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Definizione e dimensioni del concetto di cultura




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DEFINIZIONE E DIMENSIONI DEL CONCETTO DI CULTURA



1 La storia del termine prima della nascita delle scienze sociali




Il termine cultura ha assunto, nel corso del tempo, diversi significati che si sono collocati lungo un continuum. Il sostantivo, così come il concetto ad esso corrispondente, risale alla latinità classica, e lo studio della sua evoluzione permette anche di osservare i cambiamenti verificatisi nei parametri sociologici e negli ideali di vita delle varie epoche della storia europea.

Il termine deriva dal verbo latino colere, ed indica l'attività del lavorare la terra. Successivamente il concetto si trasferirà per analogia dal terreno all'animo umano, il quale, attraverso l'educazione e la filosofia, si dovrà nutrire e raffinare affinché - proprio come i campi - dia i suoi frutti. Questa nozione di cultura suppone la coltivazione della mente e della sensibilità umane, la ciceroniana cultura animi.

Il termine cultura, dunque, designa un patrimonio di valori e conoscenze, una realtà oggettiva ed invariabile, universalmente valida, a prescindere quindi dalle caratteristiche dei vari gruppi che la posseggono e dalle epoche storiche nella quale è calata; essa ha la funzione di discriminare i gruppi che la posseggono da quelli che non la posseggono: la cultura diventa così criterio di valutazione per distinguere, la civiltà dalle barbarie, ovvero per contrapporre i modi di vedere provvisti di valore e quelli disformi dal modello[1].

Quando entrerà a far parte del vocabolario illuministico, il termine sarà associato all'idea di progresso, in quanto sarà considerato sinonimo di affrancamento dalla superstizione e dai pregiudizi: sarà il simbolo della perfettibilità dell'uomo. Si è ancora nell'ambito del significato di elevazione intellettuale e dello spirito, il quale ha la pretesa universale di valere per l'essere umano in generale: è la concezione umanistica o classica di cultura[2]. Esisteva ancora, dunque, una sola cultura, e ciò implicava il monopolio di essa da parte della sola civiltà europeo-occidentale.

Mano a mano però, si cominciò ad incrinare la fede cieca nell'universalismo astratto che caratterizzò l'illuminismo; di conseguenza del termine cultura si enfatizzerà l'accezione varia, particolare e concreta relativa ai costumi singolari e locali di ogni singolo popolo - condizionati dal contesto storico e ambientale - nella quale gli aspetti dell'umanità si manifestano di volta in volta. È questa la cosiddetta concezione antropologica o moderna[3]. Questo nuovo modo di guardare all'uomo e alla società, subirà un ulteriore impulso dalla seconda stagione del colonialismo - quella a cavallo tra Ottocento e Novecento - che permetterà all'Occidente di venire a contatto con un'enorme varietà di costumi e abitudini; ciò mise in luce che i valori a cui si conformano i modi di vita dei diversi, sono validi solo relativamente. Questo diede il via ad una svolta decisiva nell'elaborazione del concetto di cultura: l'accezione non avrebbe più riguardato esclusivamente il singolo individuo e la sua capacità di coltivarsi, ma anche una realtà oggettiva, costituita dai costumi singolari, locali, condizionati dal contesto storico e ambientale. I valori patrimonio della civiltà europeo-occidentale dunque non sono più assoluti, ma solo propri di questa civiltà, e accanto ad essi vi sono quelli caratteristici di altre civiltà.

A questo punto il concetto di cultura verrà definito in modo scientifico, e ciò coincise con l'entrata in campo delle scienze sociali, tra le quali l'antropologia culturale, la quale farà della cultura il proprio oggetto di studio[4]. Il concetto scientifico di cultura nascerà infatti proprio insieme a tale disciplina, con l'intento di riconoscere il valore delle forme di organizzazione sociale e dei costumi di tutti i popoli.

Ben presto, però, tra le scienze sociali si accese un dibattito sul significato da attribuire al concetto. Come si vedrà più avanti, infatti, la tradizione antropologica e quella sociologica avranno due diverse concezioni della cultura: dove una intenderà la cultura come totalità sociale, l'altra opererà una differenziazione tra cultura e società; dove una ne metterà in risalto gli elementi di stabilità e continuità, l'altra ne sottolineerà la funzione innovativa[5]; per una sarà elemento condizionante, per l'altra di interazione ; una ne vedrà all'interno una sorta di omogeneità, mentre l'altra vi ravviserà la differenziazione . Si cercherà allora di tracciare a grandi linee una panoramica sul significato attribuito al concetto nelle due discipline.



