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Gli enigmi della denominazione




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Gli enigmi della denominazione

(Ric. Fil., oss. 1-35)

Il passo di Agostino con cui si aprono le Ricerche Filosofiche deve essere considerato in tutte le sue più piccole sfumature - ognuna può essere importante ed accennare ad un problema

Agostino descrive in breve in che modo si impara a parlare. Egli pone le cose in stile autobiografico: quando ero un bambino e non sapevo ancora parlare, ho fatto così e così - e così facendo ho imparato a parlare. Ma chi può realmente essere in grado di fare un simile racconto? Il ricordo non arriva sino a laggiù. Possiamo soltanto cercare di immaginare come stiano le cose in proposito. Anche nella filosofia è molto importante saper immaginare.

Ecco che cosa ne pensa il nostro santo. Il bambino non sa parlare. Tuttavia osserva gli adulti, e questi parlano. Ma per il bambino ciò significa soltanto che essi proferiscono dei suoni - e mentre lo fanno, fanno anche strane gesticolazioni: «muovono il corpo verso qualcosa»: corpus ad aliquid movebant. La vox - la parola come semplice suono, è accompagnata da certi gesti che accennano a qualcosa. Questa connessione deve essere o almeno diventare a poco a poco evidente (aperiebatur), affinché il significato della parola possa essere appreso. Così deve sussistere «un linguaggio naturale di ogni gente», debbono esserci parole «naturali» che non sono affatto parole ma gesti, attraverso i quali, per chi guarda le cose dall'esterno, e quindi anzitutto per il bambino che si trova ancora al di fuori del linguaggio possa apparire la connessione tra il suono che nomina e la cosa nominata. I gesti sono ad esempio movimenti delle mani, ma anche espressioni del volto, cenni degli occhi - tutto ciò con cui si esprimono le «affezioni dell'animo» - e quindi eventualmente anche l'intenzione designativa del nome rispetto alla cosa. Le parole ricorrono spesso in contesti differenti fino a quando il rapporto designativo viene appreso ed io stesso - bambino - imparo con questi segni a comunicare le «mie volontà».

Non è forse una descrizione convincente? In fin dei conti, noi possiamo spesso farci capire facendo uso solo di gesti. Può essere anche che per la comprensione effettiva di un'espressione verbale talvolta sia addirittura indispensabile l'appoggio di un gesto. D'altra parte è chiaro che la connessione tra la parola nel suo aspetto puramente fonico e l'oggetto designato può essere trasmessa al bambino solo nella misura in cui egli può osservare un comportamento complessivo nel quale diventa trasparente l'intenzione designativa della parola, il suo significato.

Sembra dunque ragionevole che il linguaggio lo si apprenda proprio così. Non è forse la stessa cosa per una lingua straniera? Forse. Oppure proprio di qui cominciano i dubbi? Le somiglianze, certo, ci sono. Ma vi è anche una profonda differenza. Quando apprendiamo una lingua straniera non solo sappiamo già molte cose sul linguaggio, ma siamo soprattutto installati dentro di esso. E si dovrebbe ritenere che sia già una cosa straordinaria il fatto che chi non sa parlare comprenda che l'altro parla, o addirittura che gli parla.

Pensiamo alla situazione nella quale veniamo a trovarci quando ci rechiamo in un paese la cui lingua ci è ignota. Allora, se qualcuno ci rivolge la parola, siamo subito consapevoli del fatto che egli intende comunicarci qualcosa. Che ne è ora del bambino quando un adulto gli parla? Io penso (immagino) che egli non comprenda che l'altro gli parla esattamente nello stesso modo in cui lo comprende il visitatore di un paese la cui lingua gli sia ignota. Infatti non vi è nel caso del bambino - immagino che non vi sia! - quel penoso senso di imbarazzo che tutti proviamo quando non comprendiamo le parole che ci vengono rivolte. Il bambino non se ne sta di fronte alla mamma con il pensiero «chissà che cosa mi dice»: egli comprende e non comprende, soprattutto non sa nemmeno di non comprendere, e questo cambia interamente le cose. In realtà il bambino è interamente immerso in un rapporto comunicativo - gesti, movimenti, suoni - e questo è molto singolare per il fatto che dobbiamo anche dire che egli è comunque fuori dal linguaggio a cui accede a poco a poco.

Esaminiamo ora più attentamente la spiegazione di Agostino. Si tratta di una effettiva illustrazione di un processo di apprendimento, o non piuttosto della proiezione in termini di una spiegazione sull'apprendimento del linguaggio di una determinata immagine della natura del linguaggio stesso?

La prima osservazione di Wittgenstein è in effetti questa: Agostino propone una «teoria» che riguarda il linguaggio stesso. In breve essa è la seguente: vi sono le parole e gli oggetti che esse denominano - le parole dunque sono in primo luogo nomi. Le parole entrano secondo regole nelle proposizioni più varie (variis sententiis locis suis posita). Il significato della parola è l'oggetto a cui la parola si riferisce. La parola, con il suo significato, sta al posto dell'oggetto. L'oggetto lo possiamo indicare con un dito - e per questo il significato della parola può essere appreso.

La critica di Wittgenstein contro questa teoria è forse tutta contenuta in questo semplicissimo commento:« Di una differenza di tipi di parole Agostino non parla». La descrizione proposta si attaglia infatti abbastanza bene alle parole che sono appunto nomi di cose additabili - tavole sedie armadi, Paolo Pietro Giovanni. Chi pensa che la natura del linguaggio possa essere descritta così ha probabilmente in mente esempi di questo genere. Eppure tutti sappiamo che vi sono parole che non hanno un significato nello stesso modo in cui lo hanno i nomi in genere e i nomi propri in particolare. Un verbo, ad esempio, qualche volta (ma non sempre) può essere mostrato con un gesto - ad esempio, il verbo «camminare» camminando. Ma già una simile indicazione gestuale ha un carattere interamente diverso dalla designazione nel senso in cui se ne parlava poco fa. Ci sono termini che indicano relazioni, ed anche le relazioni non sono indicabili nello stesso modo. Non posso mostrare a dito il fatto che una cosa si trova alla sinistra di un'altra. Vi sono parole che significano numeri ed entità astratte in genere. Oppure stati interiori, come fantasie, ricordi, desideri, emozioni. Per non dire di parole come «ma», «eppure», «benché» ecc.

Naturalmente si può benissimo supporre che chi sostiene un'immagine del linguaggio come fatta essenzialmente di nomi non ignori queste differenze. Si tratta piuttosto del fatto che, accingendosi ad elaborare una teoria del significato, egli pensa che sia opportuno puntare l'attenzione su quell'aspetto del problema in cui la relazione di significato sembra presentarsi nel modo più chiaro e vistoso, orientandosi subito verso il nome ed il rapporto di designazione. Si riconosce anche fin dall'inizio che vi sono delle difficoltà, ma si pensa che in seguito, cominciando di qui, le cose si accomoderanno.

Chiediamoci ancora: è poi giusto, per giustificare una simile presa di posizione, appellarsi alla prima infanzia? Attiriamo in proposito l'attenzione proprio sulle parole che manifestano stati interiori che sembrano entrare subito in urto con quella teoria. In essa il linguaggio viene implicitamente proposto come qualcosa che sta di fronte all'esteriorità del mondo, come se il suo compito primario fosse quella di fissare questa esteriorità e di fornire di essa una descrizione. Come se si trattasse anzitutto di prendere atto di ciò che sta a noi di fronte. Ma - ci chiediamo noi, e forse se lo è chiesto anche Wittgenstein - si è mai visto un bimbo prendere atto di alcunché? Il prendere atto di qualcosa non appartiene all'infanzia, e tanto meno alla primissima, a quella nella quale si entra con espressivi balbettii dentro il linguaggio. E' molto probabile che si segua tutt'altra via - che sia importante l'atmosfera emotiva del gesto del suono della voce, della concreta situazione relazionale in cui si verifica il rapporto comunicativo, rapporto che è da subito strettamente intersoggettivo, vorremmo quasi dire: da interno a interno, essendo il «mondo» nient'altro che un momento di pura mediazione.

Tuttavia, se vogliamo seguire letteralmente il sentiero critico tracciato da Wittgenstein dobbiamo piuttosto insistere su considerazioni di ordine metodico. Altrove egli dice: «Una delle cause principali delle malattia filosofica - una dieta unilaterale: nutriamo il nostro pensiero di un solo tipo di esempi» (oss. 593). In questa osservazione si prende dunque posizione per una concezione della filosofia che fa di essa una riflessione libera, fluida, una elaborazione intellettuale nella quale assume una particolare importanza il riferimento ad esempi, che assolvono di volta in volta funzioni diverse, che talora introducono un problema o lo rendono visibile oppure indicano la via per una possibile soluzione. Se dovessimo indicare quale sia il metodo di Wittgenstein potremmo rispondere: ve ne è più di uno, ma uno particolarmente importante è il metodo degli esempi. Ma vi è anche il rischio che la situazione esemplificativa che ha attirato la nostra attenzione tenda anche ad assorbirla interamente, e quindi ci impedisca di scorgere altre vie possibili, altri problemi, altre soluzioni. L'esempio, che stimola il pensiero, può anche bloccarlo, irrigidirlo. Da questa presa di posizione deriva uno degli aspetti più caratteristici del modo di operare di Wittgenstein che consiste in un continuo spostamento dell'esempio. Il metodo degli esempi è anche un metodo di continua variazione di essi.

Tutto ciò lo si risente nella frase: «Di una differenza di tipi di parole Agostino non parla».

Dal fruttivendolo

Gli accenni critici prendono sviluppo in un modo singolare. Si racconta una piccola storia, una piccola vicenda. Ecco un altro tratto caratteristiche dello stile filosofico di Wittgenstein. In tutte le Ricerche noi non troveremo mai un ragionamento bene organizzato, una discussione a distesa che presenti ordinatamente una determinata opinione con i suoi pro e contro. Ci imbattiamo invece di continuo in modi diversi di stimolare l'attenzione e la riflessione del lettore, che deve perciò sviluppare questi stimoli operando un ampliamento ed un approfondimento per conto proprio dei suggerimenti che gli vengono proposti. «Lascia al lettore ciò di cui è capace anche lui» - ammonisce una volta Wittgenstein (Pensieri diversi, p. 142). Questi stimoli possono avvenire anche attraverso spunti narrativi; oppure assumere l'andamento di scene teatrali minime. Talvolta si tratta di accenni di favole o di pure fantasie. La piccola vicenda di cui ora si narra rimanda invece ad situazione banalmente quotidiana. Si tratta di Tizio che va a comperare cinque mele da un fruttivendolo per ordine di Caio.

Ma in che modo curioso questa vicenda viene rappresentata ! Tutto il succo della storia sta effettivamente nella singolarità e nella stranezza della rappresentazione. Infatti non si dice soltanto che Tizio per ordine di Caio si è recato dal fruttivendolo ed ha acquistato cinque mele rosse. Si dice invece che Caio consegna a Tizio un biglietto con sopra scritto «cinque mele rosse» (scena prima); che Tizio si reca dal fruttivendolo e gli consegna il biglietto (scena seconda).

Occorre poi immaginare - e qui la faccenda diventa effettivamente un po' strana - che il negozio del fruttivendolo non sia affatto come quelli che conosciamo, ma simile invece ad un ufficio tutto pieno di cassetti contrassegnati da etichette, con sopra scritto, «mele», pere', ecc.

La terza scena è interamente occupata dai comportamenti del fruttivendolo il quale, afferrato il biglietto, comincia con l'aprire il cassetto con sopra l'etichetta «mele». Tra le attrezzature di questo singolare negozio di frutta vi è anche una grande tabella, simile a quella impiegata nei negozi di vernici. Il fruttivendolo dunque utilizza un campionario di colori - accanto ad ogni strisciolina colorata vi è, anche in questo caso, un' etichetta dove sta scritto rosso, verde, marrone, ecc. Egli cerca allora la parola «rosso» e guarda la strisciolina colorata che gli sta accanto. Guarda ancora nel cassetto e dice ad alta voce «1, 2, 3, 4, 5» ed ogni volta tira fuori dal cassetto una mela di colore corrispondente a quello del campione.

In realtà difficilmente si potrebbe riassumere tutto ciò dicendo che una comunicazione è stata scritta su un biglietto e trasmessa al fruttivendolo che, avendola compresa, si comporta di conseguenza. In effetti Wittgenstein evita una simile terminologia, non parla di comunicazione, di significati messi per iscritto e compresi nella lettura. E riesce a realizzare questa esclusione operando una sorta di straniamento della situazione quotidiana: come se tutto fosse compiuto da una macchina complessa, di cui ognuno degli attori e delle cose impiegate rappresenta un congegno. E' strano che nessuno dei commentatori di Wittgenstein, abbia pensato, che io sappia, ad un moderno calcolatore. Eppure tutto avviene come in un «dialogo» tra automi - che dialogo non è affatto, ma che funziona esattamente come se lo fosse. Noi siamo in grado di dare istruzioni ad un calcolatore, ed il calcolatore è in grado di eseguirle correttamente, ma in ogni caso non le comprende (Come puoi esserne così certo? - mi si potrebbe chiedere).

Si può anche immaginare di disporsi verso quella situazione nella forma di spettatori non partecipi: come se noi stessi fossimo degli extraterrestri giunti da un altro pianeta che, appena sbarcati dalla nostra navicella spaziale, osserviamo di nascosto il modo di comportarsi di questi esseri semoventi del pianeta terra. Vediamo dunque che Caio «scrive», Tizio porta il biglietto al fruttivendolo che lo «legge», apre e chiude i cassetti, consulta campionari di colori, ecc., ma «scrivere», «leggere» hanno per il visitatore extraterrestre il senso di puri movimenti, come aprire un cassetto che ha sopra lo stesso disegno che compare nel foglietto o estrarre da esso una mela, così anche il senso di puri suoni le parole «1, 2,» recitate dal fruttivendolo nell'apertura del cassetto.

Sarei incline ad annoverare tra i metodi di Wittgenstein anche un simile effetto di straniamento: si guarda alla situazione inibendosi ogni legame che in qualche modo ci renda in via di principio compartecipi ad essa. Ecco un esempio riguardante il riso: «Due ridono insieme per una battuta di spirito. Uno ha usato certe parole abbastanza inconsuete e ora scoppiano entrambi in una sorta di belato. Tutto ciò potrebbe apparire molto stravagante a chi non sia di queste parti, mentre per noi è del tutto ragionevole». Con un rimando autobiografico: «Ho osservato questa scena poco fa in un autobus e ho potuto immedesimarmi in uno che non vi fosse abituato. La cosa mi è parsa allora del tutto irrazionale, come le reazione di un animale a noi sconosciuto» (Pensieri diversi, p. 142).

Questo effetto di straniamento serve soprattutto per mettere in evidenza un problema là dove non se ne vedrebbe alcuno. Se consideriamo l'azione di compravendita secondo questa descrizione ci rendiamo subito conto che non possiamo affatto concludere dal comportamento del fruttivendolo che egli ha compreso il significato della parola «mela»: infatti egli non fa altro che operare un confronto visivo tra un segno con un altro segno. Ma lo stesso vale per la parola «rosso»: anche in questo caso egli mette a confronto due segni grafici, confrontando poi il colore mostrato dal campionario con i colori che egli vede quando guarda le mele del suo cassetto. Il fruttivendolo poi conta veramente? Tutto ciò che sappiamo è appunto ciò che udiamo: il fruttivendolo che emette alcuni suoni accompagnati dal gesto di estrarre dal cassetto ogni volta una mela.

Mentre partecipando all'intera scena è per noi ovvio che ciò che avviene sia una comunicazione autentica che richiede in particolare la mediazione di processi mentali come il comprendere o il contare, non appena la poniamo a distanza mettendo in opera un effetto di estraneazione, appare chiaro, e nello stesso tempo un poco inquietante, che tutto potrebbe funzionare esattamente nello stesso modo, che il problema della comprensione e del significato potrebbe anche non essere posto. I protagonisti della storia potrebbero essere automi, oppure ci potremmo trovare in presenza di un unico automa nel quale all'inizio fosse immesso qualcosa di simile ad una scheda con dei segni sopra, e poi tutto va da sé - alla fine: ecco cinque mele rosse!

E subito affiora un complesso di interrogativi rispondere ai quali non è più affatto ovvio. Che cosa significa leggere un messaggio, comprenderne il senso, in che cosa consiste propriamente il significato di una parola e in che cosa il rapporto comunicativo?

In una storia narrata così, le parole intervengono come parti di un'azione complessiva, che potrebbe anche essere considerata come un meccanismo. Sembra allora che il problema del significato non si ponga neppure. Ma si suggerisce anche che il problema del significato deve essere posto proprio come un momento interno che funziona dentro una situazione complessiva che genera azioni e reazioni. Tuttavia non possiamo ancora trarre una conclusione. Le forbici del barbiere sono ancora in aria: «Delle proposizioni che qui trascrivo solo una ogni tanto fa un passo avanti: le altre sono come lo scatto delle forbici che il barbiere deve tenere in movimento per dare un taglio al momento giusto» (Pensieri diversi, p. 123).

4. Il linguaggio delle quattro parole

Una nuova riuscita sforbiciata ci porta ad un'altra piccola storia - il cui attacco mette in questione l'eccessiva semplicità della concezione di Agostino, il fatto che essa è troppo primitiva ed inadeguata alla complessità del nostro linguaggio. Se è così possiamo immaginarci un linguaggio più primitivo del nostro, un linguaggio semplicissimo «per il quale valga la descrizione dataci da Agostino». Manco a dirlo, il linguaggio primitivo immaginato non si attaglia affatto letteralmente alla teoria di Agostino ma ha lo scopo esplicito di confonderla.

Si tratta del «linguaggio delle quattro parole» - mattone, pilastro, lastra, trave. Vi sono anche due attori, il muratore e il suo aiutante. E quando il muratore dice: «lastra», il suo aiutante gli porge una lastra, quando dice «mattone», gli porge un mattone, e così per il resto.

Anche in questo caso siamo di fronte ad una situazione quotidiana, in cui vi sono due persone che fanno qualcosa, e che facendo qualcosa si parlano. Le parole sono poi anche qui parti di un'azione complessiva e agiscono a loro volta all'interno di essa. L'effetto di straniamento viene ora ottenuto traducendo l'azione quotidiana in un'improbabile finzione, secondo la quale potremmo considerare il linguaggio delle quattro parole come un linguaggio completo, come se le quattro parole rappresentassero tutto il vocabolario di un linguaggio, ovvero, come si esprime Wittgenstein, «tutto il linguaggio di una tribù». Si affaccia qui un altro dei metodi di Wittgenstein, che si trova peraltro in una certa connessione con l'effetto di straniamento. Spesso ricorrono esempi puramente immaginari relativi agli usi e costumi di popolazioni lontane - in una sorta di esercizio di un'«antropologia» immaginaria. La figura del primitivo, che si muove in un contesto ambientale interamente diverso dal nostro e che ha usanze e credenze totalmente diverse, rappresenta per Wittgenstein un punto di riferimento significativo proprio a fini critici ed argomentativi. Di fronte ad una popolazione che non appartiene alla nostra cultura ci troviamo in un rapporto di reciproca estraneità, siamo gli uni rispetto agli altri degli extraterrestri.

Sull'azione a cui ora stiamo assistendo si possono compiere le più curiose congetture. In questo linguaggio semplificato, che è peraltro completo, ci sono solo nomi ed a quanto sembra essi designano appunto cose. Tutto ciò si attaglia alla descrizione di Agostino? Il primo punto da mettere in rilievo è che la parola è così strettamente legata all'azione che può essere difficile discriminarla da essa. Quando il muratore dice «lastra», questa espressione ci appare appunto soltanto come un suono che ha, come possiamo vedere, un determinato effetto. A quanto ne sappiamo può essere che queste azioni vengano accompagnate per consuetudine da vocalizzi come questi, e che il vocalizzo non significhi affatto una sorta di sostituto della cosa, di etichetta apposta su di essa. Il suo impiego comporta semplicemente questa conseguenza. In che senso allora potremmo parlare di nomi così come ne parla Agostino? In questo nuovo esempio, lo spunto teorico di Agostino viene dunque ampiamente problematizzato.

Ma è ormai tempo di avvertire che la citazione di Agostino serve certamente da spunto esemplare, ma è anche del tutto occasionale. Non bisogna lasciarsi distogliere da questo riferimento classico al punto da non vedere che ciò che Wittgenstein ha di mira, all'inizio delle sue Ricerche, è in realtà l'atteggiamento teorico che egli stesso aveva messo in opera nel Tractatus. Che l'essenziale del linguaggio siano proprio i nomi, questa è una delle tesi fondamentali della prima opera di Wittgenstein. In essa si sostiene che la proposizione - astrattamente considerata - va intesa come concatenazione di nomi, cioè di segni che designano oggetti. Le motivazioni particolari addotte da Wittgenstein a questo proposito sono ora irrilevanti; mentre è interessante notare l'atteggiamento di principio che sta alla base di quella decisione teorica. Porre l'accento sul rapporto di denominazione significa infatti richiamare l'attenzione sul rapporto tra linguaggio e mondo come un rapporto statico e speculare. Il linguaggio descrive il mondo. In quella prospettiva la soggettività che impiega il linguaggio come un linguaggio sempre integrato nelle funzioni della vita stessa deve restare ai margini. La polemica avviata da Wittgenstein ha dunque di mira la posizione che egli stesso aveva una volta sostenuto, così come ogni atteggiamento intellettuale che sia puntato prevalentemente nella stessa direzione. Cosicché assume particolare interesse il fatto che il problema del linguaggio e del significato venga proposto in maniera «drammatica»: ci troviamo subito infatti di fronte ad azioni, e dunque anche ad obbiettivi pratici che debbono essere conseguiti: ad esempio, se vi è un muratore e il suo aiutante, e se una lastra o una trave deve essere sollevata e spostata da un luogo ad un altro luogo certamente qualcosa deve essere costruito. È nel contesto di queste azioni e dei loro scopi che si impiegano anche parole.

5. Insegnamenti e giochi

La citazione di Agostino - sullo sfondo di una revisione delle idee del Tractatus - attira l'attenzione di Wittgenstein anche per il fatto che si appella alla situazione dell'infanzia, indipendentemente dalla giustezza o erroneità della concezione del linguaggio che viene poi suggerita. Nel Tractatus, non solo è dominante una concezione del rapporto linguaggio-mondo come un rapporto speculare, ma è di conseguenza esclusa o posta ai margini ogni possibilità di mutamento o di movimento. Il linguaggio non «diviene» - esso appare come già istituito, quindi come un sistema compiuto e definito. Diventa allora una questione marginale, che può forse interessare la psicologia del linguaggio, il fatto che esso sia appreso. Ora invece abbiamo cominciato a fare uso della nostra capacità di immaginare linguaggi, ed in particolare linguaggi primitivi, linguaggi cioè estremamente semplici, che possono essere considerati per questa loro semplicità come anteriori ai linguaggi evoluti. Tra questi linguaggi primitivi vi sono certamente anche quelle forme primitive del linguaggio impiegato dal bambino «quando impara a parlare» (oss. 5). Riconsiderando le cose da questa prospettiva ci sembra ora che le piccole storie che abbiamo narrato in precedenza possano essere intese come giochi infantili: come se ci fossero venute in mente guardando giocare i bambini.

Pensiamo a come potremmo insegnare ad impiegare la parola rosso ad un bambino molto piccolo, o la parola mattone o lastra; o anche a contare fino a cinque. Inventeremmo forse un gioco del tipo di quello del fruttivendolo o del muratore giocandolo insieme con lui. Forse, proprio perché nella prima infanzia la forma del gioco è dominante, il linguaggio si fa strada in questa forma. Giocando, il bambino si addestra al linguaggio.

