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Il potere - carcere




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IL POTERE



1 La dignità e la maschera


L'aspetto più lampante della subcultura detentiva è un'incredibile enfasi posta sui temi del potere e della forza, i quali si esplicano attraverso una serie di dinamiche psico-sociologiche volte alla conferma di questi.

Tale fenomeno è causato da molte variabili: una di queste è senz'altro la necessità di rivelare che la persona è presente a se stessa[1]: il corpo, la mimica facciale, gli atteggiamenti, le parole, devono mostrare non solo all'intera collettività, ma soprattutto al detenuto stesso, che egli è ancora integro, nonostante le situazioni mortificanti, nonostante l'ambiente degradante, nonostante per la società egli sia considerato un uomo inferiore.

Il ristretto può dimostrare la propria dignità attraverso gli elementi che ancora può padroneggiare, quindi ecco lo sprezzo del pericolo, la lealtà verso gli interessi del proprio gruppo, la tendenza al rifiuto del sistema di valori ufficiale, il saper evitare di essere sfruttato - cioè evitare i lavori difficili - , la freddezza nell'agire, il non mancare alla parola data anche a costo di passare seri guai, la costante preoccupazione di non perdere la testa - cioè di mantenere sempre i nervi saldi, di non crollare - , l'insolenza dell'ironia nel soprannominare aspetti spiacevoli dell'istituzione o nello sbeffeggiare alle spalle le autorità, l'atteggiamento da duro, cioè di colui che non si lamenta mai: un agente di polizia penitenziaria[2] riferisce che "se la sezione nella quale vi è quel detenuto bisognevole di chiamare spesso il medico e l'infermiere perché vuole un po' di calmante e un po' di sonnifero viene automaticamente messo in riga dagli stessi compagni, perché ancora per molti sono rimasti ancora sani i valori di non drogarsi, quelli di non dare fastidio alla custodia, quelli di non essere petulanti, e allora ci sta una sorta di autodisciplina del soggetto, perché poi a lui gli preme molto a non essere inviso ai compagni".

C'è dunque una costante preoccupazione di sembrare di essere sempre all'altezza della situazione, a non mostrare momenti di incertezza o debolezza: "È duro ammettere che per dare il meglio di se stessi bisogna sminuirsi!", riflette un detenuto[3].

Un educatore[4] riferisce di come la capacità di mantenere i nervi saldi sia molto apprezzata, anche se a manifestarla è proprio un operatore: "A me ad esempio è capitato un detenuto, che poi era un mafioso, che dopo un atteggiamento molto aggressivo nei miei confronti, ha visto da me una fermezza, freddezza e un'assenza di timore. Per cui poi alla fine mi ha chiesto scusa. Da quella volta, con me, massimo rispetto: mi ha presentato anche al boss all'interno (del carcere): . io ero duro".

Come già anticipato nel paragrafo 3.3, il soggetto si organizza intorno ad nuova identità, ovviamente artificiale, impostata anche in base alle relazioni che assumerà con gli altri detenuti: egli avrà infatti bisogno di usufruire di una nuova immagine di sé da proporre soprattutto ai compagni di detenzione, per collocarsi nel nuovo sistema di ruoli. Ecco quindi che il detenuto rielaborerà il suo passato - inventando e modificando situazioni, o enfatizzandone altre - e si creerà una facciata funzionale alla sua sopravvivenza[5]. C'è in effetti un tema ricorrente nelle dichiarazioni dei ristretti, quello della maschera.

Nelle parole di uno di loro[6]: "Qui a Volterra si ha la fortuna di stare in celle singole . Mi piace sdraiarmi sulla branda e in silenzio parlare con me stesso, mi piace ascoltarmi. Così mi tolgo la maschera che al mattino ogni detenuto indossa . quella che nella nostra ipocrisia siamo quasi costretti ad indossare per poter andare tra gli altri detenuti che come noi sentono lo stesso, identico, stupido dovere di farlo . Sono convinto che siamo migliori di quanto si appaia, eppure . ci si vergogna di più di quel che per cui non si dovrebbe, che per quello che al contrario dovrebbe farci vergognare profondamente. Fingiamo l'un l'altro di essere felici, di non aver bisogno di nulla e di nessuno, ma nei nostri sguardi c'è un disperato bisogno d'aiuto, un grido silenzioso, un'implorazione . ma stupidi pregiudizi che impongono a chi si rade di essere roccia e a chi è detenuto d'apparire ancora più duro, ci impediscono di essere quello che veramente siamo. Ci atteggiamo a uomini che non devono chiedere mai ma", conclude con lucida ironia, "dobbiamo fare le domandine scritte per (chiedere) qualsiasi cosa ".

