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La competenza penale del giudice di pace




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La competenza penale del giudice di pace


L'emanazione governativa delle "Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468 ", promulgata con Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274, ha implementato la competenza giuridica della magistratura onoraria, chiamata in causa da una serie di reati minori tra i quali le percosse, la lesione personale lieve, alcune ipotesi di lesioni personali colpose, l'omissione di soccorso, l'ingiuria, la diffamazione, la minaccia, i furti punibili a querela della persona offesa, la sottrazione di cose comuni, il danneggiamento, l'invasione di terreni o edifici, gli atti contrari alla pubblica decenza, nonché i reati puniti con una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro mesi ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena.[1]

Si tratta, per lo più, di illeciti penali non particolarmente gravi circoscrivibili al fenomeno della microconflittualità i cui labili confini potrebbero dare adito a fenomeni di più vasta portata ed entità anche sul piano giuridico.

Il carico di lavoro della Magistratura ordinaria ha assunto in questi anni un notevole aumento per effetto dell'inadeguatezza dell'attuale apparato processuale e giudiziario nella soddisfazione delle aspettative del cittadino, utente primo di risposte statali pronte ed efficaci.

Ispirato, quindi, dalla finalità di deflazione del carico giudiziario pendente presso i tribunali, nonché dall'esigenza di avvicinare la giustizia alle esigenze della collettività, il legislatore non si è limitato ad attribuire la competenza penale al giudice di pace, ma ha introdotto nel codice di procedura penale uno speciale procedimento corredato da un apparato sanzionatorio del tutto autonomo dal sistema delle pene contenuto nel codice Rocco.

Le novità di maggior rilievo riguardano la persona offesa dal reato e le attribuzioni del giudice di pace, nonché il contenuto delle nuove sanzioni penali.

Relativamente quanto sopra citato, sembra rilevante sottolineare come la legge-delega n. 468/1999 ed il decreto di attuazione n. 274/2000 abbiano recepito gli orientamenti riformisti del diritto penale sostanziale e processuale, tesi all'introduzione di nuovi sistemi di tutela dei diritti soggettivi e di governo dei conflitti interindividuali che con la mediazione penale ed il risarcimento del danno, consentono una reale flessibilità delle risposte alla criminalità di modesta gravità.

La nuova normativa può essere, quindi, analizzata alla luce della filosofia di mediazione-riparazione che, consolidata in ambito civile, riveste un ruolo potenziale ma non del tutto tangibile in relazione agli interventi legislativi in materia penale.

Il procedimento dinanzi al giudice di pace, nella prospettiva di pervenire ad una soluzione del conflitto che sia soddisfacente per la persona offesa dal reato, attribuisce alla medesima un ruolo dinamico nel processo. Ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. n. 274/2000, la persona offesa, nel caso di reato procedibile a querela di parte, può citare a giudizio direttamente il soggetto al quale il reato è attribuito. Inoltre l'art. 34 del citato d.lgs. ha introdotto la condizione di improcedibilità dell'azione penale per la particolare tenuità del fatto (già presente nel diritto processuale minorile) subordinandola alla mancata opposizione della persona offesa, mentre l'art. 35 prevede l'estinzione del reato "quando l'imputato dimostra di aver proceduto, prima dell'udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze  dannose o pericolose del reato".

Gli istituti predetti  tendono alla valorizzazione della vittima in seno al processo penale, dando rilievo all'aspetto della restitutio in integrum o del risarcimento del danno, in adesione ad un modello di giustizia riparativa che tende a sostituire i tradizionali modelli di giustizia retributiva e riabilitativa incentrandosi su principi innovativi quali la riappropriazione del processo da parte della vittima e dell'autore del reato e la rivalutazione della vittima all'interno del processo.

Tuttavia, il momento di massima esaltazione del ruolo della vittima del reato può individuarsi nel tentativo di conciliazione che il giudice di pace deve obbligatoriamente esperire ai sensi dell'art. 29, comma 4, del d.lgs. 274/2000, nell'ipotesi in cui l'imputazione riguardi un reato perseguibile a querela. La norma attribuisce inequivocabilmente al giudice di pace un ruolo di mediazione e composizione degli interessi in conflitto, da svolgersi nell'udienza di comparizione delle parti. Tale udienza, infatti, ha come scopo primario "quello di favorire, nei reati perseguibili a querela, la composizione conciliativa, e comunque di evitare, ove possibile, di procedere al dibattimento" [3] il quale rappresenta l'unica modalità di definizione ordinaria del processo dinanzi al giudice di pace, che non prevede l'applicazione di riti alternativi.

Le citate normative hanno, dunque, configurato la fase conciliativa esterna al processo, vestendo il giudice di pace del ruolo di mediatore, funzione sottolineata con incisività nella relazione governativa al d.lgs. n. 274/2000 ma che deve, tuttavia, tenere conto dell'effettivo significato della mediazione autore-vittima del reato, la quale gioca essenzialmente il suo ruolo nell'aspetto comunicativo ed espressivo dei vissuti e nel procedimento di riconoscimento dell'altro.