Wittgenstein suggerisce allora di considerare la situazione esplicita di questo addestramento, quindi un gioco un po' speciale, che ha ancora due attori, il maestro e il bambino, e che lo scopo sia quello di insegnare ad impiegare le parole.

Immaginiamo dunque di avere a che fare con il bambino che non sa ancora parlare, che, come dice Wittgenstein, non può ancora chiedere il nome degli oggetti. In che modo può allora avvenire il passaggio all'apprensione della parola e del significato? L'indicazione di Agostino era questa: il maestro «indica al bambino determinati oggetti, dirige la sua attenzione su di essi e pronuncia al tempo stesso una parola; ad esempio, pronuncia la parola 'lastra' e intanto gli mostra un oggetto di questa forma» (oss. 6). Qui il gioco intende far funzionare la parola come un nome, e vi è un addestramento particolare per raggiungere questo scopo. Wittgenstein non nega affatto che questo sia un gioco possibile, ma ciò che ribadisce è che si tratta di una delle tante possibilità di far funzionare il linguaggio, uno dei tanti modi possibili di impiegare le parole. Non dobbiamo dunque dire che lo scopo della parola sia quello di designare oggetti, ma possiamo anche affermare che questo può essere uno dei suoi scopi. Ed il maestro può cercare di ottenere proprio questo tipo di associazione della parola alla cosa, cosicché essa possa essere considerata come una etichetta di essa, un suo rappresentante sul piano del suono o del segno scritto - egli insegna la presenza di questo rapporto mostrandolo. Ma come può mostrarlo? Subito si pensa ad una mano con il dito indice puntato. Invece egli farà ricorso a tutto un insieme di azioni differenti e convergenti nello scopo: punterà il dito sulla cosa, certo, ma forse farà anche in modo di far agire l'allievo, di fargli fare qualcosa, farà azioni per provocare reazioni, e di volta in volta muoverà la testa in senso approvativo o disapprovativo, e la mimica del volto annuncerà soddisfazione o insoddisfazione; varierà i contesti del gioco in modo opportuno, per far sì che il rapporto parola/cosa venga isolato indipendentemente dalla specificità del contesto, e così via. Questo insieme di azioni e di comportamenti è ciò che Wittgenstein è propriamente non una spiegazione del significato, ma un addestramento (Abrichtung) che si può caratterizzare come un «insegnamento ostensivo delle parole» (hinweisendes Lehren der Wörter).

In certo senso il gioco dell'insegnamento ostensivo differisce per un nonnulla da quello del muratore, anzi, possiamo semplicemente assumere già in rapporto a quell'esempio che ci fingiamo muratori per insegnare all'aiutante - il bambino - un contesto di impiego di quelle quattro parole. In base ad esso d'altra parte non è detto che le quattro parole vengano apprese come etichette appiccicate alle cose, come dei puri nomi.


6. L'insegnamento ostensivo

Ridurre l'insegnamento ostensivo dei nomi all'atto semplice del segnare a dito pone peraltro diversi problemi. Il bambino, come abbiamo detto, «non può ancora chiedere il nome degli oggetti». Il bambino dunque non solo ignora il nome di questa o quella cosa, ma non ne sa nulla nemmeno dello stesso rapporto denominativo. Se egli potesse formulare la domanda «Come si chiama questo o quest'altro?», evidentemente si troverebbe già dentro il linguaggio, per lui si sarebbe già costituito il rapporto di denominazione, cosicché anche l'indice puntato insieme alla parola avrebbe la portata di un gesto equivalente a quel rapporto e potrebbe essere compreso. All'inizio, non si tratta soltanto di mostrare il significato di una parola, ma anche che le parole hanno un significato.

Il segnare a dito è allora tutt'altro che un gesto chiaro e distinto. Puntiamo il dito sulla cosa ed emettiamo un suono: ma che cosa mai può capire il bambino? Deve forse ridere o piangere? Il dito puntato non significa nulla se non so che i nomi sono dita puntate.

L'insegnamento ostensivo non è dunque soltanto un indicare a dito come se la parola fosse «definita» mostrando la cosa. Io credo che Wittgenstein parli di «insegnamento ostensivo» contrapponendo questa espressione alla cosiddetta «definizione ostensiva», credo anzi che vi sia una sottintesa e vivace polemica contro questa associazione terminologica tra «definire» e «mostrare».

Cerchiamo di comprenderne le ragioni. Quando non conosciamo il significato di una parola, ne cerchiamo appunto la definizione in un vocabolario. Naturalmente in esso noi troviamo sempre dei sinonimi o dei giri di frase che hanno all'incirca lo stesso significato di quella parola. Se qualche espressione compresa nella definizione non ci è nota nel suo significato, allora procederemo esattamente nello stesso modo, ricercandone la definizione. Questa semplice considerazione ci fa concludere che dal vocabolario soltanto non potremmo apprendere il significato di nessuna parola: il linguaggio non è in grado di istituire da se stesso il proprio rapporto con il mondo. E' dunque necessario riconoscere che vi è un livello extralinguistico che è di fondamentale importanza affinché il senso penetri nel linguaggio - e tutto ciò potrebbe essere inteso (si lascia giudicare a chi legge se a torto od a ragione) come una sorta di limite e nello stesso tempo come una circostanza abbastanza malaugurata. Lo intenderebbe certamente così coloro che tendono a mitizzare il riferimento al linguaggio come se ogni considerazione filosofica proposta in termini linguistici possedesse per questo stesso fatto una sorta di surplus di chiarezza e di perfezione. Assumendo un punto di vista che vede con sospetto il fatto stesso che si parli di un piano extralinguistico e che farà dunque ogni possibile sforzo per ricondurre ogni riflessione filosofica ad una riflessione su fatti linguistici, si comprende subito come possa essere ritenuta malaugurata la circostanza che l'intero apparato definitorio debba sostenersi su parole che sono state introdotte senza definizione alcuna.

Ed in che modo allora? In modo grossolanamente intuitivo, con vaghe gesticolazioni - addirittura!

Ora, a me sembra che l'espressione di «definizione ostensiva» che viene normalmente impiegata da logici e filosofi del linguaggio per indicare il gesto che mostra la cosa designata dalla parola cerchi di lenire questo apparente scacco. La parola definizione rimanda infatti ad un livello strettamente intralinguistico, e proprio per questo essa è in certo modo tranquillizzante per chi nutre simili inquietudini. Attraverso di essa si cerca di mitigare l'imbarazzo di quel vago gesticolare, la cui importanza e la cui presenza deve essere in ogni caso riconosciuta: senza quel vago gesticolare - se questo «mostrare» non vi potrebbe essere alcun «dire». Se riteniamo questa circostanza un poco malaugurata, l'espressione «definizione ostensiva» - con il contrasto interno che essa contiene - fa le corna al malaugurio. Pur sempre di definizione si tratta - benché consista in un «mostrare a dito». L'espressione di «insegnamento ostensivo», in cui il mostrare si riferisce a qualunque pratica sia messa in opera per far apprendere contestualmente il senso è certamente più aderente alle cose e più ricca di pensiero.

7. Giochi linguistici

Tutti gli esempi, tutte le discussioni continuano a riproporre il linguaggio, le parole, in contesti di esperienza e di azione. Nelle scene del fruttivendolo e del muratore si rappresentava un agire con le parole. Ed un agire con le parole è certo anche il rapporto del maestro con lo scolaro. Inoltre tutti questi esempi possono anche essere intesi come giochi, assomigliano a giochi; e tutti questi giochi assomigliano al linguaggio stesso. «Li chiamerò 'giochi linguistici' e talvolta parlerò di un linguaggio primitivo come di un gioco linguistico. E si potrebbe chiamare gioco linguistico anche il processo del nominare i pezzi, e quello consistente nella ripetizione, da parte dello scolaro, delle parole suggerita dall'insegnante. Pensa a taluni usi delle parole nel gioco del giro-giro-tondo. Inoltre chiamerò 'gioco linguistico' anche tutto l'insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto». Questo è quanto si dice nell'oss. 7, nella quale viene introdotto il concetto fondamentale delle Ricerche Filosofiche, il concetto di «gioco linguistico». Il modo in cui esso viene introdotto è tuttavia sommesso, senza troppe spiegazioni, senza enfasi. I nostri «drammi» minimi - e in tedesco, la lingua in cui Wittgenstein scrive, dramma (rappresentazione teatrale) si dice anche Spiel - cominciano a suggerire che cosa dobbiamo intendere con «gioco linguistico» (Sprachspiel), ma certo dovremo attendere ancora prima di saper trarre di qui un vero profitto.

Intanto non perdiamo in ogni caso di vista la storia interna del problema. Nella prospettiva del Tractatus , nella quale si intendeva soprattutto mettere in evidenza una struttura logica profonda del linguaggio aderente alla stessa essenza del mondo, a Wittgenstein interessava soprattutto assicurare un vincolo tra linguaggio e realtà e nello stesso tempo il fatto che il linguaggio è una costruzione a partire da regole definite e concluse. Il linguaggio è anzitutto calcolo. Le letture logiciste del Tractatus non si avvidero che in esso era fortemente attiva una istanza formalistica - che forse non era sfuggita a Russell nel suo giudizio quasi sprezzante sulla filosofia della matematica del Tractatus. Proprio all'interno del formalismo matematico si impone l'analogia con il gioco, come del resto si era imposta nella riflessione linguistica e filosofica (De Saussure, Husserl).

Ma quale gioco? Questa precisazione è assolutamente necessaria. Si trattava regolarmente del gioco degli scacchi. Nell'oss. 3 si dice: «È come se qualcuno spiegasse: 'il gioco consiste nel muovere cose su una superficie secondo certe regole' e noi gli rispondessimo: sembra che tu pensi ai giochi fatti sulla scacchiera: ma questi non sono tutti i giochi. Puoi rendere corretta la tua spiegazione restringendola espressamente a questi giochi».

In effetti, se ci atteniamo allo spirito di una concezione formalistica il gioco degli scacchi ci interessa per almeno tre aspetti che ci consentono di illustrare analogicamente la nozione di calcolo:

1. vi è anzitutto quella che potremmo chiamare la chiusura del gioco. Il gioco basta a se stesso - come Wittgenstein diceva della logica in genere - cioè non ha bisogno di nessun riferimento ad una realtà esterna ad esso. In questo senso lo spazio del gioco è uno spazio rigorosamente chiuso, non ha alcuna relazione con lo spazio che sta intorno: nulla ha a che vedere la superficie della scacchiera con la superficie del tavolino su cui essa poggia. Non vi è nessuna strada che conduce dall'una all'altra. Il pezzo del gioco è tale solo all'interno di questo spazio, sul tavolino è una cosa come ogni altra.

2. Negli scacchi i pezzi sono figure materiali, fatte di legno, di avorio o di altri materiali che nel loro nome o nella loro fattura rimandano a personaggi o a cose reali. Ma per quanto questo nome o questa fattura abbiano importanza in rapporto al piacere ed al fascino del gioco, essi sono del tutto indifferenti ai fini della sua realizzazione. I pezzi non solo si muovono secondo regole, ma sono anche niente altro che simboli di queste regole. La risoluzione del pezzo nella regola è un altro elemento che può essere considerato interessante all'interno di questo contesto.

3. Se i pezzi non sono altro che simboli delle regole, i giocatori non sono a loro volta che strumenti di esse. Nel gioco degli scacchi si affaccia dunque l'idea della deduzione formalmente intesa, del calcolo nella sua accezione generale: vi è infatti una disposizione iniziale dei pezzi della scacchiera ed ogni altra posizione è acquisita per applicazione iterata di regole ben definite. Il fatto che queste regole siano convenzionali è assai meno importante del fatto che chiunque voglia giocare a scacchi è tenuto ad applicarle.

Consideriamo ora l'idea del linguaggio alla luce di questa immagine. Il linguaggio è formato di parole - ma ciò che importa non sono le parole in se stesse, nella loro materia grafica o fonica, ma regole dalla cui applicazione sorgono le proposizioni: le parole sono dunque simili ai pezzi del gioco, le proposizioni alle configurazioni raggiunte nel gioco attraverso l'applicazione iterata delle regole. E come non abbiamo bisogno di stabilire delle corrispondenze tra pezzi e configurazioni e qualcosa che sta al di fuori del gioco stesso, così è possibile una considerazione puramente formale (sintattica) del linguaggio, nella quale vengono messi da parte i riferimenti di senso delle formazioni linguistiche.

È notevole, a mio avviso, il fatto che il mutamento radicale della concezione di Wittgenstein sia guidato dalla stessa immagine, dallo stesso riferimento illustrativo al gioco. Cogliere con chiarezza la componente formalistica all'interno del Tractatus è importante anche ai fini di rendere conto degli sviluppi successivi del pensiero di Wittgenstein. Questo si sviluppa infatti proprio in una costante riflessione intorno al formalismo, che si esercita in una grande varietà di forme sull'esempio del gioco.

Si comincia a prendere per buona questa analogia - il linguaggio-calcolo e il gioco degli scacchi - e ad elaborarla, per poi estenderla ed ampliarla. Non si tratta più soltanto del gioco degli scacchi, ma di questo gioco tra gli altri giochi possibili, dei giochi in genere. Nella filosofia possiamo proporre un'immagine in due modi molto diversi: da un lato a scopi illustrativi, per dare immediatezza ed evidenza intuitiva ad un'argomentazione o ad un concetto astratto, dunque come ausilio alle nostre spiegazioni o come un rafforzamento. Ma possiamo anche approfittare dell'immagine per «pensare attraverso di essa», facendo un impiego non più solo illustrativo rispetto ad un problema, ma produttivo ai fini della sua impostazione, della evidenziazione delle sue sfaccettature e degli sviluppi che possiamo trarre di qui. Decidiamo allora di lasciarci guidare dall'immagine, di lasciar fare ad essa, inseguendola poi con i nostri pensieri nei percorsi che essa propone. Ecco dunque un altro dei metodi di Wittgenstein, non esplicitamente teorizzati, ma certamente praticati a fondo: questo lasciar fare all'immagine, per ripensare ai problemi alla luce delle evoluzioni che essa compie.

In certo senso, l'autocritica di Wittgenstein rispetto al Tractatus comincia proprio quando, a partire dal tendenziale formalismo di quell'opera, l'immagine del gioco affiora ed egli decide di lasciarla fare.

Cominciamo a ragionare sull'immagine, ed attraverso di essa. Abbiamo detto or ora che le regole del gioco degli scacchi sono vincolanti. Ma questo vincolo è forse una necessità immanente alla cosa stessa, come se esistesse una natura profonda del gioco degli scacchi e le regole del gioco circoscrivessero una essenza immutabile? Le cose non stanno così. Il gioco degli scacchi non ha affatto un'essenza. Il vincolo delle regole rimanda ad un accordo tacito dei soggetti del gioco, e non ad una pretesa oggettività del gioco stesso. Quando il formalismo diventa esplicito e cosciente, quando comincia a funzionare l'analogia produttiva con il gioco, allora ogni tensione essenzialistica si sfalda, così come si sgretola il richiamo alla struttura della realtà come struttura assoluta. In particolare viene a cadere la funzione assolta dalla questione della contraddizione. Ora, essa viene ribaltata dal piano estremamente serio dei ragionamenti sulla possibile contradditorietà dell'aritmetica ovvero sulla necessità di provare la sua non contraddittorietà, a quello del gioco.

Per secoli e secoli si è sempre giocato a scacchi senza che mai nessuno abbia mai sollevato il problema di provare se le regole degli scacchi siano in sé intrinsecamente coerenti, senza preoccuparsi del fatto che prima o poi, inopinatamente ci potremmo trovare di fronte, giocando a scacchi, ad una situazione contraddittoria. Dovremmo forse ritenere un simile atteggiamento sconsiderato o imprudente? Suona strana la domanda stessa. Oppure ci siamo da tempo immemorabile comportati così perché si trattava soltanto di un gioco? Certamente no, perché anche in rapporto all'aritmetica, solo in tempi molto recenti il problema di una prova della sua coerenza intrinseca è diventato importante. Ma importante da che punto di vista? Non è forse vero che anche nel caso del gioco aritmetico per secoli e secoli non ci si è preoccupati affatto della sua possibile contraddittorietà, senza che ciò impedisse il successo e il costante sviluppo di quella disciplina?

L'analogia con il gioco produce lo smontaggio del problema della non contraddittorietà e la sua riconsiderazione da altri punti di vista che non sia quello di ottenere garanzie e fondazioni assolute. Ci dobbiamo chiedere: che cosa potrebbe voler dire imbattersi in una contraddizione nel gioco degli scacchi? Oppure: come ci comporteremmo se ci imbattessimo in una contraddizione nel gioco degli scacchi? Ma poi anche: perché sempre e monotonamente il gioco degli scacchi? Non vi sono forse molti altri giochi assai diversi da questo e che possono non meno di questo insegnarci molte cose intorno al linguaggio? Perché nutrirsi di questo unico tipo di esempi?

L'immagine del gioco, liberamente sviluppata, apre nuove possibilità. Essa non ci consente soltanto di proporre e nello stesso tempo di smitizzare il linguaggio come calcolo, ma di delimitare un simile modo di considerare il linguaggio come una possibilità tra altre. L'immagine del gioco può anche richiamare la nostra attenzione sull'integrazione del linguaggio in un contesto di azioni. La concezione sintattica viene in certo modo ancora mantenuta, ma con la differenza che ora nella sintassi intervengono in un unico inviluppo gli attori del dramma e le cose su cui agiscono. Il concetto di sintassi deborda dal piano linguistico a quello extralinguistico, o meglio: i limiti che separano l'un piano dall'altro diventano indefiniti, e il momento del senso si fa nuovamente avanti come parte del contesto complessivo.

Muovendo da un presupposto formalistico e in certo modo con le sue stesse armi, ovvero seguendo gli sviluppi interni dell'immagine del gioco, perveniamo ad una prospettiva interamente diversa e per certi versi opposta. In una concezione formalistica l'aspetto propriamente sintattico-grammaticale deve subito essere chiaramente distinto dall'aspetto semantico. Anzitutto vi sono i segni, i pezzi del gioco, che non significano nulla al di fuori del gioco stesso, che hanno solo un significato-di-gioco, un significato che si risolve nella regola. Ad essi possiamo apporre una semantica, istituendoli come segni di qualcosa d'altro, come nomi.

Nella nuova concezione il linguaggio appare invece fin dall'inizio invischiato con la realtà, e la realtà stessa è qualcosa di interamente diverso da un aggregato di oggetti a cui vanno ad annodarsi le corde del significato. Proprio per questo occorre prestare attenzione all'espressione «gioco linguistico» evitando un fraintendimento: essa non deve essere intesa come se l'aggettivo «linguistico» delimitasse il tipo di gioco. Non si intende un gioco fatto di parole: al contrario con quella espressione si vuole in primo luogo caratterizzare un punto di vista nel quale le parole stesse sono integrate in un'azione più ampia. Il filo rosso che giunge sino al fondo delle Ricerche Filosofiche e che comincia a snodarsi fin dalle primissime osservazioni è l'idea che «immaginare un linguaggio significa immaginare una forma di vita» (oss. 19).

8. L'eterogeneità dei modi del senso

Per non perdere il bandolo della matassa che Wittgenstein va ora sbrogliando ora imbrogliando, è certamente opportuno tentare di operare dei raggruppamenti delle osservazioni, cercando di individuare delle cadenze, dei respiri, dei punti di pausa e di sospensione. Una cesura può essere certamente posta alla settima osservazione proprio perché essa introduce il termine di «gioco linguistico».

Un nuovo raggruppamento potrebbe raccogliere insieme dalla proposizione ottava alla proposizione diciottesima. A suo modo si tratta di un gruppo unitario che riprende i temi ed anche gli esempi delle osservazioni precedenti. Il tema principale è ancora quello del rapporto di designazione, intorno al quale cominciano tuttavia a gravitare altri temi che ne estendono la portata.

Non vi è ormai più bisogno di ripetere che affrontando il problema della designazione Wittgenstein mira ad una critica della teoria di un rapporto semplice tra il nome e la cosa, in base al quale il nome è come un cartellino appiccicato all'oggetto denominato (oss. 15). Si tratta ora di fare un passo oltre, cominciando con l'avanzare gli spunti per un'elaborazione positiva.

Così l'esempio del linguaggio del muratore e del suo aiutante che - come abbiamo notato - può anche essere un gioco e ha direttamente a che vedere con la tematica dell'apprendimento - viene ora ripreso con alcuni arricchimenti: si introducono i numerali in forma di lettere alfabetiche, alcune parole importanti nella comunicazione come «là» e «questo», così come quei «campioni di colore» che già avevamo visto svolgere una funzione nel gioco del fruttivendolo.

Evidentemente in questi arricchimenti si tratta di mostrare la varietà e la differenza, l' «eterogeneità» dei modi del senso (oss. 10). Tutte le parole in questione hanno un senso, ma non nello stesso modo. Questa eterogeneità viene nascosta dal fatto che possiamo dire che i numerali designano numeri, «lastra» e «mattone» designano queste cose, «qui» designa il luogo che occupa colui che parla, e così via. La possibilità di impiegare lo stesso verbo implica certamente qualche affinità, ma occorre rendersi conto sino a che punto queste affinità possano essere spinte.

Nell'analogia con la cassetta degli utensili (oss. 11), si fa notare che in essa si possono trovare un martello, una tenaglia, un metro, colla, viti e chiodi. Tutte queste cose si dicono strumenti, ad esse si può dare questo nome comune. Ma molto differenti sono i loro impieghi.

I vari comandi che si trovano nella cabina di una locomotiva (oss. 12) hanno un aspetto molto simile, sono fatti all'incirca nello stesso modo, e «ciò è comprensibile, dato che tutti debbono essere afferrati con la mano». Ma ogni maniglia ha effetti diversi, e la locomotiva si muove nel gioco di tutte queste diverse funzioni.

Talvolta possiamo prestare attenzione alle somiglianze ed operare assimilazioni. Wittgenstein non dice mai che non si debba fare questo. Ma l'accento cade prevalentemente sul rischio che si corre nel compiere queste assimilazioni quando esse coprono nette differenze nel modo di impiego: «assimilando in tal modo l'una all'altra le descrizioni degli usi della parola non si rendono per nulla simili questi usi» (oss. 10). «Ma con questa assimilazione dell'espressione si sarebbe guadagnato qualcosa?» (oss. 14).

Anzi, non solo non si guadagna nulla, ma si rischia di rimetterci: di introdurre la confusione, di far sorgere problemi male impostati e malamente risolti. Affiora così il problema dell'«analisi del linguaggio» come metodo della riflessione filosofica: l'impiego delle parole non ci sta davanti in modo evidente. E «specialmente non, quando facciamo filosofia!». Di qui consegue certamente che la chiarificazione intorno ai modi di impiego delle parole fa parte dei metodi della filosofia. Essa non è «il» metodo della filosofia, l'unico metodo autentico - idea fin dall'inizio attribuita a Wittgenstein e che ha «fatto scuola». Si tratta invece di un'idea che a mio avviso, gli è profondamente estranea. In Wittgenstein vi è una pluralità di metodi - lo abbiamo già più volte ribadito. E del resto anche l'«analisi del linguaggio» si situa qui ben oltre il piano di una questione puramente metodologica, per mettere in causa importanti aspetti di contenuto.

