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Il diritto e il processo




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Il diritto e il processo


Durante il principato di Augusto si ebbero profondi cambiamenti nel sistema giuridico, sia nella creazione di nuove norme, sia nella loro applicazione pratica.

In quest'epoca infatti le deliberazioni dei comizi (leggi) e quelle dei concili della plebe (plebisciti) vennero completamente snaturate. Ormai, praticamente, le sole leggi che venivano approvate erano quelle proposte dal princeps o da lui ispirate. Le assemblee popolari non esprimevano piú la volontà popolare. Le deliberazioni del Senato (senatoconsulti) continuavano ad avere valore di legge, ma ‑ di nuovo ‑ piú che la volontà dell'aristocrazia riflettevano le indicazioni e la volontà del princeps. Infine, quando entravano in carica, i magistrati continuavano a emanare l'editto, ma le cariche cittadine erano state svuotate di ogni potere: le novità venivano dalla volontà del principe, nelle cui mani si andò progressivamente concentrando la totalità del potere, legislativo.

Il principe (e poi l'imperatore) emanava infatti degli editti che avevano valore vincolante per tutti i suoi sudditi. Egli trasmetteva delle istruzioni (mandati) ai suoi funzionari o ai governatori delle province, che erano tenuti a farle rispettare. Infine, a volte personalmente, a volte per mezzo dei suoi funzionari, egli dava dei pareri (rescritti) a chi glieli chiedeva, e risolveva le controversie che venivano sottoposte al suo giudizio con delle sentenze dette decreti. Anche in questi casi, il suo parere o la sua decisione erano vincolanti, anche se avevano valore solo con riferimento al campo specifico. Si venne cosí ad affermare il principio che «quello che il principe decide ha valore di legge».

La concentrazione di potere nelle mani di una sola persona investí anche il campo dell'amministrazione della giustizia. 1 processi (sia civili sia penalí) cominciarono infatti a essere affidati a dei funzionari imperiali, che ‑ al di fuori delle regole processuali ‑ emettevano sentenze in nome del principe.


La sorte della lex Iulia de adulteriis


Le leggi fatte approvare da Augusto per moralizzare la vita familiare furono effettivamente applicate? In particolare, fu veramente applicata la legge sull'adulterio? Il poeta Giovenale pensava che non lo fosse. In un suo celebre verso, infatti, leggiamo una domanda chiaramente retorica: «Dove sei lex Iulia, stai forse dormendo?» E forse, su questo punto, Giovenale aveva ragione. La lex Iulia pare proprio non venisse applicata. Le fonti, infatti, fanno pochi riferimenti ai processi per adulterio.

Le adultere, dunque, non venivano punite nelle forme del processo criminale voluto da Augusto. In parte, forse, la tradizione secolare secondo la quale l'adulterio era una faccenda privata era troppo forte perché i Romani accettassero un'intrusione dello Stato nelle loro questioni familiari. Se è vero quanto riferisce Díone Cassio, del resto, lo stesso Augusto ne era consapevole. Quando il Senato, preoccupato per il dilagante malcostume, gli chiese di intervenire con maggior decisione, egli rispose: «Date voi stessi alle vostre mogli i consigli e gli ordini che ritenete necessari: cosí io faccio con la mia».

La posizione di Augusto certamente non era facile. Prescindendo dal fatto che il suo comportamento personale non corrispondeva ai dettami delle sue leggi (lo si accusava, infatti, di avere avuto numerose relazioni extraconiugali), e prescindendo dai problemi posti dal comportamento di sua figlia Giulia, egli doveva fare i conti da un lato con coloro che ritenevano le sue leggi insufficienti, e dall'altro con il fronte, ben piú numeroso, di quelli che viceversa non accettavano che lo Stato stabilisse le regole della loro vita privata.

Le motivazioni per cui la lex Iulia non veniva applicata, insomma, potevano essere le piú svariate. Ma, quali che fossero, il risultato era che le adultere non venivano pubblicamente accusate. Secondo Tiberio, nessuno si prendeva la briga di denunciarle: da qui la sua proposta di tornare al vecchio sistema, in base al quale le matrone, in mancanza di un pubblico accusatore, avrebbero dovuto essere giudicate in casa, dai parenti.


La nuova morale

Verso una nuova mentalità. Lo storico Paul Veyne ha messo ín luce che fra l'età di Cicerone e quella degli Antonini (secolo II d.C.) la morale familiare pagana súbí un profondo mutamento, al termine del quale si trovò a essere identica alla successiva morale cristiana del matrimonio. Le cause di questa trasformazione, che normalmente viene attribuita all'influsso cristiano, sarebbero da ricercare invece all'interno dello stesso mondo pagano. Esse sarebbero infatti da ricondurre a un mutamento nella mentalità dei Romani, che nel corso di questo periodo, da cittadini quali erano stati per cinque secoli, divennero dei sudditi e ne assunsero la mentalità.