La cosiddetta domandina è infatti comunemente sentita dai detenuti come una prassi castrante, della propria autonomia e quindi anche della propria dignità[8].

Un detenuto[9] afferma convinto: "Vieni trattato pe' il personaggio che tu sei", per la maschera indossata, cioè, costruita anche in base al reato commesso e al vissuto pre-detentivo. Ogni detenuto ha la sua, che costruisce e cambia nel corso della detenzione, "una maschera per ogni occasione . è la regola numero uno per non impazzire, dimenticare di essere, di avere diritti, di esprimere il proprio pensiero" .

Solitamente la maschera più frequentemente indossata, come il ruolo ad essa connesso, rimarrà per gli altri detenuti incollata al viso di chi la porta, quasi fosse la sua vera identità: "Ogni carcerato si porta appresso il nome che si è fatto. Anche tra vent'anni, anche se verrai trasferito da qui"[11].

La questione dei ruoli da assumere a seconda del tipo di relazione da intraprendere, e la lacerazione dell'io che ne scaturiva, è ben descritta da un altro detenuto[12]: "Ho vissuto una sorta di schizofrenia applicata. Crescevo all'interno di un ambiente che mi richiedeva di rispondere a diversi piani di relazione, e a tutti non potevo, in pratica, mostrare me stesso tutto intero: dovevo farlo a pezzi", dunque "ai compagni di pena dovevo tenere celata la parte di me sensibile che cresceva e si sviluppava, mentre dovevo tenere accesa e desta la parte istintiva legata alle dinamiche di conflitto; ed in questo modo anch'essa cresceva e si sviluppava". Per sopravvivere, tuttavia, "soprattutto in alcuni anni passati, dovevi riuscire a convincerti che tutto era possibile . sviluppare la capacità di non avere limiti o tabù di sorta, che potessero, nel momento dello scontro, farti giungere il minimo dubbio che ciò che stavi facendo fosse sbagliato. Dovevi arrivare a far tuo, fin nelle viscere, il concetto che infilare il coltello nella pancia di qualcuno fosse una soluzione plausibile".

Dunque si doveva prendere in considerazione la possibilità di diventare un animale, ma questa parte doveva essere celata agli occhi degli "operatori che osservavano . dovevo svendere, fino a volte ad apparire ossequioso, le maniere gentili ed occultare tutta intera l'altra parte". Tuttavia "anche con loro la sensibilità dovevo tenerla nascosta . Finiva sempre che ogni volta che affermavo un pensiero o un sentimento che fosse in contrasto con gli stereotipi proposti da entrambi i sistemi, subivo una pesante punizione. Schizofrenico - Paranoico. Chissà quali altre psicosi si sviluppano all'interno di un mondo chiuso, un'istituzione totale come lo è il carcere", si domanda tra l'ironico e l'amareggiato.

Un educatore[13] riferisce di come alcuni detenuti adottassero addirittura delle note tecniche teatrali prima di avere un colloquio con gli operatori: "Ricordo ancora che uno mi spiegava come puoi diventare persuasivo . : prima di chiedere il colloquio, lui per giorni si preparava una balla, che doveva essere la sua verità, e lui giorni e giorni ci pensava fino al punto da convincersi delle cose che si era inventato; quindi quando poi la esternava, lo faceva con convinzione".

