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Le origini storiche dell'idea di riparazione




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Le origini storiche dell'idea di riparazione



L'impulso al dibattito scientifico in tema di riparazione alle vittime del reato e di risarcibilità del danno morale in termini pecuniari, si può leggere nella pubblicazione dell'opera "Dell'ingiuria, dei danni, del soddisfacimento" pubblicata da M. Gioja nel 1821, agli albori della codificazione.

L'autore, interessante e controverso filosofo morale e uomo politico, attraverso la sua opera, si fa portavoce e guida ideale per una ricognizione delle vicende teoriche e normative della riparazione alle vittime di reato, dato che istanze e modelli riparativi affiorano ciclicamente alla superficie visibile della cultura giuridica.[1]

Gioja ha rintracciato nella legge delle XII Tavole le origini della riparazione in cui emergono frammenti di sanzioni che considerano il danno morale.

In epoca romana le sanzioni con componenti riparative, veicolate dall'editto del pretore, non conoscono una significativa espansione. Elementi di maggior rilievo sono, invece, visibili nella legge barbarica ed in particolare nel codice longobardico.

Successivamente e per secoli, si assiste ad una regressione del sistema punitivo: dapprima gli offesi perdono il diritto al soddisfacimento, in seguito l'inquisizione crea una macchina misteriosa ed imprevedibile orientata esclusivamente ad ottenere la confessione del reo, raggiunta la quale si legittimano pene tremende.

Le prime codificazioni ordinano la pena secondo scale di gravità corrispondenti alle cristallizzazioni della morale o del diritto canonico[2] e l'idea di riparazione si espleta nel dovere risarcitorio che accredita all'offeso la restituzione del corrispondente alla perdita subita. Ma in quest'ottica, gli atti riparatori "riparano al futuro, non saldano in verun modo la patita del passato, giacchè lasciano senza alcun compenso".

Nel periodo che accompagna la codificazione, l'istituto giuridico della riparazione non ha una valenza costante; la riparazione compare in alcuni codici preunitari, trova espressione nel codice Zanardelli per poi scomparire nel codice Rocco.

La riparazione delle vittime di reato è quasi sempre stata circoscritta alla sua forma pecuniaria. La prima fonte normativa dell'istituto risarcitorio è riconosciuta[4] nell'art. 73 del Codice Sardo del 1859, secondo il quale "oltre le restituzioni ed il risarcimento dei danni, può anche aver luogo la riparazione dell'ingiuria per qualunque reato che reca ingiuria all'offeso, sebbene non porti danno reale nella persona o nelle sostanze".

La riparazione, dunque, non copre solamente il danno patrimoniale (danno emergente e lucro incessante) ma si estende al c.d. danno morale. Ma l'origine della riparazione precede il codice Sardo, risalendo, con tutta probabilità all'art. 131 del Progetto di Codice penale del primo Regno italico del 1806, in cui si stabiliva che "la riparazione, oltre il caso espresso nel seguente articolo[6], è accordata in qualunque delitto che reca ingiuria all'offeso, sebbene non porti danno reale nella persona o nelle sostanze".

Nella relazione che accompagna il Progetto del 1806 vi è una parziale sovrapposizione concettuale tra risarcimento e riparazione: il diverso stato nominalistico non riflette una diversa sostanza e perciò i due termini non vengono  realmente distinti.

La riparazione, al fine di evitare che "dall'altrui delitto privato qualunque possa ritrarre un guadagno" [7], opera limitatamente agli illeciti contro l'altrui reputazione. La sua introduzione risponde, allora, all'esigenza di creare un correttivo alla misura del risarcimento del danno per i reati contro l'onore, che consenta di includere anche la valutazione delle qualità morali o pubbliche dell'offeso.

La formalizzazione normativa del paradigma riparativo e prima ipotesi prescritta in una codificazione penale italiana è da ritenersi quella introdotta dall'art. 459 del Codice criminale per gli Stati Estensi del 1855 che al § 3 disponeva: "Potrà altresì il giudice, quando la parte offesa ne faccia istanza, dichiarare nello stesso giudizio tenuto dall'autore dell'imputazione ad una scusa verso la medesima, od in caso di rifiuto al pagamento di una somma estendibile a lire cinquecento".

