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Vite flessibili di Nicola di Lecce e Rossella Lamina




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Vite flessibili di Nicola di Lecce e Rossella Lamina


Italia - 2005 - colore - 93' - Mondi visuali













1 Introduzione al documentario: il progetto, le intenzioni, la struttura

Vite flessibili è stato realizzato nel 2003 da Nicola Di Lecce e Rossella Lamina con il contributo dell'Archivio del Movimento Operaio e Democratico, da sempre vicino alle nuove realizzazioni sulle tematiche del lavoro11. Attraverso una serie di interviste si raccontano il lavoro e la vita di quattro lavoratori flessibili, due donne e due uomini, che devono sostenere la propria precarietà nella routine quotidiana e nella progettazione del futuro. Il lavoro sul film è durato per circa un anno, impegnando gli autori in una lunga fase iniziale di ricerca e documentazione, che di seguito si è sviluppata in un progetto di ricerca unitamente alla compilazione di un questionario da rivolgere agli intervistati. Si

trattava di uno schema di domande il cui impianto di volta in volta veniva discusso, verificato e opportunamente variato insieme a coloro che avevano accettato di essere intervistati. Questa forma di collaborazione è stata, secondo gli autori, fondamentale: ".non miravamo ad estorcere rapacemente dei brandelli di vita altrui per ricombinarli in un nostro personale teatrino, un rischio che in particolare nell'audiovisivo è facile e ricorrente. Abbiamo piuttosto intrapreso un percorso di conoscenza reciproca protratto nel tempo. E chi ha

accettato di imbarcarsi con noi in questa esperienza, di esporsi personalmente davanti alla videocamera, ci ha dedicato molto del proprio tempo e della propria intelligenza"1

Il testo filmico si costituisce delle interviste di quattro giovani lavoratori, protagonisti indiscussi del film. Luca è veneziano, ha 28 anni ed è laureando in Storia, per mantenersi agli studi lavora part-time come interinale in un call center; pratica l'arrampicata sportiva ed è attivista di Greenpeace. Giovanna, 37 anni, è siciliana, ha una grande passione per i viaggi ed è laureata in Lingue e Letterature Orientali; abita a Roma dove è impiegata in un centro di orientamento al lavoro, con un contratto di lavoro a prestazione occasionale. Antonio, 35 anni, calabrese, vive a Roma dove è iscritto alla facoltà di Economia e Commercio, qui per mantenersi lavora di giorno in una libreria e alla sera fa il pizzaiolo in un ristorante. Nella sua riflessione sul mondo del lavoro coinvolge anche le proprie competenze e il proprio percorso universitario: i suoi progetti per la tesi di laurea hanno infatti come argomento l'esempio francese delle trentacinque ore lavorative settimanali. Alessia, 33 anni, romana, è laureata in Lingue e Letterature Straniere e da circa sei anni lavora come co.co.co. in un ente della regione Lazio. Nella prima parte dei suoi interventi si presenta al nono mese di gravidanza, mentre successivamente la ritroviamo dopo il parto in compagnia anche del bambino; nelle sue parole cogliamo tutta la preoccupazione di una madre verso il futuro del proprio figlio, reso ancora più incerto dal suo impiego precario.

Il documentario si apre con una sorta di introduzione che presenta brevemente i protagonisti, di seguito il film si articola attraverso sette capitoli rispettivamente intitolati: FARE E LAVORARE, DEI CONTRATTI E DEI DIRITTI, SINDACATO, IDENTITÀ, DE-MOTIVAZIONI, VIVERE PER LAVORARE?, FUTURO. I capitoli separano, per trattare capillarmente, molte

tematiche correlate all'esperienza di lavoro precario: si affrontano le questioni contrattuali e legislative, ma anche quelle che investono la sfera più intima dei protagonisti. Gli autori indagano aspetti paralleli a quelli strettamente relativi al lavoro, cogliendo nelle pieghe di queste quattro storie le instabilità provocate dalla flessibilità: di fondo ogni lavoratore precario subisce un trauma identitario, "nel passaggio continuo da un ruolo all'altro viene smarrito il senso di un percorso unitario, che invece rimane un bisogno per l'individuo"13.

Gli strumenti comunicativi adoperati nel documentario sono molteplici,

oltre alle interviste, di base al racconto, si fa largo uso di scritte sovrimpresse, ma addirittura si sfruttano in modo molto significativo brani musicali e filmati di archivio. Anche il montaggio e il ricorso a effetti particolari di post-produzione arricchiscono in maniera sempre ragionata e appropriata il senso originale delle sequenze. Nel complesso il documentario è ricchissimo di spunti e argomenti, anche i titoli di coda, intrecciando la titolazione canonica con interventi lampo dei protagonisti, risultano particolari e fitti di informazioni: "Il montaggio ha richiesto grande sforzo di sintesi e attenzione per non tradire il pensiero degli intervistati e per rendere fruibile il film a chi non fosse già sensibilizzato

sull'argomento"14.






2 Prologo


Il documentario si apre con una prima parte dal valore introduttivo che consiste in una carrellata sulle quattro storie prese in considerazione. I personaggi vengono presentati solo per brevi cenni, mostrandoli impegnati in attività a loro particolarmente care o lasciandoli raccontare delle proprie passioni; ancora non si indicano i loro nomi né si contestualizzano le rispettive

professioni.

La prima scena ritrae un ragazzo mentre fa arrampicata sportiva con corde e imbraco: lo si coglie mentre raggiunge la vetta e da lì contempla il panorama. In sottofondo sta la sua voce over che racconta di questa passione, e della possibilità che essa gli offre di poter veder le cose dall'alto e non dalla prospettiva canonica; a questo punto parte un brano musicale che ci accompagna alla scena successiva. Dopo una breve dissolvenza in nero ci viene mostrata una giovane mamma mentre gioca col suo bambino di pochi mesi; la colonna audio si mantiene sul brano precedente, associandolo al rumore ambiente dei giochi e delle voci di madre e figlio. Ancora una dissolvenza in nero e di seguito una nuova sequenza: si ritrae in mezzo busto un ragazza che racconta, rivolta in macchina, della sua passione per il viaggio. Alle spalle della ragazza invade lo spazio un grande sole arancione di sapore etnico dipinto su fondo nero. Cambiando inquadratura, in una breve carrellata, si mostrano altri oggetti di stile simile; la voce di lei che continua in sottofondo spiega che questi souvenir rappresentano il suo continuo legame con le esperienze vissute in viaggio. L'ennesima dissolvenza ci introduce alla sequenza successiva, essa ritrae un ragazzo mentre cucina e la sua voce fuori campo racconta del piacere di preparare da mangiare per gli amici, perché la cucina è arte e la riuscita di un piatto dà grande soddisfazione.

Un'ultima dissolvenza ci riporta alla madre mostrata in precedenza, stavolta è fuori casa e sta scendendo delle scale col suo bambino in braccio; si allontana poi percorrendo un lungo corridoio a volte, illuminato soltanto da piccole finestrelle laterali e che sul fondo si lascia invadere da una chiazza bianca di luce. E' una specie di tunnel completamente desolato e risulta tetro: percorso in lunghezza, verso la sua fine mal decifrabile fornisce un'atmosfera poco positiva alla scena. Madre e figlio, in controluce, continuano a camminare e di fianco a loro compare in sovrimpressione il titolo: Vite flessibili. Le storie che ci si accinge a raccontare sembrano così percorrere, simbolicamente, un cunicolo angusto verso una meta del tutto sconosciuta.





3 I protagonisti


Conclusa questa sorta di prologo, il documentario parte col suo racconto effettivo, passando ad una presentazione più esaustiva dei quattro personaggi e delle loro storie.

Il primo a comparire in video e presentarsi è Luca, che precedentemente avevamo visto scalare una parete di roccia; parlando in macchina racconta di avere 28 anni, essere laureando in storia e al contempo lavoratore interinale attualmente impiegato presso un call center. Luca è ritratto in un piano americano mosso da uno zoom lentissimo e continuo per tutta la durata dell'inquadratura, alle sue spalle emergono imponenti delle rovine medievali.

Con una dissolvenza incrociata si passa all'intervento di Alessia, la madre che poco prima avevamo visto giocare col proprio bambino; lei ha 33 anni e da sei lavora come collaboratrice coordinata e continuativa per un ente della regione Lazio, svolgendo le mansioni di una comune segretaria. L'inquadratura mostra Alessia seduta nel suo ambiente domestico: si parte da un campo medio per avvicinarsi, in modo quasi impercettibile, al mezzo busto.

Un'altra dissolvenza ci introduce Giovanna, la ragazza appassionata di viaggi: lei ha 37 anni ed è di origini siciliane, si è trasferita a Roma da un anno per motivi di lavoro. Perdura la stessa modalità di costruzione dell'inquadratura a partire da un piano americano per avvicinarsi adagio verso la protagonista, che questa volta è in piedi vicino ad una finestra.

Altra dissolvenza e incontriamo Antonio, l'amante della cucina: ha 36 anni ed è venuto a Roma dalla Calabria per frequentare presso l'università il corso di laurea in Scienze Statistiche; anche in questo caso l'inquadratura parte da un mezzo busto per poi procedere con lo zoom canonico.

Se sino ad ora si era adottata una scansione ed un'organizzazione quasi matematica nella presentazione dei personaggi, a questo punto si prosegue contrariamente alla regola e dopo questa carrellata sulle quattro storie si fa un passo indietro ritornando, per mezzo della solita dissolvenza, a Giovanna. Lei prosegue raccontando di aver vissuto per qualche anno a Napoli, dove ha frequentato l'Istituto di Lingue e Letterature Orientali laureandosi in Arabo; l'inquadratura che la ritrae è un piano americano, questa volta statico. Adesso si ritorna in dissolvenza ad Antonio che scherzosamente va avanti ad illustrare la sua accidentale carriera universitaria, approdata in ultima istanza ad Economia e Commercio; il suo percorso formativo non si è ancora concluso perché, da sempre per lui, l'impegno per lo studio è parallelo a molte altre attività.

A questo punto una dissolvenza in nero conclude l'intervento e introduce la dicitura FARE E LAVORARE; si avvia in questo modo l'uso della suddivisione in capitoli del documentario, ognuno codificato dal proprio titolo. Tale ripartizione è esclusivamente tematica, raggruppando riflessioni e trattazioni di argomento comune, e contraddistingue la ricerca di chiarezza perseguita fin dall'inizio del film attraverso le presentazioni quasi schematiche dei quattro protagonisti.






4 Digressione narratologica: il ruolo dell'istanza narrante


L'introduzione dei suddetti titoli esplicita una presenza molto marcata dell'istanza narrante che imponendosi interrompe lo scorrere naturale del racconto15. E' lecito chiedersi quanto sia corretto riflettere in termini di istanza narrante per una forma di narrazione come quella del documentario, che per definizione rifiuta una costruzione scenica basata sulla finzione, e tutta una serie

di valori semiotici tipici della fiction.

Il problema del soggetto enunciatore del documentario viene affrontato da Nepoti16 che lo identifica col principio di organizzazione inerente al testo filmico, la cosiddetta istanza rappresentativa. La nozione di soggetto enunciatore è fondamentale, secondo Nepoti, per il documentario inteso come ricerca di un punto di vista che permetta di "vedere meglio" la realtà, o di vederla diversamente. Il soggetto enunciatore irrompe con la sua soggettività nel realismo teso a riprodurre il reale, destabilizzando lo spettatore e quella sua quieta illusione di realtà. E' ovvio che i meccanismi e le modalità di queste incursioni sono impossibili da catalogare in modo esaustivo, e richiedono un'indagine di volta in volta dedicata e particolare.

