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Normalita' e devianza




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NORMALITA' E DEVIANZA







1.1.La devianza come patologia organica e sociale: I criminali come individui da curare.


In questo capitolo mi propongo di fare un breve excursus sulla nascita e l'evoluzione dei concetti di normalità e devianza, due realtà inscindibili l'una dall'altra, che spesso vengono considerate universi paralleli destinati a non incontrarsi mai. In realtà vedremo che non è così, e che devianza e normalità non sono entità assolute e dai confini ben delineati, ma piuttosto realtà che spesso si influenzano e si compenetrano vicendevolmente.


1.1.1. La scuola criminologica classica e la sua evoluzione

La scuola criminologica classica si propone di considerare l'individuo come responsabile delle proprie azioni. La legge deve tutelare i diritti dei cittadini ed il crimine viene considerato per se stesso, così come ogni reato è ritenuto "ente giuridico", cioè violazione della norma.

A partire dal XVII secolo, in concomitanza con l'affermarsi dei valori della classe borghese, che da questo momento detiene il potere, si sviluppa una svolta teorica rispetto alla concezione della scuola criminologia classica. Infatti l'idea di normalità riflette l'immagine che ne ha la classe borghese e si rifà alla logica dei rapporti di produzione e di scambio, al relativo apparato dei valori simbolici ed etico-morali corrispondenti, ai residui ideologici e religiosi di epoche precedenti, alla visione meccanicistica e naturalistica della scienza. Se dunque la normalità borghese presuppone una perfetta integrazione nella società governata dalle sue leggi e principalmente basata sul lavoro e sulla produzione, il deviante si configura come colui che non lavora e che non vuole vendere la sua forza lavoro; l'individuo che non rientra nella logica dei rapporti di produzione viene emarginato, condannato all'indigenza o confinato in istituzioni totali. Questo stesso individuo, avversario della società liberale e quindi riconosciuto come deviante è un prodotto della società stessa. La borghesia inizia ad esercitare il proprio potere sui corpi dei lavoratori.

Il corpo diventa oggetto di conquista e di interesse scientifico e l'organizzazione istituzionale inizia ad interessarsi alla matrice somato-psichica del comportamento umano. Gli indici usati per valutare il concetto di normalità sono quelli borghesi anche per quanto riguarda le caratteristiche fisiche e somatiche. Tutto ciò nasce dall'esigenza di etichettare, razionalizzare, inserire entro schemi definiti le tipologie del comportamento umano in modo da garantire legittimità alle categorie di normalità imposte dal potere vigente.


1.1.2. La scuola positivista

Si può ricondurre a qui la nascita della scuola positiva che considera colui che viola le leggi come affetto da qualche disfunzione o malformazione biofisiologica. Si assiste quindi a un passo indietro rispetto alla concezione che del crimine aveva la scuola criminologica classica: infatti, mentre quest'ultima assumeva la persona come responsabile delle proprie azioni, la seconda spiega il comportamento umano, anche quello deviante, in base a caratteristiche predeterminate ed insite nell'individuo. Concependo la devianza come un fatto determinato da fattori biologici ed ereditari, la scuola criminologica positiva trasforma il reato da ente giuridico a ente di fatto. Ciò comporta come logica conseguenza che sia naturale supporre una causalità insita nel corpo o nella psiche, al fine di spiegare l'origine dei comportamenti contrari alle norme.


1.1.3. Lombroso e Kraeplin

Il caposcuola di questa teoria è Cesare Lombroso (1876), che cerca di determinare scientificamente il prototipo del criminale nato, e cioè un individuo la cui criminalità è possibile riconoscere e presagire da tratti caratteristici osservabili a livello morfologico e corporeo. Grazie ai suoi studi condotti su detenuti, Lombroso classifica minuziosamente le caratteristiche somatiche comuni ai soggetti da lui studiati e stabilisce un nesso causale tra tendenze al crimine e tratti fisici particolari quali ad esempio gli zigomi sporgenti, la fronte sfuggente, gli archi sopraccigliari prominenti e le orecchie a sventola.

L'evoluzione della teoria positivista e organicista prosegue con gli studi di Emil Kraeplin (1909), che si impegna in un'opera di classificazione nosografica dei disturbi psichiatrici. Di lui Stefano Mistura (1980) nell'introduzione al libro La schizofrenia di Minkowski dice: "i principi di Kraeplin erano sostanzialmente: una fede incrollabile sulla genesi organica delle malattie mentali.la convinzione di dover classificare minuziosamente forme e sintomi anche se questo voleva poter dire perdere di vista il malato" (Minkowski, 1980).

Anche Kraeplin non si interroga sul significato che il comportamento deviante ha per l'individuo, né tanto meno cerca di mettere in relazione la persona criminale con la società in cui è inserita, ma il suo obbiettivo è solo ricercare le cause organiche e le alterazioni fisiologiche che giustificano certi comportamenti anti-sociali e la loro classificazione scientifica.

Le posizioni di Lombroso e Kraeplin riassumono la corrente ideologica di cui era impregnato il primo positivismo, che poneva l'accento sulla patologia individuale, ritenendo che le condotte umane fossero determinate aprioristicamente da fattori biologici e fisiologici.

Secondo questo paradigma, quindi, gli atteggiamenti anormali sono ricondotti ad uno stato di malattia mentale e quest'ultima ad un disturbo del cervello; le cause della devianza vanno perciò attribuite ad una sua alterazione funzionale.

Anche i comportamenti meno sospetti da un punto di vista medico come la povertà o la delinquenza vengono poi condotti alla malattia mentale; in tal modo le istituzioni hanno l'opportunità di emarginare tutte le persone a loro scomode dietro ad una giustificazione medico- legale. Le istituzioni delegate al controllo devono sia garantire una sorveglianza coercitiva sia spacciare un modello repressivo per terapia ai fini della risocializzazione.

A questo punto non è più la conoscenza scientifica e psichiatrica a legittimare l'esistenza di alcune istituzioni sociali come il manicomio o un carcere ma sono queste stesse istituzioni a fornire giustificazioni teoriche al consenso di malattia mentale. Anche le scelte psicologiche e psichiatriche risultano perciò essere asservite all'esercizio del potere perché servono a neutralizzare e rieducare tutte le persone il cui comportamento viene considerato inaccettabile o anormale rispetto alla norma. L'errore in cui si incorre con il paradigma scientifico dominante è quello di identificare la trasgressione di norme prescrittive (sociali) con la trasgressione di norme costitutive (biologiche). La confusione tra organismo fisico e soggetto sociale comporta la persistente distinzione del normale dal patologico.