2 Il concetto di cultura nell'antropologia culturale


E.B. Tylor fu uno dei fondatori dell'antropologia come scienza autonoma e propugnatore del punto di vista storico-evolutivo: secondo questo studioso l'organizzazione sociale, al pari dell'umanità, ha conosciuto una fase primitiva in sé omogenea è strutturalmente diversa da quella dei popoli civilizzati; molti l'hanno superata, altri si sono fermati ad essa. Lo sviluppo culturale è uniforme per tutti i popoli, quindi è possibile compararli. Del termine cultura non fanno parte solo il sapere scientifico, le credenze religiose e artistiche, il diritto e la morale, ma anche tutti quei modi di comportamento acquisiti in virtù dell'appartenenza ad una data società, i modi di vestire e di adornarsi, le forme di approvvigionamento del cibo, i mezzi di trasporto.

Le dimensioni principali della cultura, infatti, sono identificate in ciò che gli individui:

pensano, cioè l'insieme di norme e di credenze elaborate a livello teorico in maniera più o meno formalizzata, ad esempio la religione, la morale e il diritto;

fanno, ovvero i costumi e le abitudini acquisite dall'essere umano per il fatto di vivere dentro una comunità. Rientrano quindi nel concetto di cultura anche tutte quelle azioni ordinarie, basate su regole abitudinarie e tradizionali, che l'individuo compie nella vita quotidiana, ad esempio preparare il cibo, abbigliarsi e intrattenere relazioni sentimentali;

producono, ad esempio le opere d'arte, ma anche gli oggetti di culto e di uso quotidiano.

Egli delineò poi i caratteri principali della cultura, prerogative che permettono di distinguere, tra i fenomeni osservabili, quelli di tipo culturale: la cultura è l'ambiente sociale e fisico frutto dell'operato umano: vi rientrano quindi un gran numero di elementi, dalle rappresentazioni mentali ai manufatti, dai modelli di comportamento alle regole, alle istituzioni; essa è un realtà omogenea ed organica. È inoltre una realtà appresa, non essendo innata o di tipo biologico: è un'esperienza specificamente umana, continuamente in evoluzione, in quanto non è solo un apprendimento di tipo pratico[8], ma anche di tipo simbolico . Infine è condivisa da un gruppo: la cultura, infatti, segue un modello che caratterizza e domina l'intero gruppo sociale .

Si arriva così alla definizione scientifica di cultura, intendendola come quel complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società[11].


Contributi rilevanti sono comunque stati apportati anche da altri studiosi.

Per B. Malinowski, ad esempio, culturale è ciò che si trasmette socialmente, tutto quello, cioè, che è oggetto di acquisizione. Ogni istituzione - unità elementare che forma la cultura - è in rapporto con qualche bisogno bio-psicologico dell'uomo, e rappresenta un tentativo di risposta ad esso: la cultura è dunque uno sforzo dell'uomo per soddisfare i bisogni inerenti alla sua natura, ed è un ambiente secondario da lui creato per estendere il suo potere d'azione e il controllo sull'ambiente naturale.

Secondo gli appartenenti alla Scuola di Boas, invece, la cultura non si trasmette biologicamente, ma si acquisisce mediante il processo di apprendimento. Le culture non si possono riportare tutte ad un unico schema di sviluppo universalmente valido, dalle fasi determinate: esse vanno studiate nel loro particolare contesto storico. È in questo che queste le due scuole superano la concezione di Tylor, in quanto riconoscono la pluralità delle culture, e quindi la loro irriducibilità ad uno schema unitario di sviluppo, mentre questi parlava di cultura primitiva, la quale si presentava con caratteri uniformi presso tutti i popoli, e non era suscettibile di variazioni.

Gli strutturalisti invece, il cui maggiore esponente è considerato C. Levi-Strauss, non si preoccupano di chiarire i rapporti intercorrenti tra struttura sociale e cultura, quanto piuttosto la cultura in se stessa, come si esprime nei suoi prodotti, quali l'arte e i rituali.