In Vite flessibili l'impiego delle sopra citate titolazioni, ma anche di altri accorgimenti quali l'uso in sovrimpressione di testi e definizioni, unito ad un montaggio non lineare ricco di tendine, inserti ed elaborazioni cromatiche, sembra confermare una forte partecipazione del soggetto enunciatore. D'altro canto però altre scelte di messa in forma del film vanno in direzione opposta, privilegiando la percezione illusoria della realtà incontaminata e mirando a rendere impercettibile la presenza del soggetto enunciatore. Mi riferisco, ad esempio, alla scelta di non includere mai le domande alle interviste proposte, né tanto meno di concedere alcuna incursione fisica degli intervistatori; inoltre l'impostazione delle inquadrature è sempre molto statica e canonica, elemento che, aderendo alla grammatica cinematografica dell'illusione, favorisce l'annullamento dell'istanza narrante.

Infine più avanti nel corso del documentario riconosciamo alcune circostanze di evidente messa in scena in cui si ricreano situazioni tipiche della quotidianità dei protagonisti. Un esempio è appunto il colloquio tra Giovanna ed un utente del Centro di orientamento al lavoro che apre il capitolo FARE E

LAVORARE; questo è, con tutta probabilità, inscenato ad hoc per ricreare la routine quotidiana. La liceità dell'uso di questo tipo di accorgimenti è spesso fonte di discussione tra documentaristi17, ma sicuramente in questo caso l'intenzione non è quella né di spacciare per vero la messa in scena, né di celare o modificare la realtà dei fatti. Poco importa se il colloquio filmato sia davvero tra Giovanna ed un utente reale, l'obiettivo è quello di integrare il racconto canonico dei protagonisti. Inserti del genere hanno il merito di apportare le stesse informazioni, col risultato di alleggerire e arricchire allo stesso tempo lo scorrere del film, che altrimenti poco si discosterebbe da una video-intervista. Concludendo risulta evidente, nel documentario, la compartecipazione di elementi anche antitetici tra loro, che riflettono un ruolo dinamico dell'istanza

rappresentativa.






5 Capitolo primo: FARE E LAVORARE


Conclusa la panoramica di presentazione dei protagonisti si procede, con il capitolo FARE E LAVORARE, a indagare approfonditamente le loro condizioni lavorative. Questa nuova sezione inizia mostrando Giovanna al Centro di orientamento al lavoro: viene ripresa intenta in un colloquio con un utente al fine di esemplificare concretamente quali sono le sue mansioni di consulente. Alle riprese presso il centro si alternano interventi di Giovanna in primo piano che commenta le sue mansioni: il suo ruolo è quello di sostenere le persone disoccupate in cerca di un impiego. Nella pratica ciò avviene aiutando i disoccupati a cogliere tutte le opportunità che offre il mondo del lavoro, e partendo dal loro curriculum, guidandoli a comprendere quale sia l'impiego più adatto alla loro competenze e ai loro interessi. Giovanna dice però di trovarsi sempre più spesso in difficoltà nel suo lavoro, perché le opportunità che offre il

mercato sono sempre molto precarie. In apertura dell' intervento di Giovanna il suo nome compare sovrimpresso sulla parte inferiore dell'inquadratura, ancora una volta a conferma dell'impostazione chiara e schematica del documentario. In questa sequenza la scena del colloquio presso il Centro di Orientamento al lavoro è trattata con un campo/controcampo canonico, alternando il primo piano di Giovanna con quello dell'utente e al piano d'insieme. Gli interventi di Giovanna invece sono composti da un mezzo busto molto statico e il suo sguardo rivolto in macchina; anche la location è completamente diversa, ci troviamo all'aria aperta, probabilmente in un parco. Le riprese al parco si alternano per diverse volte a quelle al Centro: in certi casi la voce di Giovanna viene lasciata scorrere sopra le immagini che la ritraggono al lavoro, mentre in altri sfuma dando spazio all'audio originale del colloquio.

FARE E LAVORARE prosegue con Antonio, colto in cucina mentre prepara il caffé, e la sua voce off comincia a elencare le sue esperienze lavorative; questa sequenza è costruita come la precedente, con un montaggio alternato tra il mezzo busto e le riprese sul posto di lavoro, e con il nome del protagonista sovrimpresso nella parte inferiore dell'inquadratura. Antonio ci racconta di avere fatto veramente di tutto, dal manovale all'addetto di archivio e lavorando per anni di sabato e domenica; oggi si divide tra un impiego di addetto alle vendite in una libreria e quello di pizzaiolo in due diversi ristoranti. A questo punto il montaggio si arricchisce di uno stratagemma particolare: per mezzo di una tendina a scendere, l'inquadratura si divide in due finestre orizzontali che mostrano rispettivamente Antonio mentre sta infornando delle pizze al ristorante e riordina dei volumi sugli scaffali della libreria. Questa scomposizione si avvia proprio quando il protagonista comunica la difficoltà di dovere spesso saltare rapidamente da un ruolo ad un altro così diverso dal primo. Lo sdoppiarsi di Antonio, giocoliere tra i due impieghi, è tradotto in immagini in maniera emblematica attraverso questo effetto.

Il documentario va avanti lasciando spazio ad un'altra storia: Alessia dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere, durante la preparazione di un dottorato, racconta di aver cominciato a svolgere l'impiego che ancora oggi ricopre, come collaboratrice coordinata e continuativa. All'inizio le ha molto giovato la flessibilità di orari ed un impegno orario non gravoso: in questo modo è riuscita a gestire con facilità anche gli impegni universitari. Col tempo però questo lavoro è diventato la sua principale occupazione, nel 2000 la sua mansione ha assunto la definizione di "rilevatore dati", ma nella realtà, per il suo impiego, sono richieste competenze e svolte attività del tutto estranee a tale incarico. Pur adoperando cognizioni ed abilità conseguite grazie al suo percorso di studi queste non le sono riconosciute, risulta così un forte scollamento tra il suo ruolo teorico e le sue effettive mansioni. La costruzione di questa sequenza è identica alle precedenti, compreso il nome della protagonista sovrimpresso: si mostrano in montaggio alternato il mezzo busto di Alessia, altre inquadrature che la ritraggono al computer e semplici dettagli della casa.

E' adesso il turno di Luca che racconta il suo percorso di studi anomalo: partito dal Corso di Laurea in Fisica per passare a Scienze Politiche ed approdare finalmente a Storia, la sua vera passione, frequentando un corso di epigrafia medievale; prosegue parlando del suo lavoro al call center e delle attività che lo caratterizzano. Anche questa volta la struttura della sequenza si ripete quasi in maniera modulare: col nome di Luca sovrimpresso, la voce over, e il montaggio alternato tra mezzi busti e campi più ampi che ritraggono il protagonista sul posto di lavoro o fra le iscrizioni medievali.

Il documentario ora procede lasciando spazio ad una parentesi di sospensione al racconto, su un brano musicale di sottofondo vengono mostrati tutti e quattro i ragazzi colti nella loro quotidianità: Alessia mentre cucina, Luca mentre si prepara per l'arrampicata, Giovanna che passeggia nel parco e Antonio in pizzeria. Le immagini sono trattate al ralenti, l'una collegata all'altra per mezzo di una dissolvenza incrociata; la sensazione che ne deriva è rilassata e positiva. L'ultima inquadratura si discosta dalle precedenti perché non è rallentata e su di essa il brano musicale, pur rimanendo in sottofondo, lascia lentamente spazio al rumore ambiente della pizzeria soffermandosi su Antonio.

Si riparte da qui con il classico montaggio che alterna immagini delle diverse attività del protagonista, rette dalla voce off: Antonio riflette sul suo lavoro e sul continuo scambio di ruoli. Ammette di sentirsi gratificato da entrambe le mansioni perché in pizzeria riesce a vedere il frutto concreto del proprio lavoro e se è bravo riceve i complimenti, in libreria invece gli dà grande soddisfazione riuscire a consigliare il libro giusto, o coinvolgere qualcuno in una lettura che lo ha appassionato. Il protagonista scherza sul suo timore di confondersi tra i due impieghi; prosegue poi più seriamente sostenendo di mettere molto di sé nel proprio lavoro e che questo spesso è una "fregatura", ma ammette di non sapere né volere fare altrimenti. La sua riflessione prosegue nel distinguere, non senza ironia, il "fare" dal "lavorare": secondo Antonio il "fare" implica grande libertà e permette di toccare il frutto dei propri sforzi, mentre il "lavorare" comporta uno scambio e soprattutto una costrizione. Chiude l'intervento una dissolvenza in nero unita al rialzarsi del volume del brano musicale di sottofondo, e sullo schermo compare il titolo DEI CONTRATTI . E DEI DIRITTI.

L'ultima parte del capitolo sfrutta sapientemente alcune peculiarità del montaggio come l'uso del ralenti in certi momenti caratterizzanti, conferendo così intensità e pathos alle immagini. Il tono di tutta questa sezione non è troppo serioso né malinconico: si affrontano capillarmente tematiche molto gravi, ma lo si fa con la giusta dose di ironia e profondità. Pur piegati dalla flessibilità, dalla precarietà e dal superlavoro né i protagonisti, né gli autori sembrano avere perso stimoli e passione.





6 Capitolo secondo: DEI CONTRATTI . E DEI DIRITTI


Il nuovo capitolo DEI CONTRATTI . E DEI DIRITTI si apre con la voce off di Luca sopra le immagini delle epigrafi medievali, solo più tardi ci si ricongiunge al suo primo piano. Luca illustra la sua condizione di lavoratore interinale che si protrae ormai da un anno e mezzo: spiega che prima il suo era un lavoro in nero, mentre adesso le sue mansioni e la retribuzione sono inquadrate nel contratto di terzo livello delle telecomunicazioni, stabilito dallo standard nazionale. Di seguito a queste parole l'inquadratura cambia repentinamente mostrando Luca sul posto di lavoro ed in sovrimpressione, a coprire tutto lo schermo, compare una breve definizione di lavoro interinale.



LAVORO INTERINALE O IN AFFITTO Il lavoratore è dipendente di un'agenzia (l'impresa fornitrice) e viene

da questa retribuito, ma svolge una prestazione a termine presso altre "imprese utilizzatrici".


Le "utilizzatrici" corrispondono alle agenzie una quota per l'intermediazione. Introdotto in Italia dalla

legge 196/1997, il cosiddetto "pacchetto Treu".




Accompagna la definizione un brano musicale nuovo, è suonato al piano ed ha un ritmo incalzante e divertito, è una sorta di marcetta. Di qui in avanti, per tutta la durata del capitolo, si farà largo impiego di queste didascalie sovrimpresse: se ne utilizzerà una per ogni protagonista, ad illustrare la classificazione della sua attività lavorativa. Ancora una volta si procede con molta chiarezza e razionalità, trattando capillarmente i vari tipi di contratto e utilizzando la canonica panoramica sulle quattro storie. Inoltre l'introduzione di tali definizioni, tratte direttamente dagli articoli che regolamentano la legislazione sul lavoro, offre un approfondimento esaustivo dal punto di vista giuridico. La base normativa, in documentari come questo, cade spesso in secondo piano a favore di indagini di interesse più umano e sociale, qui, invece, si sceglie addirittura di fornire le definizioni in forma scritta, anziché renderle deducibili dai racconti dei protagonisti, ribadendo il loro ruolo basilare per una riflessione realistica sulla flessibilità.

Una nuova sequenza si apre con Alessia che in un primo piano illustra la sua condizione lavorativa: i collaboratori come lei non sono previsti dall'organigramma dei dipendenti della struttura in cui lavora, e nemmeno è stanziato alcun budget per questo tipo di assunzioni. Per i casi come il suo, di collaboratore coordinato e continuativo, non è nemmeno obbligatorio un contratto scritto, ci si affida al buongusto del datore di lavoro. Ed anche questa volta, sull'immagine di Alessia al computer, appare in sovrimpressione la definizione con il medesimo sottofondo musicale.



CO. CO. CO.


COLLABORATORI COORDINATI E CONTINUATIVI Detti anche "parasubordinati",

la prestazione lavorativa è temporanea, ma reiterata nel tempo,

e viene svolta sotto il controllo di un "committente".


