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L'animale sociale - lotta alla nevrosi tra arte, linguaggio e tempo




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Anno scolastico 2006- 2007

Liceo Scientifico "Andrea Maffei"

Riva del Garda













L'animale sociale


LOTTA ALLA NEVROSI TRA ARTE,

LINGUAGGIO E TEMPO







PREFAZIONE



"Spinto dall'esigenza di ripropormi il problema della natura e del destino dell'uomo"1, mi sono dedicato all'approfondimento di quegli autori audaci di ogni tempo che si siano rivolti alla questione. Lanciando uno sguardo ai miei prediletti ho convenuto di dedicarmi allo studio di coloro che, a parer mio, attraverso la loro innovatività e carica di fascino intellettuale, non abbiano liquidato la questione con l'ingenuo ottimismo che non può più trovare molto spazio nel moderno contesto storico, politico, sociologico e scientifico.

La particolare predilezione verso alcuni di essi nasce dalla scoperta nelle loro opere, autori ritenuti per così dire "importanti", di molte intuizioni o riflessioni che avevo precedentemente appuntato su taccuini e fogli sparsi. Il ritrovarle spesso pressoché identiche (salvo qualche differenza di forma.) mi ha lasciato un sentimento ambivalente: da una parte la mia carica innovativa era ridotta al rango di dejà vu, e sorgeva il dubbio che i miei "parti" fossero in realtà semplici frutti di un inconscio influenzato; d'altra parte mi sentivo, come scrissi, "gioire vedendomi non solitario a scorgere l'invisibile evidenza".

Và da sé che ho collezionato svariate simpatie verso diversi autori, spesso tanto distanti tra loro da non poter essere riconducibili ad un'unica direttiva o ad affinità di pensiero. Ma finalmente ciò che mi ha attratto, e portato a concepire l'idea di questo lavoro, è stata la volontà di far ordine e ricondurre, se ciò fosse stato possibile, le parti del quadro in una struttura organica che potesse individuare un problema comune. Ora, questa unità, lungi dal volersi imporre come assoluta, aspira ad un rapporto dialettico i cui "momenti", hegelianamente parlando, mantengano le proprie differenze ed esaltino le convergenze, verso una sintesi finale.*











* Questa prefazione è stata scritta precedentemente alla lettura delle conclusioni di La vita contro la morte, in cui Brown esalta il concetto di approccio dialettico tra i sistemi di pensiero di diversi autori, accomunati da "un atteggiamento della coscienza [.] in lotta per superare i limiti imposti dalla legge logico-formale della contraddizione."


INTRODUZIONE



Gettare un occhio sulla letteratura e arte degli ultimi due secoli è un'esperienza sconvolgente. Buona parte delle più acute e geniali menti del panorama culturale occidentale post illuministico sembrano concordi nel covare un profondo timore per il futuro dell'umanità. A questa apprensione si unisce un senso di irrequietezza, insoddisfazione, inettitudine, inadeguatezza, più diffuso che in qualsiasi altro tempo. E' più che probabile che un presentimento siffatto nasca dalla tendenza culturale moderna ad avvicinare sempre più l'uomo all'ideale di pura razionalità; di pari passo, tale cammino conduce all'assoluta sterilità sensuale, ad una civiltà moderna sempre più artificiale ed artificiosa. Una così complessa società, apparentemente più accomodante, si rivela , infatti, insostenibile a livello della psiche umana: lo studio psicoanalitico sembrerà suggerire la possibilità che il destino dell'uomo sia l'autodistruzione. Nel nostro percorso arriveremo a spiegare la ragione di tale evoluzione individuando il carattere cumulativo della sublimazione, la cui meta ultima, nell'inesorabile ampliamento delle strutture culturali, sembra essere la "morte-nella-vita". D'altra parte, per realizzare quanto questo processo sia in continua crescita, è sufficiente consultare le odierne statistiche mediche: l'indice di incremento di esaurimenti e depressioni ha spesso fatto parlare delle malattie nervose come " le patologie del terzo millennio".

Scavando nella sociologia, nella storia, nella letteratura scopriamo che l'evoluzione della civiltà umana (e, in particolar modo, di quella occidentale postindustriale) sembra essere caratterizzata dalla continua rincorsa al progresso, ad una crescita mai sufficiente; in tutto ciò l'uomo vede il crescente distacco dal suo stato naturale. La presupponenza umana di potersi elevare al di sopra delle proprie origini e condurre un'esistenza estranea al resto del regno animale e biologico, non pare far altro che votarlo all'auto-annientamento.

In un simile contesto diventa necessario, quindi, ripristinare quel contatto che possa indicare al "figliol prodigo" la strada verso le sue origini, verso la propria essenza, e verso il vero senso dell'esistenza. La riscossa dell'irrazionalismo contro la positivistica fede nella Ragione sembra dirla lunga circa questa impellente necessità. Un sentore particolarmente importante del rifiuto dell'ordine precostituito è il pensiero antirepressivo sviluppatosi negli anni Sessanta, tra i cui cantori Jack Kerouac merita un posto di riguardo. La medesima critica alla sciocca presunzione umana di dimenticare la propria origine (di cui sopra) prende forma, in I vagabondi del Dharma, nella colorita e ardua sentenza:

Tutti questi qui hanno gabinetti piastrellati di bianco e fanno sporchi stronzi grossi come quelli degli orsi in montagna, ma tutto viene lavato via in comode fogne ipercontrollate e nessuno pensa più agli stronzi né si rende conto che la sua origine è merda e fetore e feccia del mare. Passano tutta la giornata a lavarsi le mani con saponi cremosi che si vorrebbero mangiare di nascosto in bagno.2

Ma quale può essere la possibile via di uscita? Il rischio nel dare una risposta assoluta, a questo punto, è quello di cadere da una parte nell'utopia, dall'altra nella banalità. Proprio in virtù di tale consapevolezza non miriamo ad una risposta che sia definitiva.

Ciò a cui, invece, possiamo credere, è la prospettiva di una consapevolezza effettiva di sé, dei meccanismi che regolano la parte più considerevole della nostra psiche: l'inconscio. Nell'erta ed accidentata ascesa al "conosci te stesso" il nostro "duca" sarà Norman Brown, lo studioso americano che ha condotto una delle più brillanti reinterpretazioni di Freud in chiave marxista, hegeliana e romantica del XX secolo. Per venire incontro alla possibile difficoltà nel comprendere le tesi di fondo di un edificio tanto ostico come quello della psicoanalisi, e per poter seguire le argomentazioni di Brown, ho ritenuto opportuno redigere un breve Glossario, che puntualizzi i significati delle terminologie utilizzate.

Quanto tratteremo nella sezione intitolata Il significato psicoanalitico della storia (dal sottotitolo dell'opera browniana La vita contro la morte), sarà la base per la nostra spiegazione di quella insoddisfazione ed incompiutezza umane a cui si accennava in precedenza, e che troverà ampio spazio anche nelle sezioni successive. In Le maschere analizzeremo, quindi, l'illusione del libero arbitrio, e la necessità dell'uomo moderno di riconquistare la propria essenza. In Arte e linguaggio esamineremo le possibilità che tali forme di espressione offrono all'uomo per redimersi dalla malattia universale. Nella sezione dedicata a Il tempo e la morte comprenderemo l'importanza fondamentale che il sapersi riappropriare del proprio tempo può rivestire nella sconfitta del rifiuto della morte e nella conseguente liberazione dalla nevrosi universale e guarigione dell'umanità. Infine, l'appendice intitolato Il caso: Baudelaire, sarà l'occasione per analizzare la complessità della psiche di un personaggio fondamentale nel panorama letterario a cui si accennava: grazie all'acuta analisi di Sartre, comprenderemo più a fondo cosa possa comportare la totale chiusura narcisistica in sé.


















IL SIGNIFICATO PSICOANALITICO DELLA STORIA



Come s'è detto nella Prefazione, sembra che gli ultimi due secoli siano stati il teatro su cui si è consumata la vittoria della distopia sull'utopia. Se è vero che la rivoluzione industriale abbia provocato l'alienazione dell'uomo, o che, soddisfattogli ogni bisogno materiale, abbia semplicemente permesso una più ampia possibilità di riflessione filosofica, è incerto. Probabilmente entrambi i punti di vista sono corretti.

Certa rimane, però, la frustrazione ed il disincanto di un uomo che ha smesso di sperare e che, come aveva profetizzato Nietzsche, ha saputo uccidere Dio solo a patto di poter divinizzare un asino, solo a patto di poterlo sostituire con ottusi idoli alternativi. L'inclinazione al disfattismo che pervade le pagine di Schopenhauer, arriva fino al Decadentismo, a Freud, Sartre ed ai giorni nostri; vedremo infatti che scrittori nichilisti come Orwell e Palahniuk sono diventati veri e propri culti di massa. Evidentemente, il successo che questi autori hanno raggiunto và oltre la propensione dell'uomo all'autocommiserazione, ed affonda le proprie radici in un malessere sociale, prima ancora che individuale.

La ricerca di quei pionieri che hanno rifiutato la tendenza imperante al fatalismo, spesso mascherato da ottimismo semplicistico, è stato il substrato su cui si è basata la psicoanalisi. Lo stesso Freud ha affermato a più riprese, infatti, di non aver scoperto nulla di nuovo con l'inconscio, ed ha rivendicato "solamente" il merito di aver dato voce scientifica alle scoperte dei poeti e letterati che l'avevano preceduto.

L'immensa possibilità che questa scienza ci offre è lo studio di noi stessi, la ricerca di una consapevolezza che permetta, finalmente, di attuare la massima socratica del "conosci te stesso" e di aspirare ad un'esistenza meno nevrotica e più spontanea. Lo studio che Norman O. Brown ha condotto su Freud è per queste ragioni una ricerca di importanza fondamentale.


La vita contro la morte

Norman O. Brown, soprannominato "il filosofo allegro", è stato, assieme all'amico Herbert Marcuse, il massimo rappresentante del pensiero sviluppato ampiamente negli anni Sessanta. Questo matura nel contesto politico e culturale degli anni Sessanta, in una società perbenista e irreggimentata come quella borghese, che schiaccia e nega l'istintività e la naturalezza dell'uomo. Le teorie elaborate nella sua opera principale, La vita contro la morte, saranno la base per le riflessioni che condurremo di seguito.

Nella prefazione a La vita contro la morte Brown esordisce con la critica alla psicoanalisi ortodossa, portatrice della "tendenza della cultura verso una sterile cristallizzazione". Mutilare Freud "fino a riconciliarlo col senso comune", afferma Brown, "è facile, ma di Freud non rimane nulla". Al contrario, è necessario riprendere in mano tutto il sistema freudiano e completarne le parti rimaste oscure, modificando alcune delle sue fondamentali costruzioni giovanili (una fra tutte il concetto di morte) in base alle scoperte più tarde. Infatti, continua l'autore, nemmeno Freud "affrontò mai appieno le conseguenze esistenziali e teoriche implicite nel considerare la nevrosi universale dell'umanità", limitando la neonata psicoanalisi ad "un metodo terapeutico controllato da professionisti ed alla portata solo di una minoranza scelta e danarosa". Successivamente, però, egli sottolinea che l'aspirazione che lo guida non è quella di rivoluzionare l'impianto freudiano, bensì di "introdurre alcune nuove possibilità e alcuni nuovi problemi nella coscienza del pubblico." D'altro canto, continua Brown: "non ho esitato a condurre le nuove idee alle loro più "folli" conseguenze, conscio del fatto che anche Freud è sembrato folle."

La tesi principale di La vita contro la morte è che l'umanità, nella sua continua lotta verso il progresso, "non ha idea di ciò che veramente vuole"; il genere umano, quindi, inconsapevole dei suoi stessi desideri, è incapace di soddisfarli, ostile alla vita, e inconsciamente portato all'autodistruzione.

Di qui in poi il progetto di Brown prende una strada autonoma: egli rintraccia il limite di Freud nella mancanza di una necessaria preparazione antropologica, che permetta di ricavare i "dati fondamentali non dal divano del terapeuta, ma dalla cultura e dalla storia, quel registro, come diceva Gibbon, dei vizi e delle follie del genere umano. Quel che occorre è una sintesi di psicoanalisi, antropologia e storia", mirante a "trasformare la psicoanalisi in una più ampia teoria generale, [.] un nuovo stadio nel processo storico della conoscenza dell'uomo da parte di se stesso", quell'"anello mancante tra una serie di correnti del pensiero moderno, tutte atteggiate a profonda critica del carattere inumano della civiltà moderna, tutte ugualmente restie ad abbandonare la speranza di un avvenire migliore." Come vedremo, la necessità che emergerà, in ultima analisi, è quella di venire a patti con le nostre pulsioni più ancestrali: la vita e la morte.


Uomo, cultura e nevrosi

Alla base della struttura della psicanalisi sta il concetto di rimozione. Secondo Freud la rimozione consiste nel rifiuto, operato dall'Io cosciente, dei desideri che non può soddisfare. Questa espulsione da parte della coscienza delle tensioni più ancestrali e connaturate nell'uomo, provoca la nevrosi. Fondamentale nella sua cura è lo studio dei fenomeni psicopatologici (lapsus, falsi ricordi, pensieri casuali.) e dei sogni. Dunque il sogno, in quanto sintomo nevrotico, è specchio del nostro io sepolto che ricerca la soddisfazione di desideri rimossi.

Ma la terapia stessa rivela come queste manifestazioni di intrusione dell'inconscio nella coscienza non differiscano affatto, nei malati di nevrosi, da coloro che sono ritenuti "sani". Ne deduciamo che nessun essere umano è esente dalla nevrosi, è che coloro che consideriamo "sani" non presentano altro che "una forma di nevrosi abituale nella società"3. Nelle teorie giovanili Freud attribuisce le cause del conflitto a capo della rimozione allo scontro tra principio di piacere e principio di realtà (più tardi vedremo che negli scritti maturi opterà per attribuirne le cause alla lotta tra istinto di vita e di morte). La base di tutto il sistema risiede nella convinzione, freudiana e non solo, che l'essenza dell'uomo coincida con il principio di piacere, formula con cui intenderemo che la felicità e la soddisfazione dei piaceri sono i fini unici e primari dell'essere umano. Ma la realtà in cui questo si trova a vivere non sempre permette la realizzazione di tali pulsioni: ci basterà pensare a come l'istinto raramente sia compatibile con le leggi che permettono la vita civile. L'uomo, pertanto, retto dal principio di piacere, si trova costretto a venire a patti con il principio di realtà, e, frustrato, relega parte del suo essere nei meandri più reconditi di sé, in ciò che abbiamo chiamato inconscio. Quest'opera di mediazione è attuata dall'Io, che, però, si limita ad accantonare i desideri, non potendoli distruggere. Essi emergeranno, pertanto, sottoforma di quei fenomeni che si sono definite "manifestazioni nevrotiche" e che, in ultima analisi, rappresentano una sorta di fuga dalla realtà e ritorno al principio di piacere.

Da queste premesse risulta che il principio di realtà è la causa prima della rimozione, e che essa, in quanto prodotto di una determinata cultura e società, è comune a tutta l'umanità. La capacità di svilupparsi culturalmente viene a coincidere con la capacità di essere nevrotico, "privilegio" riservato al solo uomo, "animale sociale".


Abbiamo visto come la cultura, caratteristica tutta umana, sia la causa della rimozione, e, dunque, della nevrosi. Và da se che differenti tipi di cultura provochino altrettante modalità di nevrosi, a seconda dei rapporti fra rimosso, Io e realtà. Va inoltre detto che, secondo Freud, ogni singola nevrosi non è statica, ma dinamica, e che pertanto, come afferma Brown, "dobbiamo accettare l'ipotesi che nel tessuto della storia si riveli una dialettica finora non riconosciuta dagli storici, la dialettica della nevrosi"4

Ma se ciò che accomuna gli individui di medesime culture è il legame con il proprio bagaglio culturale, allora l'inconscio rimosso che origina la nevrosi non è individuale, bensì collettivo; citando Freud: "nella vita del genere umano si può supporre sia accaduto qualcosa di simile a ciò che accade in quella dell'individuo"5.  Secondo la terminologia freudiana affermeremo dunque che "l'ontogenesi ricapitola la filogenesi (ogni individuo riassume la storia della specie): nei pochi anni dell'infanzia dobbiamo coprire l'enorme distanza che separa l'uomo primitivo dell'età della pietra dall'uomo civile di oggi. Ne consegue che la teoria della nevrosi deve abbracciare una teoria della storia, e che, per contro, una teoria della storia deve comprendere una teoria della nevrosi."6. La conclusione di Brown è quindi quella che il processo storico, essenzialmente manifestazione della nevrosi, poggia sul desiderio dell'uomo di divenire altro da ciò che è. Ma, dal momento in cui tale desiderio è fondamentalmente inconscio, ne consegue che l'uomo crea la storia senza essere consapevole di ciò che vuole realmente, né di come potrebbe porre fine alla propria infelicità: "di fatto ciò che sta facendo sembra che lo renda sempre più infelice, e che tale infelicità essa la chiami progresso." 7

La faustiana inquietudine dell'uomo, la sehn sucht dei romantici, afferma come l'uomo non rimanga soddisfatto dall'esaurimento dei desideri consci; a digiuno di psicoanalisi i romantici e Marx prendono lo scontento umano come un dato biologico (ne Il Capitale Marx parla dell'inestinguibile corsa al progresso). Riflettendo su quanto detto, la posizione di Marx ci parrà ovvia: egli infatti, sostenendo Hegel, vede i motori della storia nella Ragione e nel lavoro.

Ma la psicoanalisi offre ben altra risposta: il processo storico nasce dal Desiderio e dall'amore umani. Si suggerisce così "la possibilità di una via di scampo dall'incubo del progresso infinito"8: quando l'uomo si sarà liberato dal peso del suo passato e sarà in grado di portare alla coscienza i propri effettivi desideri (ora inconsci), potrà "cominciare a vivere invece di creare la storia, a godere invece di saldare i vecchi debiti, a entrare in quello stadio dell'Essere che era la meta del suo Divenire"9. Dunque è necessario intraprendere un percorso che conduca alla consapevolezza psicoanalitica di sé, compimento della consapevolezza storica, e meta di quella ricerca delle origini che ossessiona il pensiero occidentale dal Rinascimento in poi.


L'Eros

1)   Fondamentale diventa, dunque, lo studio delle origini e delle modalità con cui nevrosi e rimozione avvengono. Accertata la rimozione come prodotto dell'educazione, risulterà che i bambini, in un certo senso, non sono soggetti a rimozione. Infatti l'adulto, nei sogni e nella nevrosi, fugge dalla realtà verso il momento dell'infanzia (più felice perché antecedente alla rimozione); d'altra parte, però, egli fugge anche verso la vita sessuale. Questo perché alla vita sessuale di un adulto sarà sempre preclusa una soddisfazione effettiva, per quanto essa possa essere attiva; infatti "la sessualità normale degli adulti non è una necessità naturale (biologica) ma un fenomeno culturale."10 Precisamente la sessualità adulta viene deviata dal suo obiettivo (piacere) verso la conservazione di un'istituzione socialmente utile (famiglia), conducendo alla nevrosi. Al contrario la sessualità infantile, non ancora nevrotica, è la "gradevole attività di tutte le parti della superficie del corpo nonché degli organi interni"; perciò si parlerà di essa come del gioco polimorfo di tutte le parti del corpo. La sessualità adulta, dunque, consiste nella limitazione delle possibilità erotiche del bambino ad un organo particolare (genitali) e nella subordinazione dell'Eros alla meta sociale della procreazione: "un'innaturale restrizione delle potenzialità erotiche del corpo umano." Al contrario, dal punto di vista adulto, la sessualità infantile risulta pervertita. Alla luce di queste considerazioni possiamo dare un senso psicoanalitico alla massima cristiana del post coitum omne animal triste: Freud rileva come il piacere preliminare rappresenti un richiamo al gioco polimorfo puerile, mentre quello finale sia puramente genitale. Ecco da dove deriva l'impossibilità di una reale soddisfazione erotica attraverso l'atto sessuale adulto. A tal proposito Brown ricorda come al coitus reservatus (rapporto senza orgasmo), praticato da alcune sette eretiche, fosse "attribuita tanta importanza per l'igiene mentale"11.