Questa rappresentazione che i detenuti mettono spesso in scena - secondo le specifiche regole evidenziate da Goffman[14] - è ben descritta nei suoi meccanismi da un altro detenuto : "i colloqui (con gli operatori) molte volte si riducono a recite, replicate all'infinito, mese dopo mese, anno dopo anno. Sappiamo già quello che l'interlocutore vuole sentirsi dire e glielo diciamo senza pudore, nella certezza che egli farà lo stesso con noi: contrariare qualcuno è considerato un grave errore . potrebbe reagire male, pensa l'operatore . potrebbe pesare negativamente sulla mia condotta, pensa il detenuto. In questo modo i problemi non vengono mai affrontati, ciascuno rimane con le proprie convinzioni e ovunque regna la tacita legge del quieto vivere".

Così, come in un cerimoniale, ognuno reciterà la sua parte.



2 Sessualità, virilità e machismo


Si è visto che il carcere demolisce l'identità sociale del detenuto, lo allontana dai suoi rapporti e dalla sua storia: la sua personalità gli viene alienata e sostituita con un'altra, funzionale alle dinamiche istituzionali e al codice della sottocultura. Parallelamente il suo corpo, la sua volontà, le sue esigenze e le sue aspirazioni vengono rinchiusi e gestiti da altri: deve abituarsi a tanti cambiamenti più o meno grandi, come "mangiare seduto su una branda, dormire ad un'ora insolita e con la luce accesa, muoversi poco come se si ritrovasse su una navetta spaziale, assuefarsi a cibi non usati prima. Tutto in presenza di altri"[16].

Ovviamente questi cambiamenti investono anche la sfera sessuale, che subisce pesanti contraccolpi.

La privazione delle relazioni eterosessuali, tra le altre cose, ostacola il processo di definizione della propria identità: in un individuo quest'ultima è infatti anche il riflesso dell'immagine di sé che gli altri gli rimandano. Il detenuto, "privato della polarità femminile, è costretto a cercare la propria identità solo dentro se stesso, in quanto metà della sua audience gli è negata: l'immagine che il detenuto si fa di se stesso rischia così di diventare completa solo per metà, dimezzata, una monocromia, senza i colori della realtà. L'identità specchio del carcerato è in breve soltanto quella porzione della sua personalità che è riconosciuta e apprezzata dagli uomini, e questa identità parziale è resa confusa dalla mancanza di contrasto"[17].

Dunque ad essere mancante, in una società monosessuale come quella del carcere, è la polarità femminile, e ciò lo priva della percezione del suo "essere, in quanto maschio"[18].

L'effetto immediato di questa dinamica è l'ansia da mascolinità. Come già detto, infatti, per i detenuti riveste fondamentale importanza ricoprire il ruolo dell'uomo forte, e la virilità, intesa come attitudine alle conquiste, ad avere relazioni e rapporti sessuali con le donne in genere[19], è molto ostentata, in quanto è considerata un aspetto primario di questo ruolo.

Per capire questo meccanismo non si può prescindere dall'analisi della sfera della sessualità in carcere.


Nell'ambiente carcerario la sessualità inibita erotizza tutta la vita del recluso e ne accentua gli aspetti. Dopo un po' di tempo il sesso diventa un'ossessione, del resto, come fa anche notare un medico penitenziario, "i diversivi alla solitudine sessuale non sono molti, né originali: televisione e gioco per distrarsi, religione e scuola per sublimarsi, lo sport per stancarsi"[20].

Clemmer[21] per primo analizzò l'adattamento sessuale all'interno delle carceri, e ne individuò tre tipi:

normale: il più diffuso, tipico dei detenuti condannati a pene brevi e che hanno una compagna all'esterno del carcere. Essi ricorrono alla masturbazione[22] occasionalmente "giustificando il loro comportamento su basi biologiche, e le loro fantasie sono sempre rivolte al mondo femminile" . Un detenuto ne parla: "Incontrarsi al colloquio, stare con l'amante, guardarsi negli occhi, darsi la mano è difficile per ognuno di noi. Per lo meno, io avrei voglia di fare l'amore, con la mia compagna così passano anni e anni senza che tu possa sfogare questo istinto. E' drammatico, perché è una cosa che senti e devi cancellarla Stai male e fai tutto quello che fanno tutte le persone che devono sfogare i propri istinti . E'un bisogno fisiologico e non penso che sia indignitoso cercare di avere dei rapporti sessuali senza occhi indiscreti", in quanto, anche se "in qualche istituto riesce a scappare qualcosa sotto l'occhio vigile dell'agente di polizia penitenziaria quelle piccole toccatine delle cose che possono renderti meno inumana questa sofferenza dell'allontanamento dal partner"; tuttavia "quello vuol dire proprio superare un certo gradino di dignità";