La contribuzione previdenziale è di 1/3 a carico del lavoratore.



Di seguito si ripropone il primo piano di Alessia che continua sottolineando la tremenda precarietà dei contratti come il suo. La sua prestazione, ad esempio, è richiesta per la durata di tre mesi, i quali possono essere rinnovati, ma con almeno un mese di pausa obbligatoria e in questo periodo succede però di continuare comunque a lavorare ufficiosamente; il rinnovo del contratto poi non è mai garantito, né comunicato con troppo preavviso.

Un immagine ambiente di gabbiani che si posano su un tratto di parco introduce l'intervento di Giovanna, che appare subito dopo in primo piano. Lei riflette su tutte quelle necessità dell'individuo che comunque permangono anche nei periodi di non lavoro: quando non ci sono entrate, ma rimane comunque da pagare l'affitto e da fare la spesa. Di seguito ritorna, con le stesse modalità usate in precedenza, la didascalia sovrimpressa sul primo piano di Giovanna al lavoro.



COLLABORATORI OCCASIONALI La prestazione è saltuaria, non dovrebbe essere reiterata e dovrebbe essere svolta dal lavoratore con modalità autonome.

Il "committente" è esentato dal pagamento dei contributi previdenziali.




Giovanna continua, a chiusura della didascalia, a spiegare come in una situazione del genere ci si senta più che un lavoratore flessibile, un lavoratore precario.

Di seguito si ritorna ad Antonio, ripreso in primo piano; lui afferma che una flessibilità intesa come il "saper fare" e "poter fare" tante cose sarebbe bene accetta, ma la sua frase è lasciata sospesa e si introduce la ormai classica definizione.



LAVORATORI "PROTEIFORMI" (??????)

Svolgono contemporaneamente più attività di natura mutevole

- a volte tra loro antitetiche - per committenti diversi, con orari ad articolazione acrobatica.


Un potenziale modello per ulteriori riforme in materia di lavoro flessibile.




Adesso Antonio può continuare la sua riflessione precisando che invece la flessibilità, purtroppo, è intesa in un altro modo dalla committenza e nella pratica rappresenta il potere di convocare il lavoratore quando è utile, e scaricarlo appena esaurita questa necessità. Il primo piano molto statico, usato per tutta la scena, si chiude con un ralenti lasciando spazio ad una nuova sequenza.

Le immagini che seguono hanno una connotazione particolare: presentano colori molto sbiaditi, tendenti al grigio e mostrano una lunga fila di persone, perlopiù giovani, entrare di corsa passando sotto una saracinesca appena aperta. La loro corsa continua lungo una scala arrivando in uno spazio molto ampio e asettico, senz'altro un ufficio pubblico; proprio a questo punto compare in sovrimpressione, sullo scorrere invariato della scena, la dicitura "Ufficio di collocamento di Roma - 1976". Fin dall'inizio della sequenza si comprende che si tratta di materiale datato: infatti la grana della pellicola e gli abiti delle persone ritratte rendono facilmente collocabili le riprese agli anni settanta. E' il primo inserto del genere che incontriamo nel documentario, ma si inaugura così un utilizzo reiterato di materiali d'archivio come questo. Nei titoli di coda si rivelerà che i filmati utilizzati non provengono da fonti di documentazione sociale, ma sono tratti da film italiani sul tema del lavoro.

L'uso di materiali video come questi, nella costituzione di documentari originali, è un fenomeno non raro nel documentario italiano: è una scelta condivisa da molti autori tanto da dare vita a un vero e proprio filone stilistico18.

Una scelta del genere risulta ovviamente dettata dalla consapevolezza dell'enorme valore storico-sociale dei materiali video, che più di ogni altro mezzo di documentazione hanno il potere di far rinascere, ad ogni visione, le suggestioni originali19. In Vite flessibili si fa acutamente ricorso a queste sequenze di film per sollecitare la memoria storica degli spettatori, in alcuni casi, più avanti nel documentario, questi raffronti col passato avranno valenze più dure, in altri saranno commenti sarcastici. Infine un così ampio uso di immagini di repertorio storico è ricongiungibile alla collaborazione attiva che l'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico ha intessuto con gli autori, mettendo a loro disposizione la sua preziosissima memoria audiovisiva20. I film scelti sono di forte valenza documentaria, portatori di rare testimonianze sociali, e tra gli esempi più noti per le tematiche del lavoro; i loro autori risultano da sempre impegnati sul fronte della difesa dei diritti dei lavoratori e sembrano porsi vicini, per intenti e per ideologia a Di Lecce e Lamina.

Attraverso questo preciso inserto si paragona il mondo del lavoro del 1976 a quello di oggi, evidenziando distanze incolmabili: nemmeno l'ufficio di collocamento esiste più, ormai sostituito dai più moderni e accattivanti "centri per l'impiego" dove al pari di un' agenzia di viaggi si svendono lavoratori e mestieri21. Ma è soprattutto il lavoro inteso come una sicurezza per tutta la vita, fino alla pensione, che non esiste più, e l'estinguersi di questa concezione non può essere tacitamente accettata in nome del progresso. Se fino alla fine degli anni settanta pesanti lotte sindacali e sociali sono riuscite a pretendere garanzie sui diritti e sulle regolamentazioni per i lavoratori, oggi queste conquiste

sembrano negarsi e svilire in nome della flessibilità. Un lavoratore assunto per mezzo di uno dei tanti contratti atipici non è per niente parificato agli altri

dipendenti, vedendosi negati anche i diritti fondamentali come la malattia e la maternità2 Queste constatazioni, indotte dal breve brano d'archivio, sono ribadite e approfondite dai protagonisti nel resto del documentario.

Procedendo col film segue l'intervento di Giovanna, che spiega di trovarsi a lavorare spesso su progetto per piccole strutture finanziate dallo stato che non dispongono, pertanto, di possibilità di pagamento immediato. Un lavoro svolto adesso potrà quindi essere retribuito tra quattro, sei mesi, o addirittura un anno.

A questo punto viene inserito un brevissimo estratto della stessa sequenza introdotta precedentemente: si ripropone il momento in cui le persone superano la saracinesca per correre allo sportello, questa volta però le immagini sono al ralenti e l'audio originale è sostituito da un brano musicale. In questo modo, reiterando l'uso della stessa sequenza, si sfrutta tutto il suo valore evocativo, ponendo le immagini del 1976 come il termine di paragone con ognuna delle quattro storie. Infatti porzioni della sequenza mostrata originariamente intera vengono riproposte ancora per quattro volte, a intarsiare e fare da contrappunto agli interventi dei protagonisti.

Si prosegue ora con Alessia che ritorna sul tema retribuzioni: lei ricorda di tenere presente che nel suo caso lo stipendio di tre mesi va comunque distribuito per quattro, visto che per il tempo di interruzione obbligatoria della collaborazione, il co.co.co. non è considerato un disoccupato, ma un "inoccupato" e pertanto non ha diritto a nessuna indennità. Inoltre precisa che i collaboratori coordinati e continuativi non hanno diritto alla malattia e quindi non ricevono lo stipendio se sono impossibilitati a recarsi sul posto di lavoro. Conclude poi ricordando che in caso di assenza il datore di lavoro è libero di interrompere repentinamente il contratto. A seguire viene ancora una volta inserito un piccolo estratto dalla sequenza del film, riproponendolo al ralenti e con lo stesso sottofondo musicale.

Adesso è Antonio a intervenire: lui ipotizza il caso in cui, stando male, non possa lavorare per un paio di settimane, in una situazione del genere non gli spetterebbe alcun compenso o indennità, e l'unica scelta per lui sarebbe chiedere aiuto alla famiglia oppure resistere senza stipendio per tutta la durata della malattia.

Ritorna di seguito il solito estratto dalle immagini di archivio, per poi passare all'intervento di Giovanna, che affronta la questione delle tasse. Lei, in quanto lavoratrice occasionale, è tenuta in certi periodi dell'anno a versare allo stato un anticipo sulla tassazione calcolata in base al totale guadagnato l'anno precedente, non si tiene conto però della irregolarità del suo stipendio, perciò le capita spesso di andare a credito per l'anno in corso. Secondo Giovanna un sistema fiscale di questo tipo non è efficiente, perché i lavoratori occasionali come lei, sono equiparati ai liberi professionisti quando invece non lo sono affatto.

L'ennesima reiterazione della sequenza, con le stesse modalità precedenti, ci introduce Luca che si domanda perché gli interinali, pur essendo in tutto parificati ai lavoratori tradizionali, non hanno diritto ai premi di produzione. Sullo stesso filone prosegue Alessia precisando che i co.co.co. non hanno ferie retribuite, né diritto al trattamento di fine rapporto. Ritorna subito di seguito Luca che conclude con lo specificare che i lavoratori interinali possono usufruire del proprio periodo di ferie soltanto in certi momenti dell'anno.

Si ricorre, a questo punto, ad un nuovo inserto estratto da un film: la sequenza è in bianco e nero e, con una lunga carrellata dall'alto, ritrae una spiaggia affollatissima piena di ombrelloni. Colpisce il brulichio delle persone mentre passeggiano e le file fitte di ombrelloni aperti, concludersi verso l'entroterra con gli edifici rettangolari degli stabilimenti. La colonna audio è occupata da un brano musicale con tutta probabilità coetaneo alle immagini: risulta caratteristico soprattutto per il suo testo, cantato da una voce maschile, che centra mordacemente l'argomento.





"Quando il sole risplende sulle spiagge e ruba le ombre alle montagne

i piccoli schiavi lasciano il lavoro e partono dalle città,

i piccoli schiavi lasciano il lavoro e partono dalle città"

Questo inserto ha una forte connotazione ironica, oltre a proporre ancora un paragone con la condizione lavorativa del passato. E' ormai inevitabile rendersi conto dell' esaurirsi dell'era delle vacanze di massa garantite dai contratti e concentrate, per la gran parte dei lavoratori, nello stesso periodo dell'anno; oggi la flessibilità e l'atipicità delle nuove, ma dilaganti, forme contrattuali non contempla alcun monte ore di ferie retribuito. Oltre a questa riflessione, la sequenza, propone anche la facile associazione tra il testo della canzone, quando parla di "piccoli schiavi del lavoro", e la condizione dei lavoratori flessibili. Il termine "schiavi", un po' forte e stridente con la leggerezza del brano musicale, calza innegabilmente con le considerazioni che il film sta sviluppando in questo preciso capitolo, indagando appunto i diritti, perlopiù negati, del lavoratore atipico. Un sarcasmo, quello degli autori, ben congeniato ed efficace, che sa sdrammatizzare pur rimanendo estremamente pungente, forse in qualche modo vicino allo "humour nero" di fede surrealista. Resta un dato di fatto la reale problematicità della condizione del lavoratore atipico, che si vede negate ferie, malattia e liquidazione, che non può contare su alcuna sicurezza di rinnovo del contratto in corso, né in un sostegno per un eventuale periodo di non lavoro e che per di più deve attenersi a norme fiscali inadeguate alla sua precarietà.

Segue a questa parentesi d'epoca Giovanna, che riflette in merito all'assillo che sovente si dà ai i giovani lavoratori sulla necessità di una formazione continua, e di un aggiornamento efficace; lei si domanda come sia possibile per un lavoratore nelle sue condizioni, senza alcuna sicurezza economica, riuscire ad investire denaro nella formazione. Sullo stesso filone continua Antonio lamentandosi che la precarietà non permette di aggiornarsi sul proprio lavoro, impedendoti di svolgerlo nel migliore dei modi. Conclude chiedendosi quanto tutto questo sia effettivamente conveniente per il datore di lavoro. Di seguito Alessia insiste ancora sul tema della formazione riportando la propria esperienza: è dal momento della sua assunzione che richiede alla struttura da cui dipende di poter seguire un corso di informatica, visto che la sua mansione richiede un uso quotidiano del computer. In seguito alle continue negazioni ha dovuto adattarsi a svolgere un corso di quel tipo presso l'università; lei sottolinea il peso della questione, considerando che il suo stipendio è risicato e risulta troppo oneroso sostenere in proprio i costi di un corso di informatica. Di seguito riprende la parola Antonio ricordando del gran parlare che si fa del diritto allo studio che però nella pratica non è garantito per tutti; prosegue raccontando la propria esperienza e le difficoltà a cui la sua famiglia ha dovuto far fronte per mantenerlo i primi anni all'università. Antonio precisa, polemicamente, che se per lui è stato complicato anche acquistare un libro per sostenere un esame, allora non sa dire quanto veramente tutti siano alla pari; conclude ammettendo che da quando ha cominciato a lavorare l'università e lo studio sono passati, per lui, in secondo piano.