Ma, dato che l'atto sessuale è subordinato alla funzione riproduttiva anche negli animali, come potremo affermare che la nevrosi è una peculiarità tutta umana? La risposta di Freud è che l'infanzia del cucciolo umano si differenzia da quella animale in quanto: a) è maggiormente protetta dai genitori; b) si perpetra per un tempo più lungo. Ciò fa sì che: da una parte nel bimbo fiorisca un'idea di realtà fittizia, coincidente con il principio di piacere; dall'altra che il piccolo sviluppi un passivo bisogno di essere amato e, dunque, una forte dipendenza dai genitori (questa tendenza è poi sfruttata per sottomettere il singolo al potere dell'autorità sociali). Per queste ragioni quando il bimbo deve fronteggiare infine la realtà vera e propria, subisce un trauma sconosciuto agli altri animali, dal quale non riuscirà mai a riprendersi.

Date queste premesse ci apparirà chiaro che l'agognato principio di piacere coincide, in ultima analisi, con l'attività piacevole di tutte le parti del corpo; ciò equivale a dire che l'"istinto di vita" altro non è che istinto sessuale (precedentemente definito anche come Eros o libido). Questa posizione mette "in discussione i presupposti psicologici su cui è costruita la nostra morale occidentale. Per duemila anni e più l'uomo è stato soggetto a un sistematico sforzo che lo voleva trasformare in animale ascetico; tuttavia egli rimane un animale che cerca il piacere."12

Il bambino della prima infanzia, difatti, è colui che non sa distinguere l'anima dal corpo; allo steso modo egli non distingue principio di piacere e principio di realtà: la sua esistenza è il continuo affermarsi della fondamentale forma di attività umana, il gioco. Questa attività, che si differenzia dal gioco convenzionalmente inteso, è definita da Freud come "ciò che unisce l'uomo all'oggetto del suo amore." In particolare, in un bambino che vede in se stesso l'oggetto dei propri desideri (in questo senso parleremo di narcisismo), il gioco sarà possibile; mentre nell'adulto, separato da sé stesso e dai propri desideri, in quanto individuo nevrotico, il gioco sarà sostituito, come fa notare Brown citando Veblen, dalla "competizione economica [.] gioco del possesso che discende in linea diretta dal gioco barbarico della guerra predatoria."

Ma se la nevrosi spinge l'uomo a ritornare allo stadio dell'infanzia, a sostituire il lavoro con il gioco, è chiaro che questo non sia possibile. Infatti Brown afferma con estrema chiarezza: "l'infanzia non si può recuperare [.] perché l'esperienza infantile di libertà e di concentrazione sul piacere ha un difetto fatale: non è scesa a patti con il principio di realtà."13; di qui il sostanziale pessimismo freudiano. Ma con la reinterpretazione  della teoria più matura di Freud, che, come già accennato, sostituisce al conflitto piacere-realtà quello vita-morte, si aprirà uno spiraglio verso la possibile sconfitta della rimozione.


Abbiamo rilevato come, differentemente dagli altri animali, il cucciolo di uomo sviluppi una forte dipendenza dai genitori. Ciò sembrerà in contraddizione con quanto abbiamo appena sostenuto, cioè che il bambino è in grado di non essere nevrotico perché "costituisce il suo stesso ideale" (cioè vede in sé l'oggetto del proprio desiderio). In realtà vedremo come questi due atteggiamenti non presentano alcuna contraddizione, dal momento che l'amore verso gli oggetti esterni si manifesta come riflesso dell'amore di sé.

Il modo infantile di rapportarsi con gli oggetti esterni segue, secondo il primo Freud, due modalità: la scelta oggettuale e la scelta narcisistica. La prima è il legame amoroso del bambino alla madre: nasce dal bisogno economico, di sopravvivenza; oggettuale poiché mira al possesso dell'oggetto. Tale atteggiamento è altresì definito per appoggio, perchè "si appoggia all'istinto non sessuale di autoconservazione"14. La seconda (scelta narcisistica) è quella che porta il bimbo, che vuole amare se stesso, ad amare: o un oggetto simile a sé, o un oggetto che lo ami come egli si ama; di qui nasce l'amore, per identificazione, verso il padre.

Negli scritti più tardi di Freud, invece, questa distinzione cessa di sussistere: l'amore oggettuale per la madre viene inglobato nella tendenza narcisistica. Il bisogno economico di autoconservazione risulta essere, dunque, una semplice componente dell'amore narcisistico dell' infante verso di sé. Per la proprietà transitiva, quindi, essendo che la scelta oggettuale porta il bambino a bramare il possesso dell'oggetto desiderato, ed essendo scelta oggettuale e narcisistica la medesima cosa, egli vorrà possedere tutto ciò che desidera. Ciò si traduce nella ricerca dell'unione totale con l'esterno, in modo tale che gli oggetti che il bambino desidera siano parte di sé.

Ma ciò, ovviamente, non è possibile; ad ogni modo, tenendo in considerazione l'affermazione di Freud secondo cui "noi rinunciamo a un oggetto amato (scelta oggettuale) solo a patto di poterci identificare con l'oggetto perduto"15, arriveremo a comprendere che il procedimento di identificazione può avvenire attraverso il "passivo modellarsi del Sé in modo da creare nello stesso Sé un surrogato dell'oggetto perduto" 15, e continuare così a possederlo.

Nell'unità che così si crea (narcisismo illimitato) il bimbo non distingue più il Sé dagli oggetti desiderati; amare gli oggetti esterni, quindi, coincide con il narcisistico amore di sé. Questo è quanto accade, infatti, nel mito di Narciso, il quale, per potersi vedere, necessita di una fonte in cui specchiarsi. Pertanto la meta delle pulsioni dell'adulto, in cui questa fusione viene meno, sarà sempre il ritorno allo stadio infantile in cui il bambino identifica la realtà con la madre e sperimenta l'unione del proprio essere con un mondo di amore e piacere. 

Ciò che impedisce a Freud di avanzare questa ipotesi è l'idea che il Sé e l'Altro si escludano a vicenda: egli riconosce che l'Eros si dirige verso gli oggetti esterni, ma non riesce a comprenderne la ragione, finendo per attribuirla ad un non precisato "straripamento del serbatoio narcisistico", di cui egli stesso appare poco convinto.

L'unità che l'adulto nevrotico va dunque ricercando è il ritorno alla condizione originaria in cui il bambino, al seno della madre, non distingue la libido dell'oggetto dalla libido dell'Io; pertanto la soluzione psicoanalitica alla malattia dell'uomo risulta l'abolizione di ogni dualismo, nel ritorno a quella fase, detta preambivalente, in cui la fusione iniziale tra istinti deve ancora essere interrotta.

Il giovane Freud vede questa idillica situazione di unione nella coincidenza, al seno materno, di istinto dell'Io (istinto di autoconservazione, cibarsi) e istinto sessuale; pertanto il conflitto in gioco risulta consumarsi tra economia e amore, tra lavoro e gioco.

Il Freud più maturo, invece, cessa di attribuire la rottura dell'equilibrio alla nascita del contrasto economia-amore, rintracciandola invece in quello tra Eros (che, come detto in precedenza, coincide con l'istinto di vita) ed il suo antagonista: la morte. Di qui il pessimismo freudiano, che affonda le sue radici nella convinzione secondo cui l'ambivalenza vita-morte sia insita nella natura umana stessa e che, pertanto, non sia guaribile. Gli studi di Abraham, al contrario, dimostrano come l'insorgere della tendenza a mordere in modo aggressivo il seno materno (fase collegata alla crescita dei denti) segni il primo emergere del conflitto amore-odio, e che, pertanto, dal momento che esiste la fase preambivalente, deve essere possibile il ritorno ad essa; o, per meglio dire, deve essere possibile il raggiungimento di uno stadio postambivalente.


La Morte

Arrivati a questo punto diventa necessario definire più chiaramente l'idea di istinto, analizzando in profondità il rapporto di ambivalenza tra gli istinti e le possibilità che tale studio ci apre. Il termine istinto tende a suggerire l'idea di un dato biologico inalterabile, che preclude pertanto la possibilità all'uomo di poter modificare la sua ben definita natura. Questa concezione dell'istinto risulta, però, come un rifiuto categorico di quanto affermato sinora, e finisce per rendere definitivamente l'uomo un animale nevrotico in continua corsa verso un piacere inconscio irraggiungibile. Ma riguardo la questione degli istinti, la teoria freudiana appare a tratti oscura, tanto da portare lo stesso Freud ad affermare: "gli istinti sono entità mitiche, grandiose nella loro indeterminatezza". Questi, però, risultano tanto vaghi quanto importanti: "non possiamo prescinderne, nel nostro lavoro, un solo istante e nel contempo non siamo mai sicuri di coglierli chiaramente." Questa incerta concezione di istinto può sopravvivere nella psicoanalisi, secondo Freud, perché, contrariamente a quanto accade in una teoria speculativa, "una scienza empirica si accontenterà di buon grado di alcuni sfuggenti e nebulosi principi di fondo di cui quasi non si riesce a farsi un concetto, sperando che essi si chiariscano strada facendo e ripromettendosi di sostituirli eventualmente con altri."16

Ricercando, però, anche solamente in modo generico, una definizione di istinto, diremo che esso è un concetto che sta a metà strada tra lo psichico ed il biologico: un rappresentante psichico degli stimoli originati dal corpo. Questa considerazione ci porta a concludere che gli istinti, da una parte sono comuni a tutti gli animali, dall'altra costituiscono una dualità antagonistica (riflesso del contrasto ragione-fisicità, base della nevrosi).

Da queste premesse vediamo ora come la teoria dualistica degli istinti di Freud abbia subito due radicali cambi di direzione. Ricordando quanto abbiamo precedentemente detto, la teoria degli istinti nasce dalla constatazione di un profondo conflitto nella vita psichica umana, che porta il giovane Freud a riconosce i caratteri di tale lotta nell'opposizione tra sesso ed autoconservazione; questa posizione scade quando la psicoanalisi realizza che la libido narcisistica è volta verso il soggetto e quindi non può più essere distinta dall'istinto di conservazione. Ciò conduce il medico viennese ad attribuire le cause della nevrosi al conflitto tra amore ed odio; ma, ancora una volta, la struttura così costruita cede sotto la scoperta di fenomeni (come, ad esempio, il sadismo) originati dalla fusione di questi due istinti. Il conflitto irriducibile risulta infine tra l'Eros, forza votata a conservare ed arricchire la vita, e la morte, che mira a ricondurre la vita alla pace prenatale attraverso il decesso. Solo in questi termini potremo spiegare le fusioni ambivalenti come il sadismo: esse costituiscono un compromesso tra queste due forze in perenne lotta. Infatti il sadismo nasce dalla trasformazione, operata dall'Eros, di un'estroversione dell'istinto di morte: il desiderio di morire diventa desiderio di uccidere. Così, una pulsione nociva per la vita viene trasformata in positivo, in modo tale da rispondere alla necessità di autoconservazione.

Ancora una volta, per rintracciare una possibile via di redenzione dalla nevrosi, sarà necessario andare oltre il pessimismo di Freud, che vede un'origine biologica in questo conflitto (e, pertanto, inestirpabile); né ci faremo bastare il magro conforto offerto da Freud nella conclusione che la nostra malattia è parte di una malattia universale della natura.

Questa conclusione, per di più, risulta in contrasto con quanto abbiamo sostenuto finora (cioè che solo l'uomo è nevrotico). Infatti, pur dando per scontato che, qualunque sia la natura del bipolarismo degli istinti, essa sussiste nell'uomo come negli altri animali, troveremo una notevole differenza nella modalità con cui, nei due casi, gli istinti si rapportano tra loro: "l'uomo si distingue dagli altri animali per aver separato, e infine posto in lotta, alcuni fattori della vita, gli istinti, che negli animali esistono in condizione di unità indifferenziata o di armonia"17. La necessaria distinzione che sussiste tra animale e uomo, quindi, risiede nella sottile differenza che intercorre tra dualismo e dialettica: l'umano dualismo degli istinti provoca la nevrosi; il rapporto dialettico, al contrario, permette all'animale un "equilibrio psichico" (per quanto possa apparirci singolare) originario e privilegiato. Piccola differenza, dunque, che comporta prospettive radicalmente opposte: "dialettica invece di dualismo significa metafisica della speranza invece che della disperazione".

La definitiva sconfitta del pessimismo freudiano, possibile grazie all'argomentazione di Abraham circa l'ipotesi di una fase postambivalente, permette l'idea di un ritorno all'originaria unità dei contrari.

Il ritorno ad una situazione primitiva di aggregazione indistinta, è un'intuizione che attraversa le pagine della filosofia di ogni tempo, partendo da Empedocle (che teorizza lo Sfero, massa unica e compatta primordiale nonché regno di Amore), e passando per Anassagora ed Eraclito, arriva fino a Marx ed Hegel. In questi, secondo Brown, si rintraccia l'influenza delle concezioni romantiche di Schiller ed Herder, dal momento che la storia dell'umanità viene concepita come "distacco da una condizione di indifferenziata unità del Sé con la natura, seguita da un periodo intermedio in cui le capacità dell'uomo si sviluppano attraverso la differenziazione e l'antagonismo tra Sé e la natura (alienazione), e da un ritorno finale a un'unità a un livello, o armonia, superiore."18

La prospettiva, dal chiaro sapore mistico, che Brown si auspica (e noi con lui) è la possibilità di redimersi dalla condizione di nevrosi universale attraverso la riunificazione degli istinti contrari.

Ma come si possono unificare Vita e Morte?


Necessaria, a questo punto del nostro percorso, diventa la definizione dell'istinto di morte. Freud, sotto questo generico nome, raggruppa tre diverse categorie di fenomeni: il rapporto tra principio di piacere e principio del nirvana; la coazione a ripetere; il complesso sado-masochistico.

Il principio del nirvana (biologicamente definito come omeostasi) è la tendenza, comune a tutti gli organismi, all'eliminazione delle tensioni ed al raggiungimento dell'inattività, del riposo e, dunque, alla morte. L'evoluzione di Freud lo ha portato da una concezione di sostanziale uguaglianza tra principio di piacere e principio del nirvana, all'idea che quest'ultimo fosse connesso all'istinto di morte. Questo perchè sembrava ovvio il nesso tra il principio di piacere e la libido (l'Eros che, al contrario, tende ad arricchire la vita). Una possibile soluzione alternativa si presenta nell'idea che "quel che a livello organico appare come statico principio del nirvana, a livello umano si manifesta come dinamico principio di piacere."19. Questo posizione mantiene la continuità tra uomo ed animali, ma, nel contempo, ne riconosce la sostanziale discontinuità. Infatti possiamo vedere l'omeostasi (principio del nirvana) come quel principio della vita organica che sussiste nella condizione di soddisfazione degli istinti, di una vita non rimossa (tipica del regno animale). Al contrario il principio di piacere risulta essere una modificazione del principio del nirvana, dovuta alla rimozione. Questa porta alla continua e dinamica ricerca della soddisfazione degli istinti, finalizzata al recupero della salute psichica; ciò si riflette nell'irrequieta aspirazione al principio di piacere, all'uomo faustiano che crea la storia, ormai diviso dalla sua origine naturale. La storia si caratterizza una volta di più come nevrosi, vale a dire un'inconscia tendenza all'abolizione di sé che permetta il raggiungimento del riposo. In questi termini la riunificazione del principio di piacere (Eros) e del principio del nirvana (morte) rende possibile la fine del processo storico ed una vita soddisfatta, perchè non rimossa.

La coazione a ripetere è definita da Freud come quel fattore comune a tutte le forme di vita organica che si manifesta prevalentemente nella tendenza degli istinti biologici alla conservazione. Esempi possibili ne sono la migrazione degli uccelli e dei pesci, le leggi dell'ereditarietà, ecc. A riprova di come negli animali Vita e Morte convivano attraverso un rapporto di fusione dialettica sta la convinzione browniana che in essi la coazione a ripetere (fenomeno dell'istinto di morte) e principio dell'istinto di conservazione (e, dunque, della vita) siano un tutt'uno. Ancora una volta, l'uomo costituisce un'infelice eccezione nel panorama biologico; infatti in lui i modi di agire della coazione a ripetere sono diametralmente opposti: "sotto il dominio della rimozione la coazione a ripetere stabilisce una fissazione sul passato che aliena il nevrotico dal presente e lo affida all'inconscia ricerca del futuro. Così la nevrosi manifesta la ricerca di novità, ma sotto di essa, al livello degli istinti, c'è la coazione a ripetere."20 La riprova più lampante di ciò sta nell'osservazione freudiana: "nel caso delle esperienze piacevoli il bambino non si sazia di ripeterle", mentre per gli adulti "la novità è sempre condizione del godimento." La rimozione, dunque, trasforma la coazione a ripetere (che è fuori dal tempo) in nevrosi, e per questo "fonda" il tempo stesso, ponendo inizio al processo storico. D'altra parte lo stesso Freud riconosce come il tempo non esista nei processi psichici inconsci.

Come già aveva sostenuto Kant, pertanto, il tempo è semplicemente frutto della nostra soggettiva (in quanto uomini) visione della realtà; e quale riprova più attendibile della soggettività del tempo se non la teoria della relatività di Einstein? Ma se Kant sostiene l'impossibilità di cogliere il noumeno (la realtà in sé), in quanto le possibilità umane di conoscenza della realtà dipendono dalle innate ed eterne forme a priori di spazio e tempo, la psicoanalisi si caratterizza, invece, come la scienza che ci dà la possibilità di sondare il noumeno di noi stessi: l'inconscio. Il carattere tipicamente faustiano dell'uomo ci rende difficile una concezione di eternità e riposo che si discosti dall'idea di cessazione di ogni attività, e, dunque, di morte. Ma ciò a cui mira l'abolizione della rimozione, non è la sostituzione della vita con la morte, bensì "la possibilità di un'attività (vita) che sia anche riposo."21 Ancora una volta le conclusioni di Brown ci appariranno come paradossi, ma non dobbiamo dimenticare che le innovazioni più folgoranti della psicoanalisi si basano proprio su questi oscuri ossimori, come quello appena citato della nevrotica ricerca del passato nel futuro, o sulle contraddizioni da cui origina (come vedremo) il complesso edipico. Questo sistema dialettico, tendente a conciliare gli opposti, apparirà più plausibile quando avremo scorto che la concezione di un'attività che sia al contempo riposo, affonda le sue origini in pensatori come Aristotele, Boheme e Schiller. Aristotele, infatti, definisce Dio motore immobile, l'atto perfetto senza movimento e, dunque, senza tempo; Boheme arriva oltre parlando dell'attività di Dio in "assenza di movimento"22, e definendo la vita di Dio stesso come un gioco, vale a dire un atto fuori dal tempo e non generato dalla mancanza; Schiller, infine, ci avverte che "la realizzazione del nostro essere non deve assumere la forma di una nevrotica irrequietezza [.], ma di un'attività che, trascendendo i cambiamenti e il tempo, si mantenga in armonioso equilibrio."23

A questo punto ci apparirà chiaro che la distinzione freudiana fra le varie forme di morte non è altro che l'espressione di una comune ricerca di completa soddisfazione degli istinti ed abolizione della rimozione: l'abolizione della storia, fine ultimo della coazione a ripetere, coincide con il raggiungimento del nirvana, fine ultimo del principio di piacere.

Ma solo il complesso sado-masochistico introduce nell'istinto di morte la morte vera e propria. Tale complesso deriva dalla "intercambiabilità dell'aggressività diretta all'esterno (sadismo) e di quella diretta all'interno (masochismo)"24; come già detto, l'aggressività diretta all'esterno si caratterizza come una deviazione dell'aggressività masochistica, in modo che, da negativa (poiché porta all'autodistruzione), divenga positiva. Ma, d'altra parte, Freud ritiene di non essere contraddetto dalla scienza biologica quando afferma che gli organismi muoiono per ragioni interne e che, pertanto, la morte è parte intrinseca della vita: "la meta di tutto ciò che è vivo è la morte."25 Dunque, l'umano dirottare l'aggressività verso l'esterno, il rifuggire l'istinto di morte, non riconosce equivalenti in natura. Infatti, la massima freudiana sembra suggerire che a livello biologico la vita e la morte non siano in lotta, ma che costituiscano un unicum, l'unità dialettica a cui si accennava in precedenza. Ancora una volta emerge che la vita e la morte, unite a livello organico, nell'uomo sono separate e poste in lotta. L'unicità del rapporto che l'uomo instaura con la morte non nasce dal fatto che all'animale manchi la consapevolezza di dover morire, bensì dal fatto che all'uomo manca la capacità di accettare questo dato di natura; per esserne convinti, ci basterà pensare alla millenaria storia della religione o agli infiniti tentativi dell'uomo di dare un senso determinato alla propria esistenza. D'altro canto il creare la storia, come già ripetuto, è prerogativa dell'uomo: contrariamente agli altri animali, non solo non è in grado di accettare che la morte sia parte della propria vita, ma non si serve nemmeno dell'istinto di morte nel momento in cui deve morire. Al contrario egli costruisce "aggressivamente" culture immortali e crea la storia per combattere la morte, trasferendo nella società il proprio desiderio di sconfiggerla. Ci basterà pensare all'ottica hegeliana, ripresa da Marx, secondo cui il lavoro, in quanto l'estensione del proprio essere nella natura, rappresenta la negazione della morte. Questo ci permette altresì di comprendere l'origine dell'aggressività umana dirottata verso l'esterno.

