atene, riportò nuovamente la vittoria con la trilogia dei 'Sette contro Tebe' (467 a.C.) e con l''Orestea' (458 a.C.), poi tornò in Sicilia. Delle 90 (o 73) opere che la tradizione gli attribuisce, sono pervenute 7 tragedie intere e frammenti, alcuni appartenenti a tre drammi satireschi ('I pescatori', 'I delegati', 'Prometeo incendiario'). A Eschilo sono attribuite importanti innovazioni del genere: innanzi tutto l'introduzione del secondo attore, con la conseguente importanza drammatica che il dialogo viene ad assumere, e l'organizzazione in trilogie legate da continuità (di cui l''Orestea' è l'unica tramandata). 'I persiani' (472 a.C.) sono la celebrazione della vittoria greca sui `barbari'; 'Prometeo incatenato' dramma del titano, punito da Zeus; 'I Sette contro Tebe' (467 a.C.), sulla lotta tra i fratelli nemici, Eteocle e Polinice, figli di Edipo; 'Supplici' (463 a.C.), sul mito delle figlie di Danao che rifiutarono le nozze con i cugini; 'Orestea' (458 a.C.) ('Agamennone', 'Coefore', 'Eumenidi') sulle vicende degli ultimi Atridi e la celebrazione dell'areopago ateniese. La struttura drammatica, essenziale nella costruzione, acquista plasticità dal contrasto delle situazioni, dalla potenza evocativa degli oggetti, dalla sofferenza lacerante e dal tormento intellettuale dei grandi personaggi, sostenuta da un linguaggio teso, spesso oscuro, ricco di anacoluti, metafore, neologismi composti. Eschilo stabilisce un preciso rapporto tra colpa, che si trasmette di padre in figlio, e pena; gli dei puniscono la tracotanza, la trasgressione, la sopraffazione, tuttavia l'uomo può affermare la libertà del proprio volere e, attraverso la sofferenza, raggiungere l'equilibrio. Ignorato dal classicismo, il teatro di Eschilo fu riscoperto e valutato nella sua grandezza solo dalla fine del sec. XIX.

Sòfocle (Colono 497 - Atene 406 a.C.) Tragediografo greco. Amico di Pericle, guidò il coro dei giovani per celebrare la vittoria di Salamina (480 a.C.), fu stratego (441-440 e 428-427 a.C.) e partecipò all'elaborazione della costituzione dei Quattrocento. Dei ca 130 drammi attribuitigli restano molti frammenti, ca 400 vv. di un dramma satiresco ('I segugi') e sette tragedie complete: 'Aiace', sulla pazzia e morte dell'eroe greco; 'Antigone' (442-441 a.C.), dramma della sorella di Eteocle e Polinice che affronta la morte in nome di leggi non scritte; 'Trachinie', in cui Deianira, gelosa moglie di Eracle, diventa inconsapevole strumento della morte dell'eroe; 'Edipo re', dramma di Edipo che scopre le proprie colpe involontarie; 'Elettra', tragedia della vendetta operata ai danni di Clitennestra ed Egisto dai figli di Agamennone; 'Filottete' (409 a.C.), sulle sofferenze del condottiero greco, abbandonato ferito dai compagni a Lemno; 'Edipo a Colono', postuma, trapasso di Edipo dalla vita terrena ed esaltazione di Atene. Sofocle, secondo Aristotele, rese i tre drammi indipendenti all'interno della trilogia, introdusse il 3° attore, portò da 12 a 15 i coreuti. Considerato, soprattutto in passato, l'espressione più perfetta del `classico', Sofocle presenta l'individuo come colui che ha in sé l'energia morale per fronteggiare il male e la sofferenza, come colui che agisce e subisce, accettando il volere della divinità. Il linguaggio, meno rigoglioso di quello eschileo, tende a una semplicità che non è scadimento a livello quotidiano e si caratterizza per limitato uso della metafora, abilità nel verseggiare, sintassi complessa, nessi antitetici.