Gli interventi di questo ultimo blocco vengono trattati in maniera uniforme, per tutti quanti si utilizza un'inquadratura unica, il mezzo busto o il piano americano, che si collega al successivo tramite un semplice taglio netto. Solo in questa ultima sequenza, che ritrae Antonio, ci si discosta dalla regola inserendo al centro dell'intervento, di sottofondo alla sua voce, alcune immagini che ritraggono il protagonista mentre lavora in libreria, spostando e risistemando volumi. Appena la voce si interrompe si inserisce nella colonna audio la marcetta veloce ed allegra già ascoltata in precedenza, mentre per la colonna video si usano carrellate velocizzate degli scaffali della libreria. Il mix tra la musica allegra e le inquadrature velocizzate richiamano molto i modi delle comiche: si usa così ancora una volta l'ironia per dipingere la situazione di Antonio, carismatico "supereroe del superlavoro atipico"23. Poco dopo la musica si abbassa, lasciando di nuovo spazio alla voce di Antonio che prosegue il suo intervento; anche le inquadrature cambiano tornando a velocità normale e mostrando adesso il lavoro in pizzeria. Antonio aveva concluso rivelando l'importanza primaria che il lavoro aveva assunto rispetto all'università, adesso prosegue portando l'esempio dell'impegno che spesso comporta il suo lavoro. Il protagonista racconta di ritrovarsi, in certi week and, a lavorare la mattina in libreria, a fine turno uscire e raggiungere in un quarto d'ora la pizzeria per lavorare lì fino alle due di notte; si trova così a coprire quaranta ore lavorative in tre giorni anziché in una settimana. In questa ultima parte dell'intervento si ripropone, dopo le immagini della pizzeria, il mezzo busto di Antonio per poi mostrare ancora una volta il suo lavoro da pizzaiolo. Queste inquadrature ed il loro alternarsi velocemente forniscono una certa sensazione di frenesia, rafforzata anche dalla musica incalzante che, a volume ridotto, è rimasta in sottofondo a tutta la sequenza; risulta ovvio che fretta e affanno siano volutamente emulati perché insiti nel quotidiano superlavoro di Antonio.

Il documentario prosegue adesso con l'intervento di Luca che ritroviamo in un'inquadratura a mezzo busto con sullo sfondo le rovine medievali, lui porta a confronto la situazione lavorativa della sua ragazza, anche lei lavoratrice atipica. E' assunta come collaboratrice coordinata e continuativa, ma lavora ogni giorno dalle otto e trenta del mattino alle sette di sera, e nel fine settimana, o fuori dal suo orario di lavoro, è tenuta a fare telefonate o mandare e-mail per conto del titolare. Anche questa sequenza alterna al canonico mezzo busto altri inserimenti, stavolta composti da particolari e brevi carrellate delle epigrafi medievali; per tutto l'intervento di Luca rimane sotto la sua voce, a volume

molto basso, lo stesso brano musicale usato in precedenza. Si ripropone anche in questo caso la solita marcetta, quasi a volerla eleggere segno distintivo del tema del superlavoro affrontato anche da Luca.

Segue un nuovo intervento di Antonio che affronta l'argomento dell'orario di lavoro, lui precisa che se il progresso è stato continuare nel 2002 (anno della realizzazione del documentario) a lavorare dieci ore al giorno, allora secondo lui non ci siamo evoluti molto.

Quando l'inquadratura è ancora ferma sul volto di Antonio, che ha appena concluso la frase, si avvia un brano musicale nuovo cantato da una voce femminile, è una canzone appartenente alla tradizione del movimento operaio italiano che istintivamente leghiamo a inserti di film come quelli usati in precedenza. Invece uno stacco netto nel montaggio ci mostra, con un piano d'insieme, un coro di quattro voci, che proprio al cambio di inquadratura parte a cantare all'unisono, segue a concludere la brevissima sequenza un primo piano sul volto di uno dei cantanti. Si tratta del Quartetto Urbano, un ensemble vocale che nasce nel 2000 per interpretare le musiche di Giovanna Marini in uno spettacolo teatrale; il loro repertorio spazia dai canti di tradizione orale e contadina ai madrigali contemporanei. Il coro ha all'attivo due spettacoli ed un cd edito di recente, riscuote ad oggi apprezzabile successo collezionando recensioni più che positive e partecipazioni a manifestazioni culturali di rilievo nazionale. Il Quartetto Urbano si è spesso contraddistinto per la sensibilità verso tematiche di rilevanza sociale come appunto il precariato, impegnandosi in una

partecipazione artistica attiva ad eventi di pubblica protesta24. Le quattro voci si sono fatte anche interpreti della Canzone dei Precari brano musicale ideato nel 2006 con testo di Antonella Talamonti e Xavier Rebut, uno dei cantanti, su musiche di Xavier Rebut, ispirata ad una melodia di Hanns Eisler per

L'eccezione e la Regola di B. Brecht25.


Il testo del brano cantato dal quartetto è molto celebre: "Se otto ore vi sembran poche venite voi a lavorar."


Ancora una volta gli autori hanno scelto con cura l'inserto da proporre, perfettamente calzante con la riflessione in corso e di nuovo ricco della giusta dose di polemica e ironia; di seguito nel documentario verranno proposti altri interventi del quartetto, tutti ricchi dello stesso spirito sarcastico. Se l'uso di materiali video di archivio ha una tradizione non trascurabile nel documentario italiano, il ricorso a forme di espressione particolari, quali appunto il canto in presa diretta, sono pratiche molto meno consuete. E' senz'altro una scelta ricercata e ben ponderata quella di produrre inserti del genere, studiati in rapporto alla costruzione del discorso ed al senso generale del film. Occorre ammettere che il peso effettivo del ruolo che il Quartetto Urbano assume in questo contesto, si apprezza maggiormente dopo avere appreso della loro ricerca circa i canti popolari delle realtà contadine e urbane, e soprattutto della loro tensione e partecipazione verso i temi sociali della modernità. La loro presenza attiva nella lotta e nell'impegno sociale su temi come quello del precariato arricchisce notevolmente il loro messaggio nel documentario.

Il brano eseguito dal Quartetto Urbano fa da collante ideale con la sequenza successiva che propone ancora una volta un filmato estratto da un film. Si tratta in questo caso di immagini in bianco e nero molto sgranate e consumate, che ritraggono scioperi, volantinaggi e manifestazioni; in sottofondo la voce dello speaker comunica il raggiungimento di una regolamentazione del lavoro attesa da tempo: essa prenderà in considerazione le questioni della retribuzione minima, dell'orario di lavoro sceso sotto le quaranta ore settimanali, delle ferie, del diritto allo studio e del regolamento dell'apprendistato. La sequenza si avvia sul brano cantato, il quale viene di seguito sopraffatto dalla voce dello speaker pur rimanendo in sottofondo; lo scandire delle immagini è molto veloce e incalzante quasi a suggerire l'estremo attivismo del periodo storico che si illustra. E' più che evidente la volontà di contrapporre la realtà contemporanea presentata da Antonio e dagli altri protagonisti, fatta di sfruttamento autorizzato dei lavoratori atipici, ai diritti assodati già trenta anni fa. Si evince allora che la legislazione e la regolamentazione del modo del lavoro sia regressa alla "preistoria", e che ogni sgravio dal peso della precarietà sia di nuovo tutto da conquistare.

La sequenza si configura come una parentesi esplicativa alla riflessione di Antonio, che di seguito riprende la parola per continuare il suo intervento. Antonio spiega di volersi laureare con una tesi sulla riduzione dell'orario di lavoro, ad esempio sull'esperienza francese, che secondo lui è la strada da seguire per combattere la disoccupazione. Stando alle stime in Europa ci aggiriamo intorno ai 1000.000 di disoccupati, tale situazione richiede, secondo Antonio, una soluzione drastica e veloce. Mentre scorrono le sue parole l'inquadratura stacca dal suo primo piano per mostrarlo in casa mentre si sdraia sul letto, mette un po' di musica e comincia a leggere un libro, appunto L'esperienza delle 35 ore in Francia.

Segue l'intervento di Alessia che inizia a parlare ancora sulle immagini di Antonio, ricongiungendosi poco dopo al suo primo piano; lei parla della maternità da poco introdotta anche per i co.co.co. con forme simili a quella tradizionale. Viene infatti calcolata un'indennità di maternità che copre i cinque mesi di interruzione del lavoro, ma ai collaboratori non si dà garanzia che il contratto non venga interrotto in quel periodo, inoltre non esiste la possibilità di richiedere permessi per l'allattamento o per la malattia del bambino. Alessia ribadisce che la maternità per i lavoratori atipici ha grossi limiti in senso legislativo, rispetto a quella dei lavoratori tradizionali. Continua precisando che esistono degli assegni familiari di sostegno, ma che per le condizioni capestro richieste possono ricevere solo persone in condizioni di estrema povertà. L'intervento era cominciato con la voce di Alessia, che con un leggero ritardo si ricongiungeva al suo primo piano, continua con l'inserimento di alcune immagini di vita familiare accompagnate dal suono di un carillon a volume molto basso. Si mostra il bambino di Alessia mentre viene vestito dai genitori per essere portato fuori, di seguito vediamo madre e figlio mentre passano la porta di casa, scendono le scale condominiali ed escono. Le inquadrature seguono da vicino Alessia e il bambino in tutte le operazioni che, con estrema naturalezza, compiono per uscire; l'operatore riesce a trasmetterci tutta la tenerezza e la cura che la neo mamma mette nei suoi gesti. Questi stralci di vita familiare, intrisi di dolcezza, stridono però con tutte le difficoltà che una "madre flessibile" è costretta a superare senza alcun sostegno o tutela. La sequenza si conclude con Alessia che cammina verso la telecamera per poi superarla ed allontanarsi, nella colonna audio si avvia uno brano musicale già sentito in precedenza che perdurerà per tutta la sequenza successiva.

Segue l'intervento di Giovanna che continua sullo stesso argomento; la sequenza si avvia con modalità identiche alla precedente:, la voce off che si ricongiunge poco dopo al suo primo piano di origine. Giovanna dice che, qualora decidesse di avere un figlio, non avrebbe riconosciuta la maternità in quanto collaboratrice occasionale; ma ammette che anche se assunta come co.co.co. sarebbe comunque molto problematico. Lei precisa che una gravidanza la obbligherebbe ad uscire dal mercato del lavoro, rientrarvi poi risulterebbe estremamente complicato e rimarrebbe comunque la difficoltà nel coordinare gli obblighi di madre con quelli di lavoratrice atipica.

Per tutta la durata dell'intervento Giovanna è ripresa in mezzo busto sullo sfondo di un parco, ma le sue parole conclusive vengono lasciate scorrere su un'immagine di Alessia con in braccio il bambino. Madre e figlio sono ritratti seduti su delle gradinate mentre guardano, attraverso una recinzione metallica, un campetto da calcio desolato; l'inquadratura con una panoramica verso sinistra va a riprendere proprio la rete divisoria, evidenziandola con un lento movimento rallentato.