G. P. Murdock identificò il concetto di cultura con quello di folkways, definito da W. G. Sumner[12] come i modi di comportamento mediante i quali i membri di un gruppo sociale soddisfano determinati bisogni, e che - in virtù del loro sanzionamento da parte del gruppo - tendono a diventare imperativi, trasformandosi così in mores. Essi quindi sono il frutto di una scelta tra le tante ad un determinato stimolo, scelta che non è data una volta per tutte e che anzi varia da un gruppo all'altro e all'interno dello stesso gruppo considerato in epoche successive.

Sulla stessa linea si colloca C. Geertz[13], secondo il quale la cultura è una costruzione sociale precaria, in quanto non è insita nel patrimonio genetico degli uomini, ed è strumento per compensare la mancanza di strutture istintuali stabili: poiché l'uomo per sopravvivere non può fare affidamento solo sulle informazioni fornite dal suo codice genetico, la cultura umana compensa questa incompletezza, diventando il baluardo contro il caos costituito da emozioni in tumulto e da azioni informi senza scopo. Essa è dunque il risultato di soluzioni ai problemi che il gruppo oggetto di analisi scopriva nel suo quotidiano confronto con il mondo.

La cultura è dunque una struttura di significati che viene trasmessa, un sistema di concezioni espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita. Tale definizione è usata comunemente dai sociologi, e aiuta a prendere le distanze dalla concezione umanistica di cultura: risolve infatti in armonia l'originaria opposizione tra cultura alta e folk, cioè tra cultura e società, enfatizzando la direzione dell'influenza su una piuttosto che sull'altra, a seconda delle scuole di pensiero; ne evita i connotati di etnocentrismo ed elitismo, e la valutazione sui contenuti di essa; mette infine in evidenza l'aspetto dinamico della cultura, intesa più come attività che non come bagaglio di conoscenze. La cultura può essere in sintesi considerata "un processo[14] dinamico di costruzione, ricostruzione e distruzione di significati, realizzato attraverso azioni e decisioni, individuali e collettive, definite sulla base di uno scambio continuo intersoggettivo tra gli attori" .



Un gruppo sociale è tenuto unito da questa "ragnatela di significati"[16], i quali sono dati per scontati dai soggetti che ne fanno parte, e come tali, non direttamente spiegabili da essi: se si vuole andare a studiare una specifica cultura così intesa, come è l'obiettivo di questo lavoro, si dovrà allora cercare di ricostruire il sistema di senso propria del gruppo che lo ha prodotto.

In sintesi, l'antropologia culturale si colloca tra l'estremo occupato dall'etnologia[17], e quello occupato dall'antropologia sociale : mentre la prima resta necessariamente legata ai popoli primitivi, l'antropologia sociale può estendersi anche ad alcune delle istituzioni dei popoli civili. Tuttavia, quest'ultima è la direzione intrapresa dall'antropologia culturale, nata come scienza che si occupava delle culture dei popoli primitivi e recentemente accostatasi allo studio della cultura di società complesse: dalla sua formazione, il concetto di cultura, infatti, non si identifica più con il suo oggetto originario, cioè le società primitive, e di conseguenza anche l'antropologia culturale, che della cultura aveva fatto il proprio oggetto di studio, ha cambiato obiettivo; ad essere analizzato non sarà più il patrimonio di società statiche e chiuse all'influenza esterna, ma il processo di trasformazione di queste società.

In questo modo l'antropologia culturale ha così cominciato un processo di avvicinamento alla sociologia, il che ha però portato con sé dei problemi di distinzione tra le due discipline: da ora il concetto di cultura, infatti, non avrà più la funzione di spartiacque tra i due diversi campi di ricerca.



3 Il concetto di cultura nella sociologia


Partendo dai classici della sociologia, il primo che concepì la cultura come prodotto sociale fu E. Durkheim, il quale studiò molti aspetti culturali - dal suicidio, alla religione, ai sistemi di educazione, alla scienza, ai metodi sociologici - . Egli partì dallo studio delle società moderne, facendo notare come l'elevata specializzazione che permeava tutti i campi della società - dal lavoro alle istituzioni - aveva prodotto una disgregazione della coscienza collettiva, la quale in precedenza governava i pensieri, gli atteggiamenti e le pratiche della comunità. Ciò che teneva unite tali società allora non era altro che un tipo di solidarietà, detta organica, che si contrapponeva alla solidarietà meccanica, propria delle società più semplici: essa trae origine dal bisogno degli uomini di fare scambi e costituisce un collante che si sostituisce all'integrazione - meccanica, appunto - data dalla similitudine delle vite dei membri delle comunità. Il cemento della collettività è costituito dunque dai simboli propri delle rappresentazioni collettive[19], le quali svolgono la funzione di raffigurare e rappresentare la società, consentendo quindi la comunicazione tra membri: creando vincoli reciproci e permettendo agli individui di identificarsi in un tutto, esse non sono quindi altro che cultura, la quale per diffondersi e mantenersi ha bisogno del sostegno dei rituali. Tale entità è comune, comunicabile, ma anche oggettiva e obbligatoria: è infatti esterna all'individuo e su di esso coercitiva, come un qualsiasi altro fatto sociale. Gli oggetti culturali nascono dall'interazione dei singoli individui, che nei prodotti culturali rappresentano le proprie esperienze e il mondo sociale dai quali provengono: si crea così una sintesi chimica che trasforma i singoli componenti in un elemento con caratteristiche nuove e specifiche .