In conclusione: l'uomo rimuove l'istinto di morte esattamente come rimuove la libido e l'istinto di vita. In lui si verifica "la distruzione dell'unità biologica di vita e morte [che] trasforma il principio del nirvana in principio di piacere, la coazione a ripetere in una fissazione sull'infanzia e l'istinto di morte in un principio aggressivo di negatività."26 Una vita pienamente soddisfatta è tale nel momento in cui si affermano in essa e la vita e la morte, poiché insieme costituiscono la vera individualità del singolo: solo così, infatti, l'uomo potrà cessare di dipendere dal tempo e dalla cultura, in cui ricerca la propria soddisfazione e su cui riflette la propria frustrazione. Ecco come interpretare, secondo Brown, la saggezza di Montagne, per il quale apprendere la filosofia significa imparare a morire, oppure la massima di Rilke "chi capisce veramente la morte e la onora, al tempo stesso esalta la vita."27 Infine Brown, dopo aver puntualizzato come l'attitudine tipicamente umana all'angoscia rifletta una rivolta contro la morte, sostiene che "Kierkegaard si esprime come uno psicoanalista quando scrive: "Il tempo in realtà non esiste separato dall'irrequietezza; non esiste per gli ottusi animali che non conoscono affatto l'angoscia.""28


Precedentemente abbiamo affermato che la "sessualità polimorficamente pervertita" del bambino subisce una limitazione nell'adulto, il quale concentra la propria libido nella sola zona genitale. Questo è il risultato dei processi di sviluppo determinati prevalentemente dal complesso di Edipo e dal complesso di castrazione; lo sviluppo succitato avviene nel susseguirsi di tre momenti: la fase orale, quella anale, e quella genitale (fallica o edipica). Queste organizzazioni sessuali sembrano costruite contemporaneamente dal desiderio di morire, dall'angoscia e dalla fuga dalla morte; prima di analizzare ciascuna delle tre fasi, vediamo come ciò sia possibile.

Ormai sappiamo che la forma di amore che si sviluppa nella famiglia umana è più intensa del normale per il forte legame che nasce tra figlio e madre; questa stessa ragione sta a capo di una più intensa forma di morte. Infatti una delle conseguenze della morbosità del suddetto rapporto risiede nell'incapacità del bambino di accettare la separazione dalla madre (che corrisponde all'incapacità di accettare la propria individualità); quando questo momento necessario sopraggiunge, provoca l'attivazione di un morboso desiderio di morire, cioè di regredire allo stadio prenatale anteriore all'inizio della vita (e della separazione). Il trauma psichico più intenso nell'uomo risulta, infatti, l'angoscia di castrazione, vale a dire la "paura di essere divisi dalla madre, o meglio la paura di perdere lo strumento per riunirsi, mediante l'accoppiamento, con un surrogato della madre."29 Così il bambino sperimenta per la prima volta il senso di angoscia e morte; d'altra parte, come abbiamo visto, essendo "l'angoscia [.] l'incapacità dell'Io di accettare la morte", "le organizzazioni sessuali sono forse state costruite dall'Io nella sua fuga dalla morte, e potrebbero essere abolite da un Io abbastanza forte per morire."30. Si tratterà ora di comprendere nel particolare ciascuna di queste organizzazioni, attraverso le tre fasi a cui abbiamo accennato prima.

La fase orale è il momento in cui l'attività più importante è quella erotica della bocca al seno della madre, ma, altresì, quello della prima scoperta dell'angoscia di desiderare il seno materno senza poterlo trovare. In questo modo il bambino scopre il dualismo fra soggetto e oggetto. L'incapacità tutta umana di non riuscire a sopportare la separazione, su cui ci siamo soffermati in precedenza, trasforma l'istinto, che porterebbe a creare una propria individualità, in un rifiuto della realtà, a cui consegue la rimozione. Si sviluppa così un'aspirazione irreale a diventare ognuno il proprio mondo interno, che contrasta la tendenza narcisistica a divenire tutt'uno col mondo (l'attività orale, infatti, simboleggia l'incorporamento ed inghiottimento del mondo).

La fase anale, vedendo la chiusura del bambino nel proprio mondo interno ha, come conseguenza, il "gioco con le feci"31, vale a dire il gioco di imparare a trattenerle; infatti il trattenimento simboleggia la padronanza, il possesso del mondo. Questo atteggiamento è espressione, inoltre, della volontà del bimbo, una volta realizzata la propria dipendenza dalla madre, di negare tale subordinazione attraverso il tentativo di trasformare la propria passività in attività (l'esempio più lampante è il gioco infantile del "facciamo che io sono la mamma e tu il bambino"). Questa aperta ribellione contro la propria passività sta a capo dell'estroversione, sotto forma di aggressione, dell'istinto di morte verso la realtà esterna (se ne è parlato precedentemente). Brown sembra dare particolare importanza a questa fase dello sviluppo sessuale, tanto che vi dedica un'intera sezione de La vita contro la morte: in essa esamina le conseguenze, "rivoluzionarie per la scienza della cultura umana", di quello che egli stesso definisce "uno dei più grotteschi paradossi freudiani."32 Al contrario, a noi questo approfondimento non appare indispensabile per l'economia della nostra narrazione, e, pertanto, tralasceremo di trattarlo.

La fase fallica o edipica vede la continuazione della ribellione contro la passività. Questa volta, però, essa si manifesta come desiderio di attività a livello di riproduzione biologica: il bambino non rifiuta più il fatto di dipendere dalla madre, ma quello di essere nato da lei. Perciò l'aspirazione a trasformare la passività in attività emerge nel desiderio edipico di avere un figlio dalla madre, cioè di essere il proprio padre. L'essenza del complesso di Edipo è, quindi, quella di diventare Dio, o, come direbbe Spinosa, di essere causa sui. Le conseguenze di questo desiderio sono importantissime: da una parte la mascolinità viene fatta coincidere con l'attività; dall'altra la fantasia di divenire padre di sé viene associata al pene, con la conseguente concentrazione della libido nei genitali di cui si parlava in precedenza.

Ma il fondamentale passaggio dal complesso di Edipo alla normale sessualità adulta risiede nel complesso di castrazione, vale a dire la realizzazione di non poter divenire causa sui. Il complesso di castrazione: è la chiave della differenza psicologica tra i due sessi; provoca l'impossibilità di scatenare l'energia sessuale latente, che, repressa, crea la cultura (attraverso un processo di sublimazione che chiariremo più avanti); trasforma la dipendenza dai genitori nella dipendenza dalle autorità civili, religiose e morali.

Avendo attribuito alla fase edipica la responsabilità dell'aggressività umana, comprenderemo come, secondo quanto Freud sottolinea, i genitori non possono limitare l'aggressività infantile né con un comportamento indulgente né con la severità. Questa constatazione può aiutarci a comprendere come anche il complesso edipico e di castrazione si possano sviluppare senza alcun rapporto con la figura paterna. Prendendo in esame l'analisi di Freud sulle bambine, troveremo infatti che l'amore per il padre si sviluppa solo come conseguenza del rifiuto di avere lo stesso sesso della madre, e, pertanto, di non poter divenire causa sui (di qui nasce l'invidia del pene da parte della donna). Nel bambino, il complesso di castrazione nasce con la scoperta della differenza dei sessi, con la percezione della madre come "creatura priva di pene". Posti di fronte alle differenze sessuali, sia i maschi che le femmine traspongono l'opposizione alla madre in una preferenza per il sesso opposto al suo, una preferenza per la mascolinità, vista come il contrario della castrazione. Questa sembra essere la ragione dell'intrinseca tendenza della famiglia umana al patriarcato. Brown ricapitola la questione con estrema chiarezza:

La fuga dell'adulto dalla morte - l'immortalità promessa da tutte le religioni, l'immortalità dei gruppi familiari, l'immortalità delle relazioni culturali - perpetua il desiderio edipico di diventare padre di se stessi. [.] D'altra parte il confronto con il fatto della differenziazione sessuale dalla madre distrugge il carattere fisico-sessuale del desiderio edipico infantile. Il risultato è quindi [.] una desessualizzazione del desiderio edipico. L'uomo entra così in possesso di un'anima, distinta dal corpo, e di una cultura sovraorganica che perpetua la rivolta contro la dipendenza organica dalla madre. [.] Così il complesso di Edipo sopravvive ed è distrutto al tempo stesso. Il risultato è il pene desessualizzato, cioè un pene oppresso da fantasie edipiche, al quale è negato l'appagamento fisico. 33

L'ispirazione all'onnipotenza narcisistica (divenire causa sui) stabilisce come assoluto il dualismo fra il Sé e l'Altro (genitori), e, interiorizzando l'Altro (nel Super-io), dirige l'aggressività verso di sé; il complesso di castrazione, quindi, provoca la trasformazione del principio di morte (già divenuto aggressività) in un principio di autonegazione, e di negazione del proprio corpo.

La differenziazione sessuale della libido degli adulti è, dunque, una perdita della completezza sessuale. Considerando il conflitto uomo-donna (a questo punto risolvibile nell'opposizione attività-passività) come una manifestazione della più ampia lotta tra Vita e Morte, arriveremo a spiegarci perché, in ciascun sesso, l'inconscio non accetti la rimozione, ma voglia riconquistare l'unità originaria, vale a dire la bisessualità dell'infanzia.

Come Brown fa notare, la concezione di unità originaria dei due sessi e della tendenza alla riunificazione affonda le proprie radici in secoli di letteratura. Partendo dal mito dell'androgino di Platone, possiamo ricongiungerci a Boheme, che sviluppa la teoria per cui il peccato originario (nella psicoanalisi l'incesto con la madre) è "l'egoismo o un vano tentativo della parte di diventare indipendente dal tutto, che è concepito come un principio-madre."34 E, ancora, il misticismo taoista sostiene che "chi conosce la forza virile, eppure indulge alla debolezza femminile [.] la virtù eterna non gli sfugge mai. Questo è il ritorno allo stato dell'infanzia." Infine Rilke, sostenuto che "i sessi sono più imparentati di quanto si creda", "chiedendo a Dio di renderlo perfetto come artista, chiede di farlo ermafrodito."


La sublimazione

           La sublimazione è definita da Freud come una "cambiamento di meta e di oggetto della pulsione"; con ciò si intende che una pulsione, originariamente sessuale, trova il proprio soddisfacimento in uno sbocco socialmente o eticamente più utile. Per questo, secondo Brown, "il concetto di sublimazione comprende i paradossi più sconcertanti, ciascuno dei quali afferma un rapporto tra le attività culturali più elevate e le regioni basse del corpo, tra i procedimenti "razionali" degli adulti e i prototipi irrazionali dell'infanzia, tra le "pure"costruzioni spirituali e la sessualità."35

 Nell'ottica pessimistica freudiana per cui non è possibile abolire la rimozione, lo scopo principale della psicoanalisi risulta quello di sostituire le rimozioni con le sublimazioni, più vicine alle pulsioni originarie, in modo tale da creare un maggiore equilibrio nella psiche dell'uomo. Ma lo stesso Freud riconosce che attraverso la sublimazione non è possibile la piena soddisfazione della pulsione; pertanto, secondo questa visione, il recupero della sanità deve coincidere con l'adattamento alla civiltà. Viste le nostre precedenti considerazioni sulla malattia universale dell'umanità, e sulla civiltà come espressione di tale malattia, ci risulterà difficile credere in una soluzione simile al problema della nevrosi. Appare quindi chiaro che il compito primario della teoria psicoanalitica risiede, o quantomeno dovrebbe, nello sbloccare le rimozioni e portare sotto il controllo dell'Io l'energia sessuale fino allora rimossa.

Secondo Brown, la ragione per cui in Freud il concetto di sublimazione rimane fragile (tanto che parti del suo stesso pensiero sembrano sottrarre ogni distinzione tra sublimazione e nevrosi), sta nella sua incapacità di risolvere l'antagonismo tra uomo e civiltà; il dubbio freudiano tra la necessità di una terapia individuale ed una generale, spesso risolto a favore della prima, risulta, dunque, una limitazione delle potenzialità della psicoanalisi, che Brown si sforza di vincere. Capiamo, infatti, che il finalizzare la terapia individuale al recupero del singolo nella società, non risolve il problema ben più vasto e complesso a cui ci sforziamo di venire a capo.

Tanto più che Freud stesso ammette che la distinzione tra "normale" e "nevrotico", usata ai fini della terapia individuale, non ha alcuna valenza teorica a livello più ampio. Egli, infatti, condotta una meticolosa analisi circa l'irrazionalità di alcune sublimazioni culturali universali quali la devozione alla Chiesa, all'esercito, allo Stato, ecc è giunto a spiegare, ad esempio, la religione dicendo che al credente "l'accettazione della nevrosi universale [religione] lo sottrae al compito di costruirsi una nevrosi individuale". Da questa affermazione risulta limpida l'idea di un'equivalenza tra nevrosi e civiltà; questo intimo rapporto di coesione necessita di un'analisi approfondita della sublimazione.


Sembrerà quantomeno singolare l'idea di fondare una teoria psicoanalitica della psicoanalisi stessa, ma ciò risulta necessario al fine di non cadere in una teoria malata, e, dunque, inutile. Questa particolare necessità emerge in conseguenza alla difficoltà che essa incontra nello spiegare il processo attraverso cui si sostituisce l'inconscio con il cosciente.

Per Freud due sono le necessità affinché questo processo (denominato di traslazione o reminescenza), possa avvenire: innanzitutto per stabilire il contatto tra conscio ed inconscio è basilare la ripetizione nella vita reale della situazione (pensiero, evento, ecc) rimossa; inoltre il rapporto col medico deve essere tale da permettere un atto di amore (o odio) del malato verso questo, in quanto il processo di traslazione è essenzialmente libidico. Queste due condizioni, però, rendono chiaro come sia limitata la possibilità terapeutica sul lettino dello psicanalista; inoltre la nota di importanza data al contatto mistico tra paziente e medico, non sembra dirci nulla di nuovo rispetto alla cura mediante ipnosi, o, addirittura, all'esorcismo sciamanistico. In un secondo momento, perciò, Freud si corregge scrivendo che la riuscita della terapia dipende dalla capacità del paziente di elevarsi al di sopra della "grossolana vita istintiva."; naturalmente questa affermazione cozza contro le basi stesse della psicoanalisi, sostenendo un ritorno al dualismo di anima e corpo.

Ma prendiamo per buona l'idea che l'inconscio, per divenire conscio, debba trasformarsi in percezioni esterne perché il paziente le possa riconoscere (in quanto non vi può essere alcun canale diretto tra conscio ed inconscio). Dobbiamo allora spiegarci come ciò si possa verificare. Secondo Freud l'inconscio emerge alla coscienza attraverso la connessione casuale tra le parole, che deve poi essere opportunamente interpretata dal medico; ma che la semplice parola non abbia in realtà questo potere, dovrebbe essere chiaro allo stesso Freud, che ha scritto "la rappresentazione conscia comprende la rappresentazione della cosa più la rappresentazione della parola corrispondente."36 Inoltre la parola, non solo non è sufficiente, ma è perfino fuorviante: come vedremo nella sezione apposita, il linguaggio stesso ha le caratteristiche di una nevrosi. La mistica fiducia freudiana nel Logos sembra qui acquistare addirittura i caratteri di una psicosi; per questa ragione prima si parlava della necessità di un'analisi della psicoanalisi che le impedisca di cadere anch'essa nella malattia.

A questo punto, esclusa la possibilità della parola, l'immagine nel mondo esterno del proprio inconscio deve apparirci con caratteri diversi. Risulta chiaro, affrontando la tematica della sublimazione, che questi caratteri sono la società e la storia: "la storia dell'uomo, in quanto nevrosi soggetta alla legge del sempre crescente ritorno del rimosso, attraverso la sua lunga evoluzione che dal totemismo porta al monoteismo da un lato e allo Stato moderno dall'altro, ha proiettato in misura sempre maggiore il complesso di Edipo sul mondo esterno, dove può essere visto e dominato. [.] Così la civiltà fa per tutta l'umanità quel che dovevano fare i fenomeni di traslazione per l'individuo."37

Ecco, quindi, che società e storia, in quanto sublimazioni, sono l'immagine delle nostre pulsioni. Compresi i mezzi per poter focalizzare il proprio inconscio, è necessario affrontare la problematica del come guarire dalla nevrosi. Secondo la psicoanalisi ortodossa, individuati i desideri "autentici" dell'uomo, si deve procedere a sostituire le corrispondenti nevrosi con delle sublimazioni, che risultano meno repressive nei confronti dell'Es (il "serbatoio degli istinti"). Come già accennato in precedenza, questa soluzione non libera l'uomo dalla nevrosi, bensì lo fa apparire "sano" perchè trasforma la nevrosi in modo tale da renderla ordinaria nella società.

Ancora una volta, però, Brown individua una via d'uscita alternativa. La visione freudiana, che mira a "limitare i danni", prevede una fatalistica accettazione della nevrosi, in quanto la terapia è vista come una battaglia condotta dall'Io ed dal principio di realtà contro l'Es. Secondo Brown, il pensare di poter cambiare le parti di questa battaglia, cioè alleando l'Io e l'Es contro il principio di realtà, muta radicalmente la situazione. Il motivo per cui Freud non ha mai preso in considerazione questa possibilità, è perché riteneva che l'Io maturo dovesse prendere atto del principio di realtà e sostituirlo al principio di piacere. Ma il riconoscere il mondo per quello che è non esclude affatto che l'Io possa desiderare di cambiarlo o agire in modo da conformare la realtà al principio di piacere.


Il percorso condotto a fianco di Brown lungo la sua arguta revisione di Freud, trova il proprio coronamento nell'analisi della sublimazione vera e propria. Secondo Brown, per riuscire a comprenderla, dobbiamo comprendere come l'Io corporeo sia divenuto un Io separato dal corpo. Infatti la sublimazione, come la dottrina della distinzione dell'anima dal corpo, mira all'immortalità: deviando l'energia libidica (fisica) dalle sue mete originarie, la desessualizza, trasformandola in una forma di energia che definiremo spirituale. In tale modo l'uomo può illudersi di rendersi immortale.

         Come si è detto in precedenza, l'Io è il mediatore tra l'Es e la realtà esterna; ma, poiché l'Io dell'uomo non è abbastanza forte per accettare la morte, si protegge dalla realtà della vita e della morte rifiutandole, cioè attraverso una negazione. Ma, paradossalmente, questa risulta una forma più attiva di morte, che si sviluppa nella negazione del Sé (rimozione) e nella negazione dell'ambiente (aggressione). Come già sottolineato, tale aggressività verso l'esterno và di pari passo con la completa chiusura narcisistica dell'Io, da cui consegue lo sviluppo di una sorta di "riserva di libido narcisistica". Infine, essa viene indirizzata all'esterno, verso la realtà, sotto forma di sublimazione. Dunque, il mondo di sublimazioni che si viene così a formare, la civiltà, non è altro che lo specchio del proprio essere; per questo motivo è più che legittimo considerare lo sforzo attivo di cambiare la realtà per poter "riconquistare gli oggetti perduti"38, tipico della coscienza umana.

Il mondo che l'uomo crea è un mondo di fantasia. Per questa ragione la sublimazione non rappresenta il perpetrarsi nella vita adulta della sessualità infantile, bensì una continuazione dei sogni infantili. La riprova sta nella constatazione freudiana che i sintomi nevrotici non derivano dai fatti della vita sessuale infantile, quanto dalle teorie fantastiche sulla sessualità che i bambini costruiscono. Ecco spiegata la precedente affermazione che, con il complesso di castrazione e la fine della sessualità infantile, il bambino rinuncia al suo corpo ma non alle fantasie, che vengono successivamente trasmesse agli incorporei oggetti culturali (le sublimazioni). Di qui potremo dire che l'uomo della cultura è, in fin dei conti, l'uomo che sogna ad occhi aperti.