A questo proposito si possono raccogliere alcuni spunti cominciando dal problema dei numerali (oss. 9 e 10). Sullo sfondo vi è la questione di una illustrazione del concetto di numero e di una teoria del numero che per quanto non sembri occupare in quest'opera uno spazio significativo, continua tuttavia ad essere presente. L'esempio dei numerali non è soltanto una possibile illustrazione della varietà dei modi della designazione genericamente intesa, ma esso intende anche dire: se vuoi elaborare una giustificazione filosofica del numero non devi lasciarti guidare da considerazioni di filosofi che operano false assimilazioni concettuali: seguendo questa via si potrebbe essere tentati di considerare i numeri come entità a sé stanti, come oggettività in sé, come mattoni eterei. Devi invece pensare all'insegnamento ostensivo del numero, al modo in cui l'impiago delle parole di numero viene mostrato ai bambini e da essi viene appreso. È certo infatti che anche qui, come nel caso dell'introduzione primitiva delle parole, si tratta anzitutto di mostrare qualcosa. Ma nemmeno in questo caso si tratta di un semplice mostrare indicativo, di un «segnare a dito». L'indicazione può valere - forse! - per i numerali più piccoli, che potrebbero essere presentati come nomi di «gruppi di cose che possono essere afferrati con lo sguardo» (oss. 9). Ma ben presto l'apprendimento dovrà legare il numero alla successione - ad una successione recitata durante una determinata azione compiuta su cose.

Se diciamo che i numerali designano numeri, allora sembra abbastanza inevitabile che i numeri siano concepiti come entità che ci stanno di fronte esattamente come una lastra o un mattone. In questo caso il parlare di designazione suscita incertezze perché potremmo avere dubbi sul fatto che sia giusto concepire i numeri in questo modo; e del resto non vorremmo nemmeno essere costretti ad assumere che i numeri debbano essere concepiti così per il solo fatto che ci esprimiamo in questo modo.

Pensando ad un possibile «insegnamento ostensivo» è comunque certo che non potremmo mostrare i numeri come oggetto di riferimento dei numerali. Non sapremmo infatti come dovremmo gesticolare. Eppure non vi è dubbio che anzitutto l'insegnamento dovrà essere ostensivo. Si mostrano i numerali e si mostra il loro uso. Si potrebbe proporre ad un bambino il gioco del fruttivendolo, invertendo di tanto in tanto le parti. In questo modo si insegna a fare qualcosa con i numerali e quanto alla designazione, ci disinteressiamo del tutto della questione. Si insegna dunque a compiere una certa azione, a dire, insieme ad essa certe parole, uno, due, ecc. E questo è tutto. L'indicare una cosa è un'azione come il sollevarla o lo spostarla; ma vi è evidentemente una differenza. Indicando una cosa non facciamo proprio nulla con essa. Sembra difficile mostrare il significato di un numerale senza manipolare cose, senza un fare in senso proprio.

L'insegnamento ostensivo procede in un modo se deve insegnare il significato della parola «lastra», in un altro se deve insegnare il significato della parola «cinque». Così se diciamo che l'una e l'altra parola hanno un significato, dovremmo subito notare che non lo hanno nello stesso modo. Nulla ci impedisce peraltro di affermare che «cinque» designa un numero e «lastra» una lastra. Possiamo essere consapevoli che il rapporto designativo ha una molteplicità di aspetti differenti - benché si corra il rischio di false assimilazioni. La generalità del rapporto di designazione deve essere ricondotta alle particolarità dei modi di impiego, e ciò evidentemente fa tutt'uno con lo spostare l'ottica del discorso dal linguaggio ai giochi linguistici, entro i quali diventa realmente visibile il modo di funzionare delle parole.

Il riferimento all'insegnamento ostensivo ed all'apprendimento infantile della successione numerica ha, a mio avviso, anche una diversa inclinazione: non si tratta solo di attirare l'attenzione sui modi di impiego, ma anche di suggerire che, ai fini di una chiarificazione filosofica del concetto di numero, più che ad elaborate costruzioni logiche dovremmo regredire ad una dimensione nella quale dell'aritmetica e della logica non sappiamo ancora nulla. Ed il «modo e la maniera» in cui si costituisce la parola numerica deve offrirci chiarimenti importanti sulla natura del concetto corrispondente. A me sembra di cogliere in questo la possibilità di un punto di contatto ricco di senso con la tematica fenomenologica relativa ad una chiarificazione dei concetti che «regredisce» al piano «antepredicativo».

9. Proposizioni abbreviate e parole allungate 

Oggetto di problematizzazione sono anche le distinzioni grammaticali correnti (oss. 19-25). Si pensi alla distinzione tra proposizione dichiarativa e proposizione imperativa. O addirittura tra proposizioni e parole. In quest'ultimo caso si potrebbe dire: la parola è una parte della proposizione e la proposizione è un complesso di parole. A questa distinzione si accenna già nella citazione di Agostino: in essa si parla infatti di «verba in variis sententiis locis suis posita»: il verbum è ciò che occorre nella sententia, e precisamente è disposta in essa nel luogo appropriato.

Tutto chiaro, a quanto sembra. Eppure nel gioco linguistico del muratore ci si può chiedere «'Lastra!' è una parola o una proposizione?».

Supponiamo che qualcuno risponda: una parola, certamente - non vi è dubbio su questo punto.

Netta, e suggestiva, l'annotazione di Wittgenstein: se è così allora deve trattarsi di una parola che ha un senso completamente diverso da quello che questa stessa parola ha nel nostro linguaggio perché in quel gioco linguistico essa è un grido. È importante rammentare sempre che il linguaggio delle quattro parole è stato assunto come un linguaggio completo - e ciò significa non solo che esso non possiede altre espressioni, ma anche che non è da intendere come se fosse una piccola parte del nostro linguaggio. Perciò nel testo si parla non a caso di un grido, e non di un ordine: all'interno di quel linguaggio infatti ci sono solo parole gridate e non - mentre non vi sono proposizioni imperative e dichiarative. Naturalmente se, presupponendo il nostro linguaggio, facciamo valere una simile distinzione, allora potrebbe sembrarci più giusto parlare di «Lastra!» come di una proposizione imperativa abbreviata. Ci si potrebbe tuttavia ancora chiedere che cosa sia propriamente quella espressione restando rigorosamente all'interno di quel linguaggio. Ma anche facendo riferimento al nostro linguaggio, che «Lastra!» sia una espressione abbreviativa della proposizione imperativa «Portami una lastra!» per Wittgenstein non è affatto evidente. «Ma perché non dovrei dire, viceversa, che la proposizione 'Portami una lastra!' è un prolungamento della proposizione 'Lastra!'». Un rovesciamento del problema che ci coglie di sorpresa. Eppure muterebbero di molto le cose se adottassimo quest'altro punto di vista?

Si potrebbe ancora protestare: chi dice «Lastra!» intende in ogni caso che gli si porti una lastra. E Wittgenstein di rincalzo: che cosa significa intendere in questo caso? Diciamo forse dentro di noi la proposizione più lunga? Certamente no. In realtà intendiamo che mi si porti una lastra appunto con il grido «Lastra!» e per intendere ciò non vi è bisogno della proposizione «Portami una lastra» e nemmeno di assumere che quel grido sia una sua abbreviazione. Gridando «Lastra!» voglio che mi si porti una lastra, ma questo volere «non consiste nel pensare, in una forma qualsiasi, una proposizione diversa da quella che tu dici», e tu dici appunto niente altro che «Lastra!».

La messa in questione della distinzione tra proposizione dichiarativa e imperativa potrebbe anche presentarsi in questa forma: che cosa contraddistingue una proposizione (vogliamo considerarla tale) come «cinque lastre» per informare qualcuno che qui ci sono cinque lastre oppure quando la usiamo per farci portare cinque lastre? Nella scrittura in questo secondo caso metteremmo un punto esclamativo, nel parlato probabilmente alzeremmo il tono della voce. L'unica differenza sembra consistere dunque in un modo diverso di emettere gli stessi suoni.

Domande analoghe si potrebbero avanzare in rapporto alla distinzione tra proposizione dichiarative e interrogative. Del resto già nell'uso quotidiano ci sono ben note forme come: 1. «Non è meraviglioso il tempo oggi?». Domanda o dichiarazione? 2. «Vorresti far questo?» - Domanda, ma può assumere forma di ordine. 3. «Lo farai»: potrebbe ben essere un modo di ordinare a qualcuno di fare qualcosa - una sorta di futuro imperativo (oss. 21). Tuttavia sarebbe erroneo che qui si voglia solo mettere in evidenza l'elasticità e la plasticità espressiva del discorso corrente. Vi sono anche esempi del tutto fittizi, come quando si ipotizza un linguaggio in cui ogni asserzione è formulata nella forma di una domanda seguita da un «si» o da un «no» («Piove? Si», «Piove? No») (oss. 22), il cui unico interesse, a quanto sembra sta proprio nell'allontanare l'idea che una simile riflessione riguardi usi consueti e comuni. A maggior ragione è il caso di chiedersi: a che scopo un simile rimescolamento delle carte?

Intanto non vi è dubbio che qui Wittgenstein miri anzitutto a confonderci. Ciò che sembra si voglia mettere in dubbio è che il linguaggio abbia una struttura in qualche modo ben determinata. Di fronte alla chiara distinzione tra parola e proposizione, facciamo di tutto per renderla ambigua e controversa. E nell'argomentare non si rifugge dall'assumere posizioni estreme. Si fa avanti anche il sospetto di un'operazione puramente scettica. Ricorrendo ai mezzi più vari - non escluse argomentazioni che volentieri cercheremmo di respingere come puri sofismi - sembra si persegua lo scopo puramente negativo di introdurre la confusione dove c'era prima nella nostra testa una passabile chiarezza. Se qualcuno sostiene di sapere distinguere tra cosa come interrogazioni, ordini, accertamenti, constatazioni - gli si propone subito un esempio «critico» tratto dal discorso corrente o anche liberamente inventato e che richiede improbabili contesti.

Qualcuno ora grida «Aiuto!» (cfr. oss. 24), mentre sta annegando nel fiume. Ed il filosofo seduto meditabondo sulla riva passa in rassegna le varie possibilità. Si tratta forse anzitutto di un'esclamazione. Quella parola la scriveremmo infatti con il punto esclamativo. Tuttavia non negheremmo certo che in quel grido sia contenuto qualcosa di simile ad una domanda o ad una implorazione. Occorrerà allora senz'altro introdurre un nuovo tipo di proposizione «implorativa»? O forse dovremmo annoverare questa parola-proposizione tra gli ordini, dal momento che sentiamo che ci viene detto in modo impellente di fare qualcosa? Infine non c'è dubbio che si fornisce anche una semplice informazione: «Io sto annegando».

Di fronte al problema della distinzione tra le forme grammaticali che è naturalmente anzitutto un problema di una differenziazione concettuale, sembra che si voglia alzare scetticamente le spalle: fai come vuoi. Nel gioco del muratore puoi dire che «Lastra!» è una proposizione oppure che è una parola. Puoi addirittura dire che è l'una e l'altra cosa insieme. Oppure che è una proposizione abbreviata, ma puoi anche dire che la proposizione «Portami una lastra» è una parola allungata. Ed infine può anche darsi che un simile problema non sorga nemmeno, che nessun si sogni di fare simili domande.

10. Introspezione

Questo andirivieni che sembra descrivere un andamento scettico si ritrova qui, come ovunque nelle Ricerche Filosofiche di Wittgenstein. Ma io credo si tratti di uno scetticismo orientato dall'intenzione di portare chiarezza là dove la chiarezza è solo apparente. Il compito preliminare dunque è dunque quello di dissolvere questa apparenza.

A questo proposito occorre anche non lasciarsi fuorviare dal fatto che spesso ciò che si suggerisce nel corso dell'argomentazione è proprio ciò che si intende confutare. Talora si mimano infatti modi di rendere conto delle distinzioni contro cui in realtà Wittgenstein intende polemizzare. Ciò vale in particolare per le spiegazioni introspettive - che sono proposte come temi per una critica che qui comincia con l'affiorare e che attraversa tutte le Ricerche Filosofiche.

Potremmo dire in generale che ci troviamo di fronte ad un problema affrontato «mediante l'introspezione» ogni volta che esso venga proposto secondo la formula seguente: «Che cosa avviene dentro di te (dentro la tua testa) quando(percepisci, ricordi, leggi, pronunci una proposizione, una certa parola, ecc.)». Si tratta di una caratterizzazione troppo semplice, certamente - ma essa coglie il punto essenziale che interessa le nostre considerazioni. Così la problematizzazione della distinzione tra proposizione dichiarativa ed imperativa indica in negativo che di essa non si può rendere conto attraverso considerazioni psicologizzanti. Non arriveremo da nessuna parte se ci chiediamo «che cosa avviene dentro di noi quando diamo un ordine» e nemmeno se - richiamando l'attenzione sul fatto che la differenza di tono nella voce è indispensabile in molti casi a contraddistinguere l'ordine della constatazione - proponessimo poi di istituire quella differenza proprio sul tono della voce. Così i dubbi intorno alla nozione di proposizione ellittica, servono soprattutto a chiarire che l'espressione «lastra!» è ellittica «non perché essa ometta qualcosa che intendiamo quando la pronunciamo, ma perché è abbreviata rispetto ad un determinato modello della nostra grammatica» (oss. 20).

Attraverso i dubbi si fanno avanti dei chiarimenti. La differenza tra uso descrittivo e l'uso imperativo di «cinque lastre» non sta nel tono della voce, ma nella funzione che la stessa espressione assume in giochi linguistici diversi. Qui è un ordine, là una constatazione (oss. 21).

Una domanda può essere posta nella forma di una constatazione. Ma ciò non può far sì che i giochi linguistici differenti siano stati sovrapposti gli uni agli altri in modo da renderli indistinguibili.

I percorsi argomentativi puntano altrove rispetto a ciò che poteva sembrare all'inizio. Ora cominciamo con il renderci conto che si mira proprio all'istituzione di differenze. La stessa adozione del punto di vista dei giochi linguistici può essere utilizzata come un metodo per mostrare differenze.

Certo, l'intera tematica deve mantenere una profonda mobilità. Ci sono molti tipi di proposizioni (oss. 23). Quanti? Diciamo che sono veramente molti, e per il resto non vogliamo impegnarci. Questo, perché il linguaggio è qualcosa che di continuo si muove. L'accento che cade sulla differenza deve anche cadere sulla mobilità, su una sorta di incompletezza di principio: «E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. (Un'immagine approssimativa potrebbero darcela i mutamenti della matematica)». A quella piccola postilla in parentesi occorre dare molta importanza. La stessa osservazione potrebbe cominciare così: Quanti tipi di numeri ci sono? Molti. E molti forse restano ancora da inventare.

11. Nomi e concetti 

L'attribuire nomi alle cose potrebbe esser assimilato all'attaccare alla cosa un cartellino su cui è disegnato un contrassegno. «Spesso, mentre filosofiamo, si rivela utile dire a noi stessi: denominare una cosa è come attaccare ad un oggetto un cartellino che reca il suo nome» (oss. 15). Questa immagine sembra suggerire che i nomi da insegnare per primi siano quei nomi che chiamiamo normalmente nomi propri, perché questi sono in effetti concepibili come contrassegni individuali, che spettano alla cosa contrassegnata e solo a quella. I nomi comuni potrebbero venire insegnati «in un secondo tempo» sulla base di qualche caratteristica comune degli individui già denominati con nomi propri. In questa forma comincia ad affacciarsi una discussione intorno a ciò che nella filosofia si chiamano concetti.

Questo inizio tuttavia non deve essere inteso come se già avessimo trovato una strada da imboccare a capofitto: si tratta invece di mettere alla prova questa teoria dei due tempi - prima i nomi propri, poi i nomi comuni, ovvero: prima gli individui, poi i concetti.

Supponiamo dunque di imbatterci per la prima volta in un cane - la prima esperienza senza un passato, di cui talvolta parlano i filosofi empiristi. Sembra naturale ritenere che essa debba essere intesa come l'esperienza di qualcosa assolutamente individuale. Non abbiamo mai visto nulla del genere, e così non possiamo denominarlo con un nome comune, dal momento che non si è ancora formato per noi un concetto sotto cui ricondurre quello strano individuo. Gli attribuiamo allora un nome proprio che contrassegna proprio lui e lui soltanto.

In una breve novella di Kafka compare come protagonista una sorta di strano rocchetto, un essere che non sapremmo dire se animato o inanimato, che per alcuni aspetti ha il carattere di una macchinetta, ma sembra anche muoversi di volontà propria, e forse sa addirittura dire qualche parola. I concetti sotto cui potrebbe essere sussunto non sono concordanti. Lo chiamiamo Odradek, e questo sembra essere un nome proprio. Se incontrassimo altri individui simili a questo, cioè se incontrassimo altre cose che hanno qualche caratteristica comune con questa, potrò rappresentare il concetto sotto cui Odradek sarà sussunto.

Un'immagine del linguaggio che attira l'attenzione anzitutto sulla priorità dei nomi propri suggerirebbe una teoria del concetto orientata in questa direzione. Ma non potrebbe darsi invece che nell'esperienza ipotizzata come «primitiva» di un cane non fossimo colpiti anzitutto da una tipicità (ad es. quello che fa bau bau) e che già da subito il cane venga inteso come individuo all'interno di un genere di cui esso stesso ha suscitato il pensiero?

Conviene dunque rimettere nuovamente a fuoco la problematica della denominazione. Come abbiamo visto, in rapporto a certi giochi linguistici essa potrebbe non essere nemmeno proposta. Ad esempio, il chiedere «come si chiama questo» non è un'azione inclusa nel gioco del muratore o del fruttivendolo. Inversamente, potremmo immaginare un gioco linguistico particolare nel quale quella domanda abbia una parte. Possiamo pensare ad un gioco di società che potrebbe consistere nell'inventare un nuovo nome per gli oggetti (oss. 27). Anche in questo caso le prime mosse mirano alla dissoluzione del problema. La questione della denominazione potrebbe essere tanto poco importante e tanto particolare quanto lo è un gioco di società. L'apprendere il linguaggio consiste nel denominare oggetti? Certamente no. E tanto meno la denominazione rappresenta una condizione per poter parlare delle cose.

E per rendere controverso il problema della denominazione si sollevano dubbi sull'effettività della distinzione tra nomi propri e nomi comuni. Ma si tratta in realtà di manovre per una messa a fuoco.

Così si ammette senz'altro che possa essere insegnato ostensivamente non solo il nome di una persona - che è l'esempio più ovvio di «definizione ostensiva» - ma anche di un colore, di una sostanza, di un numero, ecc. (oss. 28). Certo, con qualche complicazione: l'insegnamento ostensivo deve essere interpretato, il gesto inteso nel modo giusto.

'Questo si chiama 'due'' - diciamo indicando due noci. Questo è un modo perfettamente possibile di «definizione ostensiva» del numero due (oss. 28). Ma l'allievo potrebbe intendere «due» in vari modi: ad esempio come il nome proprio delle noci; oppure come il nome di un numerale, come se le due noci fossero un equivalente della cifra «2» tracciata su un foglio di carta. Così se dico «Questo si chiama seppia» puntando il dito verso Caio potrebbe non essere chiaro se intendo «seppia» come nome proprio di Caio oppure se voglio dare un nome al colore della sua giacca.

Le distanze rispetto alla concezione delineata all'inizio si mostrano sempre più nette. Si prospetta anche la possibilità che la determinazione concettuale debba in qualche modo precedere la sua possibile specificazione (oss. 29). Si osserva così che è una considerazione alquanto astratta del linguaggio pensare che anzitutto si istituisca il rapporto denominativo e poi la grammatica del nome, e cioè il modo in cui viene usato.

Attaccando un cartellino alla cosa «ci si prepara all'uso della parola. Ma a che cosa ci si prepara?» (oss. 26). La portata di questo interrogativo va chiaramente compresa. Con i nomi noi facciamo qualcosa; mentre la denominazione non dice che cosa dobbiamo fare con un certo nome: «mostrando a qualcuno il pezzo che rappresenta il re nel gioco degli scacchi e dicendogli 'Questo è il re» non si spiega l'uso di questo pezzo' (oss. 31). Una cosa è indicare come si chiama un pezzo degli scacchi a qualcuno che non sa nulla sul gioco degli scacchi. Un'altra è intendere il pezzo di legno già come pezzo di quel gioco ed allora la stessa indicazione ha un senso interamente diverso. Nel primo caso ci troviamo di fronte alla denominazione come un gioco linguistico fine a se stesso e chiuso in se stesso, proprio come nel caso del gioco di società che abbiamo inventato poco fa. Nel secondo caso invece la denominazione è un gioco linguistico entro un gioco linguistico più ampio nel quale sono già presenti i modi di impiego della parola nuovamente introdotta.

Di qui l'affermazione, di cui si avverte ora tutta l'importanza, secondo cui «chiede sensatamene il nome solo colui che sa già fare qualcosa con esso» (oss. 31). Si vuole così sottolineare che un qualche apparato concettuale (e quindi linguistico) deve essere presupposto nel momento in cui introduco un nome. La funzione denominativa si trova già dentro questo apparato. «La definizione ostensiva spiega l'uso - il significato - della parola quando sia già chiaro quale funzione la parola debba svolgere, in generale, nel linguaggio» (oss. 30). Ed ancora: «Per essere in grado di chiedere il nome di una cosa si deve già sapere (o saper fare) qualcosa» (oss. 30).

12. Intendere 

Anche parole che non sono nomi propri possono essere apprese ostensivamente. Lo abbiamo già detto. Ad esempio, la parola «azzurro».

Abbiamo anche notato che non basta puntare il dito su una cosa azzurra e pronunciare questa parola. L'indicazione ostensiva deve essere interpretata, e ciò significa che deve essere colta l'intenzione che fa corpo con il gesto dell'indicazione. Il gesto indicativo non è qualcosa di simile ad una freccia che istituisce una sorta di raccordo tra una cosa (il segno) ed un'altra (ciò che il segno designa), per quanto l'immagine della freccia possa sembrare a tutta prima appropriata. Infatti la «cosa» che il segno designa può essere un tavolo o una sedia, ma anche una loro proprietà: la forma del tavolo o il suo colore. Questo si chiama circolo, dico intendendo la forma circolare del tavolo - e la segno a dito. Oppure: questo si chiama azzurro, intendendo il suo colore - e lo segno a dito. Ma il cenno dell'indicare segnando a dito va sempre in direzione del tavolo - in qual modo potrei nel gesto intendere ora la forma ora il colore?

Sarebbe erroneo tuttavia ritenere che in osservazioni come queste si tenda a mettere in risalto le possibili equivocità dell'insegnamento ostensivo. Di queste possiamo benissimo venire a capo in un modo qualunque. Le equivocità interessano in quanto attraverso di esse intravediamo dei problemi. Il problema è qui anzitutto che nell'indicare ostensivo è intrecciato un atto dell'intendere, e nello stesso tempo che questo atto non può essere risolto - come si sarebbe subito tentati di fare - in elementi psicologici che accompagnino l'indicazione. La critica che è stata già avviata di spiegazioni introspettive comincia a ricevere qui qualche sviluppo.

In particolare va notato che il problema dell'intendere, pur essendo introdotto nel quadro della problematica dell'insegnamento ostensivo, è tuttavia indipendente da esso e del resto - credo di poter aggiungere - da una considerazione tutta interna al problema del linguaggio. Ora guardo la forma del circolare del tavolo o il suo colore - in questo atto del percepire vi è già un intendere. Che cosa guardi? Il colore del tavolo - è la risposta. Questa risposta tuttavia non si presenta filosoficamente troppo ovvia. Intanto non è possibile che ciò che vedo sia soltanto il colore. Potremmo dire: io vedo il tavolo nel suo insieme, e le cose che gli stanno intorno, ma ciò che guardo è quel colore. E preciso: ciò a cui presto attenzione. Ma allora il problema semplicemente si sposta. Dobbiamo rendere conto di ciò che significa questo «prestare attenzione», e forse saremmo tentati di procedere proprio in una direzione psicologizzante. Se vogliamo sapere che ne è di questo «prestare attenzione» dobbiamo forse stabilire che cosa avviene centro di noi quando abbiamo questa esperienza vissuta del guardare il colore, ovvero del prestare attenzione a questo piuttosto che a quello. Esperienza vissuta traduce Erlebnis e compare per la prima volta nell'oss. 34 nelle Ricerche Filosofiche: lo stretto legame con la problematica dell'introspezione mostra che il termine viene impiegato in un'accezione totalmente diversa da quella in cui essa compare per lo più nella fenomenologia di Husserl. In essa infatti Erlebnis è l'esperienza vissuta in quanto è in via di principio analizzabile come atto intenzionale. Le implicazioni di ordine propriamente psicologico vengono messe da parte. Ma a parte questa differenza nell'impiego del termine, anche Wittgenstein è interessato a separare l'analisi filosofica dall'analisi introspettiva: cosicché il problema dell'intendere nel suo complesso viene affrontato secondo uno stile prettamente fenomenologico.