Il normale e il patologico rappresentano il paradigma entro cui devono essere valutati i comportamenti umani ma quello che viene volutamente ignorato è che le norme biologiche e quelle sociali sono cose diverse ed i metodi e le competenze che vengono applicate alle prime non possono essere ritenuti validi per le seconde. Riassumendo si può affermare che l'approccio biologistico alla devianza può essere analizzato sia dal punto di vista socio-politico sia da quello teorico-metodologico. Il primo riconosce che la pratica istituzionale è funzionale alla sopravvivenza dell'apparato tecnico-professionale e alle istituzioni deputate al controllo sociale; il secondo si basa sulla concezione naturalistica della devianza in base alle teorie seguenti:

Il biologismo di Lombroso riconduce la devianza a specifiche alterazioni cerebrali.

La seconda definisce il deviante come colui che si allontana dalle norme emozionali del mondo interiore le cui regole garantiscono il funzionamento normale della personalità (psicoanalisi).

La terza considera il deviante come privo di un equilibrio esistenziale riferito al soggetto stesso e alla armonia della esperienza nel mondo.

Infine l'ultima che considera devianti quanti siano incapaci di adattarsi alle norme della società o entrino in conflitto con i suoi valori.

Ciò che accomuna queste teorie è che considerano l'uomo come avulso dalla società e dal periodo storico in cui vive nonché vincolabile a leggi di funzionamento immodificabili.



1.1.4 Enrico Ferri e l'ipotesi di disorganizzazione sociale.

Enrico Ferri (1881) invece, allievo di Lombroso, propone un altro modello di interpretazione della devianza. Utilizzando una metodologia rigorosamente scientifica, Ferri riconduce la devianza alla patologia sociale essendo convinto che il crimine sia un sintomo di disagio dovuto alla disorganizzazione sociale e quindi sia in qualche modo già insito nella società stessa.

L'ipotesi di disorganizzazione però, basandosi su fattori sociali esterni e indipendenti dall'individuo, non considera la società come luogo in cui le persone agiscono concretamente, ma ne da una visione astratta in cui l'individuo non viene considerato e anzi è quasi annullato. Anche Ferri quindi pur ponendo l'accento sui fattori sociali, li considera precedenti e predeterminati, esprimendo quindi un giudizio neutrale e oggettivo della realtà molto utile alla classe borghese dominante per il mantenimento del suo potere politico. Gli scienziati diventano quindi uomini al servizio della borghesia e si preoccupano di fornire criteri scientifici che permettano di separare la maggioranza degli individui definiti 'normali' da una minoranza di persone da 'normalizzare' e curare.

Analizzando il funzionamento della società attraverso il modello medico-biologico , si riduce la molteplicità dei fatti sociali ad una unità organica più semplice da spiegare e giustificare, perché possiede gia al suo interno le proprie condizioni di sopravvivenza in determinati principi di funzionamento e rapporti tra le singole parti.


1.1.5. Quètelet e l'intrusione della statistica nel rapporto normalità-devianza

Anche la statistica diventa uno strumento necessario per garantire la correttezza e la continuità delle informazioni ma soprattutto diviene un supporto necessario alla criminologia per determinare i rapporti tra normalità e anormalità. A questo proposito è molto importante ricordare il contributo di Quételet, uno dei padri fondatori della biometria.

Grazie allo studio sistematico delle variazioni di statura e di altre caratteristiche fisiche nell'uomo Quételet stabilisce, per una determinata caratteristica misurata sui membri di una popolazione omogenea e rappresentata graficamente, l'esistenza di un poligono di frequenza, con un apice corrispondente all'ordinata massima e una simmetria corrispondente all'asse delle ordinate. Quételet dimostra che il poligono tende verso una curva a campana, nota come curva di Gauss.

Lo studioso ritiene la curva di Gauss di fondamentale importanza perché pensa che le variazioni rispetto alla frequenza media misurata per ogni caratteristica dalla distribuzione dei dati sulla curva, abbiano un carattere accidentale.

Con questo artificio matematico può individuare le caratteristiche normali dell'uomo, visto che secondo Quételet la media coincide con la norma.

Secondo la sua teoria "l'uomo medio" è quello le cui caratteristiche si possono ricavare e ricostruire mediante leggi statistiche e si trovano nella parte centrale della curva di Gauss .

Quételet ritiene possibile non solo ricavare una definizione scientifica dell'uomo normale ma anche del cosi detto "deviante" perché pensa che l'osservazione scientifica permetta di determinare le costanti dei comportamenti anti-sociali e quindi di prevederne la pericolosità e l'incidenza.

La sua teoria della prevedibilità postula che ci siano delle costanti nel numero dei delitti annui denunciati e nei tipi principali di reato. La stessa regolarità si riscontra nelle quote fornite ai totali dai vari gruppi o classi della popolazione che vivono in diverse condizioni sociali, ambientali o geografiche.

Quételet riconosce soprattutto due cause che determinano i comportamenti criminali: la disuguaglianza e la rapida mobilità sociale. Egli sostiene che siano i meccanismi sociali e morali insiti nella società e non solo in alcune sue parti ad essere responsabili della devianza. Queste cause determinano una tendenza al delitto pressoché invariata nel tempo ed in questo modo il reato si configura come un fatto inevitabile e normale nella società industriale. E' la struttura sociale che prepara la devianza e chi commette il crimine rappresenta solo un mero strumento esecutivo.

La critica che viene mossa a Quételet è quella di aver preteso di costruire scientificamente e statisticamente un'idea di normalità che non si riscontra nella vita reale e di aver identificato arbitrariamente la norma con la media. Egli infatti ha preteso di identificare l'individuo normativo con quello le cui caratteristiche rispecchiano quelle ottenute dalla media matematica, costruendo così un uomo inesistente nella vita reale.

Il concetto di normalità è considerato quindi un costrutto meta sociale derivato da rapporti matematici e da cui si deducono le caratteristiche umane senza fare alcun riferimento alla capacità degli organismi di adattarsi all'ambiente circostante.


1.1.6. Eysenck ed il biologismo contemporaneo

La spiegazione biologica e deterministica della devianza non appartengono solamente al passato perché ancora oggi in alcuni settori della ricerca psicopatologica e criminologica si fa uso di criteri oggettivi di misurazione pretendendo di applicare il cosiddetto metodo scientifico anche nella determinazione di ciò che rientra nella devianza.

Così facendo anche i moderni teorici delle scienze positive pretendono di "oggettivare" il comportamento umano privandolo del significato che ha per la persona che lo esperisce. Il processo mediante cui si considerano i fenomeni umani come se questi fossero cose, cioè in termini non umani o addirittura sovrumani, si chiama "processo di reificazione della realtà sociale". Concentrandosi soltanto sulle supposte alterazioni biofisiologiche della persona definita deviante, questi studiosi ripropongono, in realtà, un modello teorico sostanzialmente conservatore perché si rifiutano di analizzare criticamente la società non riconoscendo alla devianza il suo valore prevalentemente sociale. Un esponente della recente corrente biologista è Eysenck , secondo cui la personalità delinquenziale sarebbe riconoscibile sia in base a fattori costituzionali ed in particolar modo alla reattività del sistema nervoso sia alle disposizioni caratteriali legate al temperamento.

