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Procedimento di sorveglianza: Legittimati all'azione




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Procedimento di sorveglianza:  Legittimati all'azione


Il procedimento di sorveglianza, a norma dell'art. 678 comma 1, c.p.p., ha luogo su richiesta del pubblico ministero , dell'interessato, del difensore; ed è possibile che il procedimento s'instauri, a differenza di quanto previsto dall'art. 666 c.p.p. per il procedimento di esecuzione, anche d'ufficio.

Senza dubbio, il modo più comune, per l'introduzione del procedimento, è rappresentato dalla richiesta dell'interessato[2]. Sono, infatti, legittimati all'azione i detenuti, gli internati, i soggetti liberi pur trovandosi in stato d'interdizione e, conseguentemente, il loro difensore: egli sarà un legale di fiducia autonomamente nominato rispetto a quello che li ha, tecnicamente, difesi nel procedimento di cognizione . E' possibile, inoltre, ricavare implicitamente dall'art. 666 comma 8 c.p.p. (al quale l'art. 678 c.p.p. espressamente fa rinvio) la legittimazione ad agire anche per il tutore e il curatore dell'infermo di mente.

Per quel che concerne, invece, l'iniziativa d'ufficio, occorre rilevare la ratio sottesa alla previsione fatta, in maniera specifica, per il procedimento di sorveglianza, al contrario, invece, di quello d'esecuzione. Originariamente essa trovava la sua giustificazione, nella necessità di assicurare ampia applicazione agli istituti delle misure alternative anche in caso d'inerzia delle parti. Successivamente, l'azionabilità d'ufficio, fu legittimata perché estrinsecazione dell'interesse pubblico alla realizzazione del fine rieducativo.

Nell'ambito del sistema attuale, è necessario che la previsione abbia, esclusivamente, una funzione di stimolo e che tenda a favorire il processo di risocializzazione del soggetto in sintonia con le finalità della pena. In nessun caso deve, invece, rappresentare una limitazione del potere di agire in giudizio riconosciuto alle parti, rispetto alle quali, il giudice rimane, sempre e comunque, un terzo soggetto imparziale.

L'estensione del potere d'azione al pubblico ministero, appare come una profonda innovazione introdotta dal legislatore del 1988. Le ragioni che si pongono alla base di tale scelta sono le più varie, tuttavia, l'intento principale è, proprio quello, di ristabilire gli equilibri della giurisdizione contenziosa anche nel procedimento di sorveglianza, soprattutto in seguito alla previsione dell'iniziativa d'ufficio. All'interno del procedimento di sorveglianza, infatti, il magistrato del pubblico ministero ed i poteri che gli sono conferiti, si pongono come naturale prosecuzione della dialettica processuale, già garantita nel giudizio di cognizione e giustificata dalla titolarità del diritto-dovere, dello Stato, di dare esecuzione ad un provvedimento di condanna[6]. La legittimazione all'azione del pubblico ministero sembra, inoltre, risultare necessaria per effetto di un ampliamento dell'applicazione del rito di sorveglianza che va al di là dei casi relativi al giudizio sull'uomo. A questo punto, occorre chiarire in quali casi sia lecito il suo intervento propulsivo, in considerazione del fatto che molte richieste, quali possibili oggetti del giudizio di sorveglianza, appaiono estranee al suo ruolo istituzionale . Partendo, infatti, dalla considerazione che in molti casi, il procedimento di sorveglianza è caratterizzato, dal giudizio sull'uomo recluso e sul suo grado di rieducazione, il gioco delle parti e la funzione accusatoria tipica del giudizio di cognizione passano in secondo piano. Tuttavia, non si deve dimenticare che il rito di sorveglianza si estende a tutta una serie di materie che possono anche prescindere da un'indagine sulla rieducazione , ed in relazione a tali casi, il pubblico ministero è chiamato ad intervenire con la funzione di promotore dell'azione che gli è riconosciuta. Si può fare riferimento ai procedimenti di sorveglianza finalizzati alla revoca delle misure alternative: rispetto ad essi emerge il naturale conflitto tra la pretesa punitiva dell'esecutore e l'esigenza sottesa alla misura da revocare ed è in casi come questi che il ruolo propulsivo del procuratore riequilibra le posizioni all'interno del procedimento di sorveglianza, evitando che l'avvio ex officio dell'azione faccia assumere al giudice un ruolo non completamente imparziale.