quasi normale: tipico dei detenuti più anziani o di quelli più giovani, anagraficamente parlando, in quanto essi non hanno relazioni significative all'esterno del carcere. La masturbazione non fornisce più l'appagamento delle proprie soddisfazioni, in quanto il ricordo della donna si affievolisce con il procedere della detenzione: "tutto si proietta lontano. Le persone, i volti, le aspirazioni, le abitudini, i sentimenti che prima rappresentavano la vita, schizzano all'improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo, sfumato in immagini quasi irreali"[25]. Via via i reclusi reagiscono allo stato di continenza coatta creandosi nuovi mondi virtuali nei quali vivere e ritrovarsi, e la sessualità non è esente da questo processo di elaborazione. La loro attenzione, sessuale o meno, sarà rivolta, pertanto, per intero alla comunità carceraria: il rapporto omosessuale sarà dunque vissuto da questi soggetti come un palliativo, come dimostra il fatto che le fantasie messe in atto sono rivolte alle donne. Le parole di un detenuto omosessuale spiegano bene questo meccanismo: "Un uomo quando sta recluso in carcere . dopo un certo periodo di tempo ha una sensazione abbastanza castratoria, quasi anestetizzata, del proprio essere. Quindi quando si risvegliano certe cose, noi (omosessuali e transessuali) rievochiamo che cosa? Quella figura, un po' ambigua, di quell'aspetto femminile . Quindi dal momento stesso in cui c'è un ammiccamento nostro, un sorriso, una gentilezza, noi che passiamo così truccate, con queste scie di profumo . nasce quest'altro aspetto di sessualità, di erotismo";

anormale: è la pratica omosessuale vissuta con consapevolezza. Il detenuto è sempre più vincolato a qualcosa di visivo e tangibile per eccitarsi e si trova a poter desiderare un rapporto omosessuale. Questo adattamento è messo in atto da pochi, e comunque molti di essi lo apprendono proprio in carcere. A causa della promiscuità, del linguaggio scurrile ed osceno, delle narrazioni spesso fantastiche tra detenuti riferite alla vita sessuale pre-dentiva, i freni inibitori e i principi morali possono allentarsi, e lasciare il posto ad un istinto incontrollato: la maggior parte dei detenuti, infatti, prima della carcerazione manifestava un comportamento sessuale cosiddetto normale.


Tuttavia il rapporto omosessuale tra detenuti può anche diventare merce di scambio: molti tossicodipendenti si prostituiscono magari per una dose di eroina. A ciò bisogna aggiungere una dinamica non trascurabile, quella che vede "l'esercizio attivo della sessualità nel periodo detentivo . una forma di affermazione dell'individuo e di esercizio del potere sui compagni di detenzione"[27].

L'omosessualità in anni passati era trattata con maggior disprezzo dai detenuti. Uno di essi[28] racconta: "Ho visto picchiare a sangue, schernire e discriminare uomini accusati di debolezza e comportamenti omosessuali, in anni in cui questa colpa era pagata con severe punizioni da parte di chi poi, nel silenzio e nella vergogna, e a volte nella violenza, viveva la sua diversità sessuale". Ma anche: "Detenuti che abbiano usata la violenza su altri detenuti, anche violenza sessuale sono casi isolati; sono così sporadici e qualcuno di queste persone è stato preso a botte e tenuto in disparte dal contesto dei detenuti".

L'omosessualità maschile, tuttavia, in carcere presenta diverse caratteristiche da quella femminile: le donne infatti intrecciano relazioni con altre donne più per la ricerca di intimità e di affetto, che per una necessità di sfogo. "Ho conosciuto compagne che hanno avuto di queste esperienze", racconta una detenuta[29], "magari solo per bisogno d'amore, di attenzioni, per sentirsi importanti, per poterne parlare, per provarci, per essere alla moda o per passate delusioni. Anche questa è una piccola libertà, purché il tutto sia nel rispetto delle altre compagne".