Eurìpide (Salamina 480 - Pella 406 ca a.C.) Poeta tragico greco. Scarse le notizie sicure sulla sua vita; non partecipò alla vita politica e fu in stretto rapporto con i filosofi (Anassagora, sofisti, Socrate). Debuttò nel teatro con 'Le Peliadi' (455 a.C.); nel 408 a.C. si recò alla corte di Archelao in Macedonia, dove morì. Dei 92 drammi attribuitigli dalla tradizione, ci restano 17 tragedie ('Alcesti', 438; 'Medea', 431; 'Eraclidi', 430-427; 'Andromaca', 'Ippolito', 428; 'Ecuba', 424 ca; 'Supplici', 424-421; 'Eracle', 424 ca; 'Troiane', 415; 'Elettra', 413; 'Elena', 412; 'Ifigenia in Tauride', 410 ca; 'Ione', 412 ca; 'Fenicie', 410-408; 'Oreste', 408; 'Ifigenia in Aulide', 'Baccanti', postume), una di incerta attribuzione ('Reso'), un dramma satiresco, 'Il Ciclope' (420-415), e molti frammenti. La costruzione delle tragedie è varia: vi sono drammi incentrati intorno a un personaggio femminile (Medea, Elena, Fedra, Ifigenia) e altri bipartiti (Ecuba), mentre uno stesso personaggio può presentare alterazioni psicologiche e diverse personalità; alcuni drammi presentano intrecci complicati (ripetute agnizioni), costringendo l'autore a ricorrere a espedienti artificiosi e a fare largo uso del 'deus ex machina', altri hanno caratteristiche della commedia nuova (lieto fine, 'Alcesti'; importanza del caso, 'Ione'). Il coro perde progressivamente funzione drammatica per divenire elemento sostanzialmente lirico; lo stile trapassa dai moduli tragici a quelli patetici, discorsivi o sentenziosi, oscillando tra tradizione e innovazione. L'imprevedibilità degli sviluppi drammatici, le contraddizioni e la problematica psicologia dei personaggi, l'atteggiamento critico che investe le convinzioni religiose come le istituzioni sociali e politiche, fanno di Euripide l'interprete della crisi di un'intera società. La fortuna di Euripide fu piuttosto tardiva nella Grecia antica (riportò solamente 4 vittorie), ma a lui attinsero i commediografi della commedia nuova, i romanzieri e i tragediografi latini e determinante fu la sua influenza sul teatro rinascimentale e sulle tragedie di J. Racine.

Le varie interpretazioni:

da trux (mosto) - perché gli attori si tingevano volto e petto con la feccia dell'uva (l'ipotesi sarà ripresa anche dal Vico il quale connetterà il termine alla festa della vendemmia);

da tetragwnwdia - posizione assunta dal coro sulla scena;

Aristotele: da tragwn + wdh - canto di accompagnamento degli attori travestiti da capri

Eratostene: da tragou + wdh - canto per un capro dato in premio al poeta vincitore oppure canto di accompagnamento al sacrificio dell'animale;

Pisani: da wdh + trg (mercato; termine illirico) - canto del mercato di città;

Del Grande: da wdh + tarhh (potente; termine ittita) - canto per il dio potente.

Il verso è formato da quattro "metra" trocaici, l'ultimo dei quali catalettico, ed è stato, secondo la testimonianza di Aristotele (Poetica 1449a), il metro originario della tragedia. Sostituito dal metrico giambico, in Grecia lo si incontra non spesso nel tardo Sofocle, a Roma è presente solo nelle tragedie di Seneca.

 Nella tragedia greca è verso del dialogo; esso è costituito  di  tre 'metra' giambici, cioè di sei piedi giambici raggruppati in tre dipodie giam­biche (Schema: u - , u - , u - , u - , u - , u -). Poichè ammette sostituzioni nelle sedi dispare, dove al posto del giambo si può trovare lo spondéo (- -), il dàttilo (- u u), l'anapésto (u u -) od il proceleusmàtico (u u u u), mentre ammette in tutte le sedi (tranne che nella sesta) la sostituzione con il trìbraco (v v v), lo schema precedente può subire l'evoluzione in quello finale: (- u u / u u - / u u u u), u -, - || - (- u u / u u - / u u u u), u || -, - - (- u u / u u - / u u u u), u -. L'ultimo elemento è 'anceps'. La cesura cade dopo il quinto elemento (la breve del terzo giambo), ed è perciò detta 'pentemìmera', o dopo il settimo elemento (la breve del quarto giambo), ed è detta 'eftemìmera'. In latino il trimetro giambico, scarsamente impiegato, sarà sostituito dal senario giambico (-> Plauto)