C'è però da sottolineare un altro fondamentale passaggio nel percorso verso la sublimazione che ci permetta di combinarla con la nascita del dualismo anima-corpo. Inizialmente l'Io corporale elabora dei compromessi fra spirito e fisico (cioè fra le fantasie e le organizzazioni della sessualità infantile); questo permette al bambino di rimane l'ideale di sè stesso, la meta dei propri desideri. Al contrario, l'Io corporale dell'adulto, strutturato dal complesso di castrazione, deve scindersi perché gli si chiede di operare una scelta tra anima e corpo. Ma egli non può abbandonare il corpo nè è forte abbastanza per rinunciare all'anima. Le fantasie, quindi, si distaccano dal corpo e vengono proiettate sulla mondo concreto, formando "quell'opaco schermo che si chiama cultura, attraverso il quale apprendiamo e manipoliamo la realtà." 38

La sublimazione, in definitiva, nega il corpo dell'infanzia e, perdutolo, cerca di costruirlo nel mondo esterno: la meta del processo culturale è la ricostruzione del corpo dell'infanzia. Per questa ragione la tendenza della psicoanalisi ortodossa ad isolare l'individuo dalla società, e l'incapacità di rintracciare nella civiltà i simboli dei desideri rimossi, dimostra, secondo Brown, una certa ottusità: "la psicoanalisi attua in pieno sé stessa solo quando diviene analisi storica e culturale."39 In questa prospettiva la sublimazione si qualifica come "ricerca della vita perduta [.], [caratteristica] propria di un organismo che deve scoprire la vita invece di vivere, che deve conoscere invece di essere."40. Essa perpetua, ancora una volta, l'incapacità dell'Io infantile di sopportare la piena realtà della vita e della morte; continua il meccanismo infantile (la fantasia) per "annacquare" (desessualizzare) l'esperienza al punto di rendercela sopportabile; e sviluppa la soluzione infantile: il sogno.

Alla luce di quanto detto, considerando la sublimazione un processo cumulativo (secondo la definizione dello stesso Freud), possiamo vedere come processi cumulativi quello dell'aggressione (rivolta degli istinti soffocati contro il mondo desessualizzato e inadeguato) e della nevrosi (rivolta contro il Sé desessualizzato e inadeguato).

Questa conclusione ci permette di spiegare il continuo aggravarsi della nevrosi universale a cui accennavamo nell'introduzione. Ma, nello stesso tempo, il lungo e tortuoso discorso di Brown ci ha suggerito diversi spunti per comprendere quali possano essere i mezzi attraverso cui approdare alla guarigione dell'umanità. Le seguenti tappe del nostro viaggio, mediante il confronto con altri autori, si baseranno proprio sull'approfondimento di tali suggerimenti.


La resurrezione della carne

Nell'ultimo capitolo della sua opera, Brown evidenzia quanto importanti siano le intuizioni di una certa mistica cristiana medievale e dei romantici: "ancora una volta la psicoanalisi completa il movimento romantico e può essere capita solo se interpretata in questa luce".

Il caso affrontato da Brown con particolare interesse è quello del filone di mistici cristiani, che, facente capo a Jacob Boehme, influenza poeti e filosofi come Blake, Novalis, Goethe, Hegel, fino a giungere a Freud (non a caso questi sono i poeti che secondo Freud hanno avuto il merito di essere i veri scopritori dell'inconscio). Infatti, contrariamente alla scolastica cattolica medievale, che ha operato una sintesi tra il cristianesimo e la filosofia greca, sostenendo la fuga dal mondo materiale e dalla vita (misticismo che Brown definisce apollineo, in chiaro riferimento a Nietzsche), Boheme ha sostenuto un misticismo che sta con la vita, che è il corpo, e cerca di trasformarlo e perfezionarlo (perciò dionisiaco). Abbiamo già visto in precedenza, proprio in richiamo a Boehme, che il corpo perfetto promesso dalla teologia cristiana è il corpo riconciliato con la morte. Ma anche altre posizioni del filosofo possono essere considerate valide alla luce del nostro percorso: l'elemento dell'amore-gioco ha un posto fondamentale nella vita dell'uomo; la morte non è concepita come un nulla, bensì come una forza positiva: in lotta dualistica con la vita nell'uomo caduto dal paradiso, in unità dialettica nella perfezione divina; l'insistenza sul carattere androgino della perfezione umana; l'aspirazione umana a ritrovare l'equilibrio e l'unità originarie di cui godono gli animali.

Il riferimento a Boehme è forse il più lampante tra le miriadi di intuizioni psicoanalitiche nascoste nelle pagine della storia, della letteratura e arte (come abbiamo visto strada facendo). Il biasimo di Brown si rivolge quindi, anche in chiusura, al modo ortodosso di praticare la psicoanalisi. Egli, infatti, si auspica il ritorno ad una scienza basata sul senso erotico della realtà (l'alchimia ed il saggio di Goethe sulle piante vengono presentati come l'ultimo sforzo dell'uomo occidentale in questa direzione), contrario alla tendenza imperante verso una scienza puramente intellettuale ed apollinea, su cui sembra vigere il dominio della "morte-nella-vita". (Quest'ottica apparirà meno stravagante quando si saranno trattate la questione del linguaggio e dell'arte.)

Ciò che colpisce ed affascina maggiormente Brown, infine, è il concetto di unità dialettica: "psicoanalisi, misticismo, poesia, filosofia dell'organismo, Feuerbach e Marx: questo è un raggruppamento eterogeneo; ma [.] comune a tutti è un atteggiamento della coscienza [.] in lotta per superare i limiti imposti dalla legge logico-formale della contraddizione."41 Questa coscienza dialettica diviene manifestazione dell'Eros, che, forza che ricerca la liberazione dalle catene della negazione, che compie un passo avanti verso quell'Io dionisiaco che non nega più.


La vita contro la morte ed Eros e civiltà

Quanto siano profonde le somiglianze tra la teoria browniana è le tendenze della Scuola di Francoforte, ritengo necessiti di una particolare evidenziazione. La stretta amicizia tra Brown e Marcuse, ed il successo parallelo che hanno ottenuto come guru del movimento giovanile antirepressivo americano degli anni Sessanta, parla chiaro. D'altra parte, il fatto che le due opere siano state scritte contemporaneamente, e che ritrovino una la propria affermazione nell'altra, la dice lunga sul diffuso sentimento di insoddisfazione ed inadeguatezza dell'uomo moderno di cui si è parlato. Ma tra i loro due capolavori, La vita contro la morte ed Eros e civiltà, si riscontrano anche alcune piccole differenze che ci parrà interessante individuare.

In Eros e civiltà, Marcuse si dedica ad una profonda critica, attraverso la rielaborazione di Freud, dei mali della società del suo tempo42; può far riflettere quanto quest'opera sia tuttora estremamente attuale (eccezion fatta per gli eventi politici a cui si fa riferimento, di cui però, purtroppo, possiamo trovarne senza difficoltà i corrispondenti odierni).

Ricordando quanto detto di Brown, ci accorgiamo della sostanziale affinità tematica; ma possiamo altresì rilevare che la trattazione di Brown è molto cauta con i riferimenti pratici e si rivolge principalmente alla necessità dell'uomo di conquistare la "consapevolezza di sé", che gli permetta di riunirsi alla più ampia sfera globale.

Al contrario, in Marcuse, il discorso è deviato prevalentemente verso l'aspetto pragmatico-politico della questione. I suoi frequenti parallelismi rendono l'opera, pertanto, a tratti opinabile. Altrettanto spesso emerge con eccessiva prepotenza il suo debito marxista, che si esplicita in formulazioni talvolta utopistiche. Lo stesso autore le definirà tali alcuni anni più tardi43. D'altra parte bisogna riconoscere che queste digressioni permettono una comprensione più concreta e immediata del significato dell'intera opera. Inoltre, la ricerca di un non eccessivo tecnicismo (peraltro dichiarata nell'introduzione) si concilia con l'intento di concepire un "saggio come contributo alla filosofia della psicanalisi - non alla psicanalisi stessa. Esso [.] non si addentra in quella disciplina tecnica che la psicoanalisi è diventata".

La nota di critica allo sterile tecnicismo che rileviamo in chiusura di frase pervade tutto Eros e civiltà, giungendo a coronamento nell'epilogo finale; di qui il titolo della sezione conclusiva: Critica del revisionismo neofreudiano. L'obiettivo di fondo del filosofo tedesco è infatti di imbastire un sistema analitico che tenti di "applicare quelle intuizioni psicoanalitiche respinte come tabù perfino all'interno della psicoanalisi stessa, utilizzandole per una interpretazione delle tendenze fondamentali della civiltà". Il riferimento alle "intuizioni tabù" chiama in causa le "speculazioni compromettenti", appartenenti alla "metapsicologia" freudiana, di cui la psicoanalisi ortodossa è accusata di essersi "sbarazzata". Il rischio che questo atteggiamento nasconde, denuncia Marcuse, è quello di fondare una critica "ideologica nel senso più stretto", vale a dire basata interamente sull'ordine costituito, che consideri la società come un "ambiente bell'è fatto" opposto all'individuo, e che non faccia alcuno sforzo per indagarne le origini e la legittimità. Ecco una formulazione più concreta dell'alleanza tra Io ed Es contro la realtà, al fine di modificare lo status quo, di cui parla Brown.

La presa di posizione critica verso la psicoanalisi ortodossa, che abbiamo evidenziato in Marcuse come in Brown, è la necessaria implicazione di un pensiero sistematico che si sforzi di analizzare i pro e i contra del vivere sociale moderno. Nella prima parte di questa sezione (precisamene in l'Eros) si è detto che "l'istinto raramente [è] compatibile con le leggi che permettono la vita civile". Quest'indiscutibile affermazione, però, non può essere considerata tale senza una meticolosa analisi di queste leggi ; un così ambizioso progetto, già in buona parte affrontato nel nostro studio di Brown, ci guiderà nella comprensione delle illustri osservazioni di Nietzsche, Orwell e Palahniuk che affronteremo nella prossima sezione: Le maschere.



GLOSSARIO


"L'incontro con Freud non può non essere un tuffo in uno strano mondo, in uno strano linguaggio: un mondo di malati, un linguaggio diagnostico spaventosamente tecnico. Ma questo strano mondo è il mondo in cui noi tutti viviamo."44

Il vocabolario di seguito nasce solo ai fini di rendere più comprensibile il lessico impiegato nella trattazione, pertanto non ha nessun valore rigoroso; può servire come "rifugio" nei momenti più oscuri della narrazione.

Coscienza: parte razionale, consapevole della psiche umana

Cultura: termine impiegato non nell'accezione di cultura letteraria, artistica, ecc, bensì come sinonimo delle costruzioni che ogni civiltà sviluppa (istituzioni, leggi, tradizioni, filosofia di vita, ecc).

Eros: vedi libido.

Es: è il "calderone degli impulsi ribollenti" (Freud); non conosce il bene e il male, ubbidisce solo al principio di piacere.

Inconscio: parte della psiche che contiene i desideri (prevalentemente di natura sessuale) che sono stati rimossi dal soggetto, perché ritenuti inaccettabili, peccaminosi, malvagi.

Io: luogo della mediazione tra Es, Super-io e mondo esterno; per questo Freud lo definisce servo di tre padroni. In particolare l'Io controlla la sfera delle azioni per cui l'Es non può appagare i propri bisogni e pulsioni senza superare le barriere che questo gli pone: perciò l'Es può cercare di aggirare la censura camuffandosi.

Libido: pulsione sessuale intesa come energia priva di un oggetto univocamente determinato.

Manifestazioni nevrotiche (sogni, ecc): tentativi di soddisfazione di desideri rimossi; sono un mezzo importante per accedere all'inconscio.

Nevrosi: malattia della psiche (non organica) provocata dalla rimozione, e dall'impossibilità di soddisfare i bisogni reali dell'uomo.

Principio di piacere: principio che domina la vita infantile, in cui il bambino tende a realizzare immediatamente i propri bisogni riuscendo anche a integrare e trasformare i dati percettivi attraverso la fantasia e a renderli conformi ai propri desideri: ad esempio in assenza del latte materno si calma succhiandosi il dito (cioè appaga il proprio desiderio grazie a un oggetto immaginario).

Principio di realtà: implica il differimento della realizzazione del bisogno, la selezione tra bisogni diversi, l'assunzione delle regole sociali e la presa di coscienza dei limiti che la realtà pone di fronte al singolo e alle sue esigenze.

Pulsione: aspetto dell'attività psichica che determina uno stato di eccitamento dell'organismo; possiamo considerarlo come la spinta di un determinato desiderio.

Rimozione: rifiuto, operato dall'Io cosciente, dei desideri che non può soddisfare.

Super-io: è la coscienza morale, l'insieme dei divieti e delle prescrizioni che fin da bambini ci sono stati impartiti dal mondo dei genitori e dal mondo circostante e che noi abbiamo "introiettato" assumendoli come modello ideale di comportamento.




















N.B. Le definizioni sottolineate sono prese da: La comunicazione filosofica vol 3, Massaro, Paravia

LE MASCHERE


Alla base della nostra critica si colloca la volontà di individuare le origini e la fondatezza di quello che è si soliti chiamare senso comune. Con tale formula si intende, nel linguaggio corrente, quell'insieme di certezze considerate assolute, nel loro determinato contesto, in quanto esprimono un'ottica condivisa. Alla luce del nostro discorso sull'umanità malata, dunque, una definizione siffatta sembrerà celare un equivoco di fondo. Infatti, secondo il nostro nuovo punto di vista, tali "verità" non risulteranno più valide per il semplice motivo di essere condivise; sarà vero, tutt'al più, il contrario: esse sono espressioni della nevrosi universale e dell'incapacità dell'uomo di costruirsi una realtà che soddisfi le proprie pulsioni. Il senso comune, dunque, più che il giudice imparziale a cui rivolgersi per legittimare il nostro operato, sembrerà essere un severo padrone che incatena subdolamente il libero pensare. Ecco di dove nasce la necessità di analizzare con cautela i dogmi che si abbattono sulla facoltà critica fino a farla coincidere col senso comune. Sarà indispensabile superare la profonda assuefazione che lega la mente a questi preconcetti e comprendere esattamente quali di essi possano essere considerati effettivamente confacenti ai nostri reali desideri.

Che le manifestazioni della cultura umana siano molto spesso delle maschere volte a nascondere una realtà differente, è una credenza che nasce ben prima di Freud. Secondo Nietzsche, il primo grande critico della morale precostituita, queste "menzogne millenarie" celano l'umana incapacità di affrontare l'esistenza in tutta la sua pienezza.

Ma un forte grido contro l'illusione del libero arbitrio si leva anche dalla letteratura e filosofia successive alla rivoluzione psicoanalitica. Oltre agli esponenti della Scuola di Francoforte, che abbiamo visto essere profondamente influenzati dalla teoria freudiana, anche autori come Orwell e Palahniuk sembrano covare un categorico rifiuto delle strutture mentali imposte. I tre paragrafi a seguire cercheranno di analizzare il messaggio di questi autori in relazione al discorso condotto nella precedente sezione.


Nietzsche: "Io non sono un uomo, sono dinamite"

Il percorso di "smascheramento" compiuto da Freud e Brown è sicuramente debitore, in buona parte, alla filosofia di Nietzsche. Il filosofo di Röcken, infatti, ha condotto una sistematica messa in discussione della civiltà e filosofia dell'Ottocento, che si è tradotta in "una distruzione programmatica delle certezze del passato"45. Però, contrariamente all'idea diffusa, Nietzsche non è affatto da considerarsi un pensatore pessimista, anzi: se da una parte critica l'ottimismo come segno di superficialità, dall'altra egli non risparmia il cosiddetto nichilismo passivo, rimproverandone il fatalismo e l'aspetto decadente, "che ammala tutto quanto tocca". Per questa ragione, accanto alla cospicua pars destruens, il pensiero di Nietzsche ingloba anche un'intensa pars costruens. Ora ci dedicheremo prevalentemente alla prima; la seconda verrà affrontata, invece, nella sezione dedicata a Il tempo.

Rintracciare i punti di contatto tra il filosofo tedesco ed il volto di Freud che Brown ci ha mostrato, non rappresenta una difficoltà. Basti pensare come la concezione di un'umanità universalmente malata su cui ci siamo basati finora è già presente nel Nietzsche che parla di "una di queste malattie della terra si chiama, per esempio, uomo". Vediamo da dove derivi questa sentenza.

Sin dal suo esordio Nietzsche denuncia una forte insofferenza nei confronti del modo di vita moderno: nella sua più importante opera del periodo giovanile si trova una prima formulazione della concezione di un'esistenza i cui istinti sono repressi dalla razionalizzazione della società. Con La nascita della tragedia, infatti, il filosofo rintraccia le origini della decadenza del mondo occidentale nel trionfo del razionalismo socratico sul vitalismo tipico della Grecia del periodo precedente. La castrazione della istintività, dunque, secondo Nietzsche, và di pari passo con la negazione dell'esistenza. Imbavagliare la realtà in rigide strutture razionali è il mezzo attraverso cui l'uomo si vuole ingannare dando un apparente significato alla fatuità dell'esistenza. L'accettazione della morale imposta, la cieca fiducia nel senso comune, rappresentano, in quest'ottica, i termini di una vita che svaluta le proprie potenzialità.

Ma il periodo giovanile, e in particolare quello de La nascita della tragedia, presenta altre tematiche che risulteranno interessanti nell'economia della riflessione sul tempo, e che, perciò, verranno approfondite nell'apposita sezione.

Particolarmente importanti per la tematica della disillusione sono, invece, altri due periodi della filosofia nietzscheana, definiti illuministico (o della filosofia del mattino) e della filosofia del tramonto. In essi Nietzsche sperimenta una scrittura aforistica e si distacca dai maestri giovanili (Schopenhauer e Wagner). Questo cambiamento di rotta lo porta a rifiutare l'arte come mezzo privilegiato per interpretare la realtà, ed a sostituirle la scienza. Ciò non deve fare pensare, però, che egli si adegui alla tendenza positivista o ai principi di assoluta fede nella Ragione dell'Illuminismo, anzi. La feroce critica al Positivismo condotta nella Seconda delle sue Considerazioni inattuali ce lo chiarisce: anticipando la dottrina del prospettivismo, sostiene che metafisica, scienza, religione e morale vanno di pari passo. Infatti si basano tutte su postulati che rappresentano solo delle convinzioni arbitrarie, talmente cristallizzate in noi da essere scambiate per verità oggettive. Ma per Nietzsche non esiste un criterio assoluto di verità o falsità, bensì esiste solo un numero infinito di interpretazioni possibili. La stessa scienza risulta, quindi, frutto dell'interpretazione umana, che varia a seconda degli interessi e del periodo storico. Cosa si intende, allora, per scientificità in Nietzsche? La formula che può riassumere il concetto è quella di chimica della morale. Così dicendo, ci si riferisce ad una sistematica critica genealogica, a ritroso, lungo la storia, al fine di mettere a nudo gli "errori" che gravano sulle menti umane. Ecco, dunque, che Nietzsche si offre di rispondere al quesito che ci siamo riproposti per questo capitolo: in quattro opere fondamentali, due del periodo illuministico, due di quello del tramonto, egli rintraccia le caratteristiche umane, troppo umane delle convinzioni comunemente considerate "divine", eterne, immutabili.