Un vero e proprio meccanismo riparativo dettato da una condotta che, al di là del risarcimento del danno, prevedeva un incontro formale tra autore e vittima con una valenza riparativa simbolica prima che materiale, finalizzata a ricostituire la comunicazione sociale fra le parti.

L'atto riparativo introdotto dal Codice criminale per gli Stati Estensi, venne abrogato quattro anni dopo la sua entrata in vigore, sostituito dal Codice Sardo.

Gli anni precedenti la promulgazione del codice Zanardelli, rappresentano la fase di maggiore gloria dell'istituto riparativo pecuniario, la cui adozione definitiva ha trovato terreno fertile nella Relazione ministeriale dove la riparazione dell'offesa, distinta dall'atto risarcitorio, rappresenta "la soddisfazione dell'oltraggio patito, del risentimento, del rammarico prodotto dall'offesa sull'animo di chi ne è stato vittima o di chi è intimamente legato con la vittima".[9]

La riparazione, secondo i compilatori del codice del 1889, differisce dal risarcimento del danno per alcune ragioni essenziali[10]:

- può essere concessa indipendentemente dal danno materiale o morale

- può essere richiesta dalla persona offesa e non dalla parte civile

- è assegnata a discrezione del giudice penale

- funge da complemento alla sanzione penale

Secondo il codice Zanardelli, la riparazione può essere assimilata alla pena privata[11] indipendente dalla tipologia del danno cagionato ed attribuita all'offeso a titolo di soddisfazione delle sofferenze psichiche patite, del senso di giustizia e come limite al desiderio di vendetta.

Con il codice Rocco si fanno largo esigenze prevalentemente repressive in quanto il danno diventa funzionale alla quantificazione della gravità del reato: la riparazione pecuniaria diventa una sanzione a tutti gli effetti, un istituto che compensa ma non ripara.[12]

Sembra, dunque, che l'istituto della riparazione continui a pulsare sotto il falso nome del risarcimento, riacquistando la sua valenza solo recentemente, attraverso la legge istitutiva la competenza penale del giudice di pace[13], una riforma che non solo assegna alle attività risarcitoria e riparativa efficacia estintiva del reato, ma prevede anche il riconoscimento normativo espresso della mediazione e della riconciliazione fra autore e vittima, come modalità autonome di risoluzione del conflitto.





SFORZA FOGLIANI, Melchiorre Gioja: un precursore della teoria del risarcimento del danno alla persona, in Piacenza medica, 1988, pag. 131-133.

TARELLO, Storia della cultura giuridica moderna, Bologna, 1976, pag. 112 ss.

GIOJA, Dell'ingiuria, dei., cit. pag. 211.

PAOLI, Il reato, il risarcimento, la riparazione, Pavia-Bologna, 1924, pag. 182 ss.

COSENTINO, Il codice penale del 20 novembre 1859 annotato, Napoli, 1879, pag. 105 (sub art. 73).

Trattasi dell'art. 132 del Progetto di Codice penale del primo Regno Italico che riconosceva uno specifico diritto alla riparazione per il caso in cui taluno fosse stato ingiustamente incolpato della commissione di un reato.

Relazione al Progetto di Codice penale per il primo Regno italico, 1806, pag. 110.

FRASSATI, La natura giuridica della riparazione pecuniaria, Torino, 1895, pag. 270 ss.

BOZZO, Il codice penale italiano e la sua genesi, Roma, 1890, cit. pag. 90.

CONTI, La pena ed il sistema penale del Codice italiano, Milano, 1910, pag. 911 ss.

BUTERA, Sull'indole, civile o penale, della riparazione pecuniaria nei reati che offendono l'onore, in Foro it., XXVII, paf. 482-486, nota a sent. 14 febbraio 1902 della Corte di Cassazione di Roma.  

CALAMANDREI, Il risarcimento dei danni non patrimoniali nella nuova legislazione penale, in Riv. Dir. Pen., 1931, pag. 173 ss.

Si rimanda a questo proposito al paragrafo successivo.

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