"L'obiettivo primario della mediazione, oltre eventualmente a quello di raggiungere un accordo  fra le parti per un risarcimento o una riparazione del danno, è un'occasione per la vittima di esprimere direttamente all'autore del reato, i propri sentimenti, le sofferenze e le proprie paure. Una possibilità di scambio, di confronto; elementi questi indispensabili per il recupero della sofferenza vissuta. Successivamente, se le parti concordano, si possono stabilire forme di risarcimento, simbolico o materiale."

La mediazione può rappresentare, in sostanza, un prezioso mezzo per consentire alla vittima di superare le sofferenze e la paura generate dall'atto criminoso e per stimolare nel colpevole nuove soglie di inibizione mediante la riflessione sulla sofferenza della vittima. [5]

Appare legittimo, a questo punto, domandarsi se la novità introdotta dall'art. 29 possa configurarsi come vera e propria mediazione tra vittima ed autore di reato, oppure si risolva in mera conciliazione fra le parti che privilegia la composizione di interessi materiali mediante il risarcimento del danno o la restitutio in integrum, senza approfondimenti sulle motivazioni originanti il conflitto.

Relativamente l'apparato sanzionatorio connesso agli illeciti penali devoluti alla competenza del giudice di pace, il d.lgs. del 2000, nel dare attuazione alla delega contenuta nell'art. 16, comma 1, lettera a), della legge n. 468/99, ha previsto, in sostituzione alla pena detentiva, la sola pena pecuniaria e, nei casi di maggiore gravità o recidiva, l'obbligo di permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità.

La defezione della pena carceraria a favore di un sistema sanzionatorio extra codicem alternativo alla detenzione, si origina nella palese inefficacia della pena detentiva in termini di prevenzione generale e speciale, concretamente poco temibile, nonché nell'esigenza di realizzare un sistema di giustizia consono alle aspettative della collettività attraverso risposte sanzionatorie effettive ed equipollenti.

Sorge, a questo proposito, il dubbio che, al di là delle affermazioni di principio, la scelta di limitare i poteri del giudice di pace in materia di libertà personale sia piuttosto la naturale conseguenza di un atteggiamento di diffidenza, largamente diffuso anche se non sempre apertamente manifestato,  verso la magistratura onoraria, composta da persone estranee ad un percorso forense o giudiziario e la cui professionalità, dunque, può manifestare perplessità e diniego per la mancanza di esperienza dell'attività processuale.

Si è voluto, in tal modo, evitare che un giudice non appartenente ai ruoli della magistratura professionale potesse privare l'autore di reato della libertà personale, diritto la cui inviolabilità è sancita a livello costituzionale.

Il lavoro di pubblica utilità si configura, nel nostro ordinamento, come pena principale, diversamente dalle altre forme di community service. Nel sistema penale italiano, il lavoro gratuito a favore della collettività, conosciuto con il codice Zanardelli del 1889 e scomparso con l'entrata in vigore del codice Rocco, è stato reintrodotto dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, come sanzione sostitutiva della pena pecuniaria insoluta, nonché dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, come pena accessoria conseguente a reati commessi per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi o per delitti di genocidio.

L'art. 54 del d.lgs. del 28 agosto 2000, n.274, decreta l'applicazione del lavoro di pubblica utilità solo se espressamente richiesto dall'imputato, da giocarsi per un periodo di tempo non inferiore ai 10 giorni e non superiore ai 6 mesi. Il consenso del reo si espleta nel conseguimento di risultati apprezzabili perché esplicitamente sottesi, evitando di incorrere in un lavoro forzato incompatibile alla persona dal punto di vista costituzionale.

Il lavoro di pubblica utilità viene espresso a chiare lettere dall'art. 105 della l. 24 novembre 1981, n.689, come "prestazione di attività lavorativa non retribuita in favore della collettività da volgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato". [7]

Così com'è articolata la nuova sanzione normativa, si è sentita la necessità di considerare le esigenze di vita dell'espiando attraverso l'applicazione del principio di territorializzazione della pena e la previsione di un regime lavorativo non oneroso e flessibile: la prestazione settimanale non può superare le 6 ore di lavoro (salvo espressa autorizzazione del giudice di pace su richiesta del condannato) e la durata giornaliera dell'attività lavorativa non può oltrepassare le 8 ore, secondo quanto statuito dall'art. 54, commi 4 e 5.

Le nuove norme prevedono, inoltre, che, ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro mentre le modalità di svolgimento della sanzione in esame sono determinate dal Ministero della Giustizia con decreto d'intesa con la Conferenza unificata Stato-regioni e autonomie locali.

Oltre al lavoro gratuito come pena principale, il legislatore ha previsto, ai sensi dell'art. 16, comma 1, lettera b), della legge n. 468/99, che "per i reati di competenza del giudice di pace, la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato, si converte, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi con le modalità indicate nell'art. 54" (art. 55, d.lgs. n. 274/2000). E' questo un programma innovativo rispetto a quello previsto in via generale dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, per la conversione della multa e dell'ammenda rimaste insolute.