Gli spunti introspettivi hanno dunque carattere polemico. Che cosa significa prestare attenzione alla forma e non al colore? Per rispondere a questa domanda potremmo pensare di auto-osservarci per vedere che cosa accade mentre facciamo questo. Ognuna potrà dire la sua, a questo proposito. Può essere che avvertiamo una sorta di movimento degli occhi che accennano a seguire il contorno della cosa; oppure qualcuno potrebbe parlare di una sorta di curiosa spinta interione, una tentazione a seguire il contorno con un dito; ma per altri la tentazione sarà forse quella di socchiudere gli occhi in un modo del tutto particolare Ciascuno per proprio conto potrà trovare qualche sensazione interna caratteristica che interviene quando intende la forma piuttosto che il colore, o inversamente. Questa molteplicità che rischia di confondere l'intero problema è tuttavia una conseguenza di una interpretazione psicologizzante del «prestare attenzione» proposto come un tentativo di illustrazione dell' «intendere». La risposta autentica alla richiesta di «guardare dentro di noi per accertare che cosa accade quando» sta nel rifiuto di considerare la questione da questo lato: oltre al fatto che intendo la forma e non il colore, non accade null'altro. O meglio ancora: qualunque cosa accada oltre all'intendere, è del tutto indifferente - e possiamo usare l'espressione del «prestare attenzione» al più come sinonimo dell'«intendere», e non come una riconduzione dell'intendere ad un contenuto psicologico identificabile introspettivamente.

Che cosa accade quanto intendo il re degli scacchi non più come un pezzo di legno, ma come un pezzo di gioco? Non accade nulla al di là del fatto che ora lo intendo così (oss. 35).

Questa posizione si fa valere nella problematica del significato, ma si apre ad una prospettiva molto più ampia. Alla fine della oss. 35 in parentesi si suggeriscono parole come riconoscere, desiderare, ricordarsi

Si intravedono infatti subito analogie problematiche. Che dire, ad esempio, del desiderio? Se ci poniamo sulla via di un'analisi introspettiva, dovremo interrogare Pietro o Paolo su che cosa accade all'uno o all'altro ogni volta che desidera qualcosa. Pietro ad esempio, se guarda dentro se stesso, avverte una misteriosa sensazione che egli descrive dicendo che si tratta qualcosa di simile ad un sospiro inespresso. Si esprime proprio così: «Mi sembra che la mia anima sospiri». Tutto questo lo abbiamo saputo da lui. Paolo, più concreto, sostiene invece di avvertire un senso di mancanza, di vuoto, che è assai simile alla fame. Chi si sentirebbe di contraddirli? Essi sono gli unici testimoni di se stessi. Quanto a noi potremmo a nostra volta proporre altre sensazioni e altre descrizioni.

Ma il desiderio non è l'anima sospirante di Pietro e nemmeno la fame di Paolo.

Wittgenstein coglie in modo assai netto l'irriducibilità degli atti intenzionali a sensazioni soggettive accessorie - ed è questo appunto il tratto comune con un modo di pensare fenomenologico. La pars destruens tuttavia prevale nettamente sulla pars construens. La critica «antipsicologistica» non si traduce in una proposta di analisi sistematica ed a tutto campo della varietà dei modi di intendere e della loro struttura.

Torniamo sul terreno scabro!

(Ric. Fil., oss. 43-107)

 1. Che cosa è il significato di una parola

Alla concezione del linguaggio che dà al rapporto tra nome e cosa denominata un'importanza centrale, possiamo contrapporne un'altra che viene sintetizzata così:

«Per una grande classe di casi - anche se non per tutti i casi - in cui ce ne serviamo, la parola 'significato' si può definire così: 'Il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio'. E talvolta il significato di un nome si definisce indicando il suo portatore» (oss. 43).

Questa osservazione può essere considerata un primo importante punto di arrivo. Se dovessimo fornire una rapida formulazione della concezione di Wittgenstein del significato citeremmo proprio questa piccola frase: «il significato di una parola è il suo uso nel linguaggio». Faremmo inoltre notare la stretta connessione tra questa definizione e l'adozione del punto di vista dei giochi linguistici; ed anche la possibilità di riferirci a giochi linguistici che possiamo liberamente immaginare per operare chiarimenti sui significati delle parole, sui «concetti». La nozione di gioco linguistico rimanda ad un tempo ad una filosofia del linguaggio ed a un metodo di chiarificazione filosofica.

Quella frase tuttavia non deve essere intesa come se proponesse una definizione realmente completa. Vi è infatti quell'inciso -«anche se non per tutti i casi»: forse si allude ancora ai nomi propri? Di fatto il dibattito sulla teoria della denominazione non si è affatto concluso, nonostante il raggiungimento di un punto fermo.

Dobbiamo ripensare ancora alle nostre considerazioni precedenti su etichette e contrassegni. L'impiego di questa immagine suggerisce nuovi problemi. In generale, se debbo apporre una etichetta, allora ci deve essere la cosa su cui l'etichetta deve essere apposta. Sarebbe assurdo ammettere che non esiste l'oggetto designato dal nome proprio; ed inversamente se l'oggetto non esistesse il nome proprio non sarebbe affatto un nome proprio, ma un segno privo di significato. L'immagine dell'etichetta orienta i nostri pensieri in questa direzione.

Si apre allora il problema, che ha tutta una storia prima di Wittgenstein ed anche dopo, una storia che sembra non finire mai, dei nomi propri di oggetti immaginari. La spada di Sigfrido ha un nome proprio: essa si chiama Nothung. Ma siamo certi che essa sia veramente un nome proprio (prescindendo naturalmente dai significati inerenti al suo etimo)? Poiché si tratta di una spada mitica di un personaggio mitico, essa non esiste - e come potremmo su di essa apporre un'etichetta o anche segnarla a dito? Per introdurre questa espressione bisogna ricorrere ad una qualche determinazione attributiva, a ciò che, seguendo una terminologia proposta da Russell, viene di solito chiamata «descrizione». Stando all'immagine del nome come etichetta della cosa, la cosa non solo deve esistere, ma deve poter esistere qui ed ora di fronte a noi. Perciò dovremmo arrivare a dichiarare che non solo «Nothung» ma anche «Socrate» è un nome proprio solo in apparenza, ma non lo è affatto nella sua essenza logica.

Ma una volta che abbiamo imboccato una strada simile dobbiamo seguirla fino in fondo. Di fronte a me vedo Pietro in persona. Ma nulla mi garantisce che Pietro in persona ci sia realmente, perché potrebbe trattarsi del fantasma di Pietro o di una mia allucinazione. Insistendo sull'essenza logica del nome dovremmo forse arrivare ad affermare che l'unico nome proprio corrispondente a quell'essenza sia la paroletta «questo», per indicare qualcosa che mi sta di fronte, sia esso Pietro o il fantasma di Pietro. Il qualcosa indicato dal questo, c'è senz'altro - la condizione per l'apposizione dell'etichetta viene allora rispettata. Il «questo» non può mai essere privo di portatore (oss. 45).

Una simile concezione del nome - che riporta a quella di Russell, ma che ricorda anche in molti punti le tesi che Wittgenstein stesso aveva sostenuto nel Tractatus - viene attaccata con autentica aggressività polemica.

Che «questo» possa essere considerato un nome proprio, anzi il nome proprio per essenza, sembra essere considerato da Wittgenstein poco meno che una che una pura e semplice corbelleria. Egli, così apparentemente propenso ad un atteggiamento elastico nelle distinzioni e nelle classificazioni, oppone a questo proposito una recisa esclusione:

«Chiamiamo nome cose molto differenti: la parola 'nome' caratterizza molti modi differenti tra loro variamente imparentati di usare una parola; ma tra questi modi d'uso non si trova quello della parola 'questo'» (oss. 38). Il nome proprio viene introdotto grazie al gesto ostensivo accompagnato dalla parola «questo», che fa dunque parte dello stesso gesto ostensivo. E come introdurre allora ostensivamente la parola «questo»? (oss. 38 e 45).

La ragione di una presa di posizione tanto netta sta nel fatto che l'obiettivo polemico oltrepassa il problema relativamente minuto in discussione, per colpire invece l'atteggiamento intellettuale da cui esso sorge: questa strana concezione ha infatti origine da «una tendenza a sublimare, per dire così, la logica del nostro linguaggio» (oss. 38). Si comincia con esempi di nomi propri a tutti familiari. Ma in luogo di avviare una riflessione su una possibile molteplicità del concetto di nome proprio che i differenti esempi che si possono addurre - Pietro, Nothung, Socrate - sembrano immediatamente suggerire, considerando i giochi linguistici tipici in cui essi si presentano, ci si interroga sull'essenza logica del nome, ammettendone che ve ne sia una ed una sola. La domanda diventa allora: «Che cosa è veramente un nome proprio?». Accezione corrente e accezione logica si contrappongono l'una all'altra. In questa contrapposizione si annuncia una tendenza alla sublimazione che ci allontana dal terreno dei giochi linguistici, per elevarci al di sopra di essi verso la purezza di un pensiero non invischiato nei fatti dell'esperienza.

Si badi tuttavia che per Wittgenstein non c'è da un lato la logica e dall'altro i giochi linguistici, da un lato un uso corrente e dall'altro un uso che non lo è. Ogni uso è corrente entro un gioco linguistico. Dunque anche ciò che accade nella logica deve essere considerato alla luce dell'idea del gioco linguistico.

2. Semplicità e composizione

La spada Nothung ha tuttavia da insegnarci ancora qualcosa. In particolare intorno al tema della semplicità e della composizione. Ecco una variante dell'esempio: Nothung sia una spada reale, proprio di fronte a noi, che ad un certo punto va in pezzi. L'oggetto che il nome designa ora non esiste più - come un intero unitario. Ciò che esiste sono solo le sue parti, ognuna delle quali potrebbe avere un nome. Cosicché Nothung potrebbe essere inteso come nome che «raccoglie» i nomi delle parti e che solo a questi nomi spetta il carattere di nomi propri autentici - con la condizione aggiuntiva che queste parti siano parti ultime, indivisibili. Altrimenti l'argomento può essere ripetuto. In quanto indivisibili, e quindi in quanto oggetti semplici, essi esistono necessariamente. Ogni processo di distruzione può essere inteso come una scomposizione, e palesemente se qualcosa è semplice, non vi sarà nulla da scomporre. Ammesso che esistano oggetti semplici essi saranno indistruttibili (oss. 39) .

Nomi autentici, dal punto di vista logico, saranno dunque solo nomi che designano entità assolutamente semplici. Si ripresenta qui dunque l'idea che vi sia una essenza logica dei nomi, e questa teoria dei nomi come segni di semplici è una variante della precedente che considerava «questo» come unico nome autentico. Ciò che entrambe hanno in comune è naturalmente la richiesta di una garanzia dell'esistenza dell'oggetto che è portatore del nome, garanzia che nel caso precedente aveva una inclinazione soggettiva, implicando un osservatore di fronte ad un oggetto osservato, mentre ora si tenta la via di una argomentazione oggettiva. Argomentazione che peraltro potrebbe non soddisfarci pienamente - e che non soddisfa affatto Wittgenstein, la cui reazione è quasi irritata.

«Ma che faccenda è mai questa dei nomi che designerebbero propriamente il semplice?» (oss. 46).

Questa irritazione si abbatte contro gli individuals di Bertrand Russell ed il suo atomismo logico; ma anche contro l'autore del Tractatus che aveva che aveva sostenuto proprio una teoria dei nomi pienamente riportabile entro questa cornice.

«Questi elementi primi erano anche gli 'individuals' di Russell, nonché i miei 'oggetti'» (oss. 46)

Nell'oss. 47 ci si diffonde in una critica contro una nozione di semplicità che da un lato sia postulata come una nozione logica e dall'altro proiettata su entità reali. La domanda di quante parti sia composto un tavolo o una sedia è malposta se non è anche indicato un punto di vista da cui possa assumere senso. Per un falegname che deve costruire un tavolo - e che per far questo deve tagliare un unico grosso pezzo di legno - essa è una domanda perfettamente sensata, a cui deve dare una risposta che sia conforme allo scopo. Ciò significa riportare il problema dentro un gioco linguistico. Mentre se pongo la domanda intorno alle parti al di fuori di qualunque gioco linguistico essa è proposta nel vuoto, il suo significato è indeterminato e indeterminata dovrà essere la risposta.

Lo stesso vale per la semplicità e la composizione. In quale gioco linguistico ci disponiamo quando chiediamo se un certo oggetto sia semplice o composto? Se il gioco linguistico non è determinato allora rischiamo di trovarci nella situazione di quel ragazzo che non sapeva decidersi se il verbo «dormire» fosse attivo o passivo (oss. 47). Analogamente un quadrato disegnato sulla lavagna potrebbe essere considerato semplice - ma anche composto di parti: e parti potrebbero essere il perimetro - la linea di gesso - e la superficie nel suo interno. Il perimetro potrebbe essere considerato semplice, oppure si può far notare che esso consta di segmenti, ecc. Un pezzo degli scacchi è sicuramente semplice in quanto pezzo del gioco, perché se lo divido in due non ottengo certo due pezzi del gioco.

Ma vi è un gioco linguistico in cui può valere proprio la teoria dei nomi come segni di semplici? Certamente. Basta inventarlo (oss. 48).

Gli oggetti siano dei quadrati rossi, verdi, bianchi e neri. I nomi siano le lettere alfabetiche R, V, B, N. In base alle considerazioni precedenti potremo intendere i quadrati rossi come oggetti semplici; ed allora le lettere alfabetiche saranno nomi nel senso della teoria sopra esposta. Per di più possiamo intendere una qualunque sequenza di quelle lettere come una descrizione esatta della disposizione dei quadrati, come una «proposizione».

La disposizione dei segni RRN rispecchia la disposizione degli oggetti:

In questo caso la proposizione consta di nomi, e di nomi soltanto, e rappresenta esattamente come stanno le cose nella realtà. Nessun esempio si attaglierebbe meglio alla teoria dei nomi e delle proposizioni proposta da Wittgenstein nel Tractatus. Solo che nulla potrebbe sembrare più stroncatorio del fatto che questo problema, che nel Tractatus aveva la pretesa di spingersi sino alle dimensioni logico-metafisiche del reale, viene ridotto in questo modo alla dimensione minima di un gioco linguistico - verrebbe anzi voglia di dire: di un giochetto - escogitato ad hoc.

3. Tabelle e concetti

Alla tematica dei concetti si è già accennato nella discussione intorno ai nomi ed al rapporto di denominazione. L'argomento tuttavia riceve realmente sviluppo solo nel gruppo di osservazioni 50-64. In esse tuttavia questo termine non viene affatto impiegato. Si parla invece di tabelle, campioni, modelli, paradigmi. Per di più attribuendo a queste parole un significato concretissimo. Quando si dice tabella si intende proprio una tabella.

Del resto tabelle e campionari non li incontriamo qui per la prima volta. Si rammenti che cosa fa il fruttivendolo di fronte alla parola «rosso»: « quindi cerca in una tabella la parola 'rosso' e trova, in corrispondenza di essa, un campione di colore» (oss. 1).

Che cosa sono questi campionari, queste tabelle che ogni tanto qualcuno va misteriosamente consultando?

Chiediamoci allora che cosa accade nella nostra testa quando parliamo di un fiore rosso. Azzardiamo forse un'analisi «introspettiva»? In realtà potremmo limitarci non tanto a cercare sensazioni interne quanto piuttosto a ricorrere ad un'immagine: la nostra testa non potrebbe forse essere assimilata ad una grande stanza nella quale si vanno ad accumulare ogni sorta di oggetti fantomatici? Ed a queste immagini fantomatiche sono in qualche modo collegate le parole. La parola «fiore» ci ricorda cose che abbiamo già visto in passato, e così anche per la qualità visiva indicata dalla parola «rosso». Ciò ci orienta subito verso l'immagine della tabella: è come se fossimo in possesso di un campionario sul quale cerchiamo la parola «fiore» e troviamo accanto ad essa una certa figura; cerchiamo la parola «rosso» e troviamo una striscia colorata. «Si potrebbe dire che qui questa tabella si addossa la parte che in altri casi svolgono la memoria e l'associazione» (oss. 53).

I campioni di colore non sono parole, e quindi forse non fanno parte del linguaggio e tuttavia, in quanto criteri per l'impiego delle parole, possono essere detti strumenti del linguaggio(oss. 16). Essi sono regole per l'uso delle parole, situandosi così su un piano diverso da esso. Cosicché non avrà senso dire di un campione di colore che esso è rosso, così come non ha senso dire del metro campione conservato a Parigi che esso è lungo un metro - o meglio: di questo metro non ha senso né affermare né negare che esso è lungo un metro (oss. 50).

Vi è in realtà qui qualcosa che ci riporta secondo un'angolatura diversa alla tematica della semplicità. Agli elementi semplici di cui si parla nel Teeteto platonico non si può attribuire né l'essere né il non essere. Così si argomenta in Platone: se ha senso dire di un oggetto semplice che è, allora avrà senso dire che non è - mentre sappiamo, almeno secondo la teoria dei nomi come segni di semplici, che l'esistenza è in certo senso un attributo interno dell'oggetto semplice. Qualora il significato del nome venga fatto coincidere con il portatore del nome, allora non ha senso dire che «N non esiste» perché se il portatore del nome non esiste, allora nemmeno il nome ha un significato, e se non ha significato un elemento della proposizione non lo ha la proposizione intera. D'altro lato, in «N esiste», se N ha significato, allora l'esistenza è già posta dal nome e non ha bisogno di essere detta. Essa è inoltre, come già sappiamo una esistenza necessaria - l'oggetto semplice è indistruttibile.

È singolare - ed anche caratteristico dei grovigli in cui Wittgenstein ama trascinare il suo lettore - che considerazioni come queste vengano ora riprospettate proprio nel quadro della tematica del concetto. Ad una tabella, quindi ad un apparato concettuale che si presenta in un certo gioco linguistico dobbiamo attribuire il carattere dell'esistenza necessaria. Del resto l'osservazione sul metro di Parigi di cui non si può né dire né negare che esso sia lungo un metro riecheggia la frase secondo cui di ciò che è semplice non si può dire né che è né che non è.

4. La tabella perduta 

Eppure, le tabelle sono certo distruttibili. Il fruttivendolo potrebbe perdere la sua tabella. Se questo avvenisse certe parole non avranno più applicazione entro quel gioco linguistico, oppure alla vecchia tabella se ne dovrà sostituire un'altra. L'apparato concettuale che presiede al gioco linguistico è in movimento.

Poiché abbiamo detto che la tabella «si addossa la parte della memoria», ora diciamo che «se dimentichiamo qual è il colore che ha questo nome, il nome perde il suo significato per noi; vale a dire, con quel nome non possiamo più giocare un determinato gioco linguistico. Ed allora la situazione è paragonabile a quella in cui il paradigma, che era uno strumento del nostro linguaggio, è andato perduto» (oss. 51).

Si presti attenzione a come viene proposto il rapporto tabella/memoria. In precedenza abbiamo proposto la tabella come una sorta di deposito della memoria. Ma in questa immagine vogliamo giocarci dentro. La tabella è ora qualcosa che attualmente consultiamo, una tabella reale appunto che sta di fronte ai nostri occhi. E la memoria invece è nella nostra testa con tutti i suoi ricordi. Guardiamo la tabella e nello stesso tempo ricordiamo - si tratta degli oggetti fantomatici che stanno nella nostra testa, di immagini mentali: anche in questo caso accettiamo di scivolare un poco secondo un'inclinazione psicologistica.

Può accadere allora che in determinate circostanze si possa dire: ora il modello «ha cambiato colore» - ad esempio può essere ipotizzato come spiegazione una reazione chimica avvenuta a nostra insaputa. Qui la memoria giudica il modello (oss. 56). Il commento di Wittgenstein è: «Se non avessimo memoria saremmo alla mercé di un modello» (oss. 56). Il problema è che non vi è un criterio valido per stabilire se «il nostro ricordo del colore è esatto». Cosicché Wittgenstein vuol proprio dire che «siamo alla mercé di un modello». Di fronte ad un campione di colore che ci appare diverso, dovremmo forse assumere che in realtà il colore è rimasto lo stesso, giudicando così la memoria attraverso il modello.

Il modello sta prima della memoria e la giudica - la via psicologistica seguita a modo di prova tende ad autosopprimersi. Il rinvio ad immagini mentali rafforza infatti il carattere paradigmatico dell'apparato concettuale e nello stesso tempo l'idea della mobilità dei paradigmi. Nello stesso tempo avvertiamo ancora quell'inclinazione scettica di molte argomentazioni di Wittgenstein e che anche in questo caso è in realtà solo apparente.

5. Una scopa nell'angolo

Il rovello della semplicità e della composizione arriva a toccare anche il tema della analisi della proposizione.

Se assumiamo che il linguaggio sia uno specchio della realtà, sembrerebbe abbastanza ovvio che ciò che si può dire intorno a qualcosa di composto possa essere detto facendo riferimento alle sue parti. Dunque invece di dire «Portami una scopa», dirò «portami il manico e la spazzola in esso infissa». Molti commentatori discutono in tutta serietà questa osservazione - che d'altronde annuncia un problema molto serio - senza mettere in rilievo che l'esempio è volutamente deprimente, in certo senso: bassamente quotidiano. Ad essi sfugge che Wittgenstein sta ironizzando sulla «tendenza alla sublimazione» - e che cosa vi di più antisublime di una scopa che se ne sta in un angolo?

E non basta: poiché nella seconda formulazione si parla delle parti di cui è composto l'oggetto di cui si parla nella prima formulazione, qualcuno potrebbe pretendere che quella sia una analisi di questa. Qui evidentemente Wittgenstein porta a conseguenze palesemente grossolane l'idea che l'espressione linguistica non faccia altro che rispecchiare la natura degli oggetti; e nello stesso tempo che vi sia una forma superficiale della proposizione che sarà per principio non analizzata in quanto presenterebbe la realtà nelle sue mere apparenze, e ad essa si debba contrapporre una forma profonda e nascosta che la seconda formulazione farebbe emergere, tanto più se fossimo in grado di analizzare manici e spazzole sino ai sospirati e pretesi atomi logici. La proposizione interamente analizzata dovrebbe constare di parole riferite esclusivamente a oggetti semplici. E se raggiungessimo un livello tanto profondo stringeremmo in pugno la proposizione nella sua essenza logica.

Ormai non è più il caso di avviare una confutazione, ma si può approfittare dell'esempio per dare una svolta alla nostra discussione e portarla anzi ad una sorta di punto culminante. Anzitutto mettiamo in azione il punto di vista dei giochi linguistici. Potremmo prendere per buone l'una e l'altra formulazione e proporle in giochi linguistici differenti. Nell'uno compare il termine di «scopa», nell'altro «manico» e «spazzola» - e l'uno funziona forse altrettanto quanto l'altro, genera nel mio interlocutore le stesse reazioni comportamentali (forse). Ma con quale diritto potremmo assumere che vi sia tra essi una sorta di gerarchia, che l'uno sia può fondamentale dell'altro? A partire da questa domanda ci possiamo liberare dai vincoli dell'esempio e prospettare nuove domande, che finora non erano mai state poste: vi sono relazioni tra i giochi linguistici? Vi è tra essi qualcosa di simile ad un ordinamento gerarchico? E soprattutto: vi è un gioco linguistico che sta alla base di tutti i giochi linguistici?