A volte il legame omosessuale femminile è vissuto come relazione pseudo-familiare: "le anziane hanno spesso nei confronti delle più giovani atteggiamenti iperprotettivi e dispensano baci e carezze in un clima di premura, pieno di attenzioni"[30], quasi materno, si potrebbe dire.

Il più volte citato speciale del tg3[31] mostra lo scherno a cui vanno incontro omosessuali e transessuali nelle sezioni, più per l'effeminatezza ostentata e per le loro abitudini percepite come bizzarre , che per le loro tendenze sessuali. E ancora: "Ce stanno tanti che se li vedi so' proprio uomini, ma maschi, eh, e invece poi vieni a sape' che so' (gay)", si stupisce un detenuto , il quale quando pensa allo stereotipo dell'omosessuale, esclama: "ma dai! Ma te puoi mette a fa' così? (fa delle mossette caricaturali) Ma 'ndo vai? Ma sai le pizze in testa? Senti come fischiano!". Virilità innanzi tutto.


Ci sono poi delle altre regole del codice carcerario connesse al machismo: esso producono l'effetto il biasimo verso chi "fa il ficcanaso e non si occupa dei fatti propri"[35]: "interferire con gli argomenti del gruppo", infatti, "fare il chiacchierone e il pettegolo" sono unanimemente considerate manifestazioni di debolezza, "perché si è ritenuti poco affidabili, delle femminucce" .

Sempre per la stessa questione di onorabilità non bisogna "essere ingenui, né farsi prendere a schiaffi o a calci, neanche per scherzo"[37]; è dunque fondamentale cercare di evitare le punizioni, ma anche il lavoro a cui non si è tenuti: in una sequenza del "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8" l'assistente capo incrocia un detenuto in corridoio "Paisa'! Che dopo me servi, che me devi da' 'na mano", e lui "Oggi è riposo", "Mo' te lo do io er riposo: eterno!", ma lui inflessibile "Me dispiace, io oggi nun lavoro". Non collaborare con un agente di polizia penitenziaria assume il significato di non prestare un favore all'istituzione, e, attraverso questo rifiuto, opporsi ad essa: il codice dei detenuti prevede infatti di "non vendere favori, non avere fiducia negli agenti di custodia, e non sottomettersi all'amministrazione" .

Tutte queste manifestazioni sono direttamente collegate con quanto si dirà tra breve.




3 L'aggressività e la violenza


"Se vuoi che mi comporti da persona civile, vedi di trattarmi come tale; se mi tratti come un animale, da animale mi comporterò", è la laconica affermazione di un recluso[40].

L'aggressività è socialmente considerata come un tratto positivo della mascolinità, e la comunità detenuta non è esente da tale concezione.

Il detenuto per la maggior parte dei casi si sente un duro: egli ha sfidato le autorità e, mettendo in atto attraverso il suo reato atteggiamenti di sopraffazione, ha sfidato anche la società. "Io me sentivo in sfida con tutti. Io lo sapevo che me stavano pe' arresta', ma era 'na sfida", conferma un detenuto[41], "tra me e loro . Stato . Polizia . Società. Pe' faje vede"; e l'ostentazione dei simulacri del benessere, illecitamente acquisiti, "la Ferrari, la Corvette", aggiungeva a questa sfida il sapore di "'na rivalsa. Quelle erano le rivalse mia".

Nelle parole di un assistente sociale[42] "chi viola la legge ferisce il corpo sociale", e di ciò, come visto, ne va spesso fiero: un detenuto consiglia ai ragazzi "di non emulare chi come me è in carcere pensando sembrare di essere più forte . agli altri e ai propri occhi: . il tempo in carcere ti riporta alla realtà" , ma anche la già riportata affermazione di un detenuto , rende quest'idea, cioè che "se vogliamo cambiare in meglio il carcere, dobbiamo per prima cosa liberarci da una certa mentalità, che consiste nel sentirsi in contrapposizione con le istituzioni e orgogliosi della propria condizione di coatti ".

L'ostentazione della propria forza si traduce poi spesso nel rifiuto di ogni contatto con l'istituzione penitenziaria: un ex educatore[46] riferisce infatti che frequentemente c'è chi "fa vedere che non ha bisogno di nessuno, e quindi non vuole avere colloqui con gli operatori, perché è un duro".