L'art. 55 prevede, inoltre, che "ai fini della conversione, un giorno di lavoro sostitutivo equivale a Euro 12 di pena pecuniaria", mentre, in mancanza della richiesta del condannato di svolgere un'attività lavorativa a favore della collettività, la pena pecuniaria insoluta viene convertita nell'obbligo di permanenza domiciliare.

Comparando il meccanismo di conversione della pena pecuniaria ineseguita introdotto dalle nuove norme con quello previsto dalla legge n. 689/81, si può constatare come il primo si risolva di fatto in un regime più gravoso rispetto al procedimento ex lege 689/91. Mentre la legislazione del 1981 prevede un meccanismo di conversione fondato sul binomio lavoro sostitutivo/liberà controllata, il sistema di conversione riguardante le sanzioni pecuniarie inflitte dal giudice di pace prevede, quale unica alternativa al lavoro sostitutivo, l'obbligo di permanenza domiciliare, sanzione, questa, sensibilmente limitativa della libertà personale. Conseguentemente, il sistema pensato dal legislatore come più confacente agli illeciti penali bagatellari sottoposti alla cognizione del giudice di pace, si rivela, in concreto, più penalizzante rispetto al meccanismo di conversione applicabile alle pene inflitte dai giudici ordinari, a causa del contenuto più afflittivo dell'obbligo di permanenza domiciliare rispetto alla sanzione sostitutiva della libertà controllata.

Alla luce di ciò sorgono inevitabilmente dei dubbi sulla legittimità costituzionale del nuovo procedimento di conversione delle pene pecuniarie, con riferimento ad una presunta violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza contenuti nell'art. 3 della Carta fondamentale. [8]

L'introduzione nel sistema penale della "mediazione" e della "giustizia riparativa" implica profondi cambiamenti che richiedono, per la loro effettività, una modifica anche in ambito costituzionale e penale.

Con la giustizia riparativa, la pena perde progressivamente il carattere di deterrenza e punitività  e cioè di sanzione che colpisce l'autore dell'illecito in un bene giuridico non direttamente legato all'inosservanza della norma con esplicita finalità general-preventiva.

L'implicito contenuto normativo della pena assume una connotazione non del tutto conciliabile con il dettato costituzionale sancito dall'art. 27; la marcata attenzione verso l'aspetto economico/risarcitorio della sanzione penale rafforza il carattere retributivo della stessa con la conseguente riduzione della funzione special-preventiva, relegata a rivestire una posizione secondaria, se non addirittura residuale. [10]

Il cambiamento della funzione della pena e l'introduzione della mediazione penale richiedono una rivisitazione della concezione del reato accolta dal nostro ordinamento. Il processo di riforma, infatti, dovrebbe aderire ad una concezione sostanziale dell'illecito penale, che considera il reato non come offesa nei confronti dello Stato, bensì come lesione dei diritti del singolo.




Articolo 15 della Legge 24 novembre 1999, n. 468, dal titolo: "Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374 recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell'articolo 593 del c.p.p.".

SCARDACCIONE-BALDRY-SCALI, La mediazione penale. Ipotesi di intervento nella giustizia minorile, Giuffrè, 1998

Relazione governativa al d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274.

SCARDACCIONE-BALDRY-SCALI, La mediazione penale.

BOUCHARD M., La mediazione: una terza via per la giustizia penale?, Franco Angeli, 1998.

SACCHINETTI, Dietro il "soccorso" dei magistrati onorari le incognite dei mezzi e della professionalità, in Guida al Diritto, Il Sole 24 Ore, n.38

Art. 54, comma 2, del d.lgs. 28 agosto 2000, n.274.

TONINI, La nuova competenza penale del giudice di pace: un'alternativa alla depenalizzazione?, in Dir. Pen. e proc., IPSOA, N.8.

PADOVANI, Diritto penale, Giuffrè.

Una conferma, sebbene indiretta, dell'accentuato carattere retributivo della "pena riparatoria" può riscontrarsi nel contenuto della relazione governativa di accompagnamento al d.lgs. n. 274/2000. L'Esecutivo, infatti, nel sostenere la necessità del consenso del condannato per l'applicazione del lavoro di pubblica utilità, ha sottolineato che, mentre il lavoro penitenziario ha una funzione trattamentale, quale elemento del complesso percorso che dovrebbe portare alla rieducazione del reo, la legge-delega si preoccupa soprattutto di assicurare l'effettività della sanzione mediante la previsione di una specifica ipotesi di reato per l'inadempimento del lavoro di pubblica utilità. La relazione prosegue, poi, ponendo in rilievo come il consenso del condannato rappresenti un atteggiamento collaborativi, che costituisce la spia di una volontà di rieducazione. Risulta dunque evidente la particolare attenzione rivolta dal legislatore all'aspetto dell'effettività della nuova sanzione, o meglio al carattere retributivo della medesima, mentre la finalità rieducativa della pena rimane sullo sfondo.

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