Un altro classico che analizzò la tematica culturale fu M. Weber, il quale definì la cultura come una "sezione finita dell'infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell'uomo"[21]. Ciò è garanzia di oggettività scientifica, in quanto sulla base dei valori lo scienziato seleziona il dato empirico nella complessità del mondo reale. Qui, però, interessa di più un altro significato, quello che riguarda non tanto gli scienziati quanto l'uomo in generale: la realtà si presenta ad essi non come insieme di fatti atomisticamente separati, bensì come quadro dotato di significato, in base al quale operare delle scelte. Egli non arriverà mai a dire, come anche fece G. Simmel, che le idee fossero socialmente condizionate in maniera deterministica: idee e condizioni sociali si influenzano vicendevolmente.

Anche la Scuola di Chicago si interessò all'analisi dei sistemi culturali: ciò che preme mettere in evidenza in questa sede è che nei lavori di tale tradizione - molto influenzati dalla psicologia sociale - tutto ruota intorno all'interpretazione che l'individuo dà della situazione oggettiva in cui si trova, in ciò influenzato dal suo retroterra culturale. La Scuola di Chicago, detta anche Scuola Ecologica, utilizzerà per le proprie ricerche gli strumenti peculiari dell'etnografia, come le autobiografie, l'osservazione partecipante, i documenti personali di vario tipo[22]: ciò, insieme alle tradizionali fonti statistiche, permise di descrivere senza interferenze esterne l'espressione di valori, le rappresentazioni e le credenze comuni. Esiste dunque una realtà sociale oggettiva, ma essa è interpretata dal soggetto che la definisce secondo i propri schemi, il proprio patrimonio culturale . Fu un approccio portatore di novità all'interno della riflessione sociologica: mise per la prima volta in luce il rapporto tra identità e cultura, tra la concezione di sé e le forme di riconoscimento sociale, attraverso l'esplorazione della diversità culturale della vita urbana americana, della quale analizzò gli aspetti conflittuali, le diversità degli stili di vita, le credenze e le pratiche sociali che caratterizzavano specifici gruppi o spazi sociali del microcosmo urbano. Nello specifico R. Park fornì un'immagine soprattutto culturale della città, e asserì che il metodo di osservazione etnografico, utilizzato dagli antropologi per lo studio delle società cosiddette primitive, si potesse applicare con successo all'analisi di costumi, credenze, pratiche sociali e concezioni generali di aree specifiche nelle quali è articolato l'ambiente urbano, in quanto esse si possono considerare reti di relazioni sociali dotate di sentimenti propri, tradizioni e storia . Classificando i ghetti come città entro le città, le cui rispettive popolazioni sono il risultato di un processo selettivo ad opera della differenziazione morale oltre che delle distanze fisiche, si porranno le basi per il concetto di subcultura .

Fu con l'opera di T. Parsons che la sociologia prese le distanze dalla concezione adattiva - funzionale, cioè, alla sopravvivenza di un certo gruppo sociale - che l'antropologia aveva della cultura. Per l'autore, infatti, essa è costituita da sistemi strutturali o ordinati di simboli che sono gli oggetti dell'orientamento all'azione, da componenti interiorizzate della personalità dei soggetti agenti individuali e da modelli istituzionalizzati dei sistemi sociali[26]. La cultura ha dunque anche un carattere normativo, in quanto essa è l'insieme dei modelli di comportamento che la comunità sociale ritiene validi - sui quali, cioè, c'è consenso di base - per dare ordine e significato all'esperienza. Questi modelli servono a regolare la condotta dei membri, e sono accompagnati da sanzioni nel caso in cui essi non vi si conformino. Ciò presuppone un sistema di valori alla base, al quale si viene socializzati, così che esso pervade le personalità degli individui spingendoli ad adottare un comportamento conforme alle aspettative sociali.