Le due opere del periodo illuministico che prenderemo in considerazione sono, appunto: Umano, troppo umano e La gaia scienza. La prima delle due, oltre ad affrontare il ruolo della scienza sopradescritto, ne traccia anche le finalità: essa deve inaugurare la filosofia del mattino, grazie alla quale il viandante (lo spirito libero) si emancipa dalle tenebre del passato (antiche convinzioni menzognere) e accetta la vita come "transitorietà e libero esperimento senza certezze precostituite". Ecco, ancora una volta, che Nietzsche viene incontro alle nostre aspirazioni. Ma è solamente in La gaia scienza che questo proposito si attua: si inizia quel processo di demistificazione di ogni certezza morale (ne parleremo a proposito del periodo della filosofia del tramonto), ma, soprattutto, metafisica. La distruzione di ques'ultima passa attraverso un profondo ateismo, che culmina nella celebre affermazione "Dio è morto". Se l'inesistenza di Dio è considerato un fatto talmente ovvio da non dover nemmeno essere dimostrato, si insiste, al contrario, su ciò che tale evento comporta. Dio, definito, "forma di ogni calunnia della aldiquà e menzogna dell'aldilà", impoverisce la vita terrena con le sua promesse fasulle di una possibilità oltremondana, e, nel contempo, rappresenta le menzogne che l'uomo si racconta per rassicurarsi su un senso dell'esistenza (in realtà assente), un rifugio attraverso cui si maschera la propria condizione peritura. Annunciando la morte di Dio, evento la cui portata non è realmente compresa dagli atei ottimisti ottocenteschi (che, abbattutolo, lo sostituiscono con dei "surrogati": lo Stato, la Ragione, il nazionalismo, il socialismo.), si apre una svolta epocale. Al senso di completo smarrimento in cui l'uomo viene gettato, deve rispondere affrontando senza timore il "mare aperto" delle possibilità che gli si aprono ora dinnanzi. Ecco, dunque, l'ottimismo eroico (o pessimismo tragico) di Nietzsche: la caduta di ogni certezza metafisica non viene accettata con fatalismo e spirito rinunciatario, bensì diventa il primo passo verso una nuova realtà di effettiva libertà. Individuare e svelare le "maschere", quindi, permette di rimuoverle, e di iniziare a costruire una nuova esistenza basata sulle proprie pulsioni, sulla vitalistica accettazione del mondo e su una ritrovata consapevolezza.

Ma le maschere che impediscono all'uomo di vedere la realtà in modo sincero sono anche, e soprattutto, quelle della morale. Ecco, dunque, che nell'ultima fase della sua vita Nietzsche inizia la sistematica distruzione dei valori etici della civiltà occidentale. Due opere del periodo della filosofia del tramonto sono particolarmente rilevanti sotto questo aspetto: Al di là del bene e del male e Genealogia della morale. L'obiettivo che il filosofo si pone è quello di scoprire la genesi psicologica della moralità, che viene infine definita come "l'istinto del gregge nel singolo". Un siffatto giudizio lascia già intuire le conclusioni della sua analisi: la voce della coscienza non è altro che la presenza in noi della autorità sociali da cui siamo stati educati, create al fine di mantenerci sotto il suo dominio. Il percorso che Nietzsche intraprende lo conduce ad individuare nella storia due tipi di morale: la morale dei signori e la morale degli schiavi. La prima riunisce i valori di forza, salute, fierezza e gioia, propri dell'aristocrazia cavalleresca; essi rispecchiano le cosiddette "virtù del corpo". Al contrario, la seconda esalta i valori antivitali del disinteresse, dell'abnegazione e del sacrificio di sè, "virtù dello spirito" propugnate dalla casta sacerdotale. Ma, essendo i valori della natura e della vitalità irresistibili per ogni uomo, và da sé che possa nascere nei sacerdoti un risentimento verso i guerrieri, il quale cela il cosiddetto l'odio dell'impotenza. Non potendo eliminare l'avversario sul piano fisico, questi cercano di dominarlo sul campo a loro più congegnale: quello spirituale. Il massimo esempio, dice Nietzsche, è quello della rivoluzione etica condotta dagli ebrei, "popolo sacerdotale per eccellenza"46: umiliati dalla sconfitta contro l'Impero romano, non avendo i mezzi per ribellarvisi, la conquistano con la subdola imposizione di una tavola di norme morali antitetica a quella cavalleresca. Dunque, così come, sul piano culturale, Graecia capta ferum victorem cepit, su quello etico-religioso la Giudea sconfitta sottomette Roma. Il mezzo attraverso cui ciò avviene è il Cristianesimo, religione che è frutto del risentimento dell'uomo debole verso la vita, portatrice di un vero e proprio rovesciamento dei valori. Infatti, il nostro studio di Freud ci suggerisce fino a che punto la totale anteposizione dello spirito al corpo, e la conseguente inibizione degli impulsi primari, non possa altro che produrre un uomo malato e represso, corroso dai sensi di colpa. Questo, secondo Nietzsche, spiega l'aggressività e crudeltà manifestata nella storia dalla casta sacerdotale della religione dell'amore; "la Chiesa" continua il filosofo "è ciò contro cui Gesù ha predicato". Se Cristo è, in fin dei conti, stimato da Nietzsche (che lo definisce un "santo anarchico"), la Chiesa rappresenta quel processo di chiusura di una libera filosofia in rigide strutture che ne castrano la sincerità.

Il processo che si deve quindi intraprendere è quello della trasvalutazione di tutti i valori, atto con cui l'umanità riprende in mano le redini di sé stessa e fonda una nuova morale, i cui valori siano "libere proiezione dell'uomo" e non tarpanti imposizioni esterne che l'uomo non sente sue. Ecco ribadita, ancora una volta, la necessità di fare piazza pulita di quei surrogati di piacere che abbiamo chiamato sublimazioni; e di "smantellare" il Super-io, quell'"l'insieme dei divieti e delle prescrizioni che fin da bambini ci sono stati impartiti dal mondo [. ] e che noi abbiamo "introiettato" assumendoli come modello ideale di comportamento", sostituendoli con un'ottica del mondo completamente personale, che rispecchi le nostre effettive pulsioni vitalistiche.


George Orwell e la Scuola di Francoforte

Negli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Seconda Guerra mondiale i nuovi mezzi di comunicazione dimostrano il loro potere d'influenza sulle masse. Il terrore della borghesia di una rivoluzione socialista e il protezionismo economico del post '29 permettono la diffusione, nell'Europa degli anni Trenta, di una tendenza alla chiusura nazionalista, favorendo l'ascesa al potere di governi conservatori e reazionari. L'esempio del fascismo italiano, d'altro canto, gioca un ruolo fondamentale nella nascita di regimi totalitari in gran parte del mosaico di Stati uscito dalla Grande Guerra. L'ostinato utilizzo dei moderni mezzi propagandistici attuato dalle varie dittature fa tremare gli intellettuali di tutta Europa, che comprendono immediatamente l'enorme potere di plagiare le menti delle classi più umili che questi possono avere. In particolar modo lo scoppio della Seconda Guerra e gli scempi perpetrati da Hitler, accettati dal popolo tedesco in nome della cieca fiducia nel Führer (costruita ad hoc), saranno la massima denuncia di questo nuovo fenomeno.

Tra gli intellettuali maggiormente in apprensione per questa situazione, una particolare importanza è da attribuirsi a George Orwell. Negli stessi anni in cui nella Scuola di Francoforte si compie quella sintesi tra Freudismo e Marxismo di cui abbiamo a lungo parlato a proposito di Marcuse, lo scrittore anglo-indiano compone due tra i più grandi capolavori della letteratura inglese del Novecento: La fattoria degli animali e 1984. Il primo è un'acuta parodia del regime staliniano, che Orwell, socialista convinto (tanto da recarsi volontario in Spagna, nel '38, per combattere l'esercito franchista), conduce in nome del suo totale rifiuto di "ogni forma di dominazione dell'uomo su altri uomini". La medesima ragione fa sì che, al termine della seconda guerra mondiale, egli esprima, in 1984, le sue preoccupazioni per il futuro dell'umanità. L'orizzonte che immagina per i decenni a venire, vede la Terra divisa in tre grandi Stati, retti da dittature in perenne lotta tra loro. La libertà dell'uomo è completamente repressa attraverso una politica di proselitismo coatto: la Polizia del Pensiero supervisiona ogni ambito della vita privata; viene creato un Nuovo Linguaggio per limitare le possibilità di espressione; la scrittura è vietata; ogni tentativo di autonomia intellettuale viene punito con spietati lavaggi del cervello o coi lavori forzati. Secondo Orwell non esiste alcuna via di fuga da questa condizione: ogni tentativo di ribellione viene definitivamente stroncato attraverso la sofferenza psichica e fisica. Così Winston, il protagonista del romanzo, finisce per piegarsi e rinnegare ogni suo ideale, ogni suo sentimento, e la stessa capacità di pensare. Un pessimismo tanto profondo nasce dalla consapevolezza, che avvicina lo scrittore inglese ai francofortesi, che ogni mente può essere manipolata dal "sistema di persuasione sociale" (formula con cui Vattimo definisce i mass media, la pubblicità, la propaganda politica, ecc). In modo affine ad Adorno ed Horkheimer, dunque, Orwell è convinto che l'industria culturale e le strutture di dominio, di cui sopra, abbiano il potere di sottomettere il pensiero umano, fino a portarlo alla negazione della propria stessa esistenza.

Un simile trionfo della distopia, e in ambito letterario e in ambito filosofico, non lascia scampo a dubbi circa l'ottica dominante nel Novecento. La continua evoluzione in negativo di questa tendenza, sempre più giustificata dai fatti storici, rivela l'assoluta necessità di un mutamento che porti l'uomo a gettare via le gravose maschere, a far emergere i propri desideri e la propria essenza al di sopra di strette strutture ritenute "socialmente utili", ma che in realtà appaiono sempre più superflue e devastanti. La ricerca dell'indipendenza dalla forma mentis serva del senso comune, quel "marchio di fabbrica" della società moderna, risulta necessaria non solo al fine di evitare di cadere sotto il completo dominio mediatico, ma anche in vista di una riconquista della libertà intellettuale, della comprensione del proprio essere, dei propri desideri, delle proprie pulsioni.


L'anarchismo di Palahniuk

Tra gli autori contemporanei che perpetrano una simile visione della società e che predicano la liberazione dalle sue oppressioni, Chuck Palahniuk ricopre un'importanza fondamentale. In una società votata al consumismo come quella occidentale odierna, in particolare quella statunitense, la sua voce ha trovato un vasto sostegno. Infatti, la veemente carica nichilista dei suoi romanzi colpisce un contesto sociale che "crea schiavi illusi di essere liberi", automi trascinati all'autodistruzione, in balia della sfrenata competizione e dell'eccessiva importanza attribuita all'apparire. I media, dal canto loro, rivestono un ruolo fondamentale in questo processo, dal momento che ci spingono a "comprare cazzate che non ci servono". Da questa stretta dipendenza dalle cose futili nasce un profondo rigetto della status quo.

Così, l'incantevole modella protagonista di Invisibile monster non riesce più a sopportare la gravosa responsabilità della sua bellezza, né la vacuità di un'esistenza che si nasconde sotto un'apparenza di felicità. Sfigurandosi ed abbandonandosi alla massima sregolatezza, da sotto il velo nero che costantemente indossa, riesce a liberarsi ed apprendere ciò che conta veramente nella vita.

Similmente, in Soffocare, un miserabile sessodipendente, Victor Mancini, per pagare le spese ospedaliere della madre, sfrutta il bisogno delle persone di essere ritenute importanti. Recandosi ogni sera in un diverso ristorante, fingendo di soffocare per colpa di un boccone andato di traverso, attende di essere salvato da uno dei commensali; l'eroe della serata, in realtà vittima, diventa quasi un padre adottivo per Victor, ed inizia a mandargli dei soldi per benevolenza. Dopo anni di questa strategia, Victor si ritrova a ricevere assegni da persone di cui non ricorda nulla, ma che gli sono grate per aver dato un senso alle loro vite.

Ma è Fight Club che definirei il più interessante esperimento di Palahniuk. La vicenda si svolge in una dimensione a metà tra sogno e realtà, in cui un anonimo protagonista, schiavo del consumismo e della sua mobilia, conduce l'apatica esistenza dell'impiegato americano della classe media. L'insonnia lo tormenta impedendogli di vivere; ma finalmente, quando sembra iniziare ad intravedere una via di uscita, compare Tyler Durden, il personaggio che rivoluzionerà la sua esistenza. Grazie a lui riuscirà a liberarsi dagli obblighi sociali che lo abbattono, ed i due fonderanno assieme un "club clandestino di pugilato come forma radicale di psicoterapia": "invece che su Tyler, ho sentito che finalmente potevo mettere le mani su tutto quello che nel mondo non funzionava. Niente era risolto alla fine del combattimento, ma niente contava." Ben presto, però, il piccolo circolo si ingrandisce ed ingloba gran parte degli ex abulici borghesi d'America che ricercano un riscatto scagliandosi contro la società. Più il protagonista sconfigge l'insonnia e riesce a dormire, più Tyler trasforma il club in una vera e propria associazione a delinquere di stampo anarchico, che mira alla distruzione totale della società moderna. Il colpo di scena finale rivela che Tyler è in realtà il protagonista stesso, e che una crisi di doppia personalità lo porta ad essere, quando crede di dormire, il suo alter ego vincente.

Fight Club sembra quasi un moderno romanzo freudiano, dove l'inconscio del protagonista emerge nel sonno e, libero dal controllo della coscienze e del Super-io, soddisfa la propria natura. Si combinano in Palahniuk, inoltre, diversi elementi che abbiamo precedentemente rilevato: l'esortazione di Durden "non essere mai completo, smettila di essere perfetto.Dai, evolviamoci! Le cose vadano come devono andare!" sembra richiamare il vitalismo e l'irrazionalismo nietzscheani, mentre la sentenza "le cose che possiedi alla fine ti possiedono" può corrispondere alla denuncia della dipendenza dell'uomo dalle sue volgari costruzioni. Infine, non può mancare un rimando alla concezione francofortese del controllo delle masse attraverso i mezzi di comunicazione. La posizione di Palahniuk è bene espressa dalle citazioni seguenti: "la pubblicità ha spinto questa gente ad affannarsi per automobili e vestiti di cui non hanno bisogno. Intere generazioni hanno svolto lavori che detestavano solo per comperare cose di cui non hanno veramente bisogno." E, ancora: "noi siamo figli di mezzo della storia, cresciuti dalla televisione a credere che un giorno saremo milionari e divi del cinema e rockstar, ma non andrà così. E stiamo or ora cominciando a capire questo."






ARTE E LINGUAGGIO



Lo studio di Brown ci permette ora di esaminare due fondamentali forme di espressione che si rileveranno degli importanti sbocchi per la libido repressa: l'arte ed il linguaggio. Come vedremo, la prima permette un momentaneo sollievo psichico attraverso l'allentamento della rimozione; il secondo risulta un nevrotico surrogato delle effettive potenzialità umane di comunicare.

La nostra analisi dell'arte, partendo, da uno spunto di Brown, si rivolgerà ai movimenti di avanguardia artistica del primo Novecento che hanno manifestato la volontà di sondare l'oscurità della psiche umana, trasponendola su tela. Di pari passo, l'esame browniano del linguaggio permetterà un riferimento alla poetica simbolista e decadente.


L'ARTE


L'Eros e l'arte

Secondo il punto di vista di Brown risulta necessario costruire, all'interno della struttura della psicoanalisi, una teoria che affronti la questione dell'arte, assente invece in Freud. Ciò che ha portato il medico viennese a ha tralasciare di dar vita ad un sistema che concerna il significato e le potenzialità psicoanalitiche dell'arte, è l'incertezza che deriva da "un'ambiguità più profonda, che è al centro della teoria psicoanalitica: se [.] l'uomo sia dominato dal principio di piacere o dal principio di realtà."47; le risposte che egli dà alla questione sono spesso contraddittorie, ed oscillano tra il consiglio a rinunciare agli istinti, quello a liberarli, ed un compromesso tra i due atteggiamenti.

Freud, in Il motto di spirito, rintraccia un nesso tra arte e principio di piacere, affermando che questa si fonda sul processo primario, vale a dire sui procedimenti dell'inconscio. E' indispensabile puntualizzare che tali procedimenti, per quanto diversi da quelli logici del sistema conscio, hanno ugualmente un significato ed uno scopo.

Considerare l'arte come espressione del principio di piacere, mette in dubbio, secondo Freud, la sua validità. Infatti, tenendo in conto la "ambiguità più profonda" a cui sopra si accennava, tale considerazione può portare ad una duplice conclusione: l'idea di una redenzione dalla nevrosi che passi attraverso il sacrificio degli istinti al principio di realtà, fa scadere l'arte al livello di un mero surrogato di soddisfazione, immagine dell'ostinato "rifiuto dell'umanità di farla finita con gli infantilismi. Al contrario, se l'uomo è destinato a cambiare la realtà fino a renderla conforme al principio di piacere"48, l'arte appare come la soluzione finale.

Ma la nostra conoscenza dell'edificio psicoanalitico ci permette di comprendere come la via della rinuncia agli istinti sia la via che conduce all'autodistruzione. D'altro canto, nemmeno un ottimismo troppo semplicistico, che veda la cura della nevrosi nella completa liberazione sessuale degli istinti, ci è parsa una soluzione attendibile.

In questo contesto la possibilità dell'arte acquista un'importanza ancora maggiore. Tanto più che, secondo Brown, la costante artistica presente in ogni civiltà sembra essere un'ulteriore prova a sostegno della "indistruttibile dedizione dell'uomo"49 al principio di piacere. Quanto l'esistenza di un legame diretto tra arte e principio di piacere faccia pensare alla connessione arte-infantilismo, risulta scontato per chiunque abbia una benché minima conoscenza di Freud.

L'arte, così definita, diviene il mezzo attraverso cui poter recuperare l'ideale regno del piacere passato. Una siffatta visione richiama la dottrina platonica dell'amore (nel Fedro) secondo cui la febbrile ricerca del bello è manifestazione della lotta per ritrovare la perduta visione della perfezione. E, quindi, la psicoanalisi sembra poter porre fine alla millenaria controversia filosofica fra l'empirismo e la dottrina dell'anamnesis (delle idee innate), poiché sostiene che l'infanzia è la condizione archetipica, l'originaria perfezione a cui l'uomo sempre tende.

Un altro passo fondamentale è compiuto da Freud quando, non limitandosi a mettere in relazione l'arte con l'inconscio e l'infantile, distingue l'arte dai sogni e dalle nevrosi. Infatti si dice che, se questi sono i modi di espressione dell'inconscio rimosso che non lo possono liberare, l'arte, al contrario, è uno sbocco consapevole dell'inconscio. Finalmente, essa si caratterizza come una ricerca del piacere che permetta la reale soddisfazione dei desideri. "L'arte si rivela allora, come la psicoanalisi stessa, un modo di rendere conscio l'inconscio."50 Ma, essendo l'arte un'irruzione momentanea dell'inconscio nella coscienza, essa deve essere in grado di affermarsi contro la ragione ed il principio di realtà: "il suo scopo è la presentazione velata di una verità profonda; per questo porta una maschera, un travestimento che confonde e affascina la nostra ragione."51 Superando queste inibizioni (il veto dell'Io cosciente) l'arte attiva il processo del gioco, permettendo all'uomo di riunirsi momentaneamente all'oggetto del proprio desiderio: ciò allevia la pressione ed il dispendio psichico dovuto all'attività di rimozione.

Il contatto che avviene tra l'artista ed il pubblico è quello dell'identificazione: devono entrambi soffrire delle medesime rimozioni per potersi comprendere; ma, avendo definito la nevrosi come un fenomeno collettivo, tale difficoltà viene meno. Questo, secondo quanto afferma Freud in Psicologia delle masse ed analisi dell'Io, è all'incirca quanto accade nel legame tra i membri di un regime totalitario. Se lo scopo dell'arte, quindi, è quello di liberare dalla rimozione, ed essendo la civiltà stessa rimovente, l'arte risulta un tentativo sovversivo di rovesciare la civiltà, di creare una nicchia rivoluzionaria.


In definitiva l'arte è: un ritrovamento della condizione infantile che, liberando i desideri rimossi, rende possibile l'attività del gioco; un mezzo per rendere momentaneamente conscio l'inconscio; un'unione di uomini in lotta per la liberazione degli istinti.


Arte e psicoanalisi nelle Avanguardie artistiche: il Surrealismo

Lo stesso Brown riconosce che, sia la sua teoria sull'arte, sia i pochi concetti sparsi da Freud nelle varie opere, siano stati anticipati dai movimenti culturali precedenti; di particolare rilievo risulta la concezione romantica, bene espressa da Rilke. Secondo il poeta tedesco, infatti, l'arte è pura libertà, vale a dire totale assenza di autocontrollo, autolimitazione e scopo. Questa idea lo porta a considerare l'arte una "manifestazione di ingenuità ed istintività infantili", nonché rifiuto di iniziazione all'ordine esistente: per questa ragione il solo artista è in grado di vivere in una condizione di fedeltà a ciò che era nell'infanzia.