6. Una grossa questione

L'oss. 65 si apre così: «Qui ci imbattiamo in una grossa questione che sta dietro tutte queste considerazioni».

Tutte le discussioni precedenti sono nettamente distaccate da un simile inizio che propone di mettere finalmente in chiaro un presupposto ad esse soggiacente e che fino a questo punto non era stato ancora messo a fuoco. In effetti le osservazioni che seguono hanno un'importanza centrale per la comprensione di quanto precede, ma anche per le Ricerche filosofiche nel loro complesso. Per ciò che riguarda un'interpretazione ed una valutazione complessiva dell'opera molto dipende da queste pagine, dal capitolo che potremmo fare iniziare con l'oss. 65 e far concludere con l'oss. 78.

È anzitutto opportuno riprendere il tema del concetto con alcune considerazioni di carattere generale. Quando operiamo l'attribuzione di una qualunque proprietà ad un oggetto - ad esempio quando diciamo che esso è rosso, possiamo intendere questa attribuzione come una classificazione dell'oggetto stesso, come una sorta di aggregazione ideale ad una determinata classe. Parlo di aggregazione ideale perché evidentemente non si tratta di disporre l'oggetto concreto in un insieme di oggetti che si trovano concretamente di fronte a me. Inoltre, ai fini di questa aggregazione non basta la percezione di un oggetto rosso, occorre il pensiero che gli attribuisce questa proprietà, ovvero il giudizio come formazione linguistica «La tal cosa è rossa». Il giudizio stesso può dunque essere inteso come una operazione di classificazione. Vi è una classe di cose che hanno una caratteristica comune - esse sono tutte rosse. Ciò che esse hanno in comune è appunto il rosso. Il nesso predicativo può dunque essere inteso come un rapporto di sussunzione di un oggetto sotto un concetto - e potremmo chiamare estensione di un concetto l'insieme degli oggetti sussunti sotto di esso. L'insieme degli oggetti rossi formano l'estensione del concetto «il rosso».

Tenendo conto del riferimento al giudizio, si può allora intendere come espressione di un concetto la forma «x è rosso», intendendo la x come una variabile nominale, cioè come una variabile che può essere sostituita da segni di oggetti (nomi). Operando la sostituzione della variabile con nomi, otterremo allora proposizioni che saranno vere oppure false. Cosicché possiamo dire che l'estensione del concetto è descritta da tutti quegli oggetti che rendono vera la formula in questione, una volta operate le sostituzioni necessarie.

Questo è un modo un poco più complicato per dire che all'estensione del concetto «il rosso» appartengono tutte le cose rosse. Ma questa complicazione è tuttavia utile per arrivare ad un punto che ci interessa in modo particolare. Risulta infatti chiaro, ponendo le cose in questo modo, che ogni formula funzionale del tipo «x è rosso» ovvero f(x) traccia in certo senso una precisa linea di demarcazione nel variopinto mondo degli oggetti. Queste linee possono variamente intersecarsi, ma solo nel senso che un oggetto può appartenere all'estensione di più concetti. Esso può essere ad esempio rosso e sferico. Ma ogni linea descrive un'area nettamente circoscritta.

Naturalmente possono esserci predicati relativamente indeterminati. In tal caso dobbiamo metterli fuori gioco, in qualche modo vietarne l'uso. Infatti non sapremmo che farcene. Che il predicato sia indeterminato significa infatti che dato un certo oggetto non sapremmo decidere se ad esso sia o non sia attribuibile quel predicato. Il predicato deve essere tale che dato un qualsiasi oggetto a si debba poter decidere se una certa proprietà p gli spetta o non gli spetta, ovvero se la proposizione «a è p» sia vera oppure falsa. Se ciò non accade, ci troveremmo nella stessa situazione in cui ci troveremmo se ignorassimo il significato della parola predicativa in questione. La proposizione potrebbe essere allora ritenuta priva di senso.

Richiediamo dunque che i nostri predicati (concetti) siano esattamente determinati, che essi descrivano un'area e che questa area sia «chiaramente delimitata» - secondo un'immagine che Wittgernstein riprende da Frege (oss. 71) - perché «un'area non chiaramente delimitata non può nemmeno chiamarsi un'area». E questo requisito sembra ovvio e naturale nella misura in cui abbiamo a cuore la razionalità dei nostri discorsi: essa richiede (a quanto sembra) che si possano dare risposte rigorosamente determinate al si ed al no alle nostre domande; richiede che si dia un ordine, e l'ordine comincia là dove tracciamo chiare linee di separazione, dove possiamo chiaramente separare e chiaramente dividere, e dunque classificare, altrimenti tutto precipita nella massima confusione.

La «grossa questione» che deve essere finalmente portata alla luce riguarda proprio è una critica di principio contro questo modo di presentare le cose, contro questo concetto del concetto, e quindi anche contro l'immagine della razionalità che è qui implicata.

7. Somiglianze di famiglia

Questa critica comincia con il mettere in questione la rigorosità della nozione di gioco linguistico, quindi il possesso da parte di questo concetto di quei requisiti che ogni concetto autentico deve possedere. L'interlocutore immaginario di Wittgenstein avanza a questo punto la sua protesta: te la fai facile! Fai un gran parlare di giochi linguistici e non ci hai ancora detto che cosa ci consente di affermare che qualcosa sia o non sia un gioco linguistico. Non hai fatto altro che indicare alcuni esempi. Ma non puoi pensare di cavartela in un modo così indiretto ed impreciso. I concetti debbono essere rigorosamente introdotti e rigorosamente determinati. Da questa tua introduzione esemplificativa ogni cosa viene lasciata nel vago. E tutto il tuo gran parlare di giochi linguistici si riduce a pura chiacchiera se non ti decidi a dare di essi una definizione rigorosa.

A queste obiezioni si risponde attaccando alla radice il modo di pensare che sta alla base di questa richiesta.

Quando usiamo una parola può essere che indichiamo cose anche molto differenti che non hanno propriamente qualcosa in comune, ma che sono variamente imparentate l'una con l'altra.

E proprio la parola «gioco» si presta a meraviglia a illustrare questa situazione. Dovremmo forse dire che «deve esserci qualcosa di comuni a tutti i giochi altrimenti non si chiamerebbero giochi» (oss. 66). Ebbene, se dici questo stai argomentando, ed invece di argomentare che deve esserci qualcosa di comune a tutti guarda se c'è.

«Non pensare, ma guarda» (oss. 66)

«Denk nicht, sondern schau!»

È difficile trovare una formulazione più dura di contrapposizione tra il «pensiero» e l'«intuizione»! Ma questa formulazione ha un contenuto ed un obiettivo polemico assai preciso.

Guardando i giochi non è certo facile cogliere qualcosa che sia realmente comune a tutti e che quindi corrisponda all'essenza del gioco che giustifichi dunque l'applicazione del nome comune.

Non sarebbe difficile svolgere le osservazioni di Wittgernstein in un dialogo in stile platonico: la forma dialogica c'è già. Tuttavia il Socrate wittgensteiniano nei suoi inseguimenti dell'interlocutore, nel suo premerlo da vicino per metterlo con le spalle al muro, mirerebbe forse ad uno scopo ben diverso dal Socrate platonico. Il Socrate platonico porta ad oscurare, nella dialettica del dialogo, distinzioni che all'inizio erano chiare, ma infine è nelle intenzioni platoniche l'affermazione recisa dell'esistenza di un'identità ideale ed assoluta che traluce attraverso la molteplicità dei casi empirici. Wittgenstein mira invece a dissolvere questo nucleo concettuale. Ogni identificazione di ciò che sarebbe comune a tutti i giochi viene contrastata attraverso contrapposizioni significative. Se dici che è essenziale al gioco il divertimento, citerei casi in cui parleresti di giochi esitando tuttavia a caratterizzarli come divertenti. È divertente del resto il gioco degli scacchi? O la roulette russa? Se dici che è essenziale al gioco il vincere o il perdere, non è certo difficile citare giochi in cui la competizione non ha nessuna parte. E così via.

Ciò che invece si può ammettere è che tra un gioco e l'altro vi siano somiglianze, e che ciò che ci induce a chiamare cose tanto disparate «giochi» sia «una rete complicata di somiglianze che si sovrappongono ed incrociano a vicenda» (oss. 66).

Naturalmente si tratta di qualcosa di totalmente diverso che ammettere «qualcosa di comune» nel senso che abbiamo precedentemente illustrato. Si tratta appunto di una «rete», di un «complicato intreccio», di sovrapposizioni e di fusioni. Di aspetti che si richiamano l'un l'altro. Forse potremmo dire: la somiglianza di cui si parla è una somiglianza sfuggente. Per questo Wittgenstein per illustrare il modo in cui si parla qui di somiglianza ricorre alle «somiglianze di famiglia» (Familienänlichkeiten) (oss. 67). Anche se talora possiamo dire che cosa nel figlio sia esattamente simile al padre o alla madre, non è in rapporto a questi «pezzi» - il naso, il mento o il sopracciglio - che si parla di solito di somiglianza di famiglia: si tratta piuttosto di un'aria di famiglia che manifesta l'appartenenza ad essa attraverso somiglianze sfuggenti.

I giochi formano una famiglia - essi sono processi variamente imparentati tra loro.

E certamente qui si tratta di ben altro che di rivendicare la plasticità o addirittura la vaghezza del linguaggio corrente, magari addirittura riproponendo di fronte a questa vaghezza il rigore di una «autentica» determinazione concettuale. Si tratta invece, di fronte ad una concezione dove sono importanti le linee di demarcazione e le aree dai contorni chiaramente fissati, di far valere le somiglianze sfuggenti ed i contorni sfumati non già come limiti, ma come caratteri da rivendicare all'interno di una corretta teoria del concetto. L'impegno di una simile presa di posizione lo si comprende meglio non appena dall'esempio del gioco, che potrebbe essere di assai poco peso, mostriamo di voler spericolatamente portare simili considerazioni all'interno di mondi per i quali sembra che debba valere obbligatoriamente proprio l'esatta determinazione dei contorni. I giochi formano una famiglia - e così anche i numeri.

«Perché chiamiamo una certa cosa 'numero'? Forse perché ha diretta parentela con qualcosa che finora si è chiamato numero» (oss. 67).

Finora. Finora si sono chiamati numeri i numeri naturali, poi si chiama numero addirittura lo zero, e poi si introducono i numeri negativi - numeri così finora ci erano del tutto ignoti - e poi ancora i numeri immaginari, i numeri transfiniti Nuovi tipi di numeri che vengono associati alla famiglia dei numeri che si va progressivamente allargando. Fra tutti vi è un'aria di famiglia - ed è per questo che li chiamiamo «numeri». Se prima si disponeva di una definizione che circoscriveva esattamente un'area, ora può essere che si ponga il problema di una nuova definizione. Questa è una preoccupazione che può subentrare in un secondo tempo.

Anche nel modo in cui si discute questa «grossa questione» si comprende che nulla sarebbe più fuorviante che far di Wittgenstein un «filosofo del linguaggio ordinario», come se l'unica sua preoccupazione fosse quella di enfatizzare il linguaggio ordinario o addirittura difendere l'approssimazione contro il rigore e l'esattezza. Non solo in Wittgenstein non si esclude affatto che si possano dare definizioni rigide o determinazioni rigorose dei concetti, ma si afferma che anche che, secondo le circostanze, lo si deve.

Tutto dipende dallo scopo che si persegue. Ciò che non va nella richiesta di determinazioni rigorose è che essa sia posta nel vuoto, in una forma assoluta: o vi è una determinazione rigorosa oppure tutto precipita nella massima confusione. Intanto potremmo sviluppare il nostro tema parlando di somiglianze sfuggenti. Poi per scopi particolari potremmo porci il problema di determinare rigorosamente una nozione - e per scopi particolari potremmo anche evitare di farlo.

Nel caso della nozione di gioco, nella misura in cui ci serve per illustrare una concezione del linguaggio, ci serve proprio il mantenere aperto il concetto. Se lo chiudessimo - come potremmo anche fare introducendo restrizioni nell'impiego del termine - ci rimetteremmo qualcosa. Perciò introduciamo la nozione di gioco mediante esempi e poi diciamo: «queste, e simili cose, si chiamano giochi» (oss. 69). Ed ancora: «Si dànno esempi e si vuole che vengano compresi in un certo senso» (oss. 71). Occorre poi mettere in evidenza che non abbiamo nessun diritto di indicare questa introduzione esemplificativa come un modo intuitivo, nel senso di «vago» ed «approssimativo» in cui talora viene usato questo termine, quasi che questa introduzione fosse una sorta di preparazione preliminare a cui dovrà seguire una determinazione rigorosa.

L'apertura del concetto non deve essere confusa con la sua vaghezza: qualcosa è infatti vago relativamente al problema di una determinazione rigorosa. Più chiaramente: solo nella misura in cui, per scopi particolari, esigiamo determinazioni rigorose diciamo che un certo modo di procedere è vago ed approssimativo. Inoltre nulla giustificherebbe l'idea che una nozione che non sia rigorosamente determinata sia per ciò stesso inutilizzabile (oss. 69). Ciò potrebbe essere sostenuto sulla base di un pregiudizio in cui la richiesta di una esatta determinazione venga avanzata prescindendo dai contesti e dagli scopi che vengono perseguiti.

Vi è stretta coerenza tra questa «teoria del concetto» e il «metodo degli esempi» - ed in generale con l'intero modo di procedere che Wittgenstein pone in atto nelle Ricerche filosofiche. Il metodo degli esempi è a sua volta un metodo «ostensivo», Esso mette in questione il mostrare, più che il dire. Ed è importante che si sottolinei: «Qui l'esemplificare non è un metodo indiretto di spiegazione - in mancanza di un metodo migliore» (oss. 71). Non ci sono due livelli, l'uno «intuitivo» in cui diciamo le cose alla buona, scusandoci di continuo con l'ascoltatore, ed uno esatto, rigoroso in cui riesponiamo le cose nell'unico modo legittimo. Ma il procedere attraverso esempi non potrebbe forse mettere il nostro interlocutore in una situazione di incertezza imbarazzante? Ciò può anche accadere. Forse di fronte a quel «e simili cose» che fa parte della «definizione ostensiva», egli si immagina una sconfinata pianura in cui l'occhio si perde. Oppure può incorrere in fraintendimenti.

«Qualcuno mi dice: 'Insegna un gioco al bambino!'. Io gli insegno a giocare di denaro ai dati e l'altro mi dice: 'Non intendevo un gioco del genere!'» (oss. 70).

Nell'accettare il metodo degli esempi, ed in genere in ogni azione del mostrare, dobbiamo accettare di poter essere fraintesi. Ciò fa parte del problema. Se dico «Portami questo» e mostro una foglia di quercia, forse 1. - il mio interlocutore cercherà di strapparmi di mano la foglia (o se ne starà lì imbarazzato) 2. - oppure mi porterà una foglia di quercia; 3. - oppure ancora mi porterà una foglia qualunque. La foglia che mostro assolve funzioni differenti (come strumento del linguaggio). Nel secondo e terzo caso in modi diversi svolge la parte del «campione». Nel primo vale per se stessa. Del resto non vi è motivo, e forse non è nemmeno possibile, garantirsi da ogni possibile fraintendimento. Vi sono fraintendimenti che potremmo non aver affatto previsto. Ed in ogni caso il fraintendimento avviene, per così dire, uno alla volta, e presumibilmente saremo sempre in grado di porre riparo a quel fraintendimento.

Dubbi irragionevoli

Il tema del fraintendimento si ripresenta nel momento in cui si ripropone la discussione del rapporto tra nome proprio e descrizione (oss. 79-88) a cui abbiamo accennato in precedenza. Il nome proprio Mosé non può essere introdotto ostensivamente. Mosé è morto da gran pezzo. Per introdurlo dovremo dunque ricorrere ad una descrizione - ad una frase del tipo «L'uomo che ha condotto gli ebrei attraverso il deserto». I problemi che sono sorgono a questo punto sono accennati da Wittgenstein in una forma nella quale è impossibile non scorgere una forte accentuazione ironica. È singolare quanto poco gli interpreti abbiano notato la presenza di una vena ironica nelle osservazioni di Wittgenstein. L'ironia è diretta soprattutto a Bertrand Russell ed al suo parlare di «nomi propri autentici» fra i quali Mosé non può essere annoverato. Ma l'ironia è rivolta anche a tutti coloro che in un modo o nell'altro ingigantiscono problemi come questi, per ragioni del resto dipendenti da un orientamento intellettuale complessivo.

Mosé, dunque ma che cosa accade se colui che condusse gli Ebrei nel deserto non fosse stato affatto Mosé? E come la mettiamo con il fatto che, in ogni caso, le descrizioni che potrei dare come «spiegazioni» del significato di Mosé sono comunque infinite in linea di principio? Dicendo Mosé intendo una determinata descrizione o tutte le infinite descrizioni possibili? Wittgenstein affastella domande come queste e la conclusione corrisponde ad una provocazione: se al nome di Mosé associassimo ora una descrizione ora un'altra, potremmo ammettere pacificamene che il significato della parola non è affatto fisso, anche se viene inteso comunque sempre Mosé. Potremmo peraltro concedere al nostro interlocutore che non conosciamo affatto il significato autentico della parola «Mosé», e che in effetti parliamo «insensatamente»

«Di' quello che vuoi, basta che ciò non ti impedisca di vedere come stanno le cose. (E quando l'avrai visto, ci saranno cose che non dirai più)» (oss. 79).

Di fronte ad un'ostinazione argomentativa che si fa vanto della propria cecità, non resta che invitare a togliersi la benda dagli occhi, sottraendosi al gioco degli argomenti e dei controargomenti. Ma la risposta vera, e profondamente ricca di senso, è che ogni interrogativo deve essere posto in un contesto determinato. Ed è in un contesto determinato, in rapporto a questioni particolari determinatamente indicabili che può sorgere il dubbio se la parola Mosé designi realmente qualcuno; oppure se una descrizione possa valere come un accettabile «riempimento» del suo significato. Si tratta di interrogativi che sorgono di fronte a fraintendimenti in un momento ed in una situazione determinata. Potremmo dire in modo molto concreto: mentre sto dialogando con qualcuno. Il fraintendimento potrà allora essere eliminato con particolari accorgimenti che sono strettamente subordinati al contesto dialogico, alle informazioni di cui io dispongo e di cui dispone eventualmente il mio interlocutore. Può così intervenire una spiegazione che risolve il fraintendimento - tanto particolare come è il fraintendimento stesso, ed essa stessa come una spiegazione data al momento. In nessun caso possiamo pretendere di liberarci una volta per tutte e in un colpo solo da ogni possibile fraintendimento. Una simile pretesa non è altro che la forma in cui si ripresenta il mito delle spiegazioni ultime.

«Una spiegazione può bensì poggiare su un'altra spiegazione già data, ma nessuna spiegazione ha bisogno di un'altra - a meno che ne abbiamo bisogno noi per evitare un fraintendimento. Si potrebbe dire: una spiegazione serve a eliminare o a prevenire un fraintendimento, dunque un fraintendimento che potrebbe sopravvenire in assenza della spiegazione; non ogni fraintendimento che io possa immaginare» (oss. 87).

In stretta connessione con ciò si rifiuta qualunque forma di iperbole del dubbio: come quando si propone di dubitare di ogni cosa per la quale il dubbio sia in generale possibile. Un simile dubbio iperbolico è profondamente irragionevole. È un dubbio che si pretende al di fuori di qualunque gioco, un dubbio nel vuoto. È giusto invece dubitare - e normalmente si dubita così - quando, nelle circostanze date, vi sono motivi per farlo. Come viene rifiutato un dubbio iperbolico, così viene rifiutata la ricerca di una certezza iperbolica - del resto i due problemi nascono insieme nella filosofia di Cartesio.

Peraltro il fraintendimento può annidarsi ovunque: a partire, come sappiamo, dalle stesse designazioni ostensive che non sono affatto così certe come talora si pretende, fino alla formulazione delle regole - formulazione che va interpretata e può essere soggetta a interpretazioni differenti. Nell'oss. 86 si riformula il gioco linguistico del muratore, introducendo una variante. La comunicazione avviene per iscritto, e ogni attore cerca la parola scritta su una tabella che indica in figura il corrispondente oggettivo. Alla tabella è acclusa una tabella che contiene uno schema per l'uso della prima tabella. Ad esempio, essa presenterà delle frecce orizzontali che hanno il compito di mostrare in che modo debbano essere coordinate la parola scritta e la figura della cosa:

Con ciò la difficoltà diventa subito evidente.

La tabella è un insieme di regole. Essa insegna infatti ad associare un certo segno grafico con un disegno che a sua volta rinvia ad un oggetto - insegna dunque ad associare un segno ad un oggetto. Si dà così forma concreta ad un processo mentale. Ma chi ci insegnerà ad usare la tabella e in che modo in generale è possibile insegnare ad usare una tabella? Sembra necessario ricorrere ad un'altra tabella per l'uso della prima - una regola per l'uso delle regole. Ecco allora la tabella delle frecce. Ma allora non ci vorrà forse un'altra regola che ci insegni ad usare questa regola per l'uso delle regole?

«Non potremmo immaginare ulteriori regole, intese a chiarire questa? E d'altro canto era incompleta quella prima tabella senza lo schema delle frecce?» (oss. 86).

Si riconoscerà qui un vecchio problema che Wittgenstein aveva già posto nel Tractatus. Noi possiamo ed anzi dobbiamo distinguere tra linguaggio e metalinguaggio - ma la distinzione in ultima analisi determinante resta quella tra un livello generalmente linguistico a cui appartengono linguaggi e metalinguaggi ed un livello extralinguistico che nel Tractatus si presenta come distinzione tra dire e mostrare e che continua a restare al centro dell'impostazione delle Ricerche Filosofiche sotto la forma della problematica dell'insegnamento ostensivo. Come deve essere usata la tabella deve essere infine mostrato. Ed in ogni caso è possibile una molteplicità di interpretazioni, così come è possibile ogni fraintendimento.

Occorre ribadire: tutto ciò non deve essere inteso come una sorta di equivoca apologia dell'indeterminatezza e della vaghezza, ma come la critica - in certi punti aspramente polemica e qui e là punteggiata da intonazioni scettiche - contro l'ideologia della perfetta e compiuta determinatezza. Non si nega che vi siano calcoli «condotti secondo regole fisse». Simili calcoli li troviamo nella logica insegnata a scuola. Possiamo anche confrontare il nostro «uso delle parole», il nostro modo di operare con le proposizioni, con questi calcoli. Peraltro anche questo confronto dovrà essere motivato da qualche scopo particolare. L'errore sarebbe quello di dare per scontato il senso di questo rapporto come se nella logica si parlasse di un linguaggio ideale, rispetto al quale il nostro linguaggio si approssima più o meno incertamente. Se parliamo di linguaggi ideali, per i linguaggi «condotti secondo regole fisse» che siamo in grado di costruire, questa espressione non sottintende che questi linguaggi siano «migliori, più completi del nostro linguaggio quotidiano» (oss. 81). «Come se vi fosse bisogno del logico per rivelare finalmente agli uomini che aspetto ha una proposizione corretta» (ivi).

Torniamo sul terreno scabro

Il gruppo di osservazioni 89-107 potrebbe ricevere titolo dalla domanda con la quale si apre l'oss. 89: «In che senso la logica è qualcosa di sublime?».

Sappiamo già che la domanda intende essenzialmente proporre il suo rovescio. La logica non è in nessun modo e sotto nessun punto di vista «qualcosa di sublime». La logica parla di proposizioni, di mondo, di regole, ecc. Ed anche qui, nella logica, l'impiego di queste parole «deve essere terra terra, come quello delle parole 'tavolo', 'lampada', 'porta'» (oss. 97).