Questa svolta - alla quale contribuirono anche J. Dewey e G.H. Mead - è lo specchio del nuovo orientamento del pensiero americano e dell'importanza che andavano rivestendo sempre di più i temi dello status sociale dei valori. La presenza di diversi sistemi di valori, in una società, diventa quindi la spia dell'esistenza di culture differenti, spesso in conflitto, oppure dell'articolarsi di una cultura in subculture, portatrici di proprie caratteristiche distintive.

Parsons tiene ben separate cultura e società, individuando quattro sottosistemi intervenienti nell'azione sociale, ognuno con una propria funzione: l'organismo biologico, che svolge la funzione di adattamento all'ambiente; la personalità, che mobilita le energie dell'organismo affinché raggiunga i suoi obiettivi; il sistema sociale, che svolge la funzione di integrazione, stabilendo le forme della coesione e della solidarietà; la cultura, che, infine, fornendo al soggetto la motivazione e il senso dell'azione attraverso i valori, svolge una funzione di latenza: essa è quindi presente ma propriamente non agisce. Formulò i cosiddetti tre postulati del funzionalismo[27], che consistevano, in sintesi, nell'affermazione che tutte le attività sociali standardizzate e gli elementi culturali di una data società sono funzionali all'intero sistema, che ognuno di questi soddisfa uno e un solo bisogno, e che tutti svolgono funzioni sociologiche positive. Nello specifico, come si è visto, la funzione della cultura consiste essenzialmente nel rafforzare i legami che connettono il soggetto - imbevuto della cultura a cui passivamente si conforma - alla propria comunità. Il rischio che si corre però è quello di considerare ogni cultura come un mondo a sé stante non rapportabile ad altre, alla stregua di un cosmo concluso e perfetto, senza che gli individui possano assumere posizioni critiche nei confronti dei valori costitutivi della propria e dell'altrui cultura, ipoteticamente dotati di validità incondizionata all'interno del sistema nel quale sono inseriti. In questo modo, paradossalmente, anche il relativismo sfocia in un'assunzione di assolutezza dei valori, la quale sembra non scomparsa con l'eurocentrismo, ma moltiplicata e frantumata in una serie di mondi chiusi e non comunicanti.

Fu R.K. Merton[28] il primo a criticare tali postulati, ponendo in luce che il grado di interazione di una società è variabile , ed è la misura della funzionalità dei suoi elementi: questo significa che in un sistema si possono dare anche elementi funzionali in un contesto ma a-funzionali o dis-funzionali in un altro. Inoltre uno stesso elemento può assolvere diverse funzioni, come una stessa funzione può essere assolta da più elementi: essi non sono insostituibili, semplicemente costituiscono la soluzione, più o meno adeguata, di certi problemi. Da ciò deriva il mutamento della cultura: infatti in questo modo la cultura è intesa come un insieme di elementi che interagiscono in modo variabile, quindi particolari modi di vita possono scomparire, o essere sostituiti, o possono entrare a far parte del contenuto di un'altra cultura .

Vi sono poi due opposte concezioni sul soggetto dell'azione: per gli esponenti causalisti la cultura è causata da processi - biologici, psichici, economici o sociali - che sfuggono alla coscienza dei soggetti che ne fanno parte e non dipendono da loro; quindi, per comprendere l'emergere di una nuova credenza, per esempio, non ci si può riferire al significato che i soggetti le attribuiscono, perché le forze prima citate agiscono alle spalle di essi. Per la corrente strumentalista, invece, il soggetto dell'azione è considerato elemento attivo, in quanto persegue i propri scopi razionalmente, cioè valutando i costi e i benefici. Le norme e i valori non sono altro che il risultato di queste scelte e la cultura, quindi, è la somma di tante scelte individuali. L'attore sociale, in sostanza, aderisce ad una norma o ad un valore perché ciò gli è vantaggioso.