Vi è un'ultima questione da rilevare in ordine alla legittimazione all'azione, essa è di natura interpretativa e sorge dalla contrapposizione di due norme contenute negli artt. 678 comma 1 c.p.p. e 57 ord. penit. L'articolo citato per ultimo prevede, infatti, che l'azione relativa agli artt. 47, 50, 52, 53, 54 e 56 ord. penit., possa essere promossa anche dai prossimi congiunti dei condannati e degli internati, ovvero dal consiglio di disciplina. Quest'ultimi dovrebbero quindi aggiungersi alla lista dei legittimati all'azione, eppure, non vengono nemmeno menzionati dall'art. 678 c.p.p. E' necessario, pertanto, trovare una soluzione interpretativa e stabilire se l'azionabilità di alcune situazioni giuridiche sia rimessa oppure no, anche ai prossimi congiunti e al consiglio di disciplina. In dottrina si ritiene che, l'art. 57, non essendo stato abrogato né espressamente - in quanto non rientrante nelle disposizioni del Capo II-bis del Titolo II ord. penit. - né tacitamente - giacché non incompatibile con l'art. 678 c.p.p. - conserva intatta la sua operatività.





<<Il pubblico ministero legittimato all'azione è da identificarsi nel Procuratore Generale, per le richieste da proporre al Tribunale di sorv., e nel Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario delle sede dell'ufficio, per le richieste da avanzare al Magistrato di sorv. E' da ritenere che i Procuratori della Repubblica presso il Tribunale, che non sono sede dell'ufficio del Magistrato di sorveglianza, possono, in relazione alle esecuzioni penali di cui sono titolari, sollecitare il giudice di sorv. per l'eventuale promozione d'ufficio della relativa azione o richiedere il pubblico ministero competente a promuovere la relativa azione>>. IOVINO, Contributo al procedimento di sorveglianza, Torino, 1995, pag. 87.

Si veda FERRARO - DE STEFANIS, Provvedimenti e procedimenti della magistratura di sorveglianza, Padova 1995, pag. 93 e ss.

La legittimazione ad agire anche dell'incapace o del parzialmente incapace, rappresenta un'ulteriore specificità del procedimento di sorveglianza, infatti, a differenza di quello d'esecuzione, è previsto l'esercizio personale anche dell'interdetto (art. 4 ord. penit.) così come invece, l'art. 666 comma 8 c.p.p., prevede l'obbligo di notificare l'avviso di fissazione dell'udienza anche al tutore dell'interessato infermo di mente o in mancanza di un operatore provvisorio nominato dal giudice. Si veda IOVINO, Contributo allo studio del procedimento di sorveglianza, Torino, 1995, pag. 69 e ss.

Il legislatore del 1988 ha previsto, per la prima volta, un autonomo potere d'iniziativa per il difensore come naturale proiezione del principio contenuto nell'art. 99 comma 1 c.p.p. secondo cui al difensore competono le facoltà e i diritti che la legge riconosce al proprio assistito fatta eccezione per i diritti personalissimi. E' ovvio che l'interessato ha la facoltà di togliere qualsiasi effetto, all'iniziativa del difensore, così come il suddetto articolo prevede nel 2° comma. In tal senso CORSO, Manuale della esecuzione penitenziaria, Bologna, 2000, pag. 258.

Nella parte in cui afferma "al tutore e al curatore competono gli stessi diritti dell'interessato".

L'intervento della magistratura di sorveglianza, infatti, si pone come posterius funzionale all'esecuzione penale. In tal senso IOVINO, Contributo allo studio del procedimento di sorveglianza, Torino, 1995, pag. 88.

In tal senso DELLA CASA, La magistratura di sorveglianza: organizzazioni, competenze, procedure, Torino, 1992, pag. 104 e ss.

In tal senso KOSTORIS, Procedimento di sorveglianza, in AA. VV., L'ordinamento penitenziario tra riforma ed emergenza, Padova, 1994, pag.552.

Agli effetti della legge penale ex art. 207 c.p. sono prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti. La Cassazione, nell'ordinanza del 22 febbraio 1978, ha ritenuto che non può considerarsi prossimo congiunto il convivente more uxorio.

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