In dissolvenza incrociata sulle maglie della rete che scorrono lentamente, si avvia un altro inserto tratto da un film, ma questa volta l'avvicendarsi delle due sequenze avviene in modo particolare: allungando di molto la dissolvenza per far convivere per qualche secondo le due immagini, una sull'altra. Il brano inserito è ancora una volta in bianco e nero, e mostra una manifestazione femminista che protesta contro lo sfruttamento della donna sul posto di lavoro e in famiglia, una voce al megafono grida: "Per l'emancipazione della donna e per i diritti dell'infanzia, asili nido, subito!" E' facile la metafora della donna tenuta in gabbia, la rete metallica che appare in dissolvenza, da una regolamentazione del lavoro e da strutture sociali che non l'agevolano affatto. Le immagini della rete sono registrate ai giorni nostri, ma in quanto simbolo di costrizione sembrano unire le sorti della donna di trenta anni fa con quella di oggi. Se a fine anni sessanta era il maschilismo imperante delle istituzioni a castrare le aspettative e le esperienze della donna, tentando di rinchiuderla nei suoi doveri familiari, oggi sembra succedere il contrario e alla donna "lavoratrice atipica" si nega addirittura il diritto di esercitare la propria femminilità in quanto madre. Nell'estratto proposto colpisce l'immagine di una mamma che tiene stretto il proprio figlio neonato, questa donna per postura e capigliatura è del tutto simile ad Alessia; tale similitudine, non so dire quanto casuale, acuisce ancor più la dialettica tra le immagini di repertorio e le storie che vengono qui raccontate, legandole sottilmente per le vie dei sentimenti e delle sensazioni.

Conclusa la sequenza in bianco e nero ritorniamo, attraverso una dissolvenza incrociata, ad Alessia che cambia argomento introducendo la questione della pensione. Secondo i suoi calcoli per raggiungere i trentacinque anni contributivi, attraverso il suo contratto di co.co.co., dovrebbe lavorare per altri cinquantasei anni e arrivare a percepire una pensione di seicentomila lire al mese, oggi circa trecento euro.

Prosegue sulla stessa linea Giovanna, spiegando che per un lavoratore occasionale l'unico modo per potere percepire una pensione è quello di sottoscriverne una privatamente; lei precisa di rifiutarsi ideologicamente di far fronte a ciò che invece spetterebbe allo stato, ma oltretutto, vista la precarietà del suo stipendio, le sarebbe impossibile sostenere il peso di una pensione integrativa.

Con uno stacco netto si passa all'intervento di Luca che invece evidenzia il problema, per un lavoratore interinale, di chiedere un prestito, anche un piccolo finanziamento per un motorino, che solitamente è negato a chi non ha un contratto tradizionale; un lavoratore come lui rimane quindi fuori dal mercato, perdendo certi diritti di acquisto garantiti invece agli altri.

Anche Antonio espone nel suo intervento problemi analoghi: spiega di essere costretto a ricorrere a suo padre per farsi fare da garante, anche soltanto per acquistare un computer a rate; questo perché suo padre ha una busta paga mentre Antonio, pur riuscendo in certi mesi a guadagnare anche più di lui, non ha niente in mano in quanto è un lavoratore atipico. Antonio si sente umiliato da una situazione del genere, ritenendo di non avere più l'età per certe cose. Tutti gli interventi di questo ultimo blocco hanno una costruzione analoga composta di mezzi busti statici, solo in rare occasioni interrotti da brevi dettagli dell'ambiente circostante.

A questo punto viene proposto un nuovo brano eseguito dal Quartetto Urbano, il coro è ripreso in un campo medio, statico; il testo della canzone recita:


"Viva il primo di maggio E chi l'ha inventato"


Ancora una volta si è scelto un brano con l'intenzione di suggerire una riflessione: si canta viva il primo maggio, la festa dei lavoratori, ma chissà se per gli atipici è ancora salvo almeno il diritto a festeggiare. Storicamente la ricorrenza del primo maggio nasce come momento internazionale di lotta per tutti i lavoratori, segnato negli anni da scioperi e manifestazioni, ma anche da cariche della polizia e morti. Oggi il primo maggio ha sicuramente perso il suo carattere reazionario, ma invece sembra che il destino della classe lavoratrice torni a esigere l'impegno per riacquistare dignità e diritti, che le nuove strategie economiche internazionali hanno sbriciolato. Le immagini del coro sfumano sul nero, lasciando spazio alla comparsa del titolo SINDACATO; la musica rimane continuando fino al primo intervento del capitolo seguente, abbassandosi poi gradatamente di volume fino a scomparire.






7 Capitolo terzo: SINDACATO


Il nuovo capitolo si apre con Giovanna, secondo lei la precarizzazione stessa del lavoratore, il fatto di non lavorare per lunghi periodi nello stesso posto, o di sottostare a contratti sempre diversi che portano ad avere un rapporto esclusivamente individuale col datore di lavoro, condizionano la sindacalizzazione della classe lavorativa.

Continua poi Alessia riportando un'esperienza personale avuta sul posto di lavoro: dopo un anno di mancato pagamento dello stipendio a danno di alcuni colleghi, i dipendenti hanno provveduto a chiedere delucidazioni in forma scritta sull'accaduto, la reazione della direzione è stata quella di scatenare una caccia alle streghe per tentare di risalire a chi, tra loro, avesse contattato il sindacato.

Subito di seguito ritorniamo a Giovanna che approfondisce l'argomento constatando che i contratti atipici danno una grande forza al datore di lavoro, e nel merito vede completamente assenti i sindacati: secondo lei dovrebbero entrare di più nelle aziende e lavorare con più efficacia per i lavoratori precari.

E' il turno di Luca che confessa di avere visto i rappresentati sindacali solo una volta in un anno e mezzo di lavoro e che, per quanto lo riguarda, la tutela e la rappresentanza nei suoi confronti è praticamente nulla.

Anche Antonio si lamenta dell'assenza del sindacato, che non si interessa ai casi come il suo di lavoratore precario; secondo lui invece dovrebbero tentare di tutelare questo tipo di lavoratori, garantendo loro delle sicurezze.





Alessia ricorda che si creano delle situazioni paradossali per i lavoratori flessibili, ma del tutto lecite e riconosciute grazie al famoso pacchetto Treu che ha istituito queste figure professionali, legalizzando dei veri e propri abusi.

Segue sullo stesso tema l'intervento di Giovanna che ricorda in merito al pacchetto Treu che la sua approvazione è avvenuta in un momento storico- politico preciso e che ha visto l'introduzione della flessibilità senza alcuna opposizione del sindacato.

Torna ancora una volta Alessia a portare la sua personale testimonianza di lavoratrice atipica in un ente pubblico, finanziato da fondi pubblici, ma gestito con fare privato; lei precisa che l'alternarsi di fazioni politiche opposte non ha mai portato a cambiamenti costruttivi. Tutti gli interventi del capitolo sono stati trattati uniformemente con il classico primo piano o mezzo busto formando uno sviluppo del racconto riccamente strutturato ma molto compatto. Questo ultimo intervento invece varia sostanzialmente dai precedenti: si parte con un primissimo piano sulla protagonista per poi allargarsi gradatamente fino a raggiungere il mezzo busto, a questo punto si procede con l'inserimento di immagini che la ritraggono mentre partecipa ad una manifestazione, circondata da bandiere e striscioni.

Continuano le immagini di una manifestazione, ma questa volta ritraggono Giovanna; in corrispondenza della nuova sequenza parte la sua voce che riflette appunto sulla sua partecipazione a questo tipo di attività di protesta. Lei spiega di prendere parte alle manifestazioni sempre da sola, mai come gruppo organizzato che acquisti in qualche modo visibilità. Prosegue poi precisando che di norma la sua presenza in piazza non pregiudica, né altera, lo svolgersi regolare delle sue mansioni lavorative, visto che spesso e volentieri le manifestazioni coincidono con le sue ore libere o con i periodi di non lavoro. Secondo Giovanna questo accade per molti lavoratori atipici, tanto da svilire il valore dello sciopero e renderlo indolore per datori di lavoro e utenza. Conclude il suo intervento asserendo che, secondo lei, manca assolutamente collaborazione e solidarietà tra lavoratori stabili e lavoratori precari. Le immagini sopra le quali sentiamo la voce ritraggono Giovanna sfilare tra la folla e le bandiere, poi la si sorprende ballare al ritmo dei jambè africani insieme agli immigrati; all'interno della sequenza si intarsia alle volte il primo piano di Giovanna, quasi a riacquistare il suo legame con l'audio originale. La parentesi, che ritrae dal vero i momenti di sciopero e manifestazione pubblica, si conclude con immagini che mostrano alcuni dei personaggi più caratteristici del corteo.

Si apre a questo punto un nuovo inserto di immagini cinematografiche, la dicitura sovrimpressa all'inizio della sequenza dice: "Telegiornale del 21 giugno

1969". Al mezzobusto classico seguono immagini dell'epoca che ritraggono operai al lavoro, per ritornare infine al volto del giornalista. La voce illustra un provvedimento appena approvato che sancisce la piena libertà dei lavoratori di manifestare il loro pensiero, e disciplina le pratiche aziendali che possono limitare la liberà e la dignità del lavoratore. Lo speaker continua ad illustrare le caratteristiche del provvedimento, precisando che esso stabilisce la piena libertà del lavoratore di scegliere il sindacato al quale aderire e vieta il licenziamento di motivazione sindacale, garantendo la riassunzione di coloro che avevano perso il posto a causa di discriminazioni sindacali, politiche o religiose. Si conclude aggiungendo che questo statuto dei lavoratori prevede speciali sanzioni, anche penali, per l'inosservanza delle disposizioni poste a garanzia della dignità personale del lavoratore.

Questa edizione del telegiornale dà comunicato circa la definizione dello Statuto dei Lavoratori Legge n° 300 notificato dal governo il 20 maggio 1970, sette mesi dopo il famoso 'autunno caldo' del 1969 che coinvolse oltre sette milioni di lavoratori impegnati nella rivendicazione dei propri diritti. La prima proposta di uno statuto del genere risale al 1959, soltanto dieci anni dopo fu istituita una commissione governativa per l'elaborazione dello Statuto dei Lavoratori presieduta dal socialista Gino Giugni, ma la sua approvazione definitiva si deve alla forte determinazione di Giacomo Brodolini, anch'esso socialista26. E' ancora una volta molto evidente lo stridere fortissimo della contemporaneità a confronto con la storia italiana di poco anteriore, il progresso legislativo e sociale compiuto appena trenta anni indietro oggi è semplicemente ignorato per dare spazio a un nuovo mondo del lavoro senza garanzie, senza tutele e senza responsabilità.

Concluso l'inserto si passa all'intervento di Luca che introduce una riflessione sull'articolo n°18 dello Statuto dei Lavoratori: questo annulla il licenziamento senza giusta causa e ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Lo stesso comma obbliga il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore tramite un'indennità pari alla retribuzione che avrebbe percepito dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, e comprensiva del versamento dei contributi assistenziali e provvidenziali a copertura dello stesso periodo. L'articolo 18 non è applicabile ai contratti interinali, questo perchè, precisa Luca, sono contratti di lavoro che assumono la precarietà come valore fondante e quindi hanno fin dalla partenza un termine fissato per il licenziamento. Al primo piano di Luca che apre la sequenza seguono, sopra la voce, immagini tratte da manifestazioni pubbliche e proteste di piazza, con striscioni contro la flessibilità e a sostegno della validità dell'articolo 18.

Alla voce di Luca si sostituisce quella di Antonio, ricongiungendosi solo più tardi al suo mezzo busto; anche lui prosegue sullo stesso argomento, chiarendo che se la flessibilità tanto ambita consiste nell'abolizione dell' articolo 18 allora è più corretto parlare di libero arbitrio dei datori di lavoro, e questo secondo lui è del tutto inaccettabile. Il riferimento che fa Antonio circa l'abolizione del suddetto articolo va intesa in relazione alla proposta fatta nel 2000 dal governo Berlusconi, e sottoposta a referendum per l'abrogazione dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Il 21 maggio 2000 gli italiani con diritto al voto furono chiamati a pronunciarsi circa sette interrogazioni, tra queste una chiedeva l'abrogazione delle norme sulla reintegrazione sul posto di lavoro. Per nessuna delle interrogazioni fu raggiunto il quorum che valida il risultato del referendum, solo il 32,50 % dei contraenti diritto di voto si recò alle urne.