Sappiamo anche che questa «sublimazione» contro cui si intende ora reagire è esemplarmente presente nel Tractatus e qui e là, nelle Ricerche filosofiche, non mancano esplicite autocritiche (oss. 23 ed oss. 46). «Anche a me» è successo di pensare erroneamente che «chi pronuncia una proposizione e la intende o la comprende sta eseguendo un calcolo secondo regole ben definite» (oss. 81). Questi espliciti cenni autocritici non vanno certamente perduti di vista, così come sarebbe palesemente riduttivo riportare le critiche e le nuove opinioni esposte nelle Ricerche Filosofiche ad una vicenda intellettuale personale. La «sublimazione» della logica rappresenta uno dei tratti caratteristici (ed importanti!) dell'atteggiamento intellettuale novecentesco, e tanto più significativo è il fatto che questa erosione critica possa avvenire dal suo interno.

Ma in che modo si potrebbe sostenere che la logica è «qualcosa di sublime»?

La logica «indaga l'essenza di tutte le cose»; non si occupa della superficie, ma della loro dimensione profonda. Così essa non si può contentare delle proposizioni così come ci si presentano nei loro impieghi correnti e nelle loro accidentalità estrinseche, ma va a ricercare le necessità essenziali e permanenti. Come logici ci proponiamo di indagare sulle strutture profonde - di compiere una «analisi della proposizione» che renda visibile la sua autentica ossatura logica.

Peraltro anche noi come filosofi dobbiamo imparare ad «analizzare le proposizioni» (oss. 89-90). Ad esempio, Agostino si pone il problema di un chiarimento della nozione di tempo. E la frase famosa con cui si aprono le sue riflessioni («Che cosa è il tempo? Quando nessuno me lo chiede lo so: quando voglio spiegarlo a qualcuno che me lo chiede, non lo so») denuncia già che non si tratta di una richiesta di spiegazioni che debbono essere attinte pronte chissà dove, ma che è necessario per questo mettere in moto la forza della riflessione. La nostra testa si confonde di fronte alla domanda. Eppure, che cosa sia il tempo, lo sappiamo. Dobbiamo riflettere per dipanare la confusione, e questo riflettere è qualcosa di simile ad una richiamare alla mente, ad un ricordare qualcosa si è dimenticato. L'idea platonica della conoscenza come rimemorazione riceve un accento particolare in Wittgenstein: ciò che deve essere richiamato alla mente è «il tipo di enunciati che facciamo intorno ai fenomeni», quindi nel caso di Agostino «gli enunciati che noi facciamo intorno alla durata degli eventi, al loro passato, presente e futuro» (oss. 90).

La ricerca filosofica è dunque una ricerca «grammaticale» - in un senso ampio. Anche il filosofo deve compiere una «analisi delle proposizioni» chiarendo le interne e possibili ambivalenze di senso ed i percorsi intellettuali che si compiono in esse.

Ma certamente un conto è l'analisi della proposizione così concepita, che in certo modo rinnova la maieutica socratica, ed un altro è il proporre la questione dell'analisi come se essa dovesse portare alla luce una struttura logica che se ne sta profondamente nascosta (oss. 91). L'eliminazione dei fraintendimenti si situa allora all'interno di una tendenza alla «completa esattezza» (oss. 91) e di fa avanti l'idea di un linguaggio essenziale, compiuto, perfetto - ovunque delimitato da regole, determinato una volta per tutte, chiuso e senza lacune. La tendenza alla sublimazione si volgerà allora in ogni direzione: una proposizione, che è la cosa più comune del mondo, diventa qualcosa di molto singolare, di enigmatico, qualcosa che cela profondità abissali (oss. 93-97). Si impone l'idea di ordinamenti e di regole ideali che aspirano a diventare superordini, superregole. Si pretende che di una parola il cui senso non sia perfettamente determinato non si può fare proprio nulla - così come non si è fatto nulla se dovendo chiudere un uomo in una stanza, si lascia aperto soltanto una porta. Wittgenstein protesta proprio contro tutto ciò: un recinto che abbia un buco è ancora un recinto (oss. 99). Il che non vuol dire che ci dobbiamo contentare di recinti «imperfetti». Se ci esprimessimo in questo modo resterebbe normativa ancora l'idea di una esattezza ideale. Mentre una simile esattezza è prospettata nel vuoto. Ancora una volta bisogna ripetere che qualcosa sarà detto più o meno esatto in vista di scopi particolari. In assenza di ciò tutte le istanze che puntano ad una «cristallina purezza» entreranno in un conflitto intollerabile con il mondo di esperienza con cui abbiamo quotidianamente a che fare.

Questa meditazione si conclude con un'immagine che ha il senso di una sorta di parola d'ordine per l'idea filosofia del secondo Wittgenstein:

«Siamo giunti su una lastra di ghiaccio dove manca l'attrito, e perciò le condizioni sono in certo senso ideali, ma appunto per questo non possiamo muoverci. Vogliamo camminare; dunque abbiamo bisogno dell'attrito. Torniamo sul terreno scabro!» (oss. 197)

Strani processi

(Ric. Fil., oss. 143-219)

1. Comprendere la legge di una successione

Vi è in Wittgenstein una ripugnanza per i grandi problemi. Ogni Problema con la P maiuscola tende ad essere ridimensionato, ed io credo che lo stesso fatto di proporre ogni discussione come discussione «grammaticale» - secondo il suo particolare concetto di grammatica filosofica - abbia anche il senso di un ridimensionamento. Ma in Wittgenstein ciò non conduce affatto ad un indebolimento o ad un appiattimento della densità e della ricchezza interna della questione discussa (come accade invece assai spesso ai wittgensteiniani).

Nell'oss. 143 si propone un gioco linguistico che si svolge tra due attori, A e B. A intende insegnare a B «certe successioni di segni secondo una determinata legge di formazione (Bildungsgesetz)». A è il maestro; B l'alunno.

Ecco qualche esempio di ciò che si deve insegnare:




1, 5, 11, 19 (cfr. oss. 151).

Si tratta di serie, almeno così le giudichiamo subito a prima vista (a parte l'ultima sulla quale esitiamo perplessi) a cui presiede una certa legge di formazione. Occorre richiamare anche l'attenzione che in queste considerazioni teniamo presente il significato aritmetico dei segni, e così ad esempio in rapporto alla prima serie diciamo senz'altro che dato il numero iniziale 2, ogni elemento della serie risulta dal precedente mediante l'addizione di 2.

Il problema del calcolo, così presente nel Tractatus, è lontano dall'essere dimenticato nelle Ricerche Filosofiche, ed anzi serpeggia ovunque. In questo caso esso si ripresenta in una analisi della grammatica filosofica della parola «comprendere», con l'intento di effettuare una separazione: «Tutto ciò può apparire nella sua giusta luce solo quando si sia raggiunta una maggiore chiarezza riguardo i concetti del comprendere, dell'intendere e del pensare. Perché allora diventerà anche chiaro che cosa ci possa erroneamente indurre a pensare (come è successo a me) che chi pronuncia una proposizione e la intende o la comprende sta eseguendo un calcolo secondo regole ben definite» (oss. 81).

Veniamo ora a qualche dettaglio: da una successione esibita nei suoi primi passi, si deve arrivare a comprendere la legge di formazione. Così A scriverà prima i termini della serie e chiederà a B di copiarli; o addirittura terrà la mano di B nell'operazione di copiatura. Ma poi B deve continuare da solo. Il problema è appunto che B comprenda che si tratta dell'inizio di una serie che va continuata e che va continuata nello stesso modo. Di tutto ciò noi siamo osservatori «esterni». Dunque che B comprenda significa soltanto che egli si comporti esattamente come richiediamo, cioè che vi sia l'atto del proseguire la serie correttamente. Del comprendere come attività intellettuale potremmo anche non saperne nulla.

Si tratta di una finzione non certo nuova, che qui come altrove, nelle Ricerche filosofiche, serve ad agitare le acque in modo da suscitare domande e interrogativi apparentemente singolari. Quando, a partire dai comportamenti di B, posso dire che egli ha compreso o non ha compreso la legge di formazione della successione? Ad esempio, B prosegue la successione «a casaccio». Oppure commette qui e là degli «errori». Situazioni in realtà piuttosto diverse. Se le deviazioni sono poco frequenti, saremmo propensi appunto a parlare di «errori», ma in tal caso forse si è compresa l'esistenza di una regola, anche se la si applica malamente. La situazione è ancora più imbarazzante se l'errore, in luogo di intervenire irregolarmente, è un errore sistematico. I nostri commenti potrebbero in proposito essere svariati. Forse B ha compreso la regola, e in certo senso ci gioca dentro producendo una successione che può essere interpretata come una trasposizione secondo una nuova regola della successione organizzata secondo la vecchia regola. La comprensione della vecchia regola sembra essere un requisito per l'applicazione della nuova.

Supponiamo ora che lo scolaro scriva la successione in modo per noi soddisfacente. Ciò significa che ha «compreso» la legge di formazione? Questo passaggio non è ovvio per il fatto che ancora una volta ci limitiamo ad accertare un comportamento. Inoltre la successione è infinita - e quel che propriamente accertiamo è che fino ad un certo punto la successione viene scritta correttamente (oss. 145). Ma che cosa ci garantisce che al numero 1000 non avvenga una «svolta»? Vi è un punto in cui possiamo decidere senz'altro che B ha capito la legge di formazione?

Ma forse è tempo di obiettare: un conto è la comprensione di una legge, un altro è la sua applicazione (oss. 146). Una volta posta questa distinzione, Wittgenstein si adopra tuttavia per mostrare i modi equivoci in cui essa può essere intesa. La comprensione sembra prospettarsi - in opposizione all'applicazione di cui possiamo vedere dall'esterno il risultato - una disposizione ad applicare correttamente la regola. In ciò vi è qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato. Sembra giusto sottolineare che la parola «sapere» è strettamente imparentata alla grammatica delle parole «potere» ed «essere in grado», ma anche alla parola «comprendere». Nel gioco linguistico in cui diciamo che B ha compreso (o sa, conosce) qualcosa (il significato di una parola, la legge di formazione di una successione) questo comprendere si deve risolvere nel fatto che mostra di saper fare qualcosa. Sorgono dubbi invece se si intende questa disposizione come uno stato psichico o come dipendente da uno stato psichico. Il «sapere l'alfabeto» è forse uno stato psichico particolare, eventualmente qualcosa che sarebbe sempre presente in modo inconsapevole dentro di noi per poter essere riattualizzato in ogni momento?

Con queste ed altre considerazioni ed esemplificazioni, appare chiarissima l'intenzione da parte di Wittgenstein di contestare un approccio psicologizzante al problema. Se chiamiamo stati psichici (seelische Zustände) il dolore o la tristezza, ci si rende subito conto che i modi con cui parliamo di essi non sono compatibili con i modi in cui parliamo della comprensione (oss. 151). Ad es. ha senso chiedere:« Quando è cessato il tuo dolore?», mentre la domanda «Quando hai cessato di comprendere la parola?» è insensata. Noi diciamo di comprendere la parola «tavolo», ma non sembra aver senso parlare di una comprensione ininterrotta del suo significato, mentre possiamo dire «Soffre da ieri, ininterrottamente» (ivi). In linea generale per gli «stati psichici» sono possibili connotazioni temporali che risultano invece inapplicabili a «sapere» e «comprendere».

La critica di un approccio introspettivo non si fa attendere. Si dànno anche casi di comprensione improvvisa: B guarda A che sviluppa una successione e improvvisamente dice: «Adesso lo so!» - ovvero: «Adesso so continuare la successione da me».

Potremmo allora chiedere che cosa è accaduto nella sua testa quando ha detto «adesso» - esattamente in quel momento, potremmo invitarlo a raccontarci che cosa avveniva prima e che cosa è avvenuto nel momento in cui una luce gli si è aperta nel cervello. Ora, qualunque risposta egli ci dia, essa ci offrirà certamente poca o nessuna informazione sulla natura del comprendere. Le risposte più indicative sono del resto quelle che hanno un contenuto informativo nullo: ho riconosciuto la regola di questa successione, in quel punto ho avuto la sensazione che l'enigma fosse risolto, ho avuto una impressione che potrei esprimere con le parole «Ma questo è facile»; mi sono accorto che avrei saputo continuare la successione. Oppure, in uno sforzo di analisi introspettiva: quando ho detto «adesso» ho avuto una sensazione simile a quella che si prova trattenendo un poco il fiato, come quando si prova un leggero spavento (oss. 151).

Simili descrizioni non hanno niente a che vedere con il comprendere. Potremmo dire che questi sono processi psichici che accompagnano il processo del comprendere (oss. 152). Ma dobbiamo evitare il pericolo che si cerchi il comprendere al di sotto o al di dietro di questi processi concomitanti. In generale il comprendere non deve essere inteso come un processo psichico, come una «esperienza vissuta» (Erlebnis, nel senso psicologizzante che questo termine ha in Wittgenstein) - altrimenti esso si potrà apparire per sempre come uno strano processo. («L'impiego non chiarito della parola viene interpretato come l'espressione di uno strano processo» - oss. 196)

Con ciò diciamo che cosa il comprendere non è. Ma ciò non ci impegna forse anche a dire che cosa esso sia? In realtà dovremmo rispondere: il comprendere è il comprendere. Tutte le spiegazioni intendono qui al più evitare dei fraintendimenti, e mostrano esemplificativamente delle differenze. Un conto è essere triste ed un altro sapere giocare a scacchi. La determinazione positiva la si deve cercare attraverso queste determinazioni negative. E ciò non è affatto né sorprendente né deve deludere la nostra ansia filosofica di andare sempre oltre alla ricerca di spiegazioni. «Ora finalmente hai capito?» - dice il maestro allo scolaro. E questi dovrà rispondere si o no, e non ad esempio: «E come faccio a capire se ho capito?». Come se gli dovesse essere spiegato che cosa significhi capire e indicato un criterio affinché possa prendere una decisione.

Additare oltre l'esempio

Nella situazione esemplificativa della successione e della legge di formazione ci sono anche altre suggestioni, di qui prendono sviluppo altri percorsi. L'accento può cambiare di posto, con uno di quei caratteristici trapassi silenziosi che rendono spesso controverso l'oggetto stesso di ciò che è in discussione. Nelle oss. 179-180 si ribadisce che si può affermare che B ha compreso la struttura della successione nella misura in cui la continua effettivamente in modo corretto. Tuttavia non ci impegniamo affatto su ipotesi che concernono le attività intellettuali, qualunque cosa si intenda con questa espressione. Le parole «Adesso ho compreso la regola» significano: «Adesso so andare avanti nella successione» e questa frase non è qualcosa di simile alla «descrizione di uno stato d'animo» (oss. 180). A queste parole segue un'azione - la successione viene effettivamente proseguita in un determinato modo, e ciò rappresenta un criterio di senso per quella frase.

Naturalmente, con un po' di inventiva non è difficile complicare le cose rendendo problematico anche quel criterio.

B, ad esempio, dopo aver proseguito la serie per un buon tratto, ad un certo punto si interrompe bruscamente. Non sa più come fare. Ha dimenticato ciò che aveva compreso? Oppure non aveva mai veramente compreso alcunché?

Di fronte a ciò non sembra si possa far altro che assumere il criterio con una certa elasticità. Se accettiamo il poter fare come criterio, dobbiamo anche tener conto del fatto che il poter fare si presenta in una varietà di situazioni differenti.

«Puoi sollevare questo peso?» - qualcuno mi dice. Ed io rispondo affermativamente. Alla prova dei fatti tuttavia non ci riesco, oppure dopo averlo sollevato lo lascio cadere improvvisamente a terra. Prima ero certo di poterlo sollevare. In che senso ne ero certo? Qual era la natura di questa certezza?

Così può accadere che voglia ricordarmi di una melodia. E «adesso la ricordo!», cosicché la canto tutta intera. Che cosa è accaduto quando ho detto: adesso la ricordo? La melodia era di fronte ai miei occhi della mente come se vedessi lo spartito stesso e la leggessi di lì? (oss. 184).

Strane domande a cui si potrebbe essere tentati di rispondere descrivendo strani processi: quei processi che mi sembra di poter cogliere guardando dentro me stesso quando sono certo di sollevare un peso oppure quando affermo di ricordare la melodia. Ancora esempi di critica dell'introspezione, dunque.

Ma nel corso di questa critica il centro di gravità tende a mutare. Sempre più l'attenzione è presa proprio dal rapporto tra la successione e la legge di formazione. Vi è in questo rapporto una circostanza inappariscente, apparentemente ovvia: la legge è una formula finita, una sorta di schema che rinvia tuttavia ad una successione infinita di oggetti. In certo senso la legge contiene una volta per tutte ed in un colpo solo ciò che invece deve necessariamente dispiegarsi via via, in una reiterata applicazione della regola. La regola effettua per così dire una «previsione» su tutti i casi particolari che sono costruiti in conformità ad essa.

Tutto ciò non sembra a Wittgenstein affatto ovvio - e lo mostra con una sorta di manipolazione immaginativa il cui senso è necessario rendere il più possibile chiaro.

La sequenza sia 2, 4, 6, 8 il cui schema è (2,n, n+2). L'alunno prosegue così fino a 1000. Ed a questo numero fa seguire 1004, 1008

«Gli diciamo:

- Guarda cosa fai!

Non ci comprende. Diciamo:

- Dovevi aggiungere sempre due; guarda come hai incominciato la successione!

Risponde:

- Si. Ma non è giusto? Pensavo di dover fare così,

Oppure supponi che dica, indicando la successione:

- Eppure ho continuato nella stessa maniera!

Non ci servirebbe nulla il replicare

- Ma non vedi dunque?

e ripetergli le vecchie spiegazioni e i vecchi esempi». (oss. 185).

Questo è un vero e proprio un piccolo pezzo di teatro inventato per insegnare qualcosa. Ma che cosa? Qual è la sua morale?

A tutta prima questa morale non è affatto chiara. Sembra che, in parte, ci troviamo ancora sul terreno del problema del fraintendimento - cosicché potremmo riproporre le considerazioni compiute a suo tempo. Ma l'attenzione è puntata altrove. Intanto si vuol certamente puntare il dito sul modo in cui sono contenuti nello schema operativo i singoli passi. Quando proponiamo lo schema intendiamo un certo modo di procedere. Ma intendiamo anche che a 1000 deve seguire 1002? Forse il maestro a questo caso particolare non aveva pensato affatto.

Naturalmente A può ben irritarsi di fronte alle domande di B. Proponendo lo schema intendeva che anche a 1000 dovesse seguire 1002. Questo lo si sapeva già. Lo si sapeva sulla base dello schema. Lo si sapeva nel senso che se allora B «mi avesse chiesto che numero avrebbe dovuto scrivere dopo 1000 avrei certamente risposto 1002» (oss. 187).

Qui giungiamo al nodo della questione (oss. 188). Quando proponiamo lo schema, ci rappresentiamo la serie in certo modo come già compiuta, come già realizzata: «Per parlare propriamente i passaggi sono già compiuti».

Ma in che senso lo sono? Potremmo dire: idealmente. Quella successione c'è già nel momento in cui ho proposto la legge di formazione. Che poi essa venga di fatto realizzata o meno, ciò è assai poco importante. Il percorso è già interamente tracciato. Ma proprio in questo modo di concepire le cose sta, secondo Wittgenstein, l'errore. Egli sembra voglia intersecare ed anche far scontrare tra loro due piani che in realtà debbono essere tenuti chiaramente distinti. Un conto è il nostro comportamento di fronte alla legge (e qui può accadere di tutto), un conto è la legge in sé. Se l'intenzione di Wittgenstein fosse quella di togliere di mezzo questa distinzione, avremmo buone ragioni per dichiarare il nostro dissenso. È più probabile invece che ci si trovi in presenza di una forzatura metodica. Il dire: «Per parlare propriamente i passaggi sono già compiuti» evoca una concezione platonistica alla quale può ben essere contrapposto una sorta di rozzo empirismo. In una concezione platonistica ciò che importa sono le possibilità a priori. Contro di ciò diamo importanza a ciò che fattualmente accade, quindi alla nostra «natura psichica» ed ai comportamenti conseguenti. Sembrerebbe quasi che la possibilità a priori debba misurarsi con i dati di fatto della sua realizzazione. In questo spirito grezzamente empiristico si dice anche che può essere decisivo per determinare il modo in cui una formula viene intesa l'addestramento e l'educazione (oss. 189).

Ma è certamente inaccettabile pretendere di giocare in modo così rozzo l' «abitudine» contro la «struttura». Ed io credo che queste formulazioni vengano proposte da Witttgenstein per mettere in evidenza un diverso problema. Ciò che è erroneo è il congelamento delle possibilità a priori come possibilità realizzate. Si tratta invece di concepire in modo diverso quella predeterminazione ideale. Nella legge di formazione non si circoscrive, nemmeno idealmente, il risultato di un processo, ma un processo proseguibile all'infinito. Idealità e predeterminazione debbono essere sempre concepiti in termini di possibilità aperte, di processi possibili.

La chiave di questo problema si trova un poco oltre, quando si osserva che espressioni come «e così via» oppure «ecc.» così come gli eventuali puntini di sospensione possono essere usate in due modi (oss. 208). Dobbiamo distinguere quando si tratta di abbreviazioni e quando non lo sono. Questa differenza risulta chiara se pensiamo ad un gruppo di persone in una stanza. Diciamo ad es. che nella stanza c'erano Pietro, Paolo, Giuseppe ecc. In luogo di «ecc.» potrei dare l'elenco completo, cosicché «ecc.» è qui soltanto un'abbreviazione. Si noti poi in margine che in assenza di un elenco completo, non è possibile aggiungere nuovi nomi. In una successione aritmetica del tipo «2, 4, 6 ecc..», l'eccetera non abbrevia proprio nulla perché non è possibile fornire un elenco in luogo di esso. Nella concezione che abbiamo chiamato platonistica è sottintesa una concezione erronea dell'infinito. L'infinità non è vista come apertura infinita di un processo, ma come chiusura di un processo infinito nel suoi risultati. L'infinità interna alla legge di formazione è un'infinità puramente intesa e non un'infinità data, e ciò anche se ci muoviamo su un terreno ideale. Ciò che caratterizza l'insegnamento ostensivo di una serie mediante l'esibizione dei suoi termini iniziali (perché di questo si tratta), è il fatto che si «addita oltre» gli esempi. «Un insegnamento che intenda arrestarsi all'esibizione di esempi si differenzia da un insegnamento che 'additi oltre' l'esempio (hinausweisen)» (oss. 208).

In questa direzione è orientato anche il modo in cui Wittgenstein discute l'analogia tra la legge di formazione e l'idea della macchina. In effetti la legge di formazione è qualcosa di simile ad una macchina, o almeno può essere considerata come immagine o simbolo di una macchina. Non appena la macchina viene posta in movimento, vengono prodotti gli elementi successivi della serie. Nella legge viene «simboleggiato» un movimento, un modo di funzionare (oss. 193). Possiamo così ripetere in una nuova chiave le nostre considerazioni precedenti: «Conoscendo la macchina, sembra che tutto il resto, cioè i movimenti che essa farà, siano già completamente predeterminati» (oss. 193). Possiamo anche pensare, piuttosto che ad una macchina reale, al suo disegno - al disegno di un meccanismo dal quale è già possibile afferrare le sue possibilità di movimento. Abbiamo tra le mani il disegno ed i suoi movimenti ci possono apparire già presenti: «Tendiamo a paragonare i movimenti futuri della macchina, nella loro determinatezza, a oggetti che stanno in un cassetto e che ora tiriamo fuori» (oss. 193) - esattamente come in precedenza avremmo potuto paragonare i numeri della serie come già tutti acquisiti e riposti in un cassetto.