Eysenck è famoso per la teoria dei tratti in cui individua due fattori bipolari di personalità : introversione-estroversione e normalità-neuroticismo, associandoli ad altre caratteristiche che sono : scarsa condizionabilità, instabilità emotiva e un fisico mesomorfo.


1.1.7. La critica al neo biologismo

L'elemento criticabile di questo teorico, come riassunto da Tiziana Zeloni, è quello di "confondere il giudizio di criminale e la valutazione di un comportamento che avviene secondo regole prescrittive (sociali) con un dato assoluto e astorico di tipo naturalistico; ricorrere ad uno stretto determinismo causale tra attività nervosa, attività mentale e comportamento, quando, spetta al comportamento e alla attività cognitiva avvalersi del funzionamento dell'attività nervosa, e non viceversa. Il discorso di Eysenck è un costrutto di tipo ideologico occultato dietro un linguaggio scientifico, in cui ci si appella a dei "fatti" che in realtà mancano"[1].

Il diverso viene patologizzato allo scopo di rendere più chiari i criteri normativi della salute facendo si che la gente comune possa cogliere le differenze insormontabili tra il modello di sanità a cui appartiene e il mondo della diversità e della malattia che le è estraneo.

In tal modo si crea una netta linea di demarcazione tra il bene e il male, molto rassicurante perché ogni diversità e devianza possono essere relegate in quest'ultima categoria che viene anche identificata con la malattia, concetto che comprende tutti i valori negativi presenti.

L'equivalenza, devianza = patologia = malattia = cura = esclusione e quella di normalità = salute = adattamento = produttività permette di relegare ai confini della società tutto ciò che non rientra nell'ordine normativo istituzionale. Il giudizio di un atto non è attribuito alla natura dell'azione stessa ma alla posizione sociale di chi lo commette.

In tal modo si spiega come ad esempio l'omicidio commesso da un militare in tempo di guerra sia considerato difesa della patria mentre lo stesso gesto commesso da un civile venga punito con la sanzione detentiva. L'infrazione non è considerate per se stessa ma in relazione all'individuo che la commette.

La diversità e la normalità non sono concetti assoluti ma si riferiscono sempre all'individuo e al suo contesto sociale di appartenenza, tant'è che identiche azioni messe in atto da persone diverse possono essere accettate come normali in un caso e devianti in un altro.

Il diverso non appartiene ad un universo parallelo a quello dei normali ma rientra in quel sistema sociale che lo ha escluso formalmente ma che in realtà lo ha reintegrato negativamente nel proprio ordine. Ma questo non può essere dichiarato perciò il deviante viene ricondotto ed identificato con il malato e solo in tal modo la società lo può reinserire perché egli stesso e la sua diversità diventano la legittimazione delle norme vigenti.


1.2. Un approccio sociologico della devianza


1.2.1 La teoria funzionalista

La scuola di criminologia americana rappresenta una svolta nello studio e nella concezione della devianza perché rifiuta le spiegazioni biologiche e organiche che fino ad ora hanno imperato nel panorama scientifico per abbracciare un ottica totalmente differente secondo cui la devianza viene concepita non più come frutto di anomalie fisiche o psichiche, ma piuttosto deriva da un'imperfetta struttura sociale.

E' con questa scuola che, per la prima volta, si sostituisce il termine patologia con quello di diversità riferendosi ai comportamenti antisociali e l'attenzione viene spostata dalla persona che delinque al contesto sociale in cui vive.

Un'altra differenza molto importante rispetto alla scuola positivista è che il funzionalismo, così si chiama il movimento della scuola di criminologia americana, non si limita ad un'analisi delle cause della devianza, ma cerca anche di capire il significato che le azioni devianti hanno per gli attori stessi.

Più specificatamente i funzionalisti ipotizzano che il rapporto tra individuo e società sia determinato sia dall'interiorizzazione o meno delle norme vigenti in quella società sia dalla possibilità o meno di soddisfare i propri bisogni individuali. La devianza viene concepita un fenomeno di adattamento dell'uomo all'impossibilità di soddisfare le proprie necessità.

Quindi è vista non solo come causa, ma anche come conseguenza della disorganizzazione sociale. Gli esponenti della scuola di criminologia americana sono diversi e differiscono tra loro per quanto riguarda l'importanza che attribuiscono a certi fattori sociali piuttosto che ad altri.


1.2.2. La devianza secondo Durkheim e Merton

La prima teoria che vogliamo riportare come esempio per approfondire le posizioni di questa scuola è quella di Durkheim. Per la prima volta, grazie a questo autore, il crimine non viene più considerato patologico, ma piuttosto viene ritenuto un fatto sociale inteso come normale risposta degli individui alle spinte anomiche della società. Con il termine 'anomia' Durkheim e i funzionalismi in generale indicano il disequilibrio del sistema sociale provocato dal divario vissuto tra le aspirazioni indotte dalla società industriale e le reali opportunità di conseguire il successo economico e sociale. Tutto ciò comporta, nelle classi sociali marginali, un sentimento di insofferenza nei confronti delle istituzioni deputate al controllo sociale, che tendono a limitare le aspirazioni stesse.

La posizione di Durkheim viene ripresa da Merton. Secondo quest'autore la devianza è una forma normale di adattamento ad un ambiente egoistico. Merton si concentra sull'ordine sociale e sul comportamento piuttosto che sull'individuo o la sua personalità e riprende la distinzione tra struttura culturale e struttura sociale già esistente nel pensiero di Durkheim. La prima comprende le mete culturali, cioè i bisogni e le aspirazioni dell'uomo in una determinata società e anche le norme che indicano quali mezzi è possibile utilizzare legittimamente per perseguire i propri obiettivi. La seconda comprende i mezzi istituzionalizzati attraverso cui è possibile raggiungere le proprie mete senza violare le leggi. Merton sostiene che la discordanza esistente tra mete da raggiungere e mezzi disponibili per farlo favorisce la nascita della devianza perché le persone più svantaggiate dal punto di vista economico sociale, non potendo realizzare i propri obiettivi attraverso mezzi istituzionali leciti scelgono di farlo mediante vie legalmente proibite. Riprendendo le sue parole possiamo dire che "Attribuendo un'importanza così diversa alle mete e ai processi istituzionali, questi ultimi possono venire talmente danneggiati dal risalto che viene attribuito alle mete, che il comportamento di molti individui finirà per limitarsi solo a considerazioni di convenienza tecnica"[2]. A causa di questo fatto la stabilità della società risulta minata e si verifica quella situazione che Durkheim definisce "anomia". Le persone reagiscono in una maniera differente a questo scarto tra mete e mezzi disponibili a seconda della posizione che occupano nella struttura sociale. L'autore individua una serie di risposte che vanno dall'accettazione al rifiuto delle mete culturali e/o dei mezzi e individua cinque tipologie di adattamento: il conformista, l'innovatore, il ritualista, il rinunciatario, il ribelle.