Ritorna di seguito Luca, a mezzo busto, che insiste sulla necessità di un impegno forte, da parte del sindacato, per ampliare la validità dell'articolo 18 anche ai contratti di lavoro interinale.

Ritroviamo a questo punto Giovanna ripresa a mezzo busto e sullo sfondo il paesaggio verde del parco, lei sostiene che sarebbe necessario pensare a degli ammortizzatori sociali, ad un reddito per chi non sta lavorando: sarebbe importante nella fase di passaggio da un lavoro ad un altro riconoscere il diritto ad un sostegno, soprattutto di tipo economico.

Si giunge infine all'intervento di Alessia che si rivolge direttamente al sindacato chiedendo di tamponare almeno l'emergenza attuale, considerato che i lavoratori come lei vanno avanti senza alcun quadro normativo definito. Alessia chiede innanzi tutto cose minime ma essenziali come la malattia, la garanzia di riassunzione o i permessi assicurati a qualsiasi altro lavoratore come quelli per l'allattamento o per la malattia del figlio. Il suo desiderio più grande, però, rimane quello che il sindacato si batta per far abolire tutte queste forme di lavoro atipico, che sono una presa in giro rispetto ai diritti dei lavoratori.

A chiusura del capitolo viene inserito un altro brano eseguito dal Quartetto


Urbano col seguente testo: "Padrone mio

ti voglio arricchire padrone mio

ti voglio arricchire"


La canzone questa volta manifesta una volontà ancora più polemica e pungente: riprendendo la critica appena precedente di Antonio che parlava di libero arbitrio dei datori di lavoro, ora si denuncia, anche se con la solita ironia, il loro arricchimento a discapito del lavoratore atipico. In nome della globalizzazione e di un mercato sempre più dinamico, costretto a tenere il passo per una competizione internazionale, è stata introdotta anche in Italia la specializzazione flessibile della produzione: questa dovrebbe permettere alle aziende di inseguire i flussi del mercato adeguando il numero e la qualità dei dipendenti secondo le effettive esigenze27. Di fatto i contratti atipici comportano per il datore di lavoro oneri fiscali molto bassi e pressoché alcun dovere legale nei confronti del lavoratore, è facile immaginare quindi il ricorso forsennato a questi tipo di assunzioni. Tornando poi al testo della canzone è il termine "padrone" ad attrarre la nostra attenzione: tale parola è del tutto desueta per la nostra contemporaneità,

in cui non esiste più nemmeno una classe operaia compatta e definita. I dipendenti, a causa della numerosissime tipologie di contratto, hanno ormai un rapporto esclusivamente individuale col datore di lavoro: questo ha contribuito a disgregare i lavoratori, isolandoli e indebolendoli. Ad oggi il "padrone" è oramai sostituito dal manager o dalle agenzie di lavoro interinale, il lavoratore in difficoltà non ha più un referente fisico con cui confrontarsi per ottenere migliori condizioni di lavoro: il "nemico" si è istituzionalizzato e frammentato tra legislatori, politici, multinazionali ed economisti, che provvedono a legalizzare e

regolamentare ogni abuso conveniente28. L'uso del termine "padrone", che per il suo anacronismo potrebbe suscitare ironia, nel documentario impone una riflessione importante che ancora una volta coinvolge, in un confronto serrato, il passato con il presente.

La canzone si avvia precisamente al cambio di inquadratura che mostra i quattro coristi in piano americano, in seguito la telecamera si sposta di poco e stringe sul volto di uno dei cantanti, a questo punto una veloce dissolvenza in

nero conduce al titolo del capitolo successivo: IDENTITA'. La musica continua per tutta la durata del titolo, sfumando all'ingresso della voce di Alessia, che col suo intervento apre il capitolo.






8 Capitolo quarto: IDENTITA'


Alessia, in primo piano, elenca le varie definizioni che si usano per catalogare i nuovi lavoratori, ma lei specifica di rifiutarsi di utilizzarne una per sé, e di sentirsi a tutti gli effetti indefinita. A questo punto l'inquadratura cambia passando al profilo di Alessia che guarda nel vuoto, verso il fuori campo di sinistra; il suo volto è incorniciato in un riquadro dai contorni sfumati e dalla grana ingrossata per sporcare la visione. L'effetto che risulta è quello della pellicola invecchiata, anche la colonna audio accresce questa sensazione, riproponendo il rumore della bobina di film cinematografico che gira nel proiettore. Questo accorgimento sospende per qualche secondo il racconto di Alessia, sottolineando il peso della sua ultima osservazione, quella riguardo al sentirsi una figura professionale indefinita: attraverso tale trattamento particolare delle immagini si trasmette anche allo spettatore la stessa cupezza e perplessità che affiora sul volto e nelle parole della protagonista. Questa parentesi di sospensione implica un'analisi più personale e interiore dei personaggi e delle loro storie, sviluppata senza parole, ma resa attraverso le immagini così elaborate. Tali effetti uniti al ralenti saranno riproposti con modalità similari lungo tutto questo capitolo per ognuno dei protagonisti, proprio a sottolineare il senso di identità appannata che avvolge i lavoratori atipici.

Di seguito Alessia continua con la sua riflessione, spiegando che al termine del suo percorso universitario non si aspettava una professione coerente con quello che aveva studiato sino ad allora, ma sicuramente confidava che, al momento di intraprendere un lavoro, questo fosse semplicemente riconosciuto per quello che era; ma nemmeno questo è avvenuto. Per illustrare le sue parole l'operatore ricorre a movimenti di macchina inconsueti, andando a inquadrare le mani della protagonista che si muovono a enfatizzare e ammiccare ciò che dice. Segue un altro intermezzo che ricalca il sapore della vecchia pellicola, dove vediamo ancora Alessia nella stessa posizione in cui l'avevamo lasciata in precedenza; dopo poco però si volta, guarda in macchina e si dirige verso destra seguita dall'operatore. Questa volta il rumore dello scorrere della bobina è unito e sopraffatto da un brano musicale, uno di quelli già ascoltati nel documentario; quando ancora vediamo sullo schermo l'immagine graffiata di Alessia, la musica si abbassa diventando sottofondo e lasciando spazio all'intervento successivo di Giovanna.

La musica rimane ad un livello di volume basso, ma ugualmente comprensibile per tutto il capitolo: essa contribuisce ad amplificare il valore profondamente drammatico di questi interventi. che non riguardano più beghe legislative, economiche o sindacali, ma investono l'individuo nel suo essere e nella sua identità. Si sottolinea così come le forme di lavoro precario devastino le qualità individuali dei lavoratori, finendo col ledere il loro vivere all'interno della società e il rapportarsi con gli altri. Gli autori insistono molto su questo aspetto, dedicando appunto un intero capitolo alla "sospensione dell'identità" che vive chi è costretto a cambiare lavoro frequentemente, senza la possibilità di professionalizzarsi e di tenere distinti il tempo di vita e il tempo di lavoro29.

Giovanna, nel suo intervento, spiega di non avere mai usato, come orientatrice al lavoro, la definizione "contratti atipici", dice di averli sempre chiamati lavori flessibili, precari. Viene inserito adesso un nuovo intermezzo sullo stile della pellicola invecchiata come in precedenza, che però questa volta ritrae Giovanna di profilo mentre passeggia sulla riva di uno specchio d'acqua. Di seguito si ritorna all'impostazione canonica, qui Giovanna a mezzo busto

continua la sua riflessione circa la definizione di "lavori atipici": lei si chiede quale sia la normalità rispetto a questi contratti, e soprattutto se esiste perché tale normalità non viene concessa anche a lei. Si inserisce ora un'ulteriore parentesi di sospensione, che mostra Giovanna appoggiata ad una palizzata mentre il suo sguardo si perde nel paesaggio, poi con una carrellata verso destra l'operatore inquadra il panorama; come era successo in precedenza la voce di Luca fa incursione mentre stanno ancora scorrendo queste immagini.

Nel suo intervento, volendosi definire, Luca dice di sentirsi soprattutto uno studente: spiega che lo studio è la sua attività principale, quella che gli richiede più tempo, energie ed impegno ed è quello che veramente vuole fare. Precisa poi che naturalmente deve definirsi anche un lavoratore, visto che finite le scuole superiori ha sempre lavorato almeno metà del suo tempo; il principale interesse di Luca è lo studio, ma non avendo grandi possibilità economiche per poter studiare ha bisogno anche di lavorare. L'intervento si apre con un piano americano del protagonista che parla direttamente in macchina, proseguendo poi con immagini che lo ritraggono mentre decifra alcune iscrizioni murarie.

L'introduzione delle immagini trattate per assomigliare alla vecchia pellicola, questa volta, avviene in modo inconsueto, avviandosi sulla voce del protagonista mentre ancora procede col suo intervento. Stavolta quindi la sequenza non ha il valore di sospensione del racconto, ma accompagna più canonicamente l'intervento di Luca; solo qualche secondo più tardi, quando la sua esposizione si conclude, la musica rimasta sinora in sottofondo acquista volume e l'inquadratura assume lo stesso sapore riflessivo delle precedenti. Nella sequenza in esame Luca è mostrato mentre scende da una parete di roccia, imbragato con corde e moschettoni, ritornando così a mostrare questa sua passione attraverso la quale era stato aperto il documentario.

Segue l'intervento di Antonio, che racconta che alla sua età dire di lavorare un po' in libreria, un po' in pizzeria, di studiare ancora non suscita reazioni positive negli altri: dopo i trent'anni ci si aspetta che ognuno abbia un lavoro, una macchina, ma lui pur lavorando moltissimo non ha quelle sicurezze.





L'intervento è costruito in maniera uniforme, con un unico mezzo busto e si conclude con l'introduzione della solita sequenza elaborata, che mostra un primissimo piano del volto di Antonio.

Successivamente viene riproposto Luca, che spiega come il suo lavoro di quattro ore giornaliere da interinale da molti venga considerato "non lavorare": lui specifica che pur non essendo il suo un impegno gravoso, lavora tre fine settimana su cinque e nelle feste riconosciute con turni a partire dalle sette di mattina. L'intervento parte con un mezzo busto canonico per poi proseguire con immagini che ritraggono Luca sul suo posto di lavoro: si inquadrano le sue mani sulla tastiera, lo schermo del computer e lui mentre parla in cuffia con un cliente.

A questo punto viene riproposto un altro dei soliti intermezzi, ma questa volta di durata maggiore rispetto ai precedenti; si continua però a rispettare la scelta di alterare i colori, sporcare la visione e mandare le immagini al ralenti. Si comincia con un primo piano di Giovanna, a seguire vediamo Luca mentre sfila in un corteo e in conclusione Alessia con il suo bambino in braccio: lei è di profilo con gli occhi persi oltre l'inquadratura, poi voltandosi verso destra guarda per qualche secondo dritto in macchina con uno sguardo molto intenso e naturale.

La voce di Giovanna si sostituisce alla musica e subito dopo ritroviamo la protagonista in un mezzo busto classico; in questo intervento ci spiega di sentirsi innanzitutto una persona e di voler essere riconosciuta come tale dalla società, aldilà del suo ruolo lavorativo. A questo punto si sostituiscono al mezzo busto immagini che ritraggono Giovanna sul suo posto di lavoro e contemporaneamente anche le sue parole si spostano su argomenti inerenti al suo impiego attuale. Lei spiega che, in quanto orientatrice al lavoro, dal suo osservatorio entra in contatto con molte persone che soffrono della mancanza di un effettivo riconoscimento lavorativo all'interno della società: queste persone non sentono di avere un'identità professionale fino a quando non trovano un lavoro. Giovanna continua portando l'esempio del disoccupato di cinquanta anni, o dell'operaio in cassa integrazione, che non sa come rispondere al proprio figlio quando gli chiede che lavoro faccia. Lei precisa che sente molto vicina la condizione dei disoccupati che lei tenta in qualche modo di sorreggere, e raccogliendo per loro informazioni circa nuovi lavori e contratti, spesso, si rende conto che quelle stesse informazioni serviranno presto anche a lei, quando finito il suo incarico, dovrà cercarsi un nuovo impiego.