La prigione è percepita dagli stessi detenuti come fabbrica di animali, "il luogo dove alligna e cresce il mito dell'uomo forte e violento, del prevaricatore[47]", nel quale a volte "per avere rispetto ti devi comportare come un animale" : "pochi mesi di carcere (e) impari a essere un duro", afferma un detenuto , "uno che se ne frega di tutto e di tutti". In realtà spesso questa ostentazione di forza è solo una corazza per sopravvivere.

Spesso l'alone di impenetrabilità e di inavvicinabilità che circonda talora alcuni detenuti, serve a nascondere in realtà l'insicurezza, e tende a dissolversi una volta che la situazione stressante smette di esercitare la sua pressione; un detenuto riferisce dei suoi primi momenti fuori le mura del carcere: "Decisi di fare il viaggio fino a casa da solo. Avevo anche bisogno di riabituarmi agli spazi aperti . Salii (sull'autobus) e cominciai a guardarmi intorno impaurito e confuso perché non riuscivo a vedere il posto del bigliettaio . (Un ragazzo) mi disse che erano già tre anni che i biglietti si acquistavano prima di salire e che il bigliettaio non esisteva più. Mi sentii imbarazzato, confuso, diverso. Il mondo era cambiato . se avessi potuto in quel momento avrei voluto schioccare le dita e ritrovarmi tra le mura della mia cella . mi sentivo come un bambino che si era perso . io che là dentro ero considerato un duro da tutti"[50]. La nuova situazione necessitava infatti una forma di adattamento diverso da quella messa in atto solitamente dal detenuto all'interno del penitenziario: i vecchi punti di riferimento, e le risposte che ad essi opponeva, di colpo non esistevano più, e il detenuto si è ritrovato spaesato e incapace a reagire nell'immediato.

La necessità di abbassare la guardia è molto sentita dai detenuti; alcuni di loro, terminata una serie di incontri con il Centro di Interventi sulla Motivazione Dardo[51], ammettono: "Per la prima volta ho visto realizzarsi un mi sogno: guardarmi con i miei compagni senza che ognuno di noi indossasse una maschera . siamo splendidi, alcuni tra loro li credevo lontano anni luce, ora li sento qui, e li sento vicini" .

E ancora: "Oggi sono convinto che tutto è possibile, ho imparato ad apprezzare i miei compagni di detenzione, ho imparato a conoscere i loro sentimenti, e loro i miei"[53]. Tuttavia queste sono sporadiche manifestazioni, in quanto dalle relazioni è comunque generalmente bandita ogni manifestazione di fragilità, per senso di dignità ma anche per un latente senso di colpa che impedisce di auto-commiserarsi; una detenuta racconta a tal proposito: "Lo sapete che nella stanza nessuno piange? Per vergogna. Perché dice: oè, prima hai fatto il reato, e adesso piangi? Io ho pianto, si deve piangere, ma non davanti agli altri".

La tenacia nel mantenere la propria dignità, in carcere può sfociare in aggressività, la quale può a sua volta degenerare in violenza. Molti detenuti, infatti, rifiutano cure farmacologiche o psichiatriche, ma anche una semplice parola di conforto, in quanto devono dimostrare ai compagni di detenzione di sapersi fare la galera: essi cercano in tutti i modi di nascondere la propria sofferenza, finché il dolore esplode.

Questa carica di energia distruttiva accumulata finiscono per scaricarla da qualche parte[55]: su se stesso, con l'autolesionismo ed il suicidio, ma anche sugli altri, con il sopruso e l'intimidazione; un esempio ne sono le "squadre punitive di altri detenuti . regolano conti in sospeso servendosi dei coperchi delle scatole di tonno . Di questa violenza non ci si scandalizza mai abbastanza" . Essa, multiforme, "della quale sono vittime e protagonisti i detenuti, in ogni attimo e in ogni angolo" , "raramente si manifesta in modo esplicito, ma passa attraverso gli sguardi, le parole dette e quelle taciute, le malignità che condizionano la vita in carcere. Del resto, ogni detenuto è costantemente oggetto di violenza già da parte dell'istituzione, attraverso la miriade di piccole e grandi ingiustizie che subisce, tra ritardi, rifiuti e incomprensioni" , e anche "botte", le quali "passano", come afferma un detenuto , "ma rimangono dentro".