L'influenza fondamentale che le formulazioni di questi pionieri hanno avuto sull'arte successiva si rileva in diversi movimenti artistici della prima metà del Novecento. Tra le varie correnti che prendono il nome di Avanguardie, una sembra accogliere con particolare entusiasmo le intuizioni romantiche e la lezione freudiana: il Surrealismo. Il Surrealismo nasce come una sorta di "evoluzione" del Dadaismo; per questo motivo è necessario un accenno ai caratteri fondamentali del movimento suo predecessore per comprenderne e contestualizzarne la portata rivoluzionaria.

Durante la Grande Guerra, New York e Zurigo diventano le capitali degli intellettuali bohemien d'Europa e dei politici esiliati dai governi belligeranti; in questi due focolai culturali si alimenta un marcato rifiuto della guerra e di tutta la cultura che l'ha generata. Per questo, nei salotti delle due città, si diffonde, contemporaneamente ed in modo del tutto autonomo, un clima di radicale rifiuto del progresso, il quale sembra condurre a condizioni di vita diverse, ma non migliori: "la storia non si stava dimostrando un flusso verso il bene, ma un flusso fatto dal caso."52 Questa comune ottica contribuisce a sviluppare l'idea che il caso, appunto, possa essere l'unica regola anche nell'arte. D'altra parte il forte "spirito di rivolta contro le istituzioni ed i valori tradizionali, finì per legittimare come procedimento artistico quasi ogni tipo di azione"53. Ecco la ragione per cui questa radicale avanguardia addotta la definizione di antiarte per le proprie opere. Di pari passo, il termine "Dada" (coniato nel 1916 dal gruppo più attivo del Cabaret Voltaire di Zurigo), nome sotto cui successivamente si riuniranno questi intellettuali, nasce come una provocazione. Per quanto non sia certa l'origine etimologica, le pur differenti teorie lo confermano: si dice che nasca dalla canzonatura di due Rumeni del gruppo, soliti intercalare i loro discorsi con frequenti "da" (da=sì); che la scelta di questo nome venga dalla casuale apertura di un dizionario su questa voce; che esso rappresenti un'onomatopea dei gorgheggi infantili. Certo è che, al di sotto di queste vaghezze, sta la convinzione che ogni credenza etica, politica e anche estetica sia relativa e discutibile. "I Dadaisti non volevano proporsi come rivelatori di verità nuove, ma anzi come i portatori di un modo di fare e di conoscere fondato sul dubbio, sulla perdita di fiducia in qualsiasi sistema."54 Ne è l'esempio più lampante l'enigmatica figura di Marcel Duchamp.

Su questa eredità si fonda il movimento surrealista. Esaurita in breve tempo la carica iniziale, della contestazione dadaista, priva di alcun obiettivo definito, non rimangono che le ceneri. Da queste nasce, negli stessi anni, la fenice surrealista. Alla sostanziale continuità di critica verso l'orizzonte borghese europeo, si combina, però, nel Surrealismo una tendenza costruttiva, assente nel periodo precedente. La nascita del Surrealismo è dovuta ad Andrè Breton: vero è proprio padre del movimento (soprannominatone, infatti, il Papa carismatico) :"fanatico ed entusiasta, intransigente dal punto di vista morale, [Breton] era in grado di ispirare una devozione cieca e di raccogliere proseliti alla sua causa". In breve tempo, difatti, riesce a convertire gran parte degli artisti dada al suo primo Manifesto (1924). Studente di medicina, venuto a conoscenza delle teorie di Freud, ne è immediatamente folgorato, tanto da voler conoscere il medico viennese. L'incontro lascia profondamente deluso Breton, che non condivide la scarsa importanza data da Freud all'arte. La teoria bretoniana, infatti, consiste nel salvaguardare e proteggere i "malati" perché in grado di dare libero sfogo ai poteri creativi a-logici; chiaramente, questa posizioni incontra l'opposizione di Freud, convinto della necessità di doverli curare. L'episodio non scoraggia Breton, che amplia invece la sua teoria fino ad arrivare a redigere un secondo Manifesto, in cui coniuga la ribellione morale portata dal pensiero psicoanalitico di Freud con la ribellione sociale proposta da Marx.

Ma l'idea di una terapia psicoanalitica allargata all'intera società, che porti alla liberazione degli istinti e fugga dalla razionalità pura, non è l'unico punto di contatto che si può individuare tra il Surrealismo e Brown. Infatti, la stessa idea browniana che l'arte possa far emergere l'inconscio alla coscienza, e soddisfare così la libido, è un'eventualità presa in considerazione dai surrealisti. In questo, la combinazione dei cadavres exquis e dell'automatismo psichico risulta un connubio di eccezionale importanza per l'esame dell'inconsico.

La tecnica dei cadavres exquis prevede che sia fatto passare un foglio tra alcuni persone e che, ciascuna di esse, continui un disegno comune senza poter vedere l'immagine precedente. Analizzando la pratica, sembrerebbe che in tal modo la libido possa riuscire ad emergere, aggirando la barriera imposta dall'Io, e rappresentare simbolicamente (nel disegno) un desiderio. La libido riesce a compiere quest'azione spingendo l'Io a riconoscere nella piccola porzione di disegno visibile, attraverso la fantasia, l'inizio di un'immagine che in realtà ricalca il proprio desiderio.

L'automatismo psichico, anche detto scrittura automatica, consiste, invece, nel lasciare che il pennello o la penna disegnino senza progetto, senza controllo, senza una guida mentale imposta al movimento della mano. Si può pensare che, in questo modo, un rilassamento del controllo cosciente permetta la momentanea fuoriuscita del desiderio dall'Es inconscio.

Uno dei massimi esecutori di questa tecnica fu lo spagnolo Juan Mirò. La sua pittura consisteva, infatti, nella radicale esemplificazione delle forme e nel rifiuto di ogni impianto prospettico, in modo tale da dipingere secondo le modalità infantili. In questo modo all'artista era permesso, esattamente come ad un bambino, di esprimere delle immagini surreali, perché libero dal modo di pensare convenzionale. La creazione artistica così ottenuta venne definita da Mirò un gioco combinatorio, che mescolava figure casuali che stessero in rapporto le une con le altre senza un progetto preliminare.

Non va dimenticato, però, che non solo il Surrealismo si fece portatore di questa tendenza al dare forma artistica all'oscurità del proprio io e al ricercare una pittura che si rifacesse al gioco infantile. Ci basterà pensare, infatti, all'astrattismo di Kandinskij e Klee, oppure al cubismo di Picasso, di cui fa riflettere l'affermazione: "a tredici anni dipingevo come Raffaello, ci ho messo una vita per imparare a dipingere come un bambino."


IL LINGUAGGIO


Contrariamente al carattere momentaneo dello sbocco libidico concesso dall'arte, la liberazione del linguaggio dalla nevrosi offre la possibilità di una soddisfazione ben più ampia e definitiva; la sua realizzazione è strettamente connessa, però, con la capacità di riconciliare Vita e Morte, quella trasformazione in dialettica del loro dualismo.


L'Eros e il linguaggio

Seguendo ancora una volta il percorso di Brown, affrontiamo ora la questione del linguaggio. In termini psicoanalitici si afferma che il linguaggio riveste il compito fondamentale di deviare la libido da mete sessuali a mete sociali costruttive; per questa ragione può essere considerato come sessualità sublimata. L'origine del linguaggio, infatti, risiede nella vita infantile del gioco, del piacere, dell'amore verso la madre; la sua base è, dunque, essenzialmente erotica: prima ancora di essere linguaggio del lavoro e del principio di realtà, lo è dell'amore e del principio di piacere. Come ricorda Brown, "non inizia come mezzo per un fine, ma come istinti vocali senza scopo, come reazioni estetiche primitive ed associazioni sognanti di idee." Imparare a parlare si caratterizza, nel bambino, come un gioco che, successivamente, gli permette di arricchire ulteriormente la vita dei propri giochi.

Ma quando la parola viene sottomessa al principio di realtà, subisce il destino di qualsiasi altra componente libica: diviene un sintomo nevrotico. Per quanto al senso comune possa apparire mostruoso che, questa prova evidente della nostra superiorità sugli animali, sia una malattia, è necessario considerarla come tale per procedere nella nostra indagine con onestà intellettuale.

Come abbiamo appena individuato, nel linguaggio si rintracciano una componente di gioco, ed una di malattia. Attraverso uno degli ossimori tanto cari alla psicoanalisi potremo allora definirlo un "gioco nevrotico". Questa formula, nella psicoanalisi ortodossa, viene utilizzata per definire la magia. Di qui la ragione per cui la base dello studio di Brown sul linguaggio sta nel considerarlo come magia.

La magia, secondo Freud, nasce dalla fede, tipica del bambino e del primitivo (l'uomo non civilizzato), nell'onnipotenza dei pensieri e dei desideri. Il considerare la parola come magia permette a Brown di affermare che "il bambino e il primitivo si accontentano del gioco e della rappresentazione imitativa non perché, consci della propria impotenza, si rassegnino a questi surrogati, ma perché evidentemente essi danno un valore eccessivo ai loro desideri. Il gioco e la malattia sono i due aspetti del linguaggio considerato come pensiero che può soddisfare i desideri, [.] indelebile eredità dell'infanzia che ricerca un senso erotico della realtà."55

Ecco, dunque, che il recupero della capacità di sviluppare la comunicazione originaria, il linguaggio non malato, si manifesta come un ritorno allo stadio di unità erotica ed armoniosa con il tutto naturale. La necessità di trascendere il linguaggio attribuisce all'arte il ruolo di recuperare la nostra natura sensuale; l'idea stessa di ineffabilità richiama il peso della rimozione dell'Eros nella civiltà, e permette di immaginare cosa potrebbe essere l'uomo moderno se recuperasse la propria natura e con essa la capacità di esprimersi attraverso un linguaggio sensuale.

A tal proposito Brown si rivolge ancora una volta alla sensibilità intellettuale passata per spiegare il suo punto di vista. Già prima di Freud, ci ricorda, Jakob Boehme aveva definito il linguaggio di Adamo come "limpido specchio dei sensi [.] lingua sessuale e naturale"56; grazie a questa sconosciuta sensibilità comunicativa è permessa la messa in atto delle vere potenzialità della natura sensuale e sensuosa dell'uomo, un livello di mistica armonia con il tutto naturale. QQQQquesta possibilità è preclusa all'uomo, ma non agli altri animali:

"Nessuno sa più capire la lingua dei sensi ma gli uccelli nell'aria e gli animali nella foresta la capiscono a seconda della loro natura. L'uomo deve quindi riflettere su cosa gli è stato tolto e su cosa riavrà rinascendo. Perché tutti gli spiriti si parlano con la lingua dei sensi, e non hanno bisogno di altro linguaggio, perché quello è il linguaggio della natura."


Il "linguaggio sensuale" del Simbolismo

Una minima conoscenza del panorama letterario di fine Ottocento ci permette di riconoscere una denuncia alla "malattia del linguaggio" non solamente nella mistica del XVI secolo, bensì anche nella poesia moderna. Per questa ragione appare più che doveroso il riferimento alla corrente letteraria che ha esaltato al massimo il ricorso all'irrazionalismo ed all'intuitività della parola (poetica), al fine di sondare quella realtà naturale a noi oggi sconosciuta: il Simbolismo.

Quella simbolista è una fase della letteratura europea che si inserisce in un periodo ben più ampio: il Decadentismo. Per avere una chiara visione delle tematiche, delle matrici e del significato profondo del Simbolismo risulta quindi d'obbligo localizzarlo nel suo contesto storico-letterario.

Il termine "Decadentismo" compare per la prima volta nel sonetto Langueur del poeta francese Paul Verlaine, in cui afferma di "identificarsi con l'atmosfera di stanchezza e di estenuazione spirituale"57 propria dell'Impero romano agonizzante. Questo stato d'animo, diffuso nella cultura del tempo, ricalca una condizione di noia e vuoto a cui l'uomo risponde con una eccessiva pomposità, e letteraria e architettonica (basti pensare all'Art Nouveau), quasi a volerla coprire, mascherare.

La percezione della fatuità dell'esistenza nasce dal rifiuto della visione positivistica, "sostrato dell'opinione corrente "borghese" [.] cristallizzata in luoghi comuni"58, alla cui presunzione di poter garantire una conoscenza oggettiva, si contrappone un "irrazionalismo misticheggiante" che sostiene che l'essenza del reale è "al di là delle cose, misteriosa ed enigmatica". Nella società di massa del meccanismo produttivo sempre più impersonale (per averne un'idea basterà pensare a Tempi moderni di Charlie Chaplin, anche se decisamente successivo) gli individui perdono la loro fisionomia peculiare, riducendosi a rotelle di un ingranaggio sempre più perfezionato che ne condiziona comportamenti, idee e scelte; il rifiuto del poeta lo porta a rifugiarsi nella natura, tempio di quelle Corrispondenze cantate da Baudelaire nel famoso sonetto da I fiori del male:


La Natura è un tempio, dove colonne vive

lasciano a volte uscire confuse parole;

l'uomo vi passa attraverso foreste di simboli

che l'osservano che sguardi familiari.


Come echi lunghi che da lontano si fondono

in una tenebrosa e profonda unità

vasta quanto la notte e quanto la luce,

i profumi, i colori e i suoi si rispondono.


Ci sono profumi freschi come carni infantili,

dolci come oboi, verdi come praterie

- e altri corrotti, ricchi e trionfanti,


che hanno l'espansione delle cose infinite,

come l'ambra, il muschio, il benzoino e l'incenso

che cantano gli abbandoni dello spirito e dei sensi.


Tale intesa trascendente può addirittura trasformarsi in una vera e propria fusione tra uomo e natura; questo atteggiamento, volto a potenziare all'infinito la propria vita fino a renderla divina, prende il nome di panismo, dal nome del dio greco Pan, simbolo della selvatichezza e bestialità. La caratteristica, particolarmente importante nel nostro caso, che lo psicologo e analista junghiano James Hillman (autore di Saggio su Pan, Adelphi) evidenzia in questa figura, è la sua coincidenza con quella forza, relegata nel subconscio, nascosta nella penombra, che, quando riesce a sfuggire al controllo della coscienza, emerge con una forza incontrollabile. Di qui la sostantivazione dell'aggettivo panico, con accezione negativa, attuata dal Cristianesimo. Dunque, questa pulsione interna all'uomo, che possiamo identificare con la libido rimossa, porta ad un ritorno allo stato di natura, ad una confusione, una compenetrazione che richiama il "sì" totale al mondo: l'accettazione dell'esistenza in ogni sua parte. Al contrario, tale visone cozza con lo spiritualismo cristiano (morale degli schiavi), e deve essere sottoposta ad una demonizzazione e rimozione.

Uno tra i più alti esempi poetici di esaltazione di questo legame totalizzante ci arriva dall'Alcyone dannunziano; a riguardo Guido Baldi commenta: "l'esperienza panica è un trasumanar, un valicare la condizione umana, liberandosi dalla contingenza, attingendo ad una dimensione ignota dell'esperienza comune, raggiungendo il cuore di un'esistenza superiore e divina, del Tutto; è una sorta di estasi." Questo corso si evince in particolar modo, oltre che nella celeberrima lirica La pioggia nel pineto, in Meriggio di D'Annunzio.


Non ho più nome.

e sento che il mio volto

s'inodora dell'oro

meridiano,

e che la mia bionda

barba riluce

come la paglia marina;

sento che il lido rigato

con sì delicato

lavoro dell'onda

e dal vento è come

il mio palato, è come

il cavo della mia mano

ove il tatto s'affina.


E la mia forza supina

si stampa nell'arena,

diffondesi nel mare;

e il fiume è la mia vena,

il monte è la mia fronte,

la selva è la mia pube,

la nube il mio sudore.



E la mia vita è divina.


Il ruolo del poeta è, dunque, quello di veggente. La sua spiccata sensibilità diventa la chiave d'accesso ad una verità nascosta. Egli può spingere lo sguardo là dove l'uomo comune non vede nulla, attingere a dimensioni nuove dell'essere, rivelare l'assoluto. Ecco per quale ragione per "farsi veggente" si deve passare attraverso lo "regolamento di tutti i sensi"59: la sensibilità dell'uomo comune deve essere alterata per accedere a così alte sfere. Ma, contrariamente all'isolata tendenza elitaria di D'Annunzio, la funzione del poeta è quella di permettere a chiunque di comprendere il reale senso dell'esistenza: ecco perché Rimbaud parla del poeta come "ladro di fuoco". Richiamando il mito di Prometeo, egli allude alla rivolta del poeta contro la tradizione e, nello stesso tempo, alla sua ambizione di rivelare agli altri uomini i segreti dell'ignoto. In questo contesto l'arte, e la parola poetica, diventano i mezzi privilegiati per dar voce al mistero; esse obbediscono solo a sollecitazioni profonde, a supreme Illuminazioni (di qui il titolo della raccolta poetica di Rimbaud). Ma se la poesia deve suggerire uno mondo così indefinito, così ineffabile, come si diceva, certamente non può avvalersi della struttura logico-razionale della parola; ecco quindi che essa assume un valore puramente suggestivo, evocativo e simbolico. Sembrerà di sentire Brown leggendo: "La parola smarrisce la sua funzione di strumento comunicativo immediato e ricupera quella ancestrale di formula magica, capace di rivelare l'ignoto, di mettere in contatto con un arcano al di là delle cose."60.

La nota formula pascoliana con cui definire il veggente rimbaudiano, è quella del fanciullino. Agli antipodi dell'ottica dannunziana dello sprezzante superuomo, il poeta è, secondo Pascoli, colui che riesce a far rivivere l'umile fanciullo presente in ogni uomo; egli rappresenta la voce infantile della meraviglia, un'intuitività irrazionale, fuori da ogni logica ordinaria. La sua attività si caratterizza come fantastica e simbolica, ed il suo valore è regressivo e consolatorio. Ancora una volta, quindi, la formulazione di Brown trova eccelsi predecessori nella letteratura europea: oltre che accanto alla tendenza decadente e simbolista francese a considerare necessario uno ristabilimento del contatto sensuale con la natura, egli trova posto come erede del pensiero di Pascoli quando ritiene il ritorno allo stadio infantile conditio sine qua non per la riconquista dell'unità perduta.


La letteratura americana del secondo Novecento

Volendo fare un corrispettivo ancora più recente del simbolismo e panismo decadente, appare interessante scoprire ciò che le pagine di Big Sur ci hanno consegnato. Questo romanzo, uno dei più celebri di Jack Kerouac, descrive in modo sublime il senso di soffocamento, di cui si è parlato a più riprese, provocato in modo sempre maggiore dalla società moderna. A questa sofferenza viene contrapposta la dimensione di pace interiore che l'autore riesce finalmente a ritrovare nella vita selvaggia di Big Sur, località della California affacciata sul Pacifico (peraltro luogo di ritiro spirituale di un altro grande autore americano del Novecento: Henry Miller). La vita che Jack, nome anche del protagonista del romanzo, può condurre a Big Sur, alloggiando nella capanna dell'amico Monsanto (Lawrence Ferlinghetti), incastrata ai piedi di un canyon accanto ad un torrente, è quella del più diretto contatto con la natura, del più assoluto isolamento dal mondo esterno e dalla vita reale. Ma la dimensione di Big Sur è ben lontana dall'idillica arcadia virgiliana. Fin dalle prime pagine la prosa spontanea di Kerouac riversa come un fiume in piena l'ambivalenza di un paesaggio tanto maestoso, equilibrato e splendido quanto terrificante, roboante, angoscioso, inquietante:

Il mare azzurro dietro le alte onde che si frangono è pieno di enormi scogli neri alti come antichi castelli d'orco gocciolanti melma bagnata, un miliardo d'anni si sventure laggiù, il grosso scimmiesco orco del male proprio laggiù con le sue sbavanti labbra di spuma alla base.