All'analisi del concetto di cultura ha dato largo contributo anche la psicologia sociale, la quale attraverso la branca dell'interazionismo simbolico - il cui capostipite è G.H. Mead - si è interessata a come gli individui costruiscano le proprie norme e i propri ruoli. Secondo questo approccio è l'interazione umana a creare cultura e, una volta creati, gli oggetti culturali sono riprodotti e trasmessi attraverso la loro ripetuta espressione e attraverso la socializzazione dei nuovi membri del gruppo: è il gruppo di detenuti, ad esempio, a stabilire le regole del gioco, che verranno spiegate agli altri detenuti che faranno parte di tale gruppo.

L'attore sociale è un soggetto attivo, l'enfasi non è posta sul calcolo strumentale - che presuppone una progettazione a priori, come ritenevano gli strumentalisti - bensì sull'interazione che gli individui impegnati nelle pratiche pongono in essere, sulla ripetizione di soluzioni a problemi ricorrenti di cui si è fatta esperienza nel passato, oppure sulla negoziazione tra modelli di soluzione differenti. L'identità - ad esempio "io sono un detenuto" - è poi il prodotto delle interazioni con gli altri e richiede la loro conferma; il proietta un insieme di significati su coloro con i quali interagisce, e a sua volta cerca di interpretare i significati costruiti dai partner nell'interazione. E. Goffman analizzò questo processo attraverso le metafore della performance teatrale: quando interagisce, il sé è un attore che svolge un ruolo di fronte ad un pubblico.




Negli ultimi venti anni si sono moltiplicati gli studi culturali nella sociologia e nelle scienze sociali attigue; fino ad allora, tranne che in qualche caso, l'attenzione sociologica si era focalizzata sulle spiegazioni strutturali dei fenomeni sociali - questioni come il reddito, i cambiamenti demografici, le pressioni economiche - mentre la cultura e le chiavi di lettura in senso culturale erano state marginali. La maggior parte delle odierne prospettive sociologiche vede invece ora gli individui come creatori di significato oltre che attori razionali, come utenti di simboli oltre che di rappresentanti di classi, e come narratori oltre che punti di un trend demografico[31]: la cultura torna ad essere una dimensione rilevante dell'azione e della vita sociale, indispensabile per spiegare comportamenti micro e macrosociali, benché lo studio della dimensione culturale dei fenomeni sociali era già presente tra i sociologi classici come Weber e Durkheim, i quali, come visto, ritenevano la cultura quale chiave di lettura fondamentale della società e dell'agire sociale.

L'approccio specifico della sociologia allo studio della cultura, come si è visto, si discosterà subito da quello dell'antropologia culturale: la cultura non è vista come un'entità stabile, ma come un processo di significazioni che si attuano all'interno dell'interazione sociale, ed essa sarà considerata come elemento distinto dalla società, in rapporto di reciproca influenza con essa.

La definizione di cultura fornita da Tylor è assunta ancora oggi da gran parte dell'antropologia culturale, mentre la sociologia della cultura[32]contemporanea ne utilizza una meno inclusiva, che spiega la cultura come un insieme di proposizioni descrittive e normative sulla natura, l'uomo e la società: la cultura assume dunque il significato di sistema cognitivo.

Questa definizione del concetto permette di individuare quattro dimensioni:

valoriale; del termine valore possiamo fornire l'accezione di cosa ritenuta importante, o di ideale desiderabile dagli individui a cui essi si ispirano quando devono formulare dei giudizi: è ciò a cui la gente tiene. Influenza pertanto l'azione, nell'idea che conformarsi ad esso sia la cosa giusta da fare, indipendentemente dal vantaggio che ne consegue. Ciò perché è stato interiorizzato, e l'eventualità di disattenderlo provoca nell'attore senso di disagio;

normativa; il sociologo distingue le regole dai valori perché sono più specifiche e socialmente più imperative: esse applicano i valori a situazioni concrete, e la loro efficacia è garantita da una sanzione. Stabiliscono come deve essere la realtà, possono emergere in qualsiasi ambito dell'attività umana e della vita sociale, e sono caratterizzate da un diverso grado di formalizzazione: si collocano lungo un continuum che trova agli estremi, da un lato, le norme giuridiche - che ne rappresentano il massimo grado - e dall'altro le norme che regolano l'interazione quotidiana e la morale[33], l'infrazione delle quali comporta punizioni altrettanto, se non più, efficaci di sanzioni esplicite e formali. Le norme sono un punto di riferimento in situazioni caratterizzate da ambiguità e definiscono le relazioni con altri gruppi: contribuiscono dunque alla costruzione della realtà sociale;