J. Kott, Mangiare dio, 1977: "Non esiste tragedia senza mito, ma la tragedia ne è anche, contemporaneamente, la distruzione. E' un appello alla mediazione, e insieme una dimostrazione dell'impossibilità della mediazione. E' questo il momento di lucidità dell'eroe tragico. Aiace si getta sulla spada in pieno sole. Edipo s'accieca per rendere visibile il proprio destino."

A. Reynaud - R. Andria, Il teatro ed il diritto, 1993

U. Albini: "Le tappe dell'itinerario della tragedia greca coincidono con altrettante tappe generazionali.

All'epoca di Eschilo i Greci acquistano coscienza della propria forza (vittoria sui Persiani); c'è il desiderio di credere in uno Zeus garante della suprema giustizia. Ma il dio non parla chiaro agli uomini, segue spesso un suo disegno imperscrutabile, si esprime nella lingua degli oracoli. [.] Spesso la ragione vacilla: i personaggi esitano, brancolano, impazziscono.[.]

In Sofocle le passioni si coagulano intorno ad una sola personalità che domina la scena e calamita su di sé l'attenzione. [.] Sofocle crea figure altamente significative e tuttavia non sono modelli di comportamento da imitare. Sono personaggi grandiosi e monolitici che però devono misurarsi con una realtà complessa e sfuggente. [.] Paradossalmente, al di là degli errori che costellano il muoversi dei mortali, Sofocle realizza un teatro di certezze: i suoi eroi combattono contro le contraddizioni che li circondano per affermare qualcosa in cui credono. L'azione del protagonista, nell'immedesimazione degli spettatori, diventa un riscatto di tutti dalle indeterminazioni dell'esistenza. [.]

In Euripide non c'è più spazio per figure virili di statura sovramuna: egli si interessa piuttosto a psicologie che qualcosa ha corroso, ad individui fragili, vulnerabili, tormentati. Non rinunzia ai grandi temi: semplicemente la realtà lo convince che non esistono grandi uomini. Nello stesso tempo coglie, al di sotto delle norme repressive della sua epoca, la ricchissima gamma degli affetti femminili. [.]"

Cantarella: 'Grandiosità dei temi, nobiltà del pensiero morale, profonda fede religiosa, speculazione teologica, alta coscienza del cittadino: una personalità complessa, formatasi alla tradizione di Esiodo e di Solone, che anima una ricca vita interiore, rivela luce di poesia e trasfigura tutto nella vita eterna dell'arte. Nel bene e nel male, nella sventura e nella gloria i personaggi eschilei sono costruiti su un metro di grandezza, vibranti di carica passionale e di tensione, riflesso di una grande anima: per la mediocrità non c'è posto, anche se non è esclusa l'umanità più modesta'

Untersteiner: 'La tragedia greca seppe trovare nell'illuminazione dionisiaca il punto focale della tragicità dei singoli miti e trarre da essi la formulazione dei più alti problemi dello spirito: per ciò è da considerarsi come una delle più alte conquiste del genio ellenico. Eschilo, il suo grande rappresentante, con la trilogia dell'<<Orestea>> fu capace di sollevare ad un senso universale il mito, quello degli Atridi, fino ad allora interpretato nei modi più differenti e manchevole di una grande visione d'insieme'