Prima della legge Gozzini le carceri erano furiere di violenza: omicidi, rivolte, accoltellamenti, agguati, aggressioni, dopodiché subirono un'inflessione - grazie all'introduzione dei benefici sulla base del comportamento - per poi aumentare con la fine degli anni ottanta: fu proprio per arginare il fenomeno delle violenze auto ed eterodirette che l'allora Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e di Pena, N. Amato, il 30 dicembre 1987 istituì, attraverso la circolare che prese il suo nome, il "Servizio Nuovo Giunti", presidio psicologico operante in carcere e destinato ai soggetti che provengono in carcere dallo stato di libertà: al momento del loro ingresso, essi avranno un colloquio con lo psicologo, il quale rileverà delle informazioni sul detenuto, formulerà un giudizio sul rischio di condotte violente su se stesso e di subire violenze, e formulerà indicazioni relative alla sistemazione eventuale del detenuto stesso[60]. Il servizio ha dunque lo scopo di "rendere operativi quegli strumenti umani ed umanizzanti garantiti dalla legge" .






E. GOFFMAN, op. cit., 1968.

Testimonianza raccolta dal Centro interculturale del comune di Torino, cit.

Tony S., in A. RIZZO, op. cit., 1995.

Adriano Morrone, testimonianza acquisita in via diretta.

Sull'argomento anche C. SERRA, Il castello, S. Giorgio e il drago, Roma, 1994.

Manlio F., in A. RIZZO, op. cit., 1995.

Lo stesso tipo di ironia traspare da una vignetta di S. FERRARO, CHITO, op. cit., la quale raffigura un detenuto che è l'icona dell'uomo truce - muscoli, tatuaggi, cicatrici, sguardo feroce - chiedere al lettore: "Ma voi ce lo vedete l'Alligatore de Torpignattara che per alzare due pesi deve fare la domandina?".

Roberto, cit., addirittura considera l'abolizione della domandina come elemento principe del miglioramento delle condizioni detentive, proprio per la percezione di dipendenza che ne essa ingenera nei detenuti.

Roberto, cit.

A. RIZZO, op. cit., 1995.

Animal Factory, film diretto da Steve Buscemi, USA, 2000.

Gianni Stoppelli, cit.

Adriano Morrone, cit.

E. GOFFMAN, op. cit, 1969.

F. MORELLI, cit.

F. CERAUDO, Presidente dell' Associazione Medici Penitenziari, "La sessualità in carcere: aspetti psicologici, comportamentali ed ambientali", Medicina Penitenziaria - periodico di informazione culturale e sindacale, pubblicato su internet all'indirizzo https:// www.cld.it/amapi/relazioni.html n. 31, anno XVI, 2004.

G.M. SYKES, La società dei detenuti. Studio su un carcere di massima sicurezza, in E. SANTORO, Carcere e società liberale, Torino, 1997.

Sugli effetti della privazione affettiva e sessuale del detenuto, cfr. C. BARGIACCHI, "Esecuzione della pena e relazioni familiari. Aspetti giuridici e sociologici", in l'Altro Diritto. Centro di documentazione su carcere, marginalità e devianza, all'indirizzo https://www.altrodiritto.unifi.it sez. "L'ordinamento penitenziario", 30 novembre 2004

A. MORRONE A., op. cit., 2003.

F. CERAUDO, cit.

D. CLEMMER, op. cit., 1940.

I giornali pornografici, che tappezzano le pareti delle celle e delle toilettes, risultano essere i più acquistati e richiesti in carcere.

C. BARGIACCHI, op. cit., 2004.

Tino Stefaníni, detenuto nel carcere di San Vittore, intervistato da Rai Tre nell'ambito della trasmissione televisiva "La storia siamo noi", andata in onda nel giugno 2004.

F. CERAUDO, cit.

Testimonianza raccolta da "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", cit., del 21 settembre 2004.