Il primo adattamento è quello più diffuso in una società stabile ed è anche quello che dimostra l'inesistenza di discordanze tra mete e mezzi. L'adattamento innovatore, invece, è quello in cui le mete culturali vengono accettate, ma si ricorre a mezzi illeciti per raggiungerle rifiutando quelli istituzionali considerati meno efficaci. Il comportamento ritualistico implica la rassegnazione e l'abbandono di mete che aspirano al successo, ciò permette però di rispettare le norme sociali. L'adattamento rinunciatario è la forma meno frequente e si concretizza nel rifiuto sia delle mete culturali sia dei mezzi istituzionalizzati. Infine, l'adattamento ribelle è un incentivo al miglioramento della struttura sociale e un tentativo di adeguare gli standard culturali ai mezzi disponibili.

Senza dubbio un grande merito riconosciuto a Merton consiste nell'abbandono di ogni giudizio di natura etica insito nel concetto di devianza.

Come per Durkheim, il comportamento antisociale non è più considerato la manifestazione di persone affette da patologie fisiche o psichiche ma è proprio di individui clinicamente normali che reagiscono in questo modo alle continue pressioni sociali.

Un'altra innovazione che si trova nella teoria mertoniana, come del resto anche in quella di Sutherland, è l'applicazione del concetto di devianza non solo ai gruppi più svantaggiati ma anche ai cosiddetti "colletti bianchi", cioè persone appartenenti ad una classe sociale elevata.

Grazie a ciò la linea di demarcazione tra persone "devianti" e persone "normali" diventa più sfumata.

Tuttavia l'Autore non analizza le differenze psico-sociologiche tra i reati commessi dai "colletti bianchi" e quelli perpetrati da persone di un ceto sociale inferiore.

Merton, inoltre, riconosce l'esistenza di disuguaglianze strutturali all'interno della società ma non ne spiega le ragioni, cioè non spiega quali sono i motivi dell'esistenza della discrepanza tra fini e mezzi.

La soluzione al problema della devianza è una società meritocratica, in cui il successo è determinato dalle capacità individuali ed un sistema sociale in grado di accrescere le possibilità di raggiungerlo. Purtroppo questo non fa che aumentare le disuguaglianze esistenti perché i criteri oggettivi necessari a stabilire i meritevoli dai non meritevoli sono fondati sulla disuguaglianza sociale.

Inoltre la società non ha i mezzi per garantire a tutti la soddisfazione dei loro bisogni.

Merton non considera nemmeno la reazione sociale al fenomeno della devianza e di conseguenza trascura l'importanza dell'interazione tra il deviante e la società.


1.2.3. Cohen e le sottoculture delinquenziali

Albert Cohen, che appartiene come Merton alla scuola Americana, propone un altro modello di interpretazione della devianza. Rimproverando a Merton di aver considerato la soluzione al problema dell'anomia come un progetto individuale, ritiene che la devianza sia risposta che le persone che si trovano in una situazione di svantaggio adottano per risolvere i loro problemi di adattamento. Cohen è famoso per i suoi studi sulla sottocultura delinquenziale che rappresenta proprio il tipo di risposta che a partire dalla gioventù, gli individui della classe inferiore fanno propria e attraverso cui si contrappongono alla cultura dominante.

Poiché questi giovani non sono in grado di soddisfare i criteri di normalità imposti dalla società, non solo rifiutano questi valori dominanti ma li capovolgono ed esaltano valori contrari. Quindi Cohen afferma che la cultura deviante trova ragione della sua esistenza in una posizione vendicativa alle norme della classe media; ad esempio disprezza il valore attribuito alla proprietà privata oppure alla scuola, mezzo ufficialmente riconosciuto per raggiungere un certo status sociale.

Tuttavia la sottocultura delinquenziale non è effettivamente diversa dalla cultura dominante perché in realtà ne vorrebbe perseguire i medesimi fini perciò risulta essere solamente una "polarità negativa" di quest'ultima.

Nella spiegazione della sua teoria Cohen fa riferimento al bisogno di autostima e di accettazione proprio di ogni ragazzo; ogni persona sente la necessità di stabilire relazioni sociali e se ciò non è possibile all'interno dei "gruppi convenzionali" la soluzione è di appoggiarsi a gruppi devianti per cercare di soddisfare i propri bisogni.

Indubbiamente Cohen offre una spiegazione più completa della teoria dell'anomia che dava per scontate le reazioni della società nei confronti dei comportamenti antisociali e dà maggior importanza all'interazione tra deviante e società. Secondo il nostro autore anche il comportamento deviante richiede una complessa organizzazione e non costituisce di per sé disorganizzazione sociale anche se può facilitarla.

La portata innovatrice di questa teoria consiste nell'aver introdotto i concetti di gruppo, di cultura e subcultura nella spiegazione della devianza e di aver utilizzato i termini "diversità" o "devianza" anziché quelli di " crimine" o "anormalità".

Tuttavia considerando la sottocultura delinquenziale come rovesciamento di quella ufficiale, la posizione di Cohen è un poco riduttiva; infatti autori come Taylor, Malton e Young lo criticano spiegando che ci sono delle differenze importanti tra pensare ad una cultura come caratterizzata da norme e valori autonomi e ritenerla semplicemente una negazione della cultura dominante.

Un altro punto di debolezza che è stato messo in luce nella teoria di quest' autore è la mancanza di un'analisi approfondita delle relazioni che intercorrono tra la cultura dominante e le sottoculture.



1.3. La devianza come fenomeno relativo: i " Labelling Theorists" ovvero il "Primo costruzionismo"


La teoria dell'etichettamento sociale rappresenta una svolta nell'analisi del rapporto tra normalità e devianza. Innanzitutto sposta l'interesse degli studiosi dalle cause del comportamento deviante all'analisi degli agenti sociali e dei processi che operano in una data società per classificare un comportamento deviante. I "labelling theorists" ritengono che la devianza sia una costruzione operata dagli agenti del controllo sociale che, attraverso le loro stigmatizzazioni, contribuiscono alla sua creazione e al suo mantenimento.