Da questa nuova analogia si chiariscono anche meglio i nostri dubbi anteriori. Si tratta di distinguere tra movimento e possibilità di movimento. Noi diremmo più precisamente tra possibilità a priori e possibilità empirica (Wittgenstein peraltro non usa questa terminologia).

Guardando lo schema della macchina potremmo valutare che un certo movimento è possibile. Questa possibilità è tutta interna allo schema, al modello. Ma nel modello non compaiono sbarre di ferro, ruote dentate reali, perni e boccole, ma solo una loro simbolizzazione incorporea. In questo senso la possibilità è una possibilità simbolica (ideale). E dunque non possiamo essere veramente certi che se realizzassimo la macchina del progetto allora potrà realizzarsi anche quel movimento. La concretizzazione dell'immagine non lascia le cose come stanno. Le linee assumono uno spessore, le sbarre, le ruote dentate e tutto il resto hanno un peso, sono fatte di materiali con determinate proprietà fisiche. Tutto ciò aggiunge delle condizioni fisiche alla possibilità del movimento, condizioni che potremo conoscere solo empiricamente, cioè attraverso l'esperienza. Tra boccola e perno deve esserci un certo gioco altrimenti il movimento si inceppa, vi è poi l'attrito

Quando parliamo di possibilità di movimento possiamo intendere l'una o l'altra cosa, ovvero le condizioni che rendono possibile il movimento nel modello, oppure le condizioni che lo rendono possibile nella realtà. Il parlare di movimenti già effettuati, di movimenti già presenti nel modello sembra a Wittgenstein un modo tendenzialmente erroneo di presentare questa distinzione. Eppure c'è ancora qualcosa che non ci convince pienamente. In fin dei conti il disegno di una macchina viene normalmente realizzato con lo scopo di arrivare alla sua realizzazione fisica. Mentre così non stanno le cose per lo schema che presenta la legge di formazione di una serie. Il rapporto con la realizzazione ha una inclinazione diversa. Inoltre nell'analogia con la macchina, come viene concepita qui, manca il tratto forse più caratteristico della «legge di formazione» - e cioè la produzione di una infinità possibile di oggetti. Ciononostante l'intento critico di Wittgenstein risulta alla fine piuttosto chiaro: l'errore sta nell'intendere i passi idealmente possibili di un processo in entità ideali, che formano nel loro insieme una totalità compiuta.

Attraverso successivi spostamenti ci imbattiamo così in un altro degli obbiettivi critico-polemici di Wittgenstein.

Se tracciamo una linea sulla lavagna, riferendoci ad essa parlando di una retta, ci rappresentiamo le cose come se si trattasse di una sorta di «tratto visibile di un binario che si prolunga invisibilmente all'infinito» (oss. 218), esattamente come nel caso dell'inizio delle serie aritmetiche seguito da puntini di sospensione.Anche la retta dovrebbe perciò essere intesa come l'applicazione iterata di una regola. Se nell'insegnamento ostensivo comincio a tracciare una linea additando oltre l'esempio nella forma dell'«e così via» ho esibito, così facendo una regola: la linea dovrà essere continuata nello stesso modo. Analogamente una figura come la seguente:

può essere intesa come una figura attraverso cui «additiamo oltre» - e dunque come immagine della regola che sta alla base della suacostruzione. Figura e regola si possono scambiare le parti: «in luogo della regola potremmo rappresentarci binari. Ed all'applicazione illimitata della regola corrispondono binari infinitamente lunghi» (oss. 218). Questo scambio è reso possibile da un'oggettivazione «platonistica». «I passi sono già tutti compiuti» (oss. 219). Contro questa oggettivazione sono dirette le considerazioni di Wittgenstein - ma non nel senso in cui si debba vietare questa possibilità. Un simile divieto sarebbe estraneo, io credo, allo spirito della filosofia di Wittgenstein. Ciò che viene rivendicato è invece che deve essere mantenuta la consapevolezza di ciò che sta alle spalle dell'oggettivazione - l'oggetto non deve essere separato dall'origine che lo ha posto in essere.

Comportamenti

(Ric. Fil., oss. 243-308)

1. Comportamentismo e coscienzialismo

È spesso difficile fissare con chiarezza le tesi positive che Wittgenstein intende sostenere distinguendole dalle tesi che intende invece respingere. La stessa struttura dialogica del discorso, nella quale gli interlocutori non sono a loro volta chiaramente identificati, contribuisce a complicare le cose. Ciò vale in particolare per un gruppo di osservazioni (oss. 243-268) che vengono solitamente ricordate sotto l'etichettatura alquanto infelice di «problema del linguaggio privato e del linguaggio pubblico»: infelice, perché fa pensare fin dall'inizio che esista veramente il problema di un linguaggio privato, distogliendo l'attenzione sul fatto che questa distinzione è in realtà una delle tante escogitazioni maieutiche di Wittgenstein. In questo gruppo di osservazioni sembra che venga documentato un atteggiamento «comportamentista» da parte di Wittgenstein in opposizione ad un atteggiamento «coscienzialista». Ma come stanno veramente le cose su questo punto?

L'uso comune dell'opposizione di termini «comportamento» e «coscienza» suggerisce l'essenziale della differenza di principio: con comportamento potremmo intendere un complesso di fatti osservabili nel senso in cui sono osservabili tavoli e sedie. I fatti di coscienza e i processi mentali in genere sembrano situarsi su tutt'altro piano. È l' «esperienza interna» che ci informa su desideri, sensazioni, ricordi, pensieri

Nell'analisi psicologica potremmo seguire due vie:

1. potremmo procedere dai fatti di coscienza ai comportamenti - assumendo così i comportamenti in quanto azioni che hanno nei fatti di coscienza la loro motivazione;

2. oppure operare una vera e propria dissoluzione dei fatti di coscienza in certi comportamenti tipici. In questo modo a espressioni come «fatto mentale», «processo psichico», «spirituale», ecc. riceverebbero l'intero loro senso da fatti osservabili.

Ora è innegabile che in numerose osservazioni di Wittgenstein si presenti un'inclinazione comportamentistica. Questa inclinazione del resto non ci coglie di sorpresa. Fin dall'inizio con i nostri primi esempi di giochi linguistici ci trovavamo alla presenza di descrizioni compiute «dall'esterno» in cui non era affatto importante che cosa passasse per la mente degli attori, ma erano importanti soprattutto le azioni di cui noi eravamo spettatori. In questa stessa direzione spingono anche le numerose critiche contro ogni tentativo di approccio introspettivo. Una volta Wittgenstein imputa a se stesso addirittura di essere un cripto-comportamentista (oss. 307).

Eppure, non appena si entra nel vivo del problema si ha subito la sensazione che parlando di un'inclinazione comportamentistica nel dibattito sviluppato da Wittgenstein si dice ben poco.

Fin dalle prime battute delle Ricerche Filosofiche, era stato messo in questione il rapporto di denominazione come modello del rapporto tra linguaggio e mondo. Difficoltà particolari, e persino veri e propri paradossi, sorgono se adottiamo questo modello per quelle particolari «cose» che sono le sensazioni.

Che cosa intendiamo con sensazione (Empfindung)? Esemplificativamente potremmo pensare alla puntura di un ago, ad una sensazione dolorosa in genere. Che vi siano qui delle peculiarità lo vediamo subito considerando il problema dell'insegnamento ostensivo. Immaginiamo dunque una situazione in cui il bambino non sa affatto manifestare verbalmente una sensazione dolorosa e noi dobbiamo insegnarglielo, dobbiamo dunque insegnargli ad assegnare ad essa un «nome» (oss. 244).

Le cose potrebbero andare così: il bambino grida, e questo è un certo modo di comportarsi, un comportamento di dolore «e gli adulti gli parlano e gli insegnano esclamazioni e, più tardi, proposizioni». Ad esempio: «Ho mal di denti». Vi è dunque una estrinsecazione, un'espressione immediata del dolore ed una sua eventuale verbalizzazione successiva che sta al posto della prima, ma che è nello stesso tempo qualcosa di diverso da un grido.

In questo rapporto intersoggettivo, il parlare di estrinsecazione del dolore (ed in genere di ogni stato d'animo) sembra implicare una sorta di «interpretazione», di «congettura» da parte dell'osservatore. Dato un certo comportamento, ipotizziamo che quel comportamento sia appunto espressione di uno stato d'animo ed insegniamo a denominarlo. Non diciamo che questa sia una descrizione senz'altro appropriata della situazione, ed in particolare lo siano espressioni come «ipotesi» o «congettura». Ma l'uso di questi termini sembra inizialmente utile per richiamare l'attenzione su questo punto: in linea generale non possiamo essere certi che, dato un certo comportamento di dolore, nell'altro vi sia un'effettiva esperienza di dolore. La certezza può esserci soltanto se siamo noi stessi a provare dolore. Si tratta dunque di una certezza «solipsistica».

Le sensazioni sono «private» (oss. 246) - ma questo aggettivo ha un senso filosoficamente forzato rispetto all'uso comune. Nella vita corrente spesso parliamo di «vita privata», faccende «private», ma forse non ci verrebbe mai in mente di dire che l'avere mal di denti sia cosa privata. In che cosa consiste questa forzatura filosofica? Quali sono i problemi che essa intende trasmettere?

In primo luogo, come abbiamo detto or ora, solo io posso sapere veramente se provo dolore. Gli altri possono saperlo soltanto attraverso il mio comportamento e congetturare da esso che provo dolore.

Questo non è che l'inizio. Il nodo si comincia ad ingarbugliare non appena ci impuntiamo sulla parola «sapere». Il mio comportamento è per altri una fonte informazione, di un sapere. E qual è allora per me la fonte di informazione?

«Non si può dire che gli altri apprendono la mia sensazione soltanto attraverso il mio comportamento - perché di me non si può dire che lo apprendo» (oss. 246).

Ciò che qui sembra fuori posto è quel soltanto - come se agli altri fosse sottratto qualcosa, quasi che fossero costretti ad una informazione indiretta - al contrario di quanto accade per me. Forse c'è qualcosa che non va proprio in questa contrapposizione: da un lato il comportamento, dall'altro una fonte più diretta a cui solo io stesso posso attingere. Il fatto che io non possa vivere il dolore dell'altro è fuori questione: ma ciò può avere un senso banale oppure pretendere di raggiungere una verità particolarmente profonda. Le osservazioni di Wittgenstein - non vi è certo di che meravigliarsi in proposito - tendono ad uno smontaggio del problema, a liberarlo dai fumi da cui esso può essere avvolto.

Qualcuno dice, pretendendo di conferire particolare pregnanza alla cosa: «Le sensazioni sono private». E la risposta potrebbe essere: ciò dice quanto dice che «il solitario si gioca da soli» (oss. 248). Con un simile truismo puoi costruire ben poco.

Inoltre benché possano sorgere dei dubbi sul dolore altrui, il dubbio di principio - che nella presentazione iniziale del problema può essere suggerito dall'affermazione secondo cui la sensazione altrui sarebbe in ogni caso frutto di una congettura - sembra piuttosto un tipico dubbio argomentativo. Qualunque sia l'espressione di uno stato d'animo in genere e in qualunque contesto, su di essa dovrebbe allora pesare il dubbio che si possa trattare di una simulazione. Contro di ciò: «siamo forse troppo precipitosi nell'assumere che il sorriso del lattante non sia una simulazione?» (oss. 249). ; «Perché un cane non può simulare dolore? È troppo onesto?» (oss. 250). Ecco due casi in cui una presunta differenza di livello tra certezza fondata sull'esperienza interna e certezza fondata sull'esperienza esterna sembra ridursi ad un'astratta argomentazione filosofica.

Ritorniamo dunque un poco sui nostri passi. Abbiamo detto che affermare che un altro non può provare esattamente il mal di denti che io provo potrebbe essere considerata una semplice ovvietà. Se però si vuol dare a questa frase un'enfasi che essa non ha, ecco che provochiamo il nostro interlocutore rovesciando il problema: Come fai ad essere certo che un altro non prova il tuo stesso dolore?

Avremmo bisogno di una sorta di criterio di identità. Se uno sostenesse che prova lo stesso dolore che provo io come faremmo a confutarlo? (oss. 253) Se si obbiettasse che la questione non è empirica, ma logica, allora tutto si ridurrebbe nuovamente ad affermare che un solitario si gioca da soli. Il problema, se era importante, va in fumo. Chi si dà un pugno sul petto dicendo enfaticamente «Ma un altro non può avere questo dolore», non dice nulla che meriti un particolare apprezzamento.

Talvolta anche i gesti immaginati da Wittgenstein, in questa sua filosofia teatralizzata, hanno una singolare importanza. Il gesto del picchiarsi sul petto, mentre si dice una cosa simile, chiarisce che ciò che viene messo in questione è la difesa filosofica di una interiorità che mai e poi mai potrà essere raggiunta dallo sguardo profanatore degli altri, quasi che se ciò accadesse qualcosa di indicibilmente prezioso si dissolverebbe. L'io stesso, l'io che vive i suoi stati d'animo, i sentimenti propri dell'io - tutto ciò deve essere riposto in un luogo inaccessibile. L'ostinato riferimento al mal di denti - vagamente sgradevole per il suo carattere così banalmente quotidiano - fa naturalmente parte di questa opera di smontaggio.

2. Dare un nome ad una sensazione 

Tutta la questione può essere riproposta avendo di mira il linguaggio come riferimento principale.

Se diciamo che le sensazione sono «private» e interpretiamo questa affermazione in modo distorto, potremmo pensare che si possa costruire un linguaggio che esprima queste sensazioni proprio in ciò che esse hanno di privato e che sia comprensibile dunque in via di principio solo a colui che prova le sensazioni. Naturalmente questa caratteristica deve derivare dall'assoluta particolarità degli oggetti significati (le sensazioni): la possibilità di un linguaggio privato nel senso di un codice personale, comprensibile solo a me, è ovviamente fuori questione e non riguarda il nostro problema.

Wittgenstein si dispone così nell'atteggiamento di chi intende produrre un simile linguaggio, cavando di qui conseguenze assurde a non finire.

Si tratta di designare le sensazioni con parole (oss. 256). Ma come facciamo? Si è visto che di fronte ad una manifestazione esterna di dolore di un bambino, l'adulto insegna ad associare ad essa una espressione che significa una sensazione. Si potrebbe allora pensare che anche in questo caso potremmo fare nello stesso modo, ricorrendo a manifestazioni esterne delle nostre sensazioni. Dovrei dunque dispormi di fronte ad uno specchio? Supponiamo di fare in questo modo, ma allora il linguaggio non sarà privato nel senso qui inteso perché sarebbe in via di principio comunicabile.La sensazione A sarebbe indicata facendo riferimento alla manifestazione esterna A'. Pertanto potrei comunicare il senso di una parola ad un altro facendo riferimento a quella manifestazione esterna.

Supponiamo invece di tagliar fuori il problema delle manifestazioni esterne. Vi sono soltanto le mie sensazioni, i miei stati d'animo: ed allora sembra ovvio che il progetto di una realizzazione di un linguaggio privato consisterà nell'associare ad una sensazione un certo nome. Ciò sembra facile da fare. Ed invece si tratta anzitutto di una situazione profondamente incomprensibile. A chi potrebbe venire in mente di dare un nome ad una certa sensazione se non vi è nessuna intenzione comunicativa, come va ammesso in linea di principio? (oss. 257). Supponiamo comunque che io tenga un diario nel quale una volta contrassegnata una certa sensazione venga effettuata un'accurata registrazione del suo ricomparire. Ora io ho una certa peculiare sensazione e la chiamo S. Questa connessione tra il segno e la sensazione deve certamente essere impressa nella mia mente. Si tratta di una regola. Ed io debbo scrivere S ogni volta che compare quella sensazione. La regola potrà a sua volta essere applicata correttamente o scorrettamente. Ma qui sta il problema: «nel nostro caso non ho alcun criterio della correttezza» (oss. 258).

Una ulteriore difficoltà sta poi nel fatto stesso di parlare, come stiamo facendo, di un simile linguaggio. Fin qui ci siamo espressi proprio nel linguaggio che tutti comprendiamo, cosicché la frase «S sia il segno di una sensazione» può per noi avere un senso. Ma quale senso può avere per chi si trova al di fuori di ogni linguaggio comunicativo e progetta di costruire un linguaggio «privato» (oss. 261)?

«Quando si dice 'ho dato un nome ad una sensazione' si dimentica che molte cose debbono già essere pronte nel linguaggio perché il puro denominare abbia un senso» (oss. 257). «Sensazione è una parola del linguaggio comune a noi tutti, non di un linguaggio che soltanto io posso comprendere».

Si accumulano così paradossi su paradossi. Conclusivamente: l'idea di un linguaggio privato ci pone in una situazione tanto strana e paradossale quanto sarebbe quella di parlare di un regalo che la mano destra fa alla mano sinistra. «La mia mano destra può mettere denaro nella mano sinistra. La mia mano destra può scrivere un atto di donazione e la sinistra una ricevuta» (oss. 269). Ma quale senso ha tutta questa cerimonia? Non in ogni caso quella di un regalo.

3. Gestualità corporea, espressività e processi spirituali 

Che la parola «sensazione» sia una parola del linguaggio comune segnala che la stessa «grammatica» di ciò che è privato viene appresa in un contesto comunicativo - all'interno di un dialogo. Proprio nel caso estremo in cui sembra che si debba essere ricondotti solo a noi stessi, la «privatezza» della sensazione può essere riconosciuta solo nel presupposto di una dimensione «pubblica» già costituita. Pensiamo al modo in cui un bambino potrebbe imparare a dire: «Ho sognato questo e quest'altro». Forse egli si sveglia all'improvviso, e tenta di narrare qualcosa al genitore, e questi lo tranquillizza dicendo: «È soltanto un sogno!». Importante non è qui solo la parola sogno - che verrà associata a ciò che può accadere quando si dorme, ma il «soltanto» che può significare un sacco di cose - ad es. che si tratta di eventi irrilevanti, che non hanno nulla a che vedere con gli eventi del giorno, ed anche, a poco a poco che il contenuto del suo sogno è soltanto suo. Impara cioè, attraverso gli altri, che il sogno è un «solitario».

Questo è l'atteggiamento che in generale tende a far valere Wittgenstein. Ma esso emerge all'interno di un dibattito piuttosto controverso.

Nell'oss. 281 l'interlocutore di Wittgenstein dice: finalmente ho capito. A tuo avviso il dolore esiste soltanto in quanto comportamento di dolore (Schmerzbenehmen). E ciò viene detto con un sottinteso critico che potrebbe essere formulato in questo modo: il risultato delle tue tesi è che non esiste dolore senza «comportamento di dolore» - intendendo con ciò togliere di mezzo la distinzione tra il dolore in quanto sensazione e la sua manifestazione. Ma allora - qui comincia la critica - come potrai parlare di comportamenti di dolore? Sembra infatti ovvio che un comportamento come tale, osservato dall'esterno, non è che un complesso di gesti, anzi, meglio, di movimenti. Per parlare in rapporto ad essi di comportamento di dolore è necessario attribuire ad essi una capacità espressiva. Questa espressività attribuita presuppone che tu stesso sappia che cosa sia il dolore e che in certo modo la proietti nell'altro in presenza di questo o quel movimento. Se supponiamo che colui che osserva non sappia nulla del dolore - a partire dalla propria esperienza interna - come potrebbe «interpretare» i movimenti dell'altro come un comportamento di dolore. Proiezione e interpretazione fanno tutt'uno. In generale - continua la critica - un atteggiamento comportamentistico è erroneo perché, effettuando le descrizioni degli atti osservati, gli stati d'animo sono in realtà presupposti. Se teniamo conto solo di ciò che risulta esternamente osservabile, ci appariranno sempre soltanto dei movimenti rigorosamente neutri dal punto di vista espressivo. In una descrizione comportamentistica, ad esempio, non potremmo dire che un bambino tende la mano verso un oggetto, perché in questo tendere-la-mano-verso vi è già qualcosa di più di quanto possa essere consentito dai principi comportamentistici dell'osservatore. Al movimento si aggiunge un che di «spirituale», nella descrizione traluce qualcosa come una vita interiore. Un punto di vista comportamentistico finirebbe con l'implicare una totale soppressione di una «spiritualità» comunque intesa, proponendo una psicologia senza «anima», che eventualmente si attiene a modelli «fisicalistici». Ma allora ne va di mezzo non soltanto l'anima o lo spirito, ma anche una nozione praticabile di comportamento.

A tutta prima la risposta di Wittgenstein a questa critica ed ai suoi motivi polemici può sembrare ambigua. Egli anzitutto sposta l'asse del problema: non si tratta di operare una identificazione tra stato d'animo e comportamento, ma soprattutto cercare di rendere esplicito un presupposto di fondamentale importanza: «Soltanto dell'uomo vivente (lebender Mensch) e di ciò che gli somiglia si può dire che abbia sensazioni» (oss. 281). Oltre che ambigua, questa risposta suona anche sibillina. Essa viene ribadita così: «Solo di ciò che si comporta come un uomo si può dire che ha dolori» (oss. 283). Di comportamento dunque si tratta - ma vi è questa aggiunta singolare: il riferimento all'uomo vivente, all'essere umano. Inoltre la questione non è se questo o quello abbia una sensazione, ma in rapporto a che cosa e in quali circostanze si possa dire questo.

In realtà dietro queste formulazioni si va affermando ancora l'importanza della relazione intersoggettiva. Il problema dell'espressività esiste realmente, ma non deve essere posto a partire dalla vita soggettiva isolata, nella quale io apprendo tutto a partire da me stesso e proietto poi ciò che ho appreso sugli altri. Parlando dell'essere umano faccio riferimento in generale ad una comunanza d'essere che il linguaggio stesso anzitutto attesta. Tuttavia qui non si parla solo dell'uomo vivente, ma anche di «ciò che gli somiglia». Cosicché l'ambito di applicazione si amplia smisuratamente. «Nelle favole anche la pentola può vedere e sentire. (Certo, ma può anche parlare)» (oss. 282). Ciò che è chiuso in parentesi è la cosa più importante: alla base dell'«attribuzione» (se vogliamo esprimerci in questo modo) di sensazioni, di atti del vedere e del sentire, vi è qualcosa di simile ad una trasposizione analogica, e ciò che ci consente di dire che la pentola vede e sente è un'analogia nascosta, quell'aspetto per la quale essa può essere assimilata all'essere umano, cioè il suo borbottio. Il «parlare» della pentola non viene dopo la possibilità del vedere e sentire (come sembra suggerire subdolamente il testo), ma prima di essa perché essa in certo modo consegue proprio dal borbottio dell'acqua che bolle in pentola - ed è a partire da questo borbottio che l'immaginazione può iniziare il suo corso. In altri casi invece questa trasposizione incontra forti resistenze. Proviamo in generale difficoltà ad attribuire sensazioni alle pietre. «Guarda una pietra e immagina che abbia sensazioni!» (oss. 284). Potremmo forse simulare di metterci nei panni di una pietra per dare una qualche concretezza ad una simile fantasia, ma ciò richiederebbe un enorme sforzo, che forse non raggiungerebbe in ogni caso lo scopo. «E ora osserva una mosca che si dimena convulsamente, e subito la difficoltà è svanita: qui il dolore sembra far presa» (ivi).

Considerazioni come queste prevalgono su qualunque tesi proiettiva che concepisca le cose in questo modo: prima ho un'esperienza vissuta solitaria, poi la proietto in un altro uomo o nella pentola che parla, nel pezzo di legno che è destinato a diventare Pinocchio. In realtà «ciò che proiettiamo» non sono sentimenti interni, ma contesti e comportamenti immediatamente sociali: ciò che fa di un pezzo di legno qualcosa che esprime sentimenti è il fatto che esso ride per il solletico che gli fa la lima di Geppetto, osservazione meno ovvia di quanto possa sembra a tutta prima. Se la lima può far solletico, allora il legno può mettersi a ridere. La lima è poi in ogni caso nelle mani di Geppetto. La metafora che sta al fondo della fantasia si intreccia con il rapporto sociale.