Questa natura così tragica, nell'accezione nietzscheana del termine, provoca un sentimento duplice, a cui l'uomo risponde fuggendo in continuazione, ma finendo per ritornarvi inesorabilmente. A tale avvicendamento corrisponde un'alternarsi nella narrazione di momenti frenetici, in cui Jack si rifugia nella sicurezza della civiltà, che al contempo è ansietà, e momenti di divina pace e infatuazione, che nascondono una vaga preoccupazione. Ma negli istanti di massimo amore buddista ed armonia con questa natura spaventosa, si verifica una vera e propria compenetrazione panica tra uomo e mondo. L'uomo stabilisce un contatto diretto con la natura che trascende i limiti del nevrotico linguaggio umano; il rimbombo del mare pronuncia parole che un cuore aperto può distinguere:

Una notte mi spaventai e così sedetti sulla cima d'uno scoglio alto tre metri ai piedi della grande scogliera e le onde facevano: "Mattiniero, ha battuto alla porta mattiniero.", "Scorticato ruu rombo.", "Craasc.", come fa il suono delle onde specie di notte. Il mare non parla tanto a frasi quanto a brevi versi: "Quale? quello nel tonfo. nel tonfo quello? Proprio lui ah tuona."


Un'altra possibile occasione di confronto con la letteratura americana contemporanea può trovar voce nel romanzo di Marlo Morgan .E venne chiamata due cuori. L'esperienza autobiografica dell'autrice (in parte romanzata) rivela il contatto con una tribù aborigena australiana, nella quale la follia del mondo moderno non sembra essere penetrata. La Vera Gente (così si definiscono i membri della tribù) ritiene che il mondo sia avviato all'autodistruzione, a meno che i Mutanti (gli uomini civilizzati) non ascoltino il loro messaggio. Ed il messaggio che la Vera Gente ci manda attraverso la Morgan è che "anche privati del più piccolo agio cui la vita ci ha abituati, condividendo la vita quotidiana degli aborigeni, imparando i loro segreti per sopravvivere, [si] scopre un altro mondo e un altro modo di essere, in completa armonia con la Natura, con se stessi e con gli altri, e [si] comprende il vero significato della parola esistere."

IL TEMPO E LA MORTE


Si è detto in L'interpretazione psicoanalitica della storia che l'uomo, per l'incapacità di sopportare non solamente l'idea di morte, ma anche quella di vita, trasforma la dialettica dei due istinti in un dualismo. La conseguente divisione tra anima e corpo, l'aggressività verso il mondo esterno (che si manifesta nella necessità di dar vita ad una cultura che renda l'uomo immortale), la nascita del processo storico, ecc si manifestano nell'umana perpetua insoddisfazione ed inettitudine a vivere. Trasformare la negazione in affermazione della vita, accettare la morte e rendersi fautori del proprio destino, diventano, una volta per tutte, le necessità primarie. In questo termini si inseriscono alla perfezione le riflessioni di due grandi pensatori: Nietzsche e Seneca. E' interessante scorgere come, due personalità così distanti, riescano ad essere conciliate e possano contribuire a formulare una comune conclusione.

L'opportunità di cambiare i termini del rapporto tra i modi dell'esistenza e la personale concezione del tempo è un momento fondamentale: la lotta con sé stessi, infatti, è una lotta col tempo. La frenesia del fare, ottenere, rincorrere, godere impedisce di scorgere il senso dell'esistenza. Gettare un'ancora sufficientemente salda nelle acque di questo torrente impetuoso non è cosa da poco, ma sembra l'unica possibilità per vincere l'alienazione ed iniziare a costruire consapevolezza dell'oggi. L'acume di Nietzsche e la saggezza stoica di Seneca possono essere un grande aiuto, a ciascuno di noi, per trarre la nostra personale conclusione.


Nietzsche

L'altra faccia di Nietzsche, la più interessante, quella pars costruens spesso fraintesa o banalizzata, è fondamentale per scoprire quanto il filosofo tedesco possa combinarsi, e completarsi, nell'analisi freudiana e browniana dell'uomo.

Si era in precedenza accennato (in Le maschere) ad alcune tematiche emergenti dall'opera di esordio del filosofo tedesco, La nascita della tragedia, che meritavano un maggiore approfondimento.

Il trattato filologico-filosofico del giovane Nieztsche sembra fornire una personalissima diagnosi psicologica dell'uomo moderno, rintracciando le cause della decadenza della cultura occidentale nelle figure di Socrate e Platone, i sommi padri dell'intellettualismo filosofico. E' al loro pensiero, secondo Nietzsche, che si deve l'imbavagliamento degli istinti da parte della ragione ed il sacrificio delle passioni più autentiche in nome dell'astratto ideale di virtù. Ma, prima di loro, in un tempo in cui l'uomo viveva una maggiore libertà, alla natura umana era permesso di manifestarsi in tutta spontaneità. Quest'età divina è l'era dello spirito dionisiaco: l'era dell'impulso umano vigoroso e libero da convenzioni sociali; dell'energia caotica ed irrazionale che simboleggia un'ideale di estremo amore per la vita. La origine etimologica del termine richiama la figura del dio greco del vino, e, dunque, della gioia e della vitalità.

Ad un momento successivo si deve l'avvento, finalizzato a controbilanciare un così violento impeto, dello spirito antagonista: l'apollineo. Apollo, dio dell'equilibrio, della pacata contemplazione dell'esistenza, è, altresì, dio del Sole ed Arciere, che vede ma non tocca, mantiene le distanze, padrone della dimensione del sogno. In quanto simbolo dell'ordine e della serenità, si scontra con la febbrile eccitazione dionisiaca; nel momento in cui questi due impulsi trovano una mediazione avviene, si legge, un "meraviglioso atto metafisico": nascono le opere più sublimi che l'uomo abbia mai creato. Il particolare riferimento di Nietzsche è alla tragedia attica di Sofocle ed Eschilo: in essa la sintesi perfetta avviene col reciproco controbilanciamento del ditirambo dionisiaco dei satiri con l'equilibrio dionisiaco dell'eroe. Ma nel momento in cui Euripide sradica il pathos epico introducendo tematiche quotidiane (con intento moralistico), Apollo sopraffa Dioniso. La filosofia di Socrate, stando a Nietzsche, non è altro che la trasposizione di questa sconfitta nel pensiero filosofico. Ecco, dunque, che la forza vitale dionisiaca viene violentata dall'uomo teoretico, e l'uomo tragico soccombe nella lenta agonia della civiltà. L'unica possibilità di redenzione risiede, quindi, nel ritorno all'epoca tragica; ciò può avvenire solo attraverso il mezzo dell'arte, la cui natura metafisica permette ancora di comprendere il vero senso del mondo (di qui il concetto di metafisica da artista). In particolare, tra le arti, la musica ricopre un ruolo di particolare importanza: in essa, e nella fattispecie quella romantica di Wagner (amico del filosofo), si ritrova l'ideale della rinascita della cultura tragica.

Pertanto, esattamente come abbiamo visto in Brown, l'apollinea dimensione del sogno è un semplice specchio della vita reale; essa di fatto rappresenta la negazione dell'esistenza. Apollo è il dio che ha insegnato all'uomo ad estrarsi dal corpo ed innalzarsi verso la sfera celeste, a credere ad un mondo "vero" trascendente da quello reale. Il trionfo apollineo segna l'inizio della sublimazione, della separazione dell'anima dal corpo, del dualismo Vita-Morte e dell'allontanamento dalla stato di natura. Al contrario, la trasformazione della negazione apollinea nel dionisiaco "sì" totale al mondo porta l'uomo ad accettare l'esistenza così com'è, senza scopo né ordine; l'uomo dionisiaco è colui che non tenta di racchiudere la vita in forme razionali e rassicuranti, perché la vita è impeto e passionalità. Dunque, mentre l'Io apollineo è l'Io dell'organizzazione genitale, l'Io dionisiaco è il ritrovato Io corporale; ristabilire l'unità dialettica degli istinti, dunque, restituisce all'uomo la propria esistenza: riunisce maschio e femmina, il Sé e l'Altro, Vita e Morte: "l'uomo dionisiaco non è più artista, è opera d'arte".


D'altra parte abbiamo visto in Le maschere che la liberazione dalle "menzogne metafisiche ed etiche" è la base per poter affrontare il "mare aperto" delle possibilità. Lo sgomento ed il vuoto prodotti dalla morte di Dio e dall'autosoppressione della morale, pertanto, devono essere superati e riempiti per costruire una nuova realtà ad immagine e somiglianza della vera essenza, personale, dell'uomo. Dunque, esattamente come ritiene Brown, ciò che l'uomo deve fare è un lungo e difficile percorso che inverta i termini del conflitto tra Io, Es e principio di realtà, coalizzando i primi due contro il terzo. L'uomo che riesce in questa impresa senza sostituire Dio con dei "surrogati", o, in termini, psicoanalitici, che non abbatte il Super-io per ricostruirlo a forma della realtà, è l'oltreuomo. L'opera sicuramente più conosciuta e letta di Nietzsche, Così parlò Zarathustra, è proprio l'annuncio di questa nuovo modo di essere uomo.

La scelta della figura di Zarathustra è altamente simbolica, dal momento in cui il profeta Zarathustra (VI-V secolo a.C.) è considerato il primo uomo ad imporre delle regole morali; per questa ragione dev'essere egli stesso a riconoscere i propri errori e ad indicare all'uomo comune la via per redimersi. Il percorso che porta all'oltreuomo è articola in tre momenti, illustrati nel discorso Delle tre metamorfosi. La prima è quella che porta lo spirito a divenire cammello, colui che si piega sotto il peso della tradizione, di Dio, della morale e vive all'insegna dell'ubbidienza al "tu devi". La seconda trasformazione è quella che vede il cammello farsi leone; in tal modo, attraverso l'affermazione "io voglio", ci si libera dai fardelli, ma se ne sente ancora la presenza: è una forma di liberazione in rapporto a quelli, non in assoluto. Infine, solo quando il leone diventa fanciullo si completa la trasfigurazione: è lo spirito libero che sa "dire di sì" alla vita e che la crea da sé. Questa concezione di illimitata libertà può essere compresa, però, solo alla luce di altri due concetti fondamentali del pensiero di Nietzsche: l'eterno ritorno e la volontà di potenza.

La concezione dell'eterno ritorno è definita dallo stesso filosofo il pensiero più profondo e decisivo della sua filosofia. Il significato effettivo di eterno ritorno è una questione tuttora dibattuta. Una delle interpretazioni sicuramente più credibili è quella del filosofo e critico Gianni Vattimo, il quale sembra propendere per l'idea di una spiegazione di eterno ritorno come continuo ripetersi sempre identico del tempo, in una forma ciclica antitetica alla concezione lineare cristiana. Secondo lo studioso, quest'ultima, infatti, ha una "struttura edipica": l'attimo è destinato a divorare il proprio padre (passato) ed essere inghiottito dal futuro. Secondo tale punto di vista l'attimo "vive" solo in relazione agli altri; dunque, di per sé non è, né ha senso. Ciò sta a capo della faustiana inquietudine dell'uomo occidentale, in continua tensione angosciosa verso il futuro. L'eterno ritorno, d'altro canto, si discosta dalla ingenua e sprezzante idea di mera ciclicità del tempo stoico, incarnata dal nano di La visione e l'enigma: "ogni cosa dritta mente. Il tempo stesso è un circolo". Quando, invece, l'uomo realizza lo sgomento di un'esistenza che si ripete continuamente (il disgusto dell'uomo col serpente nelle fauci), per farsi oltreuomo (l'uomo che "ride come mai nessun altro aveva riso prima") deve prendere una decisione risoluta e coraggiosa (mordere a sua volta il serpente). Così egli può iniziare ad "istituire" l'eterno ritorno, invece che subirlo, ed a divenire fautore del proprio destino, "autocreatore", attraverso la volontà di potenza.

La volontà di potenza, infatti, è "l'intima essenza dell'essere", cioè la vita stessa. Questa, per Nietzsche, è continua spinta all'autoaffermazione ("la vita mi ha confidato: io sono il continuo, necessario superamento di me stessa"), autocreazione, l'atto di porsi a capo del proprio essere. Dunque, il connubio eterno ritorno e volontà di potenza è ciò che permette all'oltreuomo di trasformare il "così fu" in "così volli che fosse": l'accettazione del tempo, pertanto, da passiva si fa attiva. Per Nietzsche la volontà di potenza è ciò che permette di "imprimere al divenire il carattere dell'essere": la sua connessione con l'eroica concezione del tempo è basilare.

Ecco quindi che Nietzsche conferma la nostra argomentazione: prendere di petto la vita e considerare il tempo un ciclicità stabilmente identica, costante, ma in ogni istante autosufficiente permette di sconfiggere la tendenza a ricercare una realizzazione futura che appare sempre a portata di mano, ma mai raggiungibile. Il porsi come volontà di potenza, diviene quindi l'attività che trasforma la propria vita in creazione, l'assoluta consapevolezza dell'uomo del proprio destino, la fine delle "menzogne dell'aldilà" e del dualismo tra anima e corpo. Il tempo diviene, quindi, il mezzo privilegiato per apprendere ad accettare la vita e la morte.

A tal proposito risultano sbalorditive le parole di Zarathustra:

Ciò che si fece perfetto, tutto quanto è maturo - vuole morire!

Ma tutto quanto è immaturo vuole vivere: ahi! Il dolore dice: "Perisci! Via, dolore!". Ma tutto quanto soffre, vuol vivere per diventare maturo e gioioso e anelante, - anelante a cose più lontane, più elevate, più chiare. "Io voglio eredi", così parla tutto quanto soffre "io voglio figli, non voglio me." Ma il piacere non vuole eredi, né figli - il piacere vuole se stesso, vuole l'eternità, vuole il ritorno, vuole il tutto-a-sé-eternamente uguale.

Spiegando il criptico messaggio di Nietzsche in termini psicoanalitici diremo che la rimozione degli istinti genera la fuga dalla morte, e che questa è alla base sia della religione dell'immortalità sia dell'istituzione economica dell'ereditarietà dei beni. In contrasto con la nevrotica ossessione temporale tipica dell'umanità rimossa, l'oltreuomo afferma l'eternità della ripetizione; la perfezione, che è la vita non rimossa (filosofia del mattino), desidera l'eternità. L'eternità è quindi un modo di concepire la liberazione dell'umanità dalla nevrotica ossessione del passato e del futuro; è un modo di vivere nel presente, ma anche un modo di morire.


Seneca

Una concezione estremamente interessante del tempo ci giunge dal poeta latino Seneca, che reclama la necessità di intensificare il rapporto con sè stessi per trasformare in attiva un'esistenza troppo spesso passiva e apatica ("ci si lascia vivere"). Il primo passo è prendere coscienza della propria "malattia" e venirne a capo, attraverso una particolare visione del tempo, ben espressa nelle Epistole morali a Lucilio:

Non rinviamo nulla; chiudiamo ogni giorno il bilancio con la vita. [.] Chi dà ogni giorno l'ultima mano alla sua vita non ha bisogno di tempo; da questo bisogno nascono la paura e la brama del futuro che rode l'anima Non c'è niente di più triste che chiedersi quale esito avranno gli eventi futuri, se uno si preoccupa di quanto gli resta da vivere, o di come, è agitato da una paura inguaribile61.

La risposta del poeta-filosofo alla necessità di gestire con piena coscienza la propria esistenza, dunque, come detto, risiede nel riappropriarsi del proprio tempo. Attraverso questo atto massimo di consapevolezza la preoccupazione per il futuro cessa di sussistere, e l'uomo può iniziare a vivere effettivamente la vita. Così continua:

Come sfuggire a questa inquietudine? In un solo modo: la nostra vita non deve protendersi nell'avvenire, deve raccogliersi in se stessa; infatti è sempre sospeso al futuro colui per il quale il presente è inesistente.

Quando invece è saldato tutto quello che dovevo me stesso, quando la mente nella sua fermezza sa che non c'è differenza fra un giorno ed un secolo, guarda con distacco il susseguirsi dei giorni e degli eventi futuri, e pensa sorridendo al succedersi degli anni. Ma se uno è saldo di fronte all'incerto non può turbarlo la varietà dei casi della vita.

Il recupero del proprio tempo si trasforma nel recupero di sé, in una vita che si conduce al di fuori del tempo; così facendo la differenza tra vita e la morte diventa un fatto insignificante, e anzi si annulla.  Seneca anticipa Brown affermando che il nostro più grande errore sta nel "vedere la morte davanti a noi, e invece parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata"62: morte e vita convivono nella medesima esistenza, nel medesimo attimo. La capacità di istituire ogni istante del proprio tempo diventa, quindi, la capacità di riportare vita e morte ad una condizione di unità dialettica.


Conclusioni:

Il destino del processo cumulativo di sublimazione sembra quello di portare ad un'esistenza sempre più fatta di sogno, di apollinea negazione degli istinti, al finale trionfo della "morte-nella-vita". L'unica possibile via d'uscita per l'umanità risiede quindi nell'abolizione della rimozione; in questo modo le innaturali concentrazioni di libido in certi organi particolari del corpo, che costituiscono la base corporea dei disordini nevrotici del carattere dell'Io umano, possono essere eliminate. Nel contempo, la coscienza cessa di negare e l'istinto di morte si riconcilia con l'istinto di vita in un corpo disposto a morire: infatti, poiché il corpo è soddisfatto, l'istinto di morte non lo spinge più a cambiare sé stesso e a creare la storia. Così agisce nell'eternità.

Infine l'uomo, recuperato il suo stato di natura se ne sente parte e può percepirne il messaggio; la natura parla, ed in essa l'uomo trova il suo posto, al di fuori del tempo:

E contemplando la valle mi rendo conto altresì di dover preparare il pranzo e non sarà per niente diverso dal pranzo di quegli uomini antichi e inoltre avrà un buon sapore. Tutto è uguale, dice la nebbia: "Siamo nebbia e voliamo via dissolvendoci come effimere", e le foglie dicono: "Siamo foglie e ci agitiamo nel vento, ecco tutto, veniamo e passiamo, cresciamo e cadiamo." Anche i sacchetti di carta nella fossa dei rifiuti dicono: "Siamo sacchetti di carta trasformati dall'uomo fatti con polpa di legno, siamo orgogliosi in un certo senso di essere sacchetti di carta fino a quando sarà possibile, ma torneremo ad essere fanghiglia quando verrà la stagione delle piogge." I ceppi d'albero dicono: "Siamo ceppi sradicati dal suolo dagli uomini, talora dal vento, abbiamo grossi viticci pieni di terra che devono dalla terra.". Gli uomini dicono: "Siamo uomini, sradichiamo ceppi d'alberi, facciamo sacchetti di carta, pensiamo savii pensieri, prepariamo il pranzo, ci guardiamo attorno, ci costa una gran fatica renderci conto che tutto è lo stesso.". Mentre la sabbia dice: "Siamo sabbia, sappiamo già.", e il mare dice: "Andiamo e veniamo sempre, ci rompiamo e scrosciamo.". Il cielo vuoto azzurro dello spazio dice: "Tutto questo torna a me, poi fugge di nuovo,  torna ancora, e di nuovo se ne và, e non me ne importa, continua ad appartenermi."63                                                                               

APPENDICE

IL CASO: BAUDELAIRE



Data la complessità e l'unicità dell'esempio di Baudelaire, ritengo necessario un discorso a parte su una figura cardine nell'orizzonte di una trattazione in questi termini. Nel 1947 Jean-Paul Sartre dedicò al padre del Simbolismo uno studio a tratti illuminante, pubblicando un saggio che scava a fondo "nell'anima ricca e inquieta" del poeta, e rileggendone l'opera in chiave esistenzialista.

Il padre di Baudelaire muore quando il bimbo ha sei anni; nasce un rapporto di dipendenza morbosa con la madre che segnerà profondamente la sua esistenza. Infatti le seconde nozze della vedova, piombano sul figlio come un peso insopportabile. L'idillio materno si sbriciola. Per dirla in termini freudiani, il bimbo Baudelaire si trova a venire a patti con il principio di realtà.

Ci pare chiaro come qui si possa parlare del poeta francese in termini di "eccezione psicoanalitica": Baudelaire urla al tradimento il suo rifiuto di un mondo da cui è stato rifiutato; nel suo orgoglio totalizzante si impone come unico fautore del proprio destino. "Ha rivendicato la sua solitudine affinché essa gli venisse almeno da lui stesso, per non aver da subirla"64, vi si rinchiude, vi si precipita con rabbia. Rimanendo di fronte alla pura coscienza di sé, distanzia il mondo.