A. MORRONE, op. cit., 2003.

A. PINTI, op. cit., ottobre 2000.

Christine, op. cit., 2004.

I. GENCHI, L'espressione della sessualità nella restrizione della libertà, in C. SERRA, Devianza e difesa sociale, Milano, 1981.

"Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", cit., puntata del 21 settembre 2004.

Come urinare seduti sul water.

Roberto, cit.

Leggasi: "schiaffi".

F. BERTI, op. cit, 2003.

G. DI GABALLO, op. cit. 2002.

ibidem.

F. BERTI, op. cit., 2003.

Per comportamento aggressivo si intende tutto ciò che danneggia intenzionalmente qualcuno. Per la descrizione di alcune delle forme e motivazioni del concetto cfr. G. ATTILI, op. cit., 2000.

T. FABBIAN, "Bolzano. Città di confine", Ristrettti Orizzonti, rivista pubblicata on line all'indirizzo https://www.ristretti.it n. speciale 2000 "Stranieri".

Roberto, cit.

Un assistente sociale, in G. CASO, Uomini oltre le sbarre: volontari, operatori penitenziari e detenuti alla ricerca di nuove prospettive, Roma, 1998.

Vincenzo, in Uomini liberi, cit., numero 0, giugno 2003.

F. MORELLI, cit.

Interessante è notare come l'aggettivo sostantivato coatto, dall'originaria accezione di detenuto, con gli anni sia andato via via ad identificare un altro tipo di persona, generalmente di status socio-culturale basso, bullo, spaccone, ostentatamente ma goffamente virile, irriverente, espressione della cultura popolare tipica dei quartieri e delle borgate di periferia. Sul termine cfr. anche A. ALFANO, Pischelli in paradiso, Roma, 2000. Questa traslazione di significato sta proprio ad indicare come le caratteristiche poc'anzi accennate facciano parte, nell'immaginario comune, del detenuto.

Adriano Morrone, cit.

"Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale", Memoria e Libertà, articolo senza firma apparso su internet all'indirizzo https://www.tmcrew.org, marzo 2004.

Animal Factory, cit.

Marco L., in A. RIZZO, op. cit., 1995.

Un detenuto in A. RIZZO, op. cit., 1995.

Si tratta di un gruppo di aiuto che utilizza, attraverso una metodologia multimediale, i gruppi di motivazione come momento di espressione e di sviluppo delle proprie potenzialità.

Manlio F., cit.

Domenico D., in A. RIZZO, op. cit., 1995.

Detenuta del carcere femminile di Pozzuoli, intervistata dal dossier "Voci di Dentro", cit.

Dollard elaborò la "teoria della frustrazione/aggressività": una delle cause dell'aggressività può essere infatti rintracciata nell'impossibilità a raggiungere degli scopi. Tale relazione è il frutto di un meccanismo emotivo - detto spostamento - e di uno comportamentale - la ridirezione - , per cui l'iniziale rabbia viene indirizzata verso target più sicuri: questi possono essere soggetti più deboli o la propria persona.

P. SEVERI, 231 giorni. Un diario dal carcere. Un percorso di liberazione, Milano, 1996.

ibidem.

F. MORELLI, cit. Sulla stessa linea C. SERRA, op. cit., 1994: "il potere coercitivo, tipico dell'istituzione, può sempre trasformarsi, in circostanze particolari, in violenza, e così nell'intricato gioco di azioni e di reazioni sistemiche, provocare il manifestarsi di comportamento violenti nei ristretti".

Roberto, cit.

Circolare 3233/5683 del 30.12.1987, c.d. Circolare Amato. Tale circolare infatti parta dalla considerazione che "frequentemente provengono dalla libertà soggetti giovanissimi o anziani, tossicodipendenti, soggetti in condizioni fisiche o psichiche non buone o comunque di particolare fragilità, soggetti tutti i quali la privazione della libertà, specie se sofferta per la prima volta, può arrecare sofferenze o traumi accentuati e tali da determinare in essi dinamiche autolesionistiche o suicide, o tali da esporli a rischio di violenze da parte dei detenuti o internati più duri o adusi al crimine, insieme con i quali essi fossero improvvisamente collocati".

C. SERRA, op. cit., 1994.

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