cognitiva; concetti e credenze sono il modo in cui la gente pensa che funzioni il mondo, stabiliscono cosa è la realtà, l'uomo, la natura e la società;

simbolica; i simboli espressivi sono segni in grado di evocare una relazione tra oggetto concreto ed un'idea astratta. Sono rappresentazioni, spesso delle norme sociali, dei valori e delle credenze. Da non confondersi con i segnali - i quali hanno la funzione di sintetizzare l'informazione - , essi sono intersoggettivi, cioè condivisi da un gruppo sociale, e non convenzionali: non possono essere cambiati o sostituiti arbitrariamente perché non hanno il semplice compito di veicolare l'informazione. Essi sono infatti associati al significato attraverso una logica[34]. La possibilità per la cultura di designare i contenuti o le forme di comunicazione di tipo simbolico o segnico, ha dato origine alla semiologia, definita da F. de Saussure come una "scienza che ha per oggetto i sistemi di segni, siano essi linguistici, gestuali, ecc.". La semiologia può essere quindi applicata allo studio dei fatti socio-culturali, in quanto spesso sono sistemi di simboli o segni: si veda per esempio il linguaggio dei gesti e quello dei fiori, ma anche i gesti cerimoniali della divinazione, i passi di danza, le azioni di tipo liturgico o i rituali presenti nelle interazioni quotidiane.


Per distinguere le proposizioni culturali da quelle non culturali, la sociologia culturale contemporanea analizza alcuni importanti caratteri, quali:

a.      la coerenza; le proposizioni culturali possiedono dei principi ordinatori, non sono un insieme di elementi sconnessi. Questo però non vuol dire che in esse manchino contraddizioni o incongruenze. Il grado di integrazione varia da una cultura all'altra: infatti le società complesse sono sempre meno integrate, caratterizzate da forme di conflitto di identità e da dissonanze di tipo cognitivo, a causa delle moltiplicate possibilità di scelta dell'individuo tra modelli culturali spesso anche contrastanti;

b.     il carattere pubblico; la cultura è pubblica in quanto le proposizioni da cui è costituita sono codificate entro rappresentazioni di gruppi sociali, entro segni e simboli collettivi;

c.      l'oggettività; è un aspetto collegato al carattere pubblico: il patrimonio culturale è un lavoro collettivo che si forma e si trasforma nel tempo, è oggettivo in quanto è un vincolo esterno al soggetto. La cultura ha però anche un carattere soggettivo, in quanto è costituita dalle rappresentazioni mentali dei singoli attori sociali;

d.     la trasmissibilità; la cultura può essere espressa dai membri di un gruppo sociale, ma senza che essi siano in grado di argomentare, oppure può essere tematizzata e divulgata in forma consapevole.



4 Conclusioni


Da tutti questi contributi apportati dalle varie scienze sociali, si evince che la cultura è sì autonoma dalla struttura sociale, come già visto, ma anche e soprattutto dalla natura, in quanto il comportamento umano non è totalmente ereditato geneticamente[35]: vi rientrano quindi, tra le altre, le forme di vita morale e religiosa, di arte, scienza e filosofia dell'epoca in esame, e tutte le azioni non puramente naturali.

La cultura è intesa come uno dei vari livelli o modi in cui si articolano le attività socio-economiche o socio-politiche dell'uomo, o come un aspetto della sovrastruttura - in senso marxiano - , ovvero le manifestazioni di una certa epoca, distinte dalle vicende della conquista e del controllo del potere, dalle forme di produzione e di organizzazione del lavoro, dai rapporti di classe. Datasi la grande variabilità di esse tra le società umane, ed anche all'interno di una stessa società, è ormai evidente la relatività dei mondi culturali.

In questa sede interessa porre in evidenza un altro tipo di relativismo, quello metodologico, proprio dello scienziato sociale che ha l'obbligo di affrontare una cultura estranea alla propria senza pregiudizi ed evitando di applicare schemi concettuali e categorie prodotte dal proprio gruppo o società. Ciò innanzitutto per rispetto verso l'oggetto di indagine, ma anche e soprattutto per evitare di incappare in clamorosi abbagli, frequenti quando si guardano i fenomeni attraverso la lente della propria cultura. Non bisogna però fare l'errore di considerare le culture come mondi incondizionatamente validi al proprio interno: le culture contemporanee infatti, come osservato da Merton, sono caratterizzate da permeabilità e disomogeneità interna, e comunque alcuni elementi sono presenti in tutte le culture[36].