La trasformazione era già in corso nell'età di Augusto. A cominciare da questo periodo, la classe dirigente romana cominciò infatti a vedere sconvolti i suoi ritmi di vita e il suo modo di guardare il mondo e il suo prossimo. I capi dei diversi gruppi familiari, per secoli, erano stati i capi di gruppi in contrasto tra loro, ciascuno dei quali affidava il suo prestigio e il suo potere alla capacità di imporsi agli altri. A partire dall'età augustea essi divennero in sostanza dei servitori del principe, e il loro prestigio e il loro successo cominciarono a dipendere dalla capacità di intrattenere buoni rapporti con i propri pari.



Ciò produsse un cambiamento profondo nel modo di pensare e nel comportamento.

Il capofamiglia in età augustea. Una volta il capo del gruppo familiare, abituato a dimostrare il suo potere agli altri, si comportava all'interno del gruppo come un dominatore assoluto, imponendo il suo volere senza difficoltà e senza problemi a tutti i suoi sottoposti, tra i quali stava ovviamente anche la moglie. Il capofamiglia dell'età augustea era invece costretto, fuori della famiglia, a trattare con persone che (essendo o suoi pari o suoi superiori) doveva necessariamente rispettare. La sua abitudine al comando cominciò a venire meno, e questo lo portò inevitabilmente a una crisi, di cui si avvertirono i primi síntomi in età augustea. Egli sentí il bisogno dí una nuova regola di vita, e cominciò a imporre a se stesso quella che, nel secolo il d.C., sarebbe diventata la regola generale, vale a dire la «rispettabilità»: nei confronti della moglie, ín particolare, egli smise di comportarsi come il padrone rigoroso, come il dominatore severo che chiedeva fedeltà totale, ritenendosi libero di concedersi qualunque avventura. Egli si impose invece di essere fedele alla moglie e di rispettarla, di non consíderarla piú un essere alle sue dipendenze, ma la compagna della sua vita, e nella sicurezza del rapporto con lei cercò quelle certezze che il mondo esterno non poteva piú dargli.


La morale di coppia e dell'autocontrollo. Per il capofamiglia il successo del matrimonio diventò uno degli scopi fondamentali, poiché da un lato lo rassicurava da tante incertezze e dall'altro gli conferiva all'esterno la veste dell'uomo per bene, rispettoso dei diritti. Nacque allora, nel mondo pagano, a cominciare dall'età augustea, la nuova morale di coppia, che nella sostanza non era molto diversa da quella cristiana.

Questa nuova morale, inoltre, venne rafforzata da una seconda circostanza, a sua volta interna al mondo pagano e legata ai mutamenti della condizione politica. La vita del funzionario del principe era fisicamente malsana e psichicamente stressante. Una volta, la classe dirigente viveva all'aria aperta, praticava lo sport, aveva tutto il tempo per frequentare le palestre e dedicarsi alla cura del corpo. Ora questo non era piú consentito: i funzíonari erano sempre impegnati in riunioni, incontri, attività sedentarie che, mentre appesantivano il corpo, stancavano la mente.

In queste condizioni, cresceva il numero delle persone che ricorrevano alle cure dei medici . Dalle opere di questi sappiamo che di fronte ai sintomi ora descritti la ricetta consigliata era sempre la stessa: l'invito a non eccedere nel cibo, nelle bevande e nell'attività sessuale. Anche in questo caso, i cambiamenti politici e sociali inducevano a far accettare come propria la nuova morale basata sull'autocontrollo.

La condizione femminile

Il matrimonio e la dote. Tra il secolo a.C. e il I d.C. la condizione delle donne romane cambiò. In questi secoli, ín primo luogo, cadde in disuso il vecchio matrimo­nio, che trasferiva la moglie, nella famiglia del marito in condizioni di completa sot­tomissíone all'uomo. Per i matrimoni non erano piú necessari i vari riti nuziali cele­brati nei secoli precedenti. Adesso, perché due persone veníssero considerate «sposa­te», bastava che decidessero di vivere insieme con l'intenzione di essere marito e

moglie.A partire dall'età di Augusto, inoltre, fu emanata una serie di leggi che limitò i po­teri del marito sulla dote portata dalla moglie. La dote era un complesso di beni e di danaro che la moglie portava con sé per contribuire alle spese della vita matri­moniale. Secondo le regole del diritto ci­vile, essa era di proprietà del marito, che doveva restítuirla solamente in caso di di­vorzio. Per garantire alla moglie che egli non la dilapidasse, Augusto cominciò a li­mitare la libertà dei mariti di vendere gli immobili che facevano parte dei beni del­la dote. 1 rapporti economici e di potere tra moglie e marito erano ormai molto di­versi da quelli di un tempo.








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