Plutarco informa che Sofocle distingueva tre periodi nella propria evoluzione: 1) in questa fase, che inizia con il Trittolemo, segue Eschilo; 2) nella seconda, da collocare subito dopo l'Aiace, passa ad una propria concezione del dolore; 3) in questa fase perfetta, da limitare agli ultimi anni in cui subisce l'influsso di Euripide, Sofocle mira a dare espressione all'ethos. Sofocle, in effetti, vive un'età di trapasso: dall'unità e grandezza della polis, portata a gloria dall'illuminato dispotismo di Pericle, dalla generazione di Eschilo, alla dissoluzione e sfacelo di Atene, alle concezioni di Euripide. Un'età in cui Pericle è proteso all'avvenire (ma pone anche le premesse della rovina di Atene), Sofocle, invece, rivela perplessità e cerca di salvare del passato quanto più gli è possibile. Un'età, in cui Eschilo era fuori tempo, ma Euripide non era capito, era un'età giusta per Sofocle, uomo del suo tempo, ma anche, cosa gradita ai più, geloso custode della tradizione. L'eroe eschileo è mosso da un dio, quello di Sofocle ha una mirabile umanità; Eschilo ha creato un'espressione solenne, il linguaggio di Sofocle è agile - libero - colloquiale si presta all'introspezione psicologica; Eschilo attinge alla tradizione epica, Sofocle anche a quelle locali; Eschilo afferma che la vita dell'uomo ha come direttrici le grandi forze teologiche e morali, Sofocle pone l'uomo in un mondo di contraddizioni in cui si ritrova, prima guidato e, poi, abbandonato dal dio; Eschilo fu riscoperto solo nell''800, Sofocle è stato sempre in auge; Eschilo considera la sofferenza tramite per la perfezione secondo la volontà del dio, Sofocle la considera unica grandezza concessa all'uomo e consapevolezza di dover soccombere in una lotta impari il cui unico conforto consiste nella pietà (e la pietà richiede vittime); nella poesia eschilea c'è aperta grandiosità, in quella sofoclea una composta grandezza in cui si rivela infelicità e dolore.

G. Guerrieri, Introduzione all'Ifigenia in Aulide, 1955: " Edipo è stato toccato dal miracolo nel dolore, che gli apre la strada alla saggezza, alla comprensione, cioè, della legge che per l'uomo è oscura: all'iniziazione. Il destino si trasforma in una specie di oscura provvidenza. Con questa interpretazione il volto del male assume i lineamenti misteriosi della divinità. Il dolore diviene apparenza. E lo spettatore comprende che la tragedia si è svolta su due piani distinti: uno umano, l'altro divino; uno dell'apparenza, l'altro della vera realtà, che sfugge alla ragione: quella impenetrabile e soprannaturale del fato."

Euripide, a differenza dei suoi predecessori, non solo sceglie tra le varie leggende quelle che meglio servono a lui, ma trasforma la materia mitica spesso radicalmente o non esita a creare ex novo. L'intreccio nelle tragedie euripidee è più vario, più ricco di sorprese che non sia nei drammi dei due grandi che lo precedettero. In Eschilo ed in Sofocle l'azione è rettilinea, semplice, e l'unità vi è sempre rispettata; Euripide, invece, imbastisce talora drammi composti di scene collegate solo da un'idea centrale. I personaggi abbozzati da Euripide non sono più di statura gigantesca, come appaiono nei miti tradizionali, ma comuni esseri. Euripide non possiede più una fede incrollabile nell'antica religione dei padri, di cui accoglie i miti, ma la sua fede è accompagnata da spirito critico ed ha, inoltre, una diversa concezione della vita. Con ciò non si vuole asserire che Euripide era in materia religiosa un miscredente, perché anzi, egli, pur attraverso perplessità, mostra di possedere uno spirito sostanzialmente religioso. Se gli dei sono da lui ridotti quasi al rango di fantocci, anche gli eroi non hanno più in Euripide quelle titaniche proporzioni che avevano in Eschilo ed in Sofocle, ma appaiono uomini normali sottoposti ad un cumulo di sventure che ancor più li rimpicciolisce. Una concezione siffatta della vita non può condurre che al pessimismo più crudo. Anche Sofocle era stato a suo modo pessimista, ma la sua ferma fede nella divinità e l'età diversa nella quale era vissuto, gli avevano impedito di scivolare in una desolata disperazione. Tuttavia il pessimismo di Euripide non ebbe mai a tramutarsi in aperta misantropia o misoginia. Come, d'altro canto, credere che abbia potuto essere sul serio un convinto misogino un poeta specializzato nella creazione di tipi femminili dolcissimi? Un poeta che seppe modellare, meglio che caratteri maschili, quasi sempre di modesta levatura, figure di donne non comuni, delicate, soavi, ma anche forti ed indimenticabili, quali Alcesti, Fedra, Medea?

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