Conclude questo capitolo Antonio che molto esplicitamente spiega che i lavoratori come lui sono sempre ai margini, perché alla fine perdono coscienza, non riuscendo più a capire chi sono.






9 Capitolo quinto: DE-MOTIVAZIONI


Il capitolo che si apre subito dopo si intitola DE-MOTIVAZIONI ed è introdotto dal canonico titolo di colore bianco sovrimpresso sul fondo nero. Il primo intervento è di Alessia che dice che essere flessibili significa sentirsi frustrati e mai riconosciuti, si rende conto di non avere una storia lavorativa, perchè le professionalità e le competenze acquisite non risultano mai cumulate. I datori di lavoro richiamano i dipendenti flessibili perché nella pratica maturano certe competenze, che però ufficialmente non esistono. Le parole di Alessia sono accompagnate, oltre che dai classici primi piani, da alcune immagini che la ritraggono al computer e di alcune home page di siti internet che trattano di lavoro e di contratti.

Anche l'intervento successivo di Antonio è trattato allo stesso modo, alternando il suo mezzo busto a inserti che mostrano il suo lavoro in libreria. Antonio racconta di essere stato ripreso sul posto di lavoro con il rimprovero di "non essere pagato per pensare", questa frase lo ha sconvolto perché ritiene assurdo e inaccettabile un approccio del genere alle sue mansioni.

Continua sullo stesso tono Luca: ci spiega che svolgere un lavoro sapendo della sua durata a termine, dell'impossibilità di fare carriera e di ottenere premi o aumenti di stipendio, non potenzia assolutamente l'impegno che si mette per svolgerlo, pregiudicando infine la produttività.

Alessia, nell'intervento subito successivo, dice di avere perso col tempo tutto l'entusiasmo verso il suo lavoro, sviluppando una sorta di cinismo e di distanza dalle sue mansioni; concludendo anche lei si chiede quanto possano ricavare, in definitiva, i datori di lavoro da questo tipo di contratti.

La riflessione avviata in questi ultimi interventi, circa la convenienza effettiva della flessibilità, mette in evidenza un tema di forte scontro in ambito socio-economico. Secondo un numero sempre crescente di imprenditori e dirigenti questo tipo di riorganizzazione della produzione non porta nessun arricchimento a lungo termine, generando un sistema produttivo estremamente vulnerabile e che per di più si espone al caos organizzativo e gestionale del personale30.

Viene posto a chiusura di questo capitolo un ultimo inserto visivamente simile alla vecchia pellicola cinematografica e accompagnato dal solito rumore della bobina nel proiettore; la scena mostra Alessia di spalle allontanarsi col suo bambino in braccio. Questa volta però l'effetto che si dà alla sequenza è molto particolare: sul finire le inquadrature cominciano a saltare, come quando la bobina si inceppa, e sul fotogramma rimasto a metà dello schermo si riproduce l'effetto tipico della bruciatura da lampada sulla pellicola. Infine in sincrono ad un rumore secco, che simula lo spegnersi del proiettore, compare lo schermo nero. Si sceglie un congedo molto significativo per l'uso di questi inserti al racconto, mostrando la pizza della pellicola finire e consumarsi; la sensazione che coglie lo spettatore è quella di avere assistito alla proiezione di un film di altri tempi, o forse ad un filmato domestico di quelli girati in 8mm. Il carico emozionale di questa scena è molto accentuato, quasi da potersi considerare

l'apice di un climax, costruito attraverso le varie sequenze di sospensione inserite tra gli interventi dei protagonisti. In questi inserti i quattro ragazzi, fino a poco prima immobili nel loro ruolo di testimoni e cronisti della contemporaneità, sembrano svelarci i loro lati intimamente più sensibili ed anche fragili. I capitoli IDENTITA' e DE-MOTIVAZIONI meritano una digressione di approfondimento, vista la loro particolarità rispetto allo spirito e all'atmosfera del resto del film: qui infatti si respira un'aria più cupa e sfiduciata. Investigando l'area personale e privata dei protagonisti si scorge l'effetto più drammatico e duro della flessibilità: quello che riguarda la comprensione del sé. La perdita di identità, l'indefinibilità del proprio lavorare, la mancanza di un ruolo sociale, sono tutte conseguenze gravi di una flessibilità esasperata e protratta per troppo tempo. Una riflessione così seria ha richiesto un contesto altrettanto profondo, costruito attraverso quelle pause alla narrazione che hanno contribuito non poco a rendere l'atmosfera più rarefatta e riflessiva. In questi capitoli, quindi, gli autori si abbandonano ad un sentimentalismo mai concesso sinora, lasciando da parte la solita trattazione schematica degli argomenti, l'ironia e gli inserti estratti da altri film. Il finale di questo ultimo capitolo poi raggiunge livelli altissimi di coinvolgimento, mostrando la pellicola che si consuma e si brucia, metaforicamente come le vite dei quattro protagonisti che vediamo piegarsi e contorcersi sotto il peso della flessibilità.






10 Capitolo sesto: VIVERE PER LAVORARE?


Il nuovo capitolo che si apre si intitola VIVERE PER LAVORARE? e comprende un unico lungo intervento, in cui Luca racconta del suo impegno come attivista di Greenpeace: spiega che prima di trasferirsi a Roma è stato il responsabile del gruppo di Venezia, occupandosi soprattutto del caso di Porto Marghera. Luca continua precisando che dieci anni fa non si sapeva niente riguardo la tossicità degli ambienti e dei fumi emessi dal polo industriale, si era convinti che Porto Marghera inquinasse, ma senza dati e analisi certe. Greenpeace ha fatto un lavoro importante, arrivando fino al processo del 1998 e alla sentenza del 2001, che purtroppo ha assolto tutti i responsabili delle industrie Montedison, Enikem, ed Enimont. Le indagini giudiziarie hanno, a suo tempo, riscontrato un altissimo tasso di inquinamento della laguna causato dagli scarichi in acqua, una forte tossicità dei fumi emessi e un gran numero di discariche abusive di rifiuti contaminanti. Il dato può sconvolgente si era però rilevato quello circa la pericolosità del CVM (Cloruro di Vinile Monomero), agente cancerogeno largamente impiegato nello stabilimento a partire dagli anni cinquanta. Da allora oltre centocinquanta operai impiegati a porto Marghera erano deceduti, e un centinaio risultavano ammalati; tutti gli imputati del processo sono stati assolti, con la motivazione che fino al 1973 non erano noti gli effetti del CVM31. Luca prosegue spiegando che per chi come lui si è occupato di casi come questo, si fa urgente riflettere su quanto il lavoro sia davvero un valore per cui valga la pena morire. Lui precisa che molte delle persone decedute, coinvolte nel processo Marghera, erano entrate in azienda giovanissime, a diciannove, venti anni, vi avevano lavorato in media per trentacinque ed erano andate in pensione a cinquantasei, cinquantotto anni già malate di tumore, per poi morire al massimo due o tre anni dopo. Luca conclude il suo intervento riassumendo il suo pensiero in uno slogan: "Lavorare per vivere e non vivere per lavorare!"

Le inquadrature in cui Luca si rivolge direttamente alla telecamera sono alternate a sequenze che lo mostrano coinvolto in un corteo organizzato da Greenpeace; ma nel capitolo vengono inseriti anche dei brani video in bianco e nero tratti dal documentario Porto Marghera, gas tossici del 1973 prodotto dalla Unitelefilm. Le immagini mostrano le ciminiere del petrolchimico con le colonne

di fumo bianco che si arrampicano verso il cielo; di seguito si vedono gli operai lavorare nel piazzale della Montecatini Edison, poi al momento dell'uscita dai cancelli a fine turno. Infine sono proposte anche alcune sequenze delle manifestazioni dei dipendenti di Porto Marghera, che sfilano con le maschere antigas. Il brano musicale che supporta questo inserto conquista volume a poco a poco durante la sequenza, e attraverso un climax si impone per la usa drammaticità. La musica che è proposta qui per la prima ed unica volta in tutto il film, non è di impostazione canonica, ma utilizza, su un sottofondo strumentale essenziale, rumori e suoni campionati e arricchiti da effetti particolari di riverbero. Il risultato è quello di richiamare i rumori della fabbrica, del metallo, ma in maniera quasi immateriale, dando vita ad un clima serio e doloroso.

La scelta di introdurre nel film la vicenda di Marghera ha secondo gli autori motivazioni diverse: la prima è innanzi tutto di natura biografica visto che Luca, uno dei protagonisti, è originario di Mestre, ed è stato personalmente coinvolto nella battaglia sul petrolchimico. In secondo luogo si ritiene che una vicenda così agghiacciante, con la conclusione processuale che ha avuto, debba rimanere viva nella memoria di tutti. Infine si è ritenuto necessario introdurre una riflessione solo in apparenza digressiva rispetto al tema centrale del film: il lavoro è un valore assoluto da perseguire ad ogni costo e con qualunque mezzo? Anche a discapito della salute dei lavoratori, della salute delle comunità che vivono nei territori interessati, della distruzione dell'ambiente? È un interrogativo, questo, che risulta di vitale importanza anche alla luce di una indagine più articolata sul modo del lavoro, come quella affrontata in questo documentario3


11 Capitolo settimo: FUTURO


Il nuovo ed ultimo capitolo si intitola FUTURO ed è aperto da Antonio, che parla dei rapporti interpersonali resi complicati dalla sua condizione lavorativa atipica. Approfondisce la questione raccontando di sé che lavora di sabato e domenica, e della sua compagna che invece lavora durante la settimana: in questa situazione diventa impossibile pensare di costruire qualcosa insieme, di formare una famiglia. Tutta la sequenza è costruita attraverso il classico primo piano e un brano musicale già riproposto in precedenza, questo proseguirà a volume altrettanto basso per il resto del capitolo.

Nell'intervento subito successivo Luca esordisce affermando che nessuno dovrebbe fare l'interinale a vita, perché un impiego di quel tipo non permette assolutamente di poter progettare qualsiasi cosa per il proprio futuro. Secondo lui un lavoro da interinale può essere adatto se limitato ad un periodo circoscritto della propria vita, in attesa magari di altre opportunità; Luca conclude proponendo di denominare l'impiego interinale "lavoro in attesa" anziché "lavoro in affitto".

Segue Alessia, ripresa in esterno giorno a mezzo busto, con una panorama urbano alle spalle: lei rivela di non volersi porre domande circa il suo futuro, continua spiegando di avere avuto da poco il suo primo figlio e questo ovviamente esplicita una fiducia di fondo che sa di avere, ma che troppo spesso sente come bendata. Prosegue ammettendo di chiedersi alle volte se non è stata una irresponsabile ad avere messo al modo un bambino senza avere alcuna certezza per il domani, visto che sia lei che il suo compagno sono precari. A questo punto l'inquadratura comincia lentamente a stringersi sul volto di Alessia che dice di essersi presa la libertà di pensare per conto di suo figlio che tutto andrà bene, ma nella realtà non ha alcuna garanzia del genere. Conclude il suo intervento affermando, con la voce rotta dalla preoccupazione, che i punti interrogativi sul suo futuro la terrorizzano, malgrado tutta la sua buona volontà di adattarsi a qualsiasi tipo di lavoro, e di arricchire le proprie competenze e professionalità.