Questo movimento, a cui è stato dato il nome di primo costruzionismo, segna una svolta decisiva per il definitivo distacco da una visione positivista della devianza soprattutto perché con il suo relativismo diminuisce notevolmente lo scarto tradizionalmente esistente tra devianza e normalità. E' dunque attraverso quest'ottica che ci proponiamo di analizzare il rapporto e le relazioni tra individui cosiddetti devianti e individui normali.

Il primo costruzionismo quindi considera la devianza come una costruzione sociale da parte degli agenti di controllo responsabili della stigmatizzazione delle persone. La stigmatizzazione di un individuo avviene attribuendo un significato simbolico a certi tratti comportamentali, fisici, psichici e sociali e facendoli diventare delle componenti stabili della personalità, di un ruolo e delle sue manifestazioni pubbliche. Questo processo ha due effetti: il primo è quello di definire il deviante in relazione alla legge infranta ed il secondo è la tendenza a fargli condividere il suo stereotipo come parte integrante della sua personalità.

Il teorico di riferimento più importante di questo approccio è Lemert che cerca di spiegare in che modo le azioni devianti vengano attribuite a determinate persone e quali sono le cause che derivano da questa attribuzione.

L'autore individua così due tipi di devianza che definisce "devianza primaria" e "devianza secondaria". Con il primo termine si definiscono tutte quelle azioni antisociali episodiche ed accidentali che non comportano una modificazione della personalità dell'individuo e soprattutto non è causa di stigmatizzazione sociale; la "devianza secondaria" invece comporta l'assunzione di precisi ruoli da parte di chi commette l'azione deviante .   

I parametri necessitano al riconoscimento della devianza sono rappresentati dalla visibilità o meno del lato dell'ambiente dove viene commesso , da chi viene osservato o denunciato , e se è riconosciuto da un ente pubblico o un'istituzione .

Si può osservare ad esempio che le persone appartenenti ad una classe sociale inferiore hanno maggior probabilità di essere etichettate devianti anche perché maggiore è il numero delle persone che hanno il controllo diretto o indiretto sul loro comportamento che già di per se è considerato sospetto. Tutto ciò succede perché il tecnico preposto alla definizione di ciò che è deviante da ciò che non lo è ha già dei preconcetti e degli stereotipi ben definiti a riguardo. Così ciò che viene colpito dalla stigmatizzazione non è il lato deviante in se , ma piuttosto la condizione sociale della persona che agisce. Molto spesso si identificano delle caratteristiche fisiche, culturali o comportamentali appartenenti ad una classe di individui e le si qualificano negativamente in contrapposizione ai caratteri propri della classe sociale dominante e delle sue regole.

Lo stereotipo del deviante serve quindi a far risaltare ancora di più gli attributi della cosiddetta "normalità" e a produrre un comune consenso che giustifichi la criminalizzazione del diverso e la netta distinzione tra il bene e il male. L'etichettamento è un processo che non solo costituisce il fallimento del significato politico di quanto l'individuo testimonia, ma è anche in grado di distruggere la complessità del contesto e delle ragioni che hanno portato l'individuo a compiere un'azione non conforme alla legge trasformandola in "fattualità deviante".

La devianza non si identifica di fatto con l'azione illecita ma piuttosto nasce dalle definizioni tramite cui le persone rispondono ad un atto che viola certe norme; quindi il deviante è una persona a cui sono stati applicati con successo degli stereotipi sociali accettati da tutti allo scopo di spiegare il suo comportamento. Lo stereotipo sociale serve ad emarginare il deviante mentre esiste anche uno stereotipo diagnostico che riconosce ufficialmente e scientificamente la personalità del diverso e autorizza un provvedimento sanzionatorio e di esclusione.

Lo stereotipo sociale è il risultato dei giudizi dei membri appartenenti ad un gruppo ed è quindi più relativo dell'altro in quanto dipende dalla discrezionalità di ciascun gruppo sociale; lo stereotipo diagnostico si avvale del potere attribuitogli dall'istituzione e perciò assume un valore assoluto. Secondo questa teoria il concetto di diversità è creato dal sapere tecnico che produce le categorie dalla devianza e persino le sue spiegazioni cercando di confermare le categorie della realtà attraverso quelle dell'anomalia e della diversità. La costruzione della figura del deviante non avviene quindi secondo un procedimento scientifico, ma rappresenta soltanto una strategia prodotta dai tecnici e dalle istituzioni per legittimare la supposta verità delle loro costruzioni concettuali. Ma quando le istituzioni chiamano in causa il tecnico, non è solo allo scopo di convalidare una determinata definizione del reale, ma anche per garantirsi un' immagine di funzionalità rispetto alla realtà. L'esistenza della diversità serve quindi per confermare l'immagine di una struttura sociale che ha come sbocco la garanzia del benessere dei cittadini e il mantenimento dell'ordine sociale.

Un altro vantaggio ricavato dalla gestione totalitaria delle istituzioni è che tramite l'utilizzo dei tecnici e dei servizi essa offre una reinterpretazione delle diversità in chiave terapeutica e pedagogica, così da renderle colpevoli e assistibili secondo le formule della consensualizzazione partecipante. Il concetto di devianza viene quindi imposto all'immaginario collettivo in modo che risulti simmetrico al ruolo di chi se ne deve interessare. Le istituzioni cioè producono sia ideologicamente sia strutturalmente la devianza perché quest'ultima legittima la loro esistenza. Il processo di legittimazione è appunto un sistema di conferme e autenticazioni reciproche al fine di mantenere l'ordine esistente.

Un' istituzione raggiunge il suo scopo quando riesce a far rifluire verso di sé il consenso dell'opinione pubblica e la richiesta da parte di quest'ultima di una conferma della realtà tramite l'ideologia e le norme.

Il sapere scientifico pretende di dedurre un modo di essere da un comportamento spostando l'attenzione dalla trasgressione alla personalità del soggetto che la compie. Secondo quest'ottica il deviante è sempre sospettato di una qualche anormalità e molto spesso questo sospetto si traduce in giudizio vero e proprio. Spesso tramite l'osservazione scientifica della personalità il tecnico tende a cogliere solo ed esclusivamente quegli elementi più adatti e coerenti per convalidare lo stereotipo che si è creato. La personalità deviante è un rituale di oggettivazione perché gli stereotipi prodotti dai pregiudizi sociali, dalle istituzioni e dal sapere scientifico, diventano realtà di fatto che esistono indipendentemente da coloro che le hanno create.

Il processo di stigmatizzazione fa sì che l'autore di un comportamento definito deviante venga identificato e si identifichi egli stesso con quella parte di comportamento.

L'oggettivazione della devianza fa dimenticare al tecnico che essa è una costruzione che egli stesso ha inventato e fa si che la ritenga una cosa naturale.

Le categorie nosografiche che vengono utilizzate per spiegare e ordinare la realtà derivano da giudizi di valore atti a confermare i pregiudizi del senso comune e costruire una realtà che sia prevedibile.  