In un'interminabile sforzo di carpirsi il giovane Baudelaire si scruta, si osserva; l'irrequietezza, il male di vivere, l'ennui sono i termini con cui emerge la tensione della sua esistenza. Come giustamente fa notare Sartre: "Baudelaire è l'uomo che ha scelto di vedersi come se fosse un altro; la sua vita non è che la storia di questo smacco"

Di qui la perdita di naturalezza e l'amore per l'artificio di cui tratteremo più avanti. Lo smacco di cui di parla è l'impossibilità di realizzazione: per vedersi sono necessari un soggetto e un oggetto, un dualismo che il poeta ricerca esasperando la lucidità, come per scrutarsi e trascendere da sè. Lo smacco è la tendenza all'irrealizzabile, all'oltre. Ecco perché Sartre afferma che "egli è il primo, forse, a definire l'uomo attraverso il suo oltre "66, e lo stesso Baudelaire aggiunge "i vizi dell'uomo.contengono la prova (non foss'altro che la loro infinita espansione) del suo gusto per l'infinito; soltanto, è un gusto che sbaglia spesso strada"67. Attraverso la sua stessa affermazione il poeta comprende la propria inutilità, e chiama "insoddisfazione" questa determinazione del presente per mezzo del futuro, dell'esistente per mezzo di ciò che ancora non è.

Si apre dunque un abisso di fronte al quale il poeta si trova nudo: "la vita non ha che un incanto vero: l'incanto del Giuoco. Ma se ci è indifferente di vincere o di perdere?"68. Il nome di questa voragine terrificante è libertà, e attorno a questa mostruosa scoperta ruotano i veri e propri "meccanismi" che regolano la sua esistenza. Egli rifugge questa rivelazione: tenterà in ogni modo di mascherare questa assoluta libertà, ma non vi rinuncerà mai totalmente.

Sartre conferma con estrema chiarezza: "E poi Baudelaire che ha il senso e il gusto della libertà, ha preso paura dinnanzi ad essa quando è disceso nei limbi della proprio coscienza. Ha visto ch'essa conduceva.alla responsabilità totale Vuole esser libero, senza dubbio, ma libero nel quadro d'un universo bell'e fatto."69

Infatti la libertà è la voce attraverso cui reclama la sua diversità e unicità. Pertanto accetta il sciocco metro comune borghese ed accetta di essere colpevole, arrivando persino alla vergogna di mentire sul significato della propria opera (nel processo alla prima edizione de "I Fiori del Male"), piuttosto che rigettare l'idea di Bene e "discolparsi in nome di un'etica più larga e profonda che dovrebbe inventar lui stesso"70.

Ma da dove nasce questo rispetto, ben lontano dalla nostra idea del poet maudit che conosciamo?

In realtà questa accettazione incondizionata non è che il riconoscimento di un sostrato su cui il poeta può costruire la propria diversità; per Sartre "si potrebbe dire che [Baudelaire] non ha mai superato lo stadio dell'infanzia"71. Infatti l'esperienza ci suggerisce come il bimbo veda tutto come nuovo; ma tale novità acquista caratteri rassicuranti in quanto già "vista, battezzata e classificata" dagli adulti. Abbattere la figura dell'adulto, dunque, porta di fronte alla perdita della propri verità, alla terrificante visione della libertà, alla necessità di costruire nuove certezze. Baudelaire ha conosciuto quell'abisso e lo rifiuta. Ancora una volta Sartre sostiene: "Non è tanto facile.affermare la propria libertà. Le strade sono tracciate, fissati gli scopi, dati gli ordini; per l'uomo dabbene non vi è che una sola via: il conformismo. Ecco, è proprio a questo che Baudelaire aspira: la teocrazia non limita forse la libertà dell'uomo alla scelta del mezzo onde raggiungere dei fini indiscussi?"

In questi termini, dunque, ci appare chiaro come egli accetti il Bene, e anzi istituisca da se i giudici perché lo condannassero per tutta l'esistenza (la madre, il generale Aupick, Jaquotot, ecc), unicamente per scavalcarli: "Sia ben chiaro che non si tratta di cogliere i frutti proibiti benché siano proibiti, ma poiché sono proibiti"72.

Un simile dualismo emerge nel conflitto interno della sua individualità: la tendenza alla sintesi tra essere ed esistenza. Queste spinte contrastanti, infatti, appaiono inconciliabili: la prima è quel processo di "farsi cosa agli occhi degli altri" ed ai propri, il suo ergersi in disparte. La seconda è libertà e creatività, coscienza di essersi fatta da sé. Come già abbiamo notato: "Da un lato pretende di goderne [della propria individualità].starle di fronte come di fronte ad un oggetto.Bisogna ch'essa sia lì, posata, stabile e tranquilla al modo di un'essenza. D'altro lato, il suo orgoglio non potrebbe accontentarsi di un'originalità accettata passivamente, della quale non fosse lui stesso l'autore. Vuole essersi fatto quello che è. E l'abbiamo visto, fin dall'infanzia, assumere rabbiosamente la sua "separazione" per paura di subirla"73 

Di qui la sua ricerca del Male, ma un Male che sia "aristocratico" ("fra la turba volgare dei colpevoli essa sarebbe fuori posto come una duchessa in prigione fra le meretrici"74, una voluttà che nasca dal piacere di sentirsi creatore e libero. Infatti è grazie al rimorso che sente la libertà di peccatore, e in questo senso si giustifica la sua tendenza ad autocalunniarsi e colpevolizzarsi. In particolare l'ostentazione di patimento con la madre, oltre a mirare vendicativamente al senso di colpa, lo pone sotto giudizio; la condanna del senso comune viene odiata e bestemmiata, ma pur sempre accettata. Baudelaire sceglie dunque di soffrire, non cerca di andare oltre, non rifiuta il Bene per cercare il suo: "si sottomette al Bene per violentarlo"; questo dolore fa tutt'uno col suo orgoglio: ""Io sono Satana!". Ma che cos'è Satana,  in fondo,  se non il simbolo di quei bambini disobbedienti e imbronciati che domandano allo sguardo paterno di congelarli nella loro essenza di singoli che fanno il male nella cornice del bene per affermare la loro individualità e farla consacrare?"

Il carattere elitario del suo Male lo porta ad un estremo controllo ed artificiosità, che si collocano precisamente nel dandismo budelaireano. Infatti egli stesso afferma: "fottere è aspirare ad entrare in un altro, e l'artista non esce mai da se stesso." E Sartre aggiunge: "Ma esistono piaceri a distanza.Era voyeur e feticista precisamente perché codesti vizi alleggeriscono la voluttà, perché realizzano il possesso da lontano: il voyeur non si concede"75.

Questo rifiuto (di chiaro sapore estetizzante), è il rifiuto di essere "come tutti", un rifiuto della Natura; un climax che termina nel rifiuto della vita stessa. Sentir parlare di avversione baudelaireana alla natura può apparire quasi un ossimoro, alla luce di talune critiche su liriche come Corrispondances, ma una lettura più approfondita dell'opera del poeta ci rivela esplicitamente il fraintendimento. Sul pensiero di Baudelaire sembra, infatti, aver pesato l'antinaturalismo ottocentesco, erede dell'età industriale; in quest'ottica il lavoro è esaltato come istituzione di un ordine umano opposto alla casualità della Natura: "Certo, l'operaio non lo interessa; ma il lavoro lo attira perché è come un pensiero impresso nella materia. Sempre lo ha tentato l'idea che le cose siano pensieri obiettivati e come solidificati. Così poteva specchiarvisi. Ma le realtà naturali non hanno per lui nessun significato. Non vogliono dir nulla"76.

Nella Natura, infatti, l'uomo sbigottisce realizzando la propria inutilità: cessa d'aver posto in alcun luogo, cessa d'aver scopo, ragion d'essere. Il rifiuto del poeta, per la personalità cui gli abbiamo attribuito, appare più che evidente: "Ma voi sapete bene che sono incapace di intenerirmi sui vegetali, e che la mia anima è ribelle a questa nuova e strana religione. Non crederò mai che l'anima degli Dei abiti nelle piante, e quand'anche vi abitasse, me ne curerei mediocremente e considererei sempre la mia assai più preziosa che non quella dei legumi santificati."77

Tutto in Baudelaire può essere interpretato come ricerca di una perfezione totale, di "infecondità" soprannaturale: "attraverso il dolore, l'insoddisfazione ed il vizio, cerca di farsi un posto a parte nell'universo. Ambisce alla solitudine del maledetto e del mostro, del "contronatura", precisamente perché la Natura è tutto e dappertutto".78 Partendo dalle sue opere, in cui "paventa la natura come serbatoio di splendore e di fecondità e le sostituisce il mondo della sua immaginazione: universo metallico sterile e luminoso."79, si può rilevare come all'iniziale ispirazione poetica si sostituisca la tecnica pura, testimoniata dalla cura maniacale delle sue liriche attraverso infinite correzioni e revisioni. Arrivando alla sua stessa esistenza che, come già è stato sottolineato, è un intricato artificio che filtra ogni slancio spontaneo. Egli stesso è freddo, sterile, gratuito, puro: celebre la sua massima "molti amici, molti guanti"e le conseguenti opinioni contrastanti sulla sua personalità. Di qui il culto della frigidità, "virtù" di cui dota solamente la donna, infatti "può farne senza pericolo l'oggetto di un culto; in nessun caso essa diventerà la sua eguale. Non crede affatto ai poteri di cui l'adorna."80 Perciò sceglierà di amare Marie Daubrun perché ama un altro e, nei suoi rapporti con lui, lo tratta con un contegno della più gelida indifferenza. La signora Sabatier, invece, perde l'amore del poeta in una sola notte, per non essere restata di ghiaccio.

Sartre fa giustamente notare: "La freddezza dell'oggetto amato realizza ciò che Baudelaire ha cercato di procurarsi con ogni mezzo: la solitudine del desiderio. Egli ha scritto: "La donna che si ama è quella che non gode". Avrebbe orrore di dar piacere: se la statua, al contrario, resta di marmo, l'atto sessuale è per così dire neutralizzato; Baudelaire non ha avuto rapporti che con se stesso."

Ancora una volta emerge il narcisismo di Baudelaire e lo colloca nella sua sprezzante esaltazione aristocratica di sé, rendendo evidente il suo carattere di precursore del Decadentismo: "L'essenziale è che adorava la "vita", ma la vita incatenata, trattenuta, sfiorata e che la sua corruzione nasceva, come un fiore del male, su dall'humus dell'orrore".

Infatti lo stesso poeta definisce il dandismo come un "morale dello sforzo", che, alla luce di quanto detto, possiamo giustificare come un freno alla libertà insondabile, che si caratterizza come un gioco inoffensivo entro i limiti del Bene; in ultima analisi esso appare come un tentativo di frenarsi, imbrigliarsi, scrutarsi e, dunque, possedersi.

In realtà nel quadro generale un ruolo rilevante è ricoperto dal contesto sociale, in cui l'artista subisce un declassamento totale: se prima un legame diretto lo metteva in rapporto con l'aristocrazie, ora è costretto ad asservirsi al "gusto" borghese ed alle leggi di mercato; il forte sentimento di scoramento è quanto emerge da poesie come L'albatros, Le Cygne e dal poemetto in prosa Perdita d'aureola. Dunque Baudelaire ricerca un rifugio nel passato, alla ricerca di una consacrazione; ma ciò non si risolve nel recupero del ruolo di vate (l'aureola scivolata viene lasciata a "qualche poetastro che se la prenderà e se ne incappellerà impunemente"), bensì nella ricerca della totale gratuità e parassitismo.

In ciò trova un senso il culto dell'eleganza, in quanto sterile, effimera e peritura, e il culto dell'io diviene soppressione di se (ci torneremo). L'eleganza diventa inoltre, e soprattutto, difesa nei confronti degli altri; ma se con chi conosce bene, Baudelaire "può giocare al giuoco perverso del Bene e del Male. Sa entro quali limiti può prestarsi  ai loro giudizi e civettare col loro disprezzo, sa che in qualunque momento può scapparsene via con un colpo d'ala, tornare ad essere una libertà che sfugge ad ogni giudizio", con gli estranei, folla di potenziali giudici, deve far riconoscere la propria diversità e poter controllarne il giudizio, infatti: "allo stesso modo che il masochista non si presta alle umiliazioni che di propria volontà, Baudelaire non ammette che lo si giudichi senza il suo preventivo consenso, senza cioè aver preso tutte le precauzioni per sfuggire al giudizio quando gli piaccia."81

La sua bizzarria è una stravaganza che se non altro "sbalordisce esattamente nel modo in cui si voleva che sbalordisse; il canzonatore è caduto in trappola."82. Per la medesima ragione si accusa di colpe irreali: in tal modo sa di non essere colpevole di ciò che gli viene rimproverato. Il suo dandismo, dunque, scavando a fondo, non è superiorità, bensì declassamento, che il poeta si sforza di vivere come un volontario rifiuto di solidarietà dal mondo; di qui, ancora una volta, emerge la sua artificiosità: egli si sforza di essere creatore e creato nel contempo; travestendo e truccando se stesso e i propri pensieri li può scrutare come un estraneo.

Infatti se, ad esempio, un Rimbaud vota la sua esistenza a farsi autore di se ("Io è un altro") e, "attraverso lo regolamento di tutti i sensi", spezzare la propria origine borghese, "che non è se non abitudine"83,  infrangendo, rifiutando la propria natura, e cambiando il proprio destino, Baudelaire non rompe nulla: egli crea, traveste e mette in ordine.

Il carattere della morte, onnipresente nella sua poesia, se da una parte dà il senso dell'esistenza, in quanto "è soltanto ciò che passa", dall'altra "per il fatto solo che deve finire, questa esistenza gli sembra già finita:.poco importa che sia domani piuttosto che oggi; il termine è già lì, nel momento presente. E di colpo tutto sembra passato."84. Anche in ciò è da ricercare la sua tensione verso la conservazione ed di un ordine che "rispetta nel momento che odia": egli ha scelto di procedere a ritroso, rivolto verso il passato; nelle sue opere di venticinquenne si trova già tutto: idee e forma. Negli anni è sempre identico, solo più vecchio, più cupo. Si può dire che "il suo, più che un evolversi, è un disfarsi"85. Questa visione dell'esistenza come un lento decadimento, lezione ereditata più tardi dai Simbolisti, è esaltazione di  ciò che è stato: egli infatti "odia il Progresso, perché il Progresso fa dello stato futuro d'un sistema la condizione profonda e la spiegazione del suo stato presente"86. Di qui il succitato rifugio nel passato, come ricerca in esso di oggetti con cui identificarsi (vedi la passione per Poe), per l'autoriappropriamento di sé, ancora una volta in seno a quell'aspirazione di sintesi tra essere e essenza.

E il volto di questi oggetti è lo spirituale: esso è ciò che sta sospeso tra il nulla e l'essere, e il godimento che esso provoca sta nell'impossibilità di poterlo afferrare. Va da sé il fascino che il profumo esercitava su Baudelaire, esso appunto: "Fugge nell'atto stesso di darsi, penetra nelle narici e svanisce, subito scompare. Non completamente tuttavia. E' sì quel corpo, ma disincarnato, evaporato, rimasto sì intiero in se stesso, ma divenuto spirito volatile. Per codesto possesso spiritualizzato, Baudelaire ha una predilezione particolare."

Infatti lo spirituale è ciò che i sensi possono afferrare, ciò che più rassomiglia a coscienza: "ha l'aspetto di una coscienza obiettivata"; perciò l'atto dello sfiorare lo spirituale ricalca lo sforzo del poeta a recuperare la propria coscienza.

Le sue stesse liriche, la cui "creazione è pura libertà", sono pensieri che hanno preso corpo; il loro significato fortemente evocativo è semplice intermediario tra l'oggetto ed il presente: "Per Baudelaire, il cui "spleen" reclama sempre un "altrove", è il simbolo stesso dell'insoddisfazione; una cosa che significa è una cosa insoddisfatta. Il suo senso è l'immagine del pensiero, si presenta come un'esistenza rintanata nell'essere."

Lo stesso Baudelaire definisce il Bello come "qualcosa d'un po' vago, che lasci campo alla congettura"87; una brillante interpretazione del linguaggio baudelaireano, che possiamo senza forzature applicare alla lettura di Corrispondaces, emerge dalle parole di Sartre: "Il segreto è un essere obiettivo che può essere rivelato da certi segni.ma si lascia appena indovinare, è suggerito, evocato.quell'essere che è la natura profonda della cosa [non la Natura!] ne è anche l'essenza più sottile. A malapena, è."88

In definitiva: "la totalità del mondo sarà significativa e in quest'ordine gerarchico di oggetti che acconsentono a perdersi per indicarne altri, Baudelaire ritroverà la propria immagine. Tale è il fine ultimo degli sforzi di Baudelaire: impadronirsi di se stesso, nella sua eterna "diversità", realizzare il suo "essere un Altro" identificandosi col Mondo intero. Alleggerito, traforato, riempito di simboli e di segni, codesto mondo che lo tiene racchiuso nella sua immensa totalità, non è altro che lui stesso; ed è se stesso che questo Narciso vuol stringere e contemplare. E la bellezza medesima non è affatto una perfezione sensuale contenuta negli angusti limiti d'una cornice, d'un genere poetico. Prima di tutto è suggestione, ossia quello strano fenomeno impastato di realtà in cui l'essere e l'esistenza si confondono.." 

Il suicidio, dunque, come assoluto rifiuto del futuro, è un recupero estremo del proprio essere: fermando la sua vita il poeta la trasforma in essenza, in quanto per sempre data e creata da lui stesso. Ma la morte impedirebbe di godere di questa conquista finale: pertanto Baudelaire acquista la fisionomia di un "sopravvissuto", e il suo suicidio possibile è il perpetrarsi di un'esistenza di sofferenza, frigidità, peccato, verso la ricerca della "voluttà dell'insaziabilità" e nel rifiuto del Progresso.






















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NOTE


1. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 11

2. Jack Kerouac, I vagabondi del Dharma, Mondadori; cit. p. 129

3. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 23

4. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 30

5. Sigmund Freud, Introduzione alla psicoanalisi (1915-17), in Opere, vol. VII, p. 542

6. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 31

7. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 35

8. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 38

9. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 39

10. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 44

11. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 51

12. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 53

13. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 62

14. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 65

15. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 68

16. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 108

17. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 114

18. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 118

19. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 122

20. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 125

21. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 129

22. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 130

23. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 131

24. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 134

25. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 134

26. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 139

27. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 146

28. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 146

29. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 152-3

30. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 150

31. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 160

32. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 14

33. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 168-9

34. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 171

35. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 179

36. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 195

37. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 210

38. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 211

39. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 217

40. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 220

41. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 397

42. Eros e civiltà di Herbert Marcuse esce nel 1955

43. Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955), Einaudi, Prefazione politica all'edizione del 1966

44. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 17

45. Abbagnano e Formero, Protagonisti e testi della filosofia Vol. D, Paravia; cit. p. 296

46. Abbagnano e Formero, Protagonisti e testi della filosofia Vol. D, Paravia; cit. p. 312

47. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 83

48. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 85

49. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 84

50. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 89

51. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 90

52. Dorfles e Vettese, Arti visive Vol. 3A: Il Novecento, Atlas; cit. p. 188

53. Dorfles e Vettese, Arti visive Vol. 3A: Il Novecento, Atlas; cit. p. 188

54. Dorfles e Vettese, Arti visive Vol. 3A: Il Novecento, Atlas; cit. p. 190

55. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 102

56. Norman O. Brown, La vita contro la morte (1959), Adelphi; cit. p. 102

57. Luperini e Cataldi, La scrittura e l'interpretazione Vol. 1, 2, 3, Palombo

58. Luperini e Cataldi, La scrittura e l'interpretazione Vol. 1, 2, 3, Palombo

59. Arthur Rimbaud, Lettera a Paul Demeny del 15/5/1871 in Opere; cit. p. 533

60. Luperini e Cataldi, La scrittura e l'interpretazione Vol. 1, 2, 3, Palombo

61. Lucio Anneo Seneca, Epistulae ad Lucilium, 101

62. Lucio Anneo Seneca, Epistulae ad Lucilium, 1

63. Jack Kerouac, Big Sur, Mondadori

64. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 9

65. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 17

66. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 24

67. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 25

68. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 20

69. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 52

70. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 34

71. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 38

72. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 54

73. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 51

74. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 56

75. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 59

76. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 81-2

77. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 82

78. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 92

79. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 86

80. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 95

81. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 122

82. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 122

83. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 128

84. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 132

85. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 133

86. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 134

87. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 149

88. Jean-Paul Sartre, Baudelaire, Mondadori; cit. p. 145























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