Si prosegue con l'intervento di Giovanna che racconta di trovarsi spesso a immaginare il proprio futuro e non esclude la possibilità di potersi trovare anche a vivere per strada: il suo lavoro la fa entrare in contatto con persone con i suoi stessi percorsi formativi e lavorativi, e che per una serie di circostanze si ritrovano senza lavoro, senza casa, senza il sostegno della famiglia e sono costretti a vivere per strada.

Ritorniamo poi ad Alessia che finalmente ci presenta suo figlio Dario di tre mesi, che lei tiene sulle ginocchia stando seduta sul letto; l'inquadratura è un campo medio che include una porzione della stanza in cui vediamo anche un gioco molto voluminoso del bambino e sulla destra la sua culla. Lei ci dice che, per quanto riguarda il futuro di suo figlio, si augura che diventi una persona determinata, che abbia coraggio e forza d'animo, perché senza queste qualità, precisa lei, oggi non si riesce proprio a vivere. Alessia conclude rivelando che quando pensa al futuro di suo figlio, ma anche al proprio, in lei si sostituisce alla fiducia e alla gioia di vivere che la ha sempre accompagnata, una cupezza e un senso di depressione che vorrebbe non avere e che deriva probabilmente dall'insofferenza verso la sua condizione lavorativa.

L'ultimo intervento di questo capitolo di congedo ha come protagonista Antonio, con lo stesso sorriso solare che lo ha accompagnato per tutto il film, confessa di non essere mai riuscito a vedere il proprio futuro, e precisa: "Non riesco mai ad andare oltre, vedo sempre nero!" Nel pronunciare questa frase Antonio compie un gesto con la mano destra a mimare un muro che gli si para davanti agli occhi, a seguire con precisione questo suo cenno cala dal margine superiore dell'inquadratura una tendina nera aggiunta in post-produzione. La voce di Antonio conclude la frase quando l'immagine è gia completamente nera, subito dopo compare sullo schermo il titolo Vite flessibili, che apre così la sezione dei titoli di coda.





La dinamica adottata per la chiusura del capitolo è inconsueta e ripropone la solita ironia, proprio a volere allentare la tensione emotiva, dovuta alla drammaticità dell'impotenza di questi giovani precari di fronte al futuro. Mai nel documentario è stato reso un messaggio inerme ed esclusivamente negativo: si è sensibilizzato lo spettatore anche scavando nella quotidianità complessa dei protagonisti, ma sempre per tentare di suggerire una presa di coscienza ed una reazione positiva verso il cambiamento, anche attraverso il sarcasmo.






12 Titoli di coda


I titoli di coda durano per oltre due minuti e presentano una struttura molto particolare, includendo anche dei brevissimi interventi dei quattro protagonisti; un brano musicale mai proposto finora accompagna l'intera sezione. Sullo schermo nero convivono un piccolo riquadro, sempre variabile per posizione e dimensioni, dedicato al video, ed i classici contributi scritti, in cui si danno le dovute informazioni circa gli autori, i collaboratori e la produzione. I contributi video sono composti da brevi battute di Luca, Antonio, Giovanna e Alessia che riflettono su alcuni termini tipici del vocabolario relativo al nuovo mondo del lavoro. Ogni intervistato commenta cinque termini che hanno perseguitato tutti noi negli ultimi anni, in quanto parole chiave per le nuove frontiere lavorative: "auto-imprenditorialità", "competitività", "creatività", "mission", "professionalità". Gli autori, attraverso questa operazione, hanno voluto rispondere alla voglia di discutere e rifondare quelle che dovrebbero essere, invece, le parole d'ordine necessarie al mondo del lavoro

contemporaneo33.


Si parte con Luca che comincia a parlare di "auto-imprenditorialità" definendola come la capacità di essere imprenditori di sé stessi; circa lo stesso termine Giovanna dice che, secondo lei, può essere un'illusione. Antonio, anche lui chiamato a pronunciarsi sullo stesso argomento, precisa che non tutti possono essere imprenditori, citando la teoria dei modelli pre-hegeliani; e Alessia conclude dicendo che si tratta di collocare se stessi nel modo del lavoro senza alcuna garanzia. Subito di seguito si parla di "competitività", cominciando con Luca, che si mostra dubbioso perché secondo lui ne esiste già troppa nel mondo del lavoro; Alessia, dal canto suo, dice di poter accettare al limite un vocabolo come "emulazione", ma rifiuta il termine "competitività" perché implica aggressività, egoismo, ed egocentrismo. Antonio in merito di "competitività" dichiara esplicitamente che va bene nello sport, ma non nella vita; Giovanna al contempo vorrebbe che si usasse di più il termine "cooperazione". Si continua con Antonio parlando di "creatività" che, secondo lui, è incarnata nel "fare", Alessia ritiene che sia un'attività possibile e giusta in ogni lavoro; anche Giovanna continua sulla stessa linea, riconoscendo la "creatività" come l'unica risorsa inviolabile per i lavoratori come lei. Si passa poi al termine "mission", che ad Alessia ricorda soltanto il film con Robert De Niro, mentre per Luca è anche la missione affidata ai lavoratori interinali dalla propria agenzia. Infine si affronta il tema "professionalità": secondo Antonio è semplicemente portare avanti seriamente le cose che si fanno; per Luca sarebbe importante ci fosse più "professionalità", ma Alessia aggiunge che i contratti flessibili e precari la scoraggiano.

A questo punto lo spazio dedicato ai contributi video torna alle dimensioni classiche, occupando tutto lo schermo, e uno per volta tutti e quattro i protagonisti elencano la parola che, secondo loro, manca nel vocabolario della flessibilità. Esordisce Luca sostenendo che, forse, il termine mancante potrebbe essere proprio "lavoro"; Alessia invece suggerisce tutto un paradigma di valori opposti a quelli attualmente in vigore e che, secondo lei, si potrebbero semplificare nell' "uguaglianza dei diritti". Antonio propone "partecipazione", come parola chiave per questo preciso momento storico, valore che secondo lui dovrebbe essere portato avanti da politici e sindacati. Conclude Giovanna che aggiunge alla lista di parole il termine "lotta"; a questo punto la musica sfuma e l'immagine si dissolve in nero. L'ultimo termine proposto è evidenziato in maniera emblematica dalla la sua posizione conclusiva, quasi ad incarnare il messaggio dell'intero documentario: la "lotta", il contratto tutto da conquistare come ai vecchi tempi dei film di Gregoretti34.

L'intero blocco dei titoli di coda merita attenzione anche per le informazioni che riporta in forma scritta: si esordisce con l'ordine classico elencando autori, cameraman e montatori. Queste tre competenze sono ricoperte interamente dagli autori, con una divisione di ruoli netta tra scrittura del progetto e ricerche a cui si è dedicata Rossella Lamina, e riprese e montaggio effettuati da Nicola Di Lecce; se ne deduce una realizzazione del documentario con metodi quasi "artigianali", rinunciando ad un vero e proprio staff. I titoli proseguono fornendo le dovute informazioni circa gli autori e gli esecutori della colonna sonora, e riguardo a chi ha ricercato i materiali di archivio utilizzati; segue poi una dicitura interessante:



Questo documentario è stato realizzato in tempi e metodi spiccatamente "flessibili" Andando ad occupare gli interstizi liberi nelle vite dei suoi protagonisti

e dei suoi autori Esiste per l'ostinazione e il funambolismo di tutti coloro che hanno scelto di parteciparvi


A tutti il nostro più sentito ringraziamento

successivamente è riportato il ringraziamento specifico ai quattro protagonisti. La dicitura è molto interessante sia per la sua originalità che per i contenuti che propone: si ammette con la giusta dose di auto-ironia che anche questo film sulla flessibilità, è frutto di lavoro "flessibile". In conclusione abbiamo a che fare con una flessibilità dilagante che non solo attanaglia le vite dei protagonisti, ma anche quelle di coloro che condividono con essi il proprio tempo, e quelle di molti altri lavoratori atipici.

I titoli proseguono menzionando la produzione del documentario e a seguire i film da cui sono stati estratti i brani utilizzati:

CONTRATTO di Ugo Gregoretti, 1970


DENTRO ROMA di Ugo Gregoretti, 1976


LA SALUTE E' MALATA di Bernardo Bertolucci, 1871


OPERAI di Antonietta De Lillo, 1966


PORTO MARGHERA, GAS TOSSICI produzione Unitelefilm


SIRENA OPERAIA di Gianfranco Pannone, 2000


UN MINUTO IN PIU' DEL PADRONE di P. Andriani e A. Rossetti, 1991


Infine i titoli di coda si concludono con i ringraziamenti più generali, elencando i nomi di tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione del documentario.






13 La colonna sonora


Ritengo opportuno, a questo punto, approfondire l'analisi della colonna sonora del film, spesso chiamata in causa per il suo ruolo caratterizzante. La musica utilizzata può essere facilmente suddivisa in tre categorie diverse: quella appartenente ai filmati di archivio, quella cantata dal coro e infine quella utilizzata come sottofondo. Alla prima categoria si può ricongiungere un unico brano, mentre sono tre le canzoni eseguite dal Quartetto Urbano: tutti questi contributi musicali sono sfruttati in maniera molto intelligente dal montaggio per creare richiami ed antitesi. I brani musicali di entrambe le categorie hanno come caratteristica peculiare quella di essere usati intenzionalmente per il loro testo: attraverso di essi si riesce a movimentare la narrazione, interfacciando dialetticamente gli interventi dei protagonisti e alleggerendo le riflessioni proposte, interpretandole in modo ironico. L'ultima categoria in cui ho voluto suddividere la colonna sonora è quella della musica di sottofondo e commento al documentario, essa comprende sei brani originali composti da Francesca Principi. Le canzoni sanno fondersi sapientemente con le atmosfere suscitate dai temi trattati, arricchendole quando necessario; l'uso di questa tipologia di colonna sonora è molto ampio, ma non soffoca mai il rumore ambiente, talvolta estremamente importante.






14 Conclusioni


Con questo documentario gli autori hanno voluto rivolgersi in particolar modo ai lavoratori precari, che vivono troppo spesso la loro condizione in modo isolato, col rischio di cadere nella più profonda autocolpevolizzazione35. Si cerca, in questo lavoro, di sensibilizzare lo spettatore a tali temi e per farlo lo si istruisce, grazie alle informazioni dettagliate in merito ai contratti e alle normative. Attraverso le interviste poi si testimonia il costo umano della flessibilità e il suo pesare profondamente sull'equilibrio interiore dei lavoratori: colpisce l'estrema frustrazione dei protagonisti che comunque decidono di non rassegnarsi alla propria condizione. Vite flessibili non sembra affatto costituirsi come racconto sterile dei fatti, ma si incarica di una presa di posizione precisa ed attiva, schierandosi socio-politicamente a sostegno dei lavoratori e in forte opposizione alla classe dirigenziale italiana; rivolto allo spettatore c'è, a mio avviso, un innegabile invito alla consapevolezza ma anche all'azione. Occorre sottolineare che gli autori, pur assumendo posizioni ideologiche precise, hanno saputo farlo in maniera critica ed intelligente, maturando ad esempio la forza di mettere in discussione alcune forme di protesta "sacre", ma ritenute oramai inefficaci come lo sciopero o la manifestazione, ed enti fondanti della storia dei diritti del lavoratore come il sindacato. Infine in Vite flessibili si coltiva una riflessione importante e sincera sulla flessibilità: essa viene strenuamente condannata per l'abuso che se ne fa, ma si riconosce anche come sostenibile e forse utile in determinati momenti della vita.

Concludendo il documentario è da considerarsi come un affresco sociale in cui, attraverso la testimonianza diretta, si è voluto indagare la nuova classe lavoratrice e i suoi problemi, paurosamente vicini a quelli storicamente già noti. Passato e presente si fondono e si confrontano all'insegna della consapevolezza che uno sfruttamento tale della flessibilità non può essere tollerato oltre, si presenta pertanto necessario rivendicare, ancora una volta, i diritti inviolabili del lavoratore.

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