Con i labelling theorists si assiste dunque ad un ribaltamento del rapporto "normalità-devianza", realtà che non sono più considerate "entità di fatto" ma pure e semplici costruzioni sociali e proprio per questo perdono il loro valore assoluto e si relativizzano a vicenda.

Nello spiegare la relatività della devianza, però, anche questa teoria ha dei punti deboli: ammettendo che l'esistenza di un atto deviante è dipendente dal sistema normativo vigente in quella data epoca ed in quella società, non considerano l'esistenza di quei tipi di reato, ad esempio l'omicidio, che vengono criminalizzati in ogni epoca e periodo storico, e che quindi non dipendono esclusivamente dalla reazione sociale.

Inoltre considerare la devianza prodotta solamente dall'etichettamento sociale significa offrire un'immagine passiva del deviante stesso che è considerato privo della capacità di decidere consapevolmente se trasgredire o meno una legge.

Da ultimo i labelling theorists non approfondiscono l' analisi degli interessi e delle motivazioni alla basi dei controlli sociali e non analizzano nemmeno le cause che producono l' etichettamento di una persona .

Inoltre non si può ritenere determinanti gli effetti del controllo sociale perché non sempre sussistono .

Anche se rilevano l' esistenza delle agenzie di controllo sociale e le ritengono responsabili della produzione di definizioni etichettanti, i labelling theorists non si soffermano sugli interessi che queste agenzie difendono né tanto meno stabiliscono in che modo la loro azione consolida l' attuale sistema sociale .


1.4. La circolarità della devianza : il costruzionismo complesso.


Questo movimento teorico completa ed arricchisce la visione relativistica della devianza già presente nella teoria dei "labelling theorists" definita anche primo costruzionismo.

Il costruzionismo complesso critica ai labelling theorists il fatto di non cogliere adeguatamente la circolarità del processo di costruzione della devianza.

Come espresso da De Leo infatti : "Il controllo seleziona e definisce il crimine non più di quanto il crimine come problema selezioni e definisca il controllo: o meglio, entrambi esprimono un dominio di prestazioni selettive, da cui rispettivamente operano selezioni ricorsive, autopoietiche e comunicazionali".

In questo modo il costruzionismo complesso rinuncia ad analizzare il rapporto normalità-devianza secondo il precedente modello di spiegazione lineare che riconosceva la supremazia del controllo e della reazione sociale nella produzione dei comportamenti antisociali e abbraccia il modello di causalità circolare che rende atto della complessità dei fenomeni.

Il costruzionismo complesso riprende il concetto di "altro generalizzato" proprio di Mead; l'altro generalizzato è una costruzione simbolica individuale tramite cui le persone diventano consapevoli dei significati e delle definizioni sociali.

Attraverso questo costrutto il processo sociale influenza la condotta delle persone e l' individuo assume il punto di vista del gruppo sociale in cui è inserito e i significati condivisi delle azioni .

La riflessività è considerata una condizione necessaria per lo sviluppo della mente e rappresenta la consapevolezza individuale del processo sociale inteso come l'insieme delle relazioni tra l'individuo stesso e gli altri e di come tale processo venga modificato dall'insieme delle azioni e delle interazioni tra le persone che, come lui, lo stanno costruendo.

A differenza di quanto insito nella teoria dei "labelling theorists" la visione di uomo che viene presentata dal costruzionismo complesso è quella di un essere che non "scivola" inavvertitamente nella trappola delle definizioni sociali ma che è in grado di significare i propri comportamenti e che riconduce le proprie azioni alle interazioni reali e simboliche con gli altri e alle tipizzazioni di significato.

De Leo afferma che : "Il comportamento deviante viene quindi ad essere definito da una complessa rete di interazioni che producono significati intorno all'azione e al suo attore che a quell'interazione partecipa con un ruolo tutt'altro che marginale. Si potrebbe dire che il rapporto attore-azione concentra a sé la complessità di quella rete interattiva, specificando, nella contingenza, la dimensione normativa e del controllo, le attribuzioni di significato e la reazione sociale, la razionalità del soggetto agente".[4]

L'elemento di innovazione rispetto alla teoria precedente è che la devianza non viene determinata esclusivamente dalla reazione sociale ma preesiste in termini logici l'azione. Infatti l'esistenza della devianza è già insita nella norma stessa.

In questo senso viene criticato il ruolo del sapere tecnico deputato allo studio delle diversità che per autolegittimare il proprio potere traduce stereotipi sociali in categorie scientifiche che preesistono all'individuo.

Questo approccio cerca di individuare i rapporti di circolarità che intercorrono tra l'azione deviante, l'interazione normativa e la reazione sociale.

La prima dimensione, ovvero l'azione, si riferisce al carattere sociale dell'atto deviante in quanto è soltanto il comportamento che cade sotto gli occhi degli altri a poter essere identificata come trasgressiva di una norma.

La seconda dimensione è rappresentata dalla norma che viene considerata preesistente alla criminalità stessa. Infatti, come già esposto prima, le rappresentazioni mentali e i criteri di definizione della devianza preesistono alle singole azioni ed ai singoli individui.

L'ultima è rappresentata dalla reazione sociale che trasforma in devianza il comportamento trasgressivo.

La reazione sociale non è da considerarsi soltanto una conseguenza dell'atto deviante, come nella Labelling theory, ma piuttosto è da intendersi come un insieme di atteggiamenti, definizioni, attribuzioni che precedono in termini logici l'azione.

La relazione circolare tra soggetto, azione, contesto normativo e reazione sociale, intesa sia come atteggiamento preesistente al comportamento, sia ad esso reattivo rappresenta un nuovo modo di concepire la relazione tra normalità e devianza perché ne definisce meglio il contesto logico.




1.5. La concezione della devianza nella teoria sistemica: un ponte tra le teorie psicosociali e le teorie psicodinamiche


Sebbene non si sia interessato in modo particolare di devianza, l'approccio sistemico offre nuovi spunti di interpretazione dei legami esistenti tra i comportamenti problematici e i sistemi di interazione in cui sono inseriti.

I teorici sistemici si sono interessati in particolar modo di devianze psichiatriche o di tossicomania, ma riteniamo che la spiegazione attribuita a questi tipi di disagio possa essere applicata anche al campo, più generico, della devianza. Il comportamento "negativo" non è attribuito al singolo ma viene interpretato come sintomo di un disagio che appartiene all'intero sistema in cui l'individuo è inserito e quindi la spiegazione di questo tipo di condotta comporta la necessità di allargare l'attenzione al contesto per cercare i nessi che legano quel comportamento alle dinamiche del contesto. Il comportamento deviante non viene quindi considerato per se stesso, ma come elemento funzionale al mantenimento dell'equilibrio di un sistema incapace di mantenere una solida organizzazione avvalendosi dei cambiamenti esterni e della crescita dei suoi membri. Il comportamento sintomatico o, nel nostro caso deviante, ha due finalità: la prima è quella di mantenere il sistema in uno stato stazionario e rigido; la seconda è quella di comunicare all'esterno l'arresto evolutivo del sistema stesso. Questa doppia funzione definisce il carattere paradossale dell'informazione.

