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La visione dell'infinito in Giacomo Leopardi




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La visione dell'infinito in Giacomo Leopardi

Lontano dall'idea matematica e filosofica, l'infinito leopardiano è il riflesso di una realtà incommensurabile sui sensi limitati di una creatura finita, determinata: il poeta approda a un sentimento, la dolcezza dei naufragio, non ad un concetto. L'idea e il sentimento dell'infinito sono le componenti principali del vasto problema del significato e valore dell'esistenza nell'opera leopardiana.  Per il poeta, l'infinito è tutto ciò che è illimitato, dunque una dimensione radicalmente opposta a quella umana, caratterizzata proprio da un'insuperabile finitezza.

Il problema si articola attraverso il lamento, l'insoddisfazione, e quindi la svalutazione della vita umana, da una parte, e dall'altra nell'aspirazione a trascendere i limiti imposti all'esistenza mortale per attingere quell'appagamento che l'uomo invano cerca su questa terra. Il problema travaglierà tutta la vita interiore di Leopardi dando luogo a dubbi, contrasti, ed oscillazioni che raggiungono a volte punte esasperanti; solo sulla soglia della morte il poeta saprà darne una soluzione ferma e convincente.

Rappresentato dapprima nel celebre  idillio del 1819, il problema dell'infinito verrà ripreso nello Zibaldone, in modo impegnativo nelle prime pagine, e saltuariamente poi attraverso quasi tutta l'opera. Esso riapparirà, nella forma di meditazioni sulla mortalità ed immortalità ancora nello "Zibaldone" e attraverso tutta la poesia.

L'intuizione poetica dell'infinito racchiude tre momenti:

La funzione dell'immaginazione ("io nel pensier mi fingo") che ha come "attività" principale la raffigurazione del piacere;

La rappresentazione dell'infinito vero e proprio in termini di spazio, tempo e suono ("sovrumani silenzi, e profondissima quiete", "infinito silenzio", "l'eterno", "le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei");

Il particolare atteggiamento del poeta verso l'immensità dell'infinito ("s'annega il pensier mio / e il naufragar m'è dolce in questo mare").

Questi tre elementi sono presenti ovunque Leopardi medita sul problema, talora identici, più sovente con variazioni notevoli. Sul piano delle immagini, l'idea dell'infinito orienta la poesia leopardiana verso la visione degli spazi celesti, dello sterminato pulviscolo di astri e mondi in esso presenti. Ma essa esercita una considerevole influenza anche sul piano stilistico, inducendo ad un uso massiccio di quei termini 'vaghi' e 'indefiniti' di cui Leopardi asseriva la particolare poeticità; quanto più larga e tendenzialmente illimitata è infatti la visione, tanto meno precise e determinate devono essere le parole impiegate per esprimerla. D'altro canto, anche le parole riferite a contenuti non cosmici finiscono nel poeta per assorbire una traccia della stupefazione e dell'annichilimento da lui provati di fronte all'infinito. Va però detto che al cospetto dell'infinito l'uomo è costretto anche a prendere amara coscienza della propria inadeguatezza; creatura finita per eccellenza, egli potrà infatti solo intuire, ma mai compiutamente razionalizzare ed esprimere l'illimitatezza di ciò che è infinito. Alla sua portata è tutt'al più l' 'indefinito', ovvero una pallida controfigura umana di quell'infinità sempre sfuggente. Ciò spiega perché anche in questo caso il poeta provi quel misto di piacere e angoscia così caratteristico del suo rapporto col mondo.

La capacità dell'uomo di far sorgere in sé un'immaginazione del vago e dell'indefinito, in luogo della semplice vista delle cose, è dolce e piacevole, ed è tipica dei fanciulli e degli uomini dell'età antica. Questa sensazione sta all'origine anche delle illusioni. Si tratta della sensazione-esperienza di un 'oltre' rispetto alla semplice vista delle cose: ma un oltre che non esiste, che e' solo prodotto dell'immaginazione umana, anche se l'uomo desidera perdersi in esso, lo trova una cosa dolce.

L'infinito di Leopardi, quindi, è 'negativo', nel senso che è un infinito creato dall'immaginazione e dal desiderio, come puro prodotto della mente umana. È chiaro che il suo modo di porsi di fronte al 'problema dell'infinito' è di tipo metafisico ed è la ricerca del rapporto tra infinito come spazio assoluto e tempo assoluto e la nostra cognizione del tempo e dello spazio empirici. Ma nella sua riflessione inserisce il suo particolare modo di interpretare l'infinito, o meglio l'indefinito, come fluttuare di sensazioni.