Il dibattito sul significato del concetto di cultura ha messo in evidenza molte sue accezioni; una discussione che si è articolata su diversi campi, ma che comunque termina intorno al 1950.




P. ROSSI, Cultura e antropologia, Torino, 1982.

L. SCIOLLA, Sociologia dei processi culturali, Bologna, 2002.

ibidem. Le due accezioni del termine non si autoescludono, e tuttora sono di uso comune.

Opzione che le varrà l'autonomia tra le scienze sociali.

In quanto più che tradizione è potere creativo, grazie alle contraddizioni e alle differenze tra gruppi.

Infatti, tranne che con Durkheim, che si avvicina alla concezione antropologica secondo la quale la trasmissione culturale è vista come un processo di condizionamento che obbliga i membri della società a comportarsi secondo le norme e i valori condivisi dalla comunità, la tradizione sociologica sottolinea la dialettica che si instaura negli individui durante tali processi.

E ciò per Durkheim si traduce in anomia, carenza di regole, la quale genera incapacità di porre dei limiti ai desideri ed alle aspettative degli individui.

Risultato, cioè, di un addestramento.



Produttore cioè di significato anche in assenza del referente.

R. BENEDICT, Modelli di cultura, trad. it. 1970, Milano.

Definizione fornita da Tylor, di tipo descrittivo, che influenzerà per molto tempo il pensiero antropologico e sociologico.

W.G. SUMNER, Costumi di gruppo, trad. it. 1962, Milano.

C. GEERTZ, Interpretazione di culture, trad. it. 1998, Bologna.

Perché non è realtà deificata: non esiste al di fuori delle menti degli attori e delle loro espressioni operative e simboliche.

C. PICCARDO, A. BENOZZO, Etnografia organizzativa. Proposte di metodo per analisi delle organizzazioni come culture, Milano, 1996.

C. GEERTZ, op. cit., 1998.

Disciplina di tipo storiografico/idiografico, dunque mirante a ricostruire le particolari vicende relative a determinati popoli.

Disciplina di tipo sociologico/nomotetico, mirante quindi a riconoscere, in un determinato settore, le leggi generali dei meccanismi sociali; per questa caratteristica è detta anche sociologia comparata.

Rappresentate dalle norme, valori morali, miti e credenze religiose.

E. DURKHEIM, Le regole del metodo sociologico, trad. it. 1996, Roma.

M. WEBER, Il metodo delle scienze storico-sociali, trad. it. 2003, Torino.

Ad esempio le lettere, i registri delle associazioni, i verbali dei processi.

Il quale, poiché si forma attraverso discussioni e teorie, è estremamente modificabile.

R. PARK et al., La città, trad. it. 1999, Milano. Il concetto di rete sociale verrà accennato nel par. 2.6.

Del quale si parlerà nel prossimo paragrafo.

T. PARSONS, Il sistema sociale, trad. it. 1996, Milano.

Termine coniato da antropologi ed etnologi, nato dalla comparazione del sistema sociale ad un organismo biologico, nel quale ogni elemento - quindi anche la cultura - è funzionale alla sopravvivenza del tutto.

R.K. MERTON, Teoria e struttura sociale, trad. it. 2000, Bologna.

Infatti non è lo stesso per tutti i sistemi, e anche in una medesima società cambia da periodo a periodo.

Altri contributi di Merton all'analisi culturale verranno trattati nei parr. 2.3 e 2.6.

W. GRISWOLD, Sociologia della cultura, Bologna, 1997.

Branca della sociologia che osserva i fenomeni culturali - le storie, le credenze, i media, le opere d'arte, le pratiche religiose, le mode, i rituali, il sapere specialistico e il senso comune - da una prospettiva sociologica. Spiega come i fenomeni culturali funzionino nei processi sociali e come le forze sociali influenzino la cultura.

I cosiddetti microrituali , termine coniato da E. GOFFMAN ne La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, 1969.

Due esempi di simbolo sono la bilancia per la giustizia, e la croce per il cattolicesimo.

In ciò antropologia culturale e sociologia convergono.

I cosiddetti universali culturali: molti autori hanno dedicato nei propri studi ampio spazio alla ricerca di tali elementi, ravvisandoli per esempio nel divieto dell'incesto e dell'omicidio, nell'obbligo di riconoscenza, della condanna della menzogna, ma anche attività quali lo sport, la danza, l'ornamento del corpo, i riti funebri, e così via.

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