I sistemici ritengono che ci sia un rapporto stretto tra comunicazione, organizzazione e contesti logici.

Bateson e gli studiosi di Palo Alto ritengono che la comunicazione costituisca una modalità di costruire informazioni e individuano uno schema elementare ma esplicativo della struttura del processo comunicativo. Secondo questi teorici la comunicazione è composta dall'emittente, cioè il soggetto che costruisce il messaggio, dal contesto in cui il messaggio circola e da un ricevente che lo decodifica e lo re-interpreta. L'approccio sistemico postula l'esistenza di un cambiamento di sistema e di codici tra la costruzione del messaggio e la sua ricezione, cambiamento che è necessario per far fronte ai bisogni organizzativi dei soggetti che interagiscono comunicando e che rinvia ai livelli logici che definiscono la natura del messaggio. Anche il contesto rende significativo il messaggio e la comunicazione si struttura in base alle esigenze organizzative dei sistemi in interazione (ad esempio in base al bisogno di mantenere l'equilibrio esistente o al contrario di evolvere) e ai livelli logici che la organizzano.   

Questo movimento teorico attribuisce molta importanza all' azione intesa come unità che contiene ed organizza la dimensione comportamentale in termini costruzionistici, cioè dove il comportamento è reso significativo dall' elaborazione cognitiva e simbolica dell' autore.

L'individuo interpreta le regole sociali ed organizza l'azione anticipandone gli effetti, grazie alla possibilità tipica della mente umana di prefigurarsi il futuro.

Il movimento sistemico non concepisce l'azione unicamente nei termini di comportamento, ne solo come espressione di dinamiche intrapsichiche o rappresentazioni cognitive, bensì come fenomeno complesso che organizza tutte queste dimensioni e le mette in relazione con i significati e le regole sociali.

L'azione si compone di comportamenti osservabili, cognizioni consapevoli e significati sociali.

I comportamenti osservabili rappresentano la dimensione tendenzialmente oggettivabile dell' azione, le cognizioni consapevoli possono definirsi come l'elaborazione cognitiva del soggetto che, in un primo momento pianifica le azioni, e successivamente può controllarne gli effetti durante il corso dell' azione stessa, e da ultimo ne verifica i risultati.

I significati sociali delle azioni sono quelli che ci interessano maggiormente, perché riguardano il comportamento inteso come atto sociale.

La dimensione dei significati è molto importante, perché rappresenta l' anello di congiunzione tra l' azione e il contesto culturale in cui è inserita, riferendosi all' ambito del controllo sociale e alle regole che definiscono il significato dei movimenti. Secondo la teoria sistemica ogni comportamento ha due funzioni: una strumentale che rinvia agli effetti concreti dell' azione ed una espressiva che molto spesso è latente e rappresenta la dimensione comunicazionale contenuta nell' azione.

La funzione pragmatica o strumentale è quella più evidente per giustificare o spiegare l'atto deviante: il crimine cioè viene considerato un mezzo adeguato per ottenere dei vantaggi personali. Ad esempio una forte motivazione ad ottenere rapidamente delle grandi somme di denaro può spiegare la decisione di entrare in giri d'affari illegali. Anche il fatto che la criminalità, al di là delle forme specifiche che assume nel corso della storia, sia presente in ogni epoca sembra avvalorare l'ipotesi dell'importanza della funzione strumentale dell'atto deviante che consente di raggiungere gli scopi desiderati anche in assenza delle modalità riconosciute istituzionalmente. La criminalità quindi rappresenta uno strumento ad alta potenzialità di attrazione per raggiungere gli scopi considerati tanto più quando il controllo sociale è inefficace o debole.

La seconda funzione che definisce e spiega il fenomeno della devianza della teoria sistemica e che può essere utile nell'analisi del rapporto tra normalità e devianza è denominata espressivo-comunicazionale. Ogni messaggio come ogni azione contiene, oltre ad aspetti relativi al contenuto, anche aspetti relativi alla relazione esistente tra le parti che interagiscono. Ogni comportamento e quindi anche quello deviante è anche una modalità di comunicazione del soggetto con il contesto quindi è un chiedersi quali effetti di relazione, implicitamente o esplicitamente, la persona abbia voluto ottenere mettendo in atto quel tipo di comportamento.

L' azione è una modalità attraverso cui la persona definisce la propria soggettività in interazione e contribuisce alla rielaborazione continua dell'identità personale. Ogni comportamento si riferisce quindi oltre che al contesto relazionale in cui è inserito, anche agli effetti Sé cioè agli effetti che produce sull'agente e sulla sua organizzazione. Inoltre ogni azione deviante ha come interlocutore di rilievo il controllo sociale perché al suo interno contiene le anticipazioni degli effetti di controllo utili nella definizione delle strategie atte a sfidarlo, evitarlo e confrontarsi con le svariate forme da esso assunte: dal controllo familiare o sociale allargato a quello istituzionale.

In questa teoria la devianza viene vista come una modalità per rendere più evidenti certi messaggi e più attenti gli interlocutori. Il comportamento antisociale rappresenta il modo in cui il soggetto ha scelto di esprimere il proprio messaggio perché tutte le altre possibilità di emettere azioni significanti gli appaiono insufficienti ed inadeguate. L'atto deviante è considerato l'unica strategia possibile per far fronte ad una situazione che si è paralizzata ed è connessa a volte a vissuti di disastro e inevitabilità. La devianza diventa sintomo funzionale e strumento comunicativo per esternare dei disagi o delle patologie del sistema in cui l'individuo è inserito oppure il tentativo di bloccare un'evoluzione del sistema che viene vissuta dall'individuo come pericolosa per la sua integrità psicologica e relazionale. Il significato di molte azioni di tipo deviante è da ricercare quindi negli effetti Sé, relazionali e di controllo a cui questi comportamenti rimandano.

L'apporto di questa teoria ci sembra importante perché tenta di ribaltare il rapporto tradizionale tra normalità e devianza individuando gli elementi "patologici" nel contesto e non solo nell'individuo il cui comportamento sintomatico è piuttosto il tentativo di risolvere l'anomalia presente nel sistema. Un altro spunto di riflessione che ci offre questa teoria è dato dall'importanza attribuita alla comunicazione e alle relazioni tra l'individuo e il suo contesto di appartenenza. Si può infatti ipotizzare che se attraverso la funzione espressivo-comunicativa del comportamento deviante l'individuo comunica al sistema l'urgenza di avviare un processo di cambiamento che coinvolga l'intero contesto sociale e relazionale in cui è inserito, una possibile risposta al fenomeno della devianza possa essere centrata sulla ridefinizione delle interazioni sociali ed interpersonali dell'individuo col suo sistema di appartenenza allo scopo di ottenere un equilibrio "sano" tra le parti interagenti.