Per Leopardi l'infinito coincide con lo slancio vitale, con lo spasimo, la tensione che l'uomo ha connaturata in sé verso la felicità. L'infinito diventa il principio stesso del piacere, e il fine stesso a cui tende questo slancio dell'uomo. È il desiderio assoluto di felicità che porta l'uomo a ricercare il piacere in un numero sempre crescente di sensazioni, nella speranza vana della sua completezza; è una tensione che non ha limiti, né per durata nel tempo, né per estensione, per questo si scontra irrevocabilmente con la vita umana, lo spazio, il tempo, la morte. Questa tensione può spegnersi solo nel momento della morte perché è uno slancio connaturato alla vita stessa; l'anima, amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppure concepire, perché non si può formare l'idea chiara di una cosa che ella desidera illimitatamente. Per superare i limiti fisici della natura umana interviene l'immaginazione, che ha come 'attività' principale la raffigurazione del piacere. Resta però nell'animo un senso di inappagamento, di insoddisfazione perché non si riesce effettivamente a concepire l'infinito, ma solo l'indefinito, che è un'idea inadeguata, approssimata, vaga: e questa insoddisfazione conduce alla noia spirituale. Ci sono però immagini, sensazioni che suscitano nell'animo l'idea di infinito, ad esempio la visione di una torre antica, perché il concepire uno spazio di molti secoli produce una sensazione indefinita, l'idea di un tempo indeterminato, dove l'anima si perde e sebbene sa che non ci sono confini, non li distingue e non sa quali siano.

Ovviamente, a questo proposito, l'immagine che meglio ha esemplificato questa concezione leopardiana dell'indefinito è senz'altro costituita dagli 'interminati spazi' della famosa poesia intitolata, appunto "L'Infinito" scritta nel 1819:



Sempre caro mi fu quest'ermo colle

e questa siepe che da tanta parte

dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

spazi di là da quella, e sovrumani

silenzi, e profondissima quïete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce

vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

e le morte stagioni e la presente

e viva, e il suon di lei: Così tra questa

immensità s'annega il pensier mio:

e il naufragar m'è dolce in questo mare.


'L'Infinito' è il primo di quei primi componimenti che il poeta pubblicò nel 1825 col nome di 'Piccoli Idilli'. L'idillio leopardiano si distingue profondamente da quello della tradizione; non è più il quadretto bucolico, un componimento piacevole di ispirazione pastorale, ma l'espressione poetica di un'avventura interiore, di un moto dello spirito nato dalla contemplazione nuova ed attonita di un aspetto della natura, o dalla rinnovata capacità di sentire e vedere. Si coglie così, nel senso più alto, che dallo stato d'animo idillico, da questa contemplazione 'interiore' della natura, derivano alcune delle voci più nuove del poeta. Fin da fanciullo, lo ricorda lo 'Zibaldone' nelle pagine scritte fra il 12 e il 13 Luglio del 1820, il poeta amava guardare il cielo 'attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia' (cioè attraverso l'andito o corridoio fra due case); nella poesia 'L'Infinito' il poeta ha trovato le ragioni di questa preferenza: infatti, 'da una veduta ristretta e confinata' nasce il desiderio dell'infinito, perché allora in luogo della vista lavora l'immaginazione ed il fantastico subentra al reale. L'anima si immagina quello che non vede, ciò che quella siepe, quella torre gli nasconde e va errando in uno spazio immaginario e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse ovunque, perché il reale escluderebbe l'immaginario. L'immergersi in una coscienza cosmica dell'infinito non è inteso dal Leopardi come abbandono ad una pura emozione, ad un immediato vagheggiamento musicale, nasce sempre da una consapevolezza vigile della realtà, da un'esigenza di superamento dei suoi dati immediati. Per questo si parla di una dimensione religiosa dell'Infinito nel Leopardi: quello che più tardi diventerà meditazione ammirata dell'immensità della vita, del cosmo, qui è ancora ansia e vagheggiamento di assoluto e di eternità che nasce dalla coscienza della finitezza della propria realtà individuale.

'L'Infinito' si divide in due parti esattamente uguali, come dimostra il punto fermo a metà dell'ottavo verso. Nella prima metà della poesia è descritto l'infinito dello spazio, nella seconda metà, l'infinito del tempo: per definire l'infinito, ci dice il poeta, sono necessarie ambedue le coordinate, lo spazio e, appunto, il tempo.

Gli elementi esteriori si riducono ad un colle, ad una siepe che limita l'orizzonte, ad uno stormire di fronde. Sulla cima di un colle una siepe impedisce allo sguardo la vista di una grande parte dell'orizzonte. Ma quello che è l'ostacolo alla vista degli occhi diviene stimolo alla visione interiore, all'immaginare del poeta. Sorgono così dentro di lui gli 'interminati spazi' del cielo, e i 'sovrumani silenzi e la profondissima quiete' del vuoto; e quasi il cuore del poeta 'non si spaura'. Ma a proseguire l'idillio sopraggiunge un lieve rumore di vento, l'unico breve rumore sulla cime del colle. E da quella voce il poeta è ricondotto alle cose finite; e giunge al confronto di esse con l'eterno, al pensiero delle 'morte stagioni', e della stagione presente così viva, così reale con i suoi rumori intorno al poeta.

L'idea dell'infinito è lontana da qualsiasi determinazione scientifica o filosofica. Per questo i legami col reale o hanno la vaghezza di sogno, oppure si affidano alla purezza della sensazione immediatamente tradotta in fantasia, e la fantasia cresce in sentimento.

Il processo si ripete due volte:

Sensazione visiva (sguardo impedito dalla siepe);
Fantasia (immaginazione di mondi sterminati e silenziosi);
Sentimento ('ove per poco il cor non si spaura');
Movimento che sembra di interiorizzazione ('io nel pensier mi fingo').

Sensazione auditiva (vento che stormisce fra le piante);
Fantasia (eternità, trascorrere del tempo);
Sentimento e movimento di esteriorizzazione ('e il naufragar m'è dolce in questo mare').

'L'Infinito', tendendo al vago e all'indefinito, attua un'esplorazione della soggettività, ma anche della tensione concettuale.

Emergono in particolare:

L'indicazione di uno spazio concreto (l'area limitata della siepe) e di uno specifico, personale (consuetudine);

Il processo di astrazione, visione mentale dello spazio;

Il passaggio dall'immagine aspaziale a quella temporale. Contrapposizione fra spazio concreto e tempo;

Lo smarrimento che genera piacere.

Già attraverso la successione di alcune parole possiamo individuare la struttura globale della poesia, formata da un'idea di partenza (Sempre) che trova subito un'idea oppositiva (Ma), seguita da una similitudine (E come) che conserva le sue opposizioni precedenti (Così). La poesia è quindi fondata su una struttura binaria, che rappresenta il mondo reale (che si trova al di qua della siepe e rappresenta ciò che quotidianamente si vive) e il mondo ultrareale (o surreale, o Nulla, o interinato spazio e sovrumano silenzio, o profondissima quiete, o immensità; e rappresenta ciò che si vorrebbe vivere) nella quale le due parti sono contrassegnate degli aggettivi dimostrativi "questo", che rappresenta la realtà vicina, e "quello" che rappresenta la realtà lontana.

Ma ad un certo punto del viaggio interiore di Leopardi interviene qualcosa che rovescia la situazione: la realtà che esiste al di qua della siepe diviene improvvisamente lontana, perché respinta dallo spirito, dall'immaginazione, nella quale il poeta rifugiandosi per poco "non si spaura". A questo punto l'ultrarealtà si avvicina e il poeta vi si immerge.
Gli unici elementi del reale sono il colle, la siepe, e lo stormire delle foglie, ed è da questi elementi che nasce la contemplazione dell'infinito che porta agli infiniti silenzi e alla profondissima quiete; di fronte all'immensità non esiste più limite e gli ostacoli come la siepe sono superati dal pensiero. Come dalla siepe nasce l'infinito dello spazio, così dalla voce del tempo nasce quello del tempo, che lo spirito cerca di raccogliere.
Il simbolo più evidente è rappresentato dalla siepe, che rappresenta non solo l'elemento separatore tra la realtà e la ultrarealtà, ma soprattutto il senso di esclusione (rafforzata dall'uso dell'aggettivo "ermo") che il poeta vive nei confronti della quotidianità esistenziale, che cerca di proiettare lontano da sé: proprio questa volontà di rigettare lontano la realtà è rappresentata dall'uso del passato remoto "fu": questa realtà gli fu sempre cara: ed ora? Ora il poeta cerca qualcosa di diverso, immagina un mondo diverso e di fronte a questo mondo immaginato per un attimo il cuore e la mente si spaventano perché oscillano tra le sicurezze, anche se intrise di infelicità di questo mondo reale, e la non conoscenza del mondo ultrareale. La siepe lo escludeva spiritualmente dagli infiniti silenzi e dall'eterno, in corrispondenza di un sentirsi escluso dalla vita quotidiana a causa della sua deformità fisica e delle delicate condizioni fisiche che non gli permettevano di fare le stesse cose che ad altri era possibile. In entrambi i mondi l'uomo è il centro di sé stesso: potremmo parlare di solitudine intendendo con questo il semplice senso di esclusione di Leopardi dal mondo sociale, vissuto insieme ad altri uomini; ma potremmo parlare anche di fusione con un mondo divino in cui l'individuo si realizza indipendentemente dall'esistenza di un mondo sociale: il "paesaggio" interminato ed eterno potrebbe rappresentare nell'immaginario poetico la divinità universale che è madre benigna della immensità nella quale ogni elemento vivente naufraga in modo dolce.
Quanto centra il fallimento della fuga orchestrata nel 1819 e miseramente fallita? Sta di fatto che dal settembre 1819 Leopardi esce sempre meno di casa e dirada sempre più le sue già scarse visite mentre la salute in generale non migliora; anzi, sul piano della vista e della respirazione si verificano leggeri peggioramenti. In questo clima di smarrimento e sotto il peso del fallimento della fuga da un mondo chiuso e per lui portatore di morte verso un mondo aperto e portatore di vita nasce il bisogno di chiudersi in se stesso per cercare e trovare quegli spazi nei quali liberare lo spirito. È il senso dell'infinito contrapposto allo spazio materiale e spirituale limitato e chiuso. E se questo senso dell'infinito non può essere trovato fuggendo da Recanati, allora viene trovato richiudendosi in se stesso.



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