1.6. Il continuum Normalità-devianza nell'ottica psicoanalitica


Nelle pagine precedenti abbiamo considerato come il rapporto tra normalità e devianza si sia evoluto nel corso del tempo e come sia stato interpretato nell'ambito delle teorie biologiche, sociologiche, psicosociali e da ultimo secondo l'approccio sistemico. Ora ci proponiamo di analizzare come la devianza e la normalità nonché la relazione esistente tra le due siano considerate da un punto di vista psicoanalitico e dinamico. Anche l'ottica psicoanalitica considera la devianza innanzitutto come un comportamento di cui ritiene indispensabile conoscere le varie motivazioni.

Per la psicologia dinamica i motivi che spingono l'individuo ad avere comportamenti antisociali possono essere sia coscienti e legati perciò alla sfera e all'espressione dell'Io, sia inconsapevoli e appartenenti quindi all'Es o inconscio cioè alla struttura più impulsiva della personalità. Tra i motivi consapevoli e quelli non consapevoli ci sono dei costanti rapporti di natura dinamica e per questo si ritiene che la dinamica delle motivazioni sia sempre l'espressione di tutta la vita psichica individuale.

Nella spiegazione del comportamento umano la teoria psicoanalitica individua, motivazioni di varia natura: fisiologica, psichica, sociale eccetera. Ovviamente un'azione non sempre è determinata e spiegata da un unico motivo; al contrario spesso è la risultante di una serie di cause e per questo in dinamica esiste la teoria della pluri-motivazione.

Uno degli studiosi che si sono interessati all'analisi dei rapporti tra motivazioni consce e motivazioni inconsce nonché della loro influenza sulla condotta individuale è stato Jung. Secondo Jung è molto importante considerare le relazioni e le strutture inconsce che contribuiscono a spiegare il comportamento. Quest'autore individua all'interno di ognuno di noi, la presenza di alcuni archetipi cioè degli istinti o patterns fondamentali che condizionano, insieme alle circostanze esterne, la vita di ogni individuo e che sono in rapporto con l'Io del soggetto. Questi archetipi rappresentano la base arcaica su cui si fonda ogni personalità individuale e Jung ritiene che siano sempre presenti nell'uomo moderno allo stato latente ma che possano prendere il sopravvento ogni qualvolta l'individuo si trova in particolari situazioni. Le strutture prelogiche e arcaiche di Jung possono essere considerate il presupposto impersonale, in quanto prelogiche e universali, di ogni situazione personale umana ossia delle rappresentazioni che condizionano le direttive individuali e collettive.

Gli archetipi rappresentano la psiche umana collettiva, cioè gli elementi collettivi dell'inconscio, distinti, le qualità, le componenti positive e negative presenti nella collettività. Postulando l'esistenza di queste strutture che costituiscono le "parti inferiori" della personalità di ciascuno di noi, Jung spiega come sia insensato ritenere che esista una divisione netta tra il bene ed il male, il bello ed il brutto, la devianza o la patologia e la normalità perché "ognuno di noi ha in sé qualcosa del delinquente, del genio e del santo".

La teoria psicoanalitica inoltre analizza le varie fasi dello sviluppo emotivo individuale sostenendo che nella primissima infanzia l'uomo è regolato da quello che Freud chiamava "principio del piacere". Ogni ritardo o mancanza nella soddisfazione dei bisogni primari dell'individuo può determinare in lui un atteggiamento di sfiducia verso il mondo esterno che viene vissuto come minaccioso. Solo se il bambino è cresciuto in un ambiente familiare in grado di soddisfare i suoi bisogni può sviluppare un atteggiamento di fiducia nei confronti della realtà circostante e sostituire il "principio di realtà" al "principio del piacere". Freud ritiene che lo sviluppo umano sia composto da varie fasi, da lui chiamati stadi di sviluppo, che ogni persona deve raggiungere e superare per poter giungere alla costituzione di una personalità matura. A volte si verificano delle difficoltà nel corso dello sviluppo che ne impediscono il progredire: si tratta della regressione e della fissazione a stadi di vita individuale e sociale anteriori rispetto a quello che aveva raggiunto il soggetto o rispetto a quello in qui la sua personalità si sarebbe dovuta evolvere.       

Secondo Ancona nella dinamica psicologica che guida l'azione del cosiddetto deviante si possono riscontrare sia regressione che fissazione dovute a un mancato soddisfacimento negli stadi di vita precedenti.

Questo studioso afferma che i due fenomeni non si ritrovano solamente nelle persone che manifestano dei comportamenti antisociali bensì che siano presenti in ogni uomo in tutte quelle situazioni in cui gli uomini non sono capaci di posticipare la gratificazione o non hanno abbandonato le fonti di soddisfazione primitive.

La teoria dinamica della personalità fa anche riferimento al concetto di "stratificazione dell'Io". La personalità umana non è ritenuta una struttura monolitica ed unitaria ma piuttosto è considerata composta da più "parti" in rapporto dinamico tra loro, a volte più o meno integrate, a volte scarsamente in relazione.

E' proprio grazie a questa concezione della personalità che, anche nell'approccio psicoanalitico, viene rivalutato il rapporto tra normalità e devianza per giungere alla conclusione che non ha senso operare una netta distinzione tra il delinquente e l'onesto ovvero tra il deviante e la persona normale perché ogni essere umano possiede parti mature e immature, adulte e infantili,oneste e criminali. La natura della personalità, secondo questo punto di vista, non è da considerarsi univoca ma composita e dipende strettamente dalla parte del Sé che ne ha assunto il controllo in quel momento.

Si può affermare quindi che come in ogni persona ritenuta "normale" si nascondono, in qualche parte della personalità, aspetti delinquenziali che potrebbero emergere in determinate situazioni, così anche in colui che si è caratterizzato per un comportamento antisociale, esistono delle componenti "sane" cioè pro-sociali che potrebbero riemergere e riprendere il controllo della personalità.   






T.Zeloni, Analisi critica in alcune categorie esplicative del comportamento deviante, in G. De Leo e altri, L'interazione., op.cit.,pp.38-39


R.Merton, Teoria e struttura sociale, Bologna: Il Mulino, p.303.

De Leo 1987 a,33

De Leo, Patrizi " La spiegazione del crimine" 1992

Jung, l'Io e l'inconscio, Einaudi, 1954

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