Un bellissimo esempio di come l'immaginazione possa incontrare ostacoli nelle proprie «proiezioni» è il «commiserare bambole». Si possono commiserare bambole. Che cosa vi è di più semplice di ciò? Si immagina che siano ammalate e le si compiange. Ma la fantasia di Wittgenstein è tanto fervida da immaginare un gioco in cui il commiserare bambole diventa difficile, forse impossibile. «Immaginiamo il caso in cui soltanto delle cose inanimate la gente dice che provano dolore; commiseri soltanto le bambole» (oss. 282). È possibile immaginare questo? Certo lo è, se lo facciamo. Ma questa risposta sarebbe alquanto superficiale. Il commiserare si apprende in un gioco linguistico tra esseri umani e la situazione indicata è tale per cui gli uomini non si commiserano anzitutto tra loro. Che cosa significherà «commiserare» in questo gioco linguistico? Non lo sappiamo. La trasposizione fantastica urta contro la grammatica della parola, e questa grammatica ci riconduce al mondo umano.

Wittgenstein sembra così rendere chiaramente conto dell'obiezione anticomportamentistica che abbiamo riferito in precedenza. In realtà la fa in larga parte propria. La nozione di comportamento deve essere istituita avendo di mira i contesti umani, e ciò pone fin dall'inizio il problema dell'espressività. Nel comportamento che cerchiamo di descrivere l'espressività fa parte della descrizione.

«Pensa al riconoscimento dell'espressione di un volto. Oppure alla descrizione di un volto - che non consiste nel dare le misure di un volto!» (oss. 287).

Osservazioni di questo genere non sono certo orientate nel senso di un comportamentismo ingenuo, e non vi è dubbio che in Wittgenstein vi sia una polemica diretta contro di esso. E tuttavia il problema di una possibile relazione con una posizione comportamentistica si ripropone. «Allora sei un cripto-behaviourista. In fondo non dici che all'infuori del comportamento umano tutto è finzione?» (oss. 307).

Il fatto è che mentre l'obiezione anticomportamentistica si convertiva poi in una aperta presa di posizione a favore di una concezione «coscienzialistica», Wittgenstein non concede nessuno spazio ad una simile direzione di sviluppo. La differenza tra anima e corpo, tra soggettività e corporeità (espressiva), e quindi una possibile enfasi sull'interiorità dell'io tende a venire meno.

«In che senso non è la mia mano a sentire dolore, ma sono io che sento dolore nella mia mano?» (oss. 286) Oppure: «Come avviene che io sia pieno di compassione per quest'uomo?» (e non ad esempio per il suo corpo) (oss. 287). «Non si rivolgono parole di conforto alla mano, ma al sofferente; a lui si guarda negli occhi» (oss. 286). Per ammettere tutto ciò non abbiamo bisogno di ammettere la soggettività a titolo di una particolare entità che sta altrove rispetto ai suoi comportamenti.

Se i comportamenti vengono intesi così, allora ci bastano i comportamenti. Cosicché si può sviluppare insieme ad una critica del comportamentismo - che certo non intendeva i comportamenti in questo senso - mantenendo una critica «anti-interioristica» che può raggiungere anche punti estremi. Soprattutto va criticata secondo Wittgenstein l'idea secondo cui vi sarebbe qualcosa di «strettamente intimo, di 'esclusivamente mio» che precederebbe il rapporto intersoggettivo.

Il misterioso «coleottero» dell'oss. 293 può valere come una immagine della vita interiore.

Socialmente parlando, una vita interiore c'è. Tenendo conto del contesto sociale ognuno ha il suo coleottero. Ma se prescindiamo da questo contesto, esso si dissolve. Se immaginassimo di aprire da noi stessi la scatola che lo contiene, essa potrebbe rivelarsi vuota. Noi abbiamo un nome comune per designare l'animaletto, e questo nome svolge una funzione ben determinata. Ma continuerebbe a svolgere questa funzione anche se a quel nome non corrispondesse nulla (Questo è tra l'altro anche un altro argomento contro il modello di teoria del significato che poggia sulla coppia «designazione-oggetto»).

Si comprende dunque che possa ripresentarsi l'obiezione di annientare la vita spirituale:

«Tuttavia ritorni sempre al risultato che la sensazione in se stessa non è nulla» (oss. 304).

«Ma non puoi negare che quando ad esempio si ricorda abbia luogo un processo interno» (oss. 305).

«Allora sei un criptobehiaviorista» (oss. 307).

Queste obiezioni vengono respinte, ma il punto di vista del «coleottero» viene ribadito.

«Diamo forse l'impressione di negare qualcosa? (oss. 305).

Questa impressione sorge dal fatto che «ci opponiamo all'immagine del 'processo interno'» (ivi). Se il ricordo sia un processo interno lo potremmo anche ammettere, ma sosterremo anche che quando dico «adesso ha avuto luogo in me il processo mentale del ricordare» voglio dire niente di più e niente di meno che «ora ricordo». Così può sorgere l'impressione che vengano negati i processi mentali, e questa impressione è del resto giustificata se riteniamo che quella proposizione non sia riducibile a quell'altra (oss. 306). Così come neghiamo in genere che la mia «esperienza vissuta» abbia caratteristiche così peculiari da ritenere che l'esperienza dell'altro possa soltanto essere «inferita» - e dunque sia per principio soggetta a dubbio. Wittgenstein ritrova qui - probabilmente senza esserne consapevole - uno dei capisaldi della teoria fenomenologica dell'esperienza intersoggettiva - che ha una critica simile ai suoi inizi (e che è più robusta nei suoi sviluppi e nei suoi presupposti metodologici).

«Prova un po' a mettere in dubbio - in un caso reale - l'angoscia di un'altra persona!» (oss. 304). In altri termini vi sono casi in cui l'angoscia dell'altro è evidente, così come del resto sono possibili tutte le altre varietà possibili del dubbio sulla sincerità della sua manifestazione di dolore. Tutto ciò avviene esclusivamente e soltanto sulla base dei comportamenti, e di comportamenti riferiti ad una soggettività che si ha propriamente di mira, anche se questa non ha bisogno di essere concepita come una entità da essi distinta ed afferrabile in se stessa.

«E così sembra che abbiamo negato i processi spirituali. E, naturalmente, non li vogliamo negare» (oss. 308).

V.Quando dico «io»

(Ric. Fil., oss. 398-465)

1. Sull'anima

Una bella sintesi della tematica di Wittgenstein sui comportamenti potrebbe anche essere la seguente:

«Quando si vede il comportamento di un essere vivente si vede la sua anima» (oss. 357).

Nelle oss. 398-425 ancora dell'anima si tratta. O se volete della coscienza, dell'identità personale, della soggettività. E ritroviamo anche qui, come nelle osservazioni sul comportamento, quella caratteristica oscillazione che ci farebbe pensare, se leggessimo queste pagine senza preparazione alcuna, che si sostengano tesi contrapposte.

Per un verso ci può sembrare che la nozione di soggettività sia dissolta secondo uno stile empiristico; per un altro, l'obbiettivo contro cui rivolgere le proprie critiche sembra essere proprio questa dissoluzione.

Si può parlare di dissoluzione empiristica della nozione di soggettività quando, in un modo o nell'altro, si giunge ad una tesi che potrebbe essere formulata così: la nozione di io non rinvia ad una sorta di nucleo sostanziale, ma indica niente altro che un aggregato di fatti osservabili. Che si tratti di fatti chiamati psichici o di comportamenti può essere relativamente irrilevante. Rilevante è anzitutto l'eliminabilità di principio della nozione, la sua riduzione a complessi fattuali. Alla soggettività non spetta un qualche particolare privilegio rispetto ad altre aggregazioni empiriche.

A questa dissoluzione empiristica si potrà eventualmente contrapporre una concezione che punta sull'irriducibilità della nozione di soggettività. Se descriviamo la soggettività come un aggregato di fatti, ci rimettiamo probabilmente qualcosa di importante e decisivo per la nozione stessa. Vi sono molti modi di sostenere questa irriducibilità, ma per amor dell'argomento e delle schematizzazioni potremmo contrapporre alla dissoluzione empiristica della soggettività, la sua ipostatizzazione idealistica. E potremmo considerare quest'ultima come una concezione che invece accentua ed esaspera l'idea della soggettività come nucleo sostanziale, estremizzando la sua distanza dall'empiria.

Come stanno le cose in Wittgenstein?

Va da sé che verranno bandite considerazioni di ordine introspettivo. Un'analisi filosofica comincia quando troviamo problematico ciò che finora rappresentava qualcosa di interamente ovvio. Finora il dire «io» non era fonte di preoccupazioni. Invece, riflettendo sulla cosa, questa paroletta finisce con il presentarsi ricca di problemi. Ne diamo di solito per scontato per il senso. Ma alla fine possiamo chiederci che cosa sono «io stesso». A questa domanda tuttavia non tenteremo di rispondere sprofondando in un tentativo di autosservazione per scorgere che cosa accade dentro di noi quando diciamo «io».

Wittgenstein immagina, volgendola al grottesco, la situazione di chi si dispone in un simile atteggiamento. «Ho guardato fissamente davanti a me, ma non verso un punto o un oggetto determinati. I miei occhi erano ben spalancati il mio sguardo era assente» (oss. 412).

Quanto poi a ciò che si coglie in questo stralunato sguardo interiore, ciascuno potrà indicare le cose più singolari. Secondo W. James, ad esempio, l'io consiste «in peculiari movimenti nella testa o tra la testa e la gola» (oss. 413). Certo, Wittgenstein opera uno svisamento di ciò che intende dire James. In effetti James vuol dire che l'introspezione non ci conduce a quell'io spirituale, a quel nucleo egologico che abbiamo la sensazione di «possedere», ma solo a certi fatti corporei o semicorporei. Ma la citazione di Wittgenstein resta comunque appropriata se non altro per indicare quante cose strane si potrebbero proporre come descrizioni di ciò che si coglie introspettivamente.

Scartato questo modo di procedere, si considera se la nozione di soggettività non si risolva in un complesso di processi cerebrali. Si può considerare questa tesi come una variante della dissoluzione empiristica. E Wittgenstein sembra prendere rispetto ad essa una posizione nettamente critica. Ciò che è in questione, beninteso, non è il fatto che ci siano o non ci siano processi cerebrali. Si tratta piuttosto di evitare una confusioni di piani. Un conto è affermare che vi sono processi cerebrali ed un altro è l'idea di una sorta di indistinzione tra processi cerebrali e atti di coscienza. Wittgenstein osserva come suoni strano avere un certo ricordo e dire a se stessi: «questo deve essere un processo cerebrale». Evidentemente questo effetto di stranezza sorge nella confusione tra un piano in cui è certamente lecito parlare di processi cerebrali ed un piano soggettivo-interno. Io credo che quando egli parla del «senso di incolmabilità dell'abisso tra coscienza e processo cerebrale» (oss. 412) non intende sostenere che vi è un abisso incolmabile tra coscienza e processo cerebrale e nemmeno che un simile abisso non c'è. Semplicemente, il problema è mal posto.

Queste osservazioni suggeriscono dunque un atteggiamento critico nei confronti di una possibile dissoluzione empiristica. Ma le cose non sono così semplici.

Le complicazioni vengono proposte a partire da una riflessione della nozione di «campo visivo», intendendo con ciò che io vedo qui ed ora - quindi ad esempio la mia stanza, secondo l'angolatura imposta dal punto di vista da cui la guardo. Potremmo allora osservare che la nozione di campo visivo presuppone quella dell'io che lo afferra - e che esso in certo modo appartiene a quell'io nel senso più stretto possibile del termine. Questo potrebbe essere un modo di introdurre la nozione di soggettività come una nozione costitutiva dell'esperienza stessa.

Non è improbabile che Wittgenstein pensi qui ad una posizione del tipo di quella di Husserl o proprio a quella.

Secondo Husserl la nozione di soggettività viene acquisita attraverso ciò che egli chiama riduzione fenomenologica. Data per scontata la critica anti-introspezionistica che in Husserl si presenta come critica dello psicologismo in genere, è necessario effettuare una distinzione di principio tra stanza in sé, la stanza intesa come parte oggettiva di un edificio, e stanza visiva, il fenomeno della stanza. In questa riconduzione della stanza al fenomeno dovremo ammettere o postulare un soggetto al quale la stanza appare. La soggettività non si presenta qui né come un'ovvietà quotidiana, né come un possibile reperto dell'introspezione. Compare piuttosto come un postulato dell'esperienza fenomenologicamente ridotta.

Wittgenstein critica questo modo di approccio al problema. Non è qui il caso di valutare se questa critica risulti convincente ed in primo luogo se sia possibile esercitare una critica su una teoria straordinariamente ricca come quella husserliana considerandola in una sua contrazione ai minimi termini - come viene fatto qui. Occorre soltanto segnalare che la discussione di Wittgenstein è tutta giocata su una metafora che egli stesso usa per indicare il riferimento soggettivo. La stanza visiva mi appartiene, anzi appartiene solo a me, io sono il suo proprietario. Per quel tanto o poco che ormai conosciamo dello stile di Wittgenstein, si comprenderà subito che la parola «proprietario» utilizzata così - in rapporto al campo visivo - è destinata a rappresentare il punto di scatenamento di varianti destinate ad agitare il problema.

Anzitutto la questione della proprietà potrebbe non sorgere nemmeno, oppure quando sorge? Quando ha senso per me dire che la casa in cui vivo non mi appartiene, ma della casa che vedo in quanto la vedo sono sicuramente il proprietario, ed addirittura l'unico? La casa «visiva» è poi forse qualcosa di simile ad una casa raffigurata in un dipinto. Ma ha senso chiedersi chi sia il proprietario di una casa rappresentata in un dipinto e proprio in quanto tale?

«Immagina un quadro raffigurante un paesaggio immaginario, e in esso una casa - e immagina che qualcuno chieda: 'A chi appartiene quella casa?' La risposta potrebbe essere d'altronde: 'Al contadino che è seduto sulla panca lì davanti'. Ma allora egli non può, ad esempio, entrare nella sua casa» (oss. 398)

Strane domande e strane risposta - come sempre. Al margine di sofismi: domande che barano giocando con giochi linguistici differenti: esse vanno intese a mio avviso per mostrare i diversi versanti di un problema e quindi una sua possibile duttilità. Per un verso puoi dire che la stanza visiva ha un proprietario - ma altrettanto legittimamente potresti dire che non lo ha oppure che il problema è privo di senso.

Così possiamo dire: «Io ho questa rappresentazione» (oss. 402) - ma è importante stabilire che cosa voglia dire questo «io ho». In fondo, osserva Wittgenstein, si tratta di un segno per gli altri, come se io li volessi mettere sull'avviso di qualcosa. Questa espressione «avere rappresentazioni» che sembra per così dire ripiegata in interiore homine viene da Wittgenstein rivoltata verso l'esterno. Si afferma anche qui la tendenza che abbiamo visto in opera anche altrove: l'orientamento verso l'espressione linguistica induce a riportare il problema - foss'anche quello del flusso di coscienza di James e Husserl - ad un contesto intersoggettivo.

Consideriamo ora finalmente l'impiego della parola «io». È difficile contestare l'ovvietà che essa serve per denominare quella particolare persona che sono appunto io stesso. Eppure Wittgenstein sembra contestarlo, e non solo in un senso a sua volta ovvio. «Io» infatti non è un nome e perciò non denomina alcunché. «'Io' non denomina nessuna persona, 'qui', nessun luogo, 'questo' non è un nome. Ma stanno in relazione con i nomi. I nomi vengono spiegati per mezzo loro» (oss. 410).

Ma Wittgenstein va oltre questa accettabilissima annotazione. Nell'oss. 404 egli tenta di giustificare la tesi che quando dico «io provo dolore» non so affatto chi prova dolore. Il paradosso è costruito sulla parola «sapere» e sui contesti di impiego di quella frase. Se sapere significa essere o venire informati allora è certo che se dico «io provo dolore», non intendo dare un'informazione a me stesso. Ma si può dubitare anche che si voglia dare un'informazione ad altri, quasi che la frase in questione lo stesso senso che «Qui c'è qualcuno che prova dolore e questi sono proprio io». La frase stessa può del resto essere soppressa e sostituita da un gemito ed allora «non denomino nessuno» -«anche se dai gemiti, l'altro vede chi prova dolore».

Ecco alcune belle variazioni sul tema:

«Si potrebbe immaginare che un tale, gemendo dicesse: 'Qualcuno soffre - non so chi!' - al che la gente corresse ad aiutare lui, quello che geme» (oss. 407).

«Ma quando dici 'io provo dolore' è chiaro che vuoi attirare l'attenzione degli altri su una persona particolare'. - La risposta potrebbe essere: No, voglio attirarla soltanto su di me.» (oss. 405)?

E tuttavia dicendo io, si vuol certo distinguere tra me ed un altro! Ciò può anche accadere («il colpevole sono io» (non lui)). Ma accade sempre così? (oss. 406).

Anche la parola «io» come ogni altra ha un molteplicità di impieghi e i problemi che si propongono debbono essere considerati relativamente ad essi. Impostando le cose in questi termini sembra che abbia ben poco senso tentare una sorta di caratterizzazione generale dell'uso del termine facendo riferimento al rapporto designativo. Ciò non significa, comunque, che la parola io sia un «flatus vocis». O comunque non lo sarebbe più di qualunque altra - ed avrebbe una funzione. Le parole sono emissioni sonore e sono come tali strumenti che svolgono funzioni ben determinate dentro i giochi linguistici. Il problema della contrapposizione tra dissoluzione empiristica e ipostatizzazione idealistica perde così di interesse.

È sicuro comunque che la versione moderna - logico-empiristica - della nozione di soggettività viene criticata esplicitamente. Questa versione potrebbe essere formulata così: le proposizioni che contengono espressioni soggettive e in particolare la parola «io» possono essere riformulate in modo tale che questa parola non vi compaia. Una simile riformulazione mettere a nudo la «forma logica» della proposizione in modo tale da mostrare che la parola «io» appartiene alla grammatica superficiale della lingua e non alla sua dimensione profonda. Ecco dunque che «Da qualche parte c'è mal di denti» direbbe tanto - e molto meglio - di quanto dice «io ho mal di denti». Quella strana frase potrebbe poi ricevere le determinazioni oggettive del caso, potrebbe essere precisata con parametri capaci di individuare con esattezza il luogo spazio-temporale in cui accade quell'evento. Questa è schietta parodia. Ed io credo che là dove si immagina un tale che gemendo dice «Qualcuno soffre - non so chi» (oss. 407), ci si muova proprio all'interno di questa parodia. D'altra parte anche quando ci si rifiuta di accettare l'equivalenza tra una persona particolare e «io stesso» si difende una funzione autonoma e specifica della parola, e di conseguenza la nozione di soggettività che sembra volatilizzarsi fuori del linguaggio, resta invece duramente appresa ad esso.

Lo stesso nel caso della coscienza o dell'anima.

La parola «coscienza» forse potrebbe essere usata solo nelle enfasi della filosofia. Oppure può avere usi pratici del tutto aproblematici come quando si dice, dopo essere svenuti, di aver ripreso coscienza (oss. 416). Ma coscienza ed anima possono anche immagini del linguaggio, un suo «sogno» - con il quale in ogni caso si vuol cogliere qualcosa.

Così si fa notare come cambino le cose qualora si rinunci a «proiettare questa immagine - ad es. qualora vedendo dei bambini giocare dicessi a me stesso: 'essi in realtà non hanno un'anima'». Può essere che queste parole restino del tutto insignificanti, cioè non facciano presa. Ma può essere anche che l'intera scena muti la sua atmosfera. Si risveglierà in te «una specie di sentimento sinistro, o qualcosa del genere» (oss. 420).

Dunque è importante credere che nell'uomo ci sia un'anima? È evidentemente importante. Il crederlo e il non crederlo - ad esempio, nel caso dei bambini che giocano - non lascia le cose come stanno. Il vero problema è stabilire a che cosa si crede quando si crede che nell'uomo ci sia un'anima. Perché l'anima è in ogni caso un'immagine (oss. 422).

2. La vitalità dei segni

I nostri giochi linguistici sono anzitutto attraversati da una rete di rapporti significanti. I comportamenti sono complessi «gestuali» (non semplici movimenti). Saremmo tentati di dire - benché questa formulazione non si trovi in Wittgenstein - che l'espressività è la situazione primitiva. Da questa poi possiamo eventualmente prescindere. Il problema che avevamo intravisto fin dall'inizio - quel baluginare dell'automa dietro l'uomo e dell'uomo dietro l'automa (si rammenti il gioco del fruttivendolo e quello del muratore) viene via via determinandosi sempre meglio. Le nostre riflessioni non possono pretendere di decentrarsi, cioè non possono pretendere fin dall'inizio di desituarsi rispetto al nostro mondo che è un mondo di uomini viventi. L'espressione di «uomo vivente» ricompare più volte in queste osservazioni con la funzione di richiamare l'attenzione su un centro di riferimento primario. L'uomo vivente - e non eventualmente un'astratta soggettività filosofica: l'uomo come socialità concreta, che si esprime con gli altri gestualmente e linguisticamente. Lo stesso richiamo al linguaggio ordinario ha naturalmente a che vedere con questa centralità. Anzitutto parliamo proprio questo linguaggio e il problema del linguaggio va proposto a partire di qui.

La critica al punto di vista introspezionistico, e più in generale la critica al «coscienzialismo» libera il terreno da una facile retorica e ci consente, d'altra parte, di parlare della vita interiore senza presupposti filosofici troppo forti.

Ma la frase «quando si vede il comportamento di un essere vivente si vede la sua anima» (oss. 357) ci consente di affermare che l'espressività va considerata come una situazione primitiva. Quindi il gesto (come movimento-espressione) precede il puro movimento. Non vi è movimento che diventa gesto, ma eventualmente gesto che si impoverisce sino al movimento. Se così non fosse ogni situazione di apprendimento rappresenterebbe per noi un enigma insolubile. I movimenti che noi effettuiamo nell'insegnamento ostensivo debbono essere anzitutto appresi come gesti. E come gesti rinviano oltre se stessi, istituiscono rapporti e connessioni significative.

Un ordine può essere trasmesso mediante gesti (oss. 433), ed io comincio a comprenderlo cogliendo la portata gestuale del movimento di alzare un braccio. Sarebbe una cattiva descrizione fenomenologica (si sarebbe tentati di dire) della situazione affermare che prima viene colto il movimento come neutro rispetto ad un significato possibile e poi all'improvviso il movimento si anima «gestualmente».

In questo senso vi sono manifestazioni di vita spirituale. E quando abbiamo cominciato a vederle, le vediamo dappertutto. Ad esempio, avvertiamo la presenza di un'attività spirituale nell'attività di misurare un tavolo con un metro. Come può questa cosa, il metro, effettuare la misurazione? Esso è una cosa morta. Come fa questo pezzo di legno a diventare un metro? In sé e per sé esso non può diventarlo. Il metro «non riesce a far nulla di ciò che fa il pensiero» (oss. 430).

Il linguaggio stesso fornisce un esempio eccellente: «Ogni segno, da solo, sembra morto. Che cosa gli dà vita? Nell'uso, esso vive. Ha in sé l'alito vitale? O l'uso è il suo respiro? ' (oss. 432).

Qualcosa 'vive» solo nel contesto dei giochi linguistici, ed in essi le cose non valgono mai per se stesse, ma rinviano ad altro entrando a far parte di complessi di senso.

Prendiamo l'esempio della freccia «® » :« Non sembra che, oltre se stessa, porti in sé qualcosa? - No, non il morto segno; solo lo psichico, il significato può farlo» (oss. 454).

La freccia in se stessa può indicare tanto poco quanto il metro può misurare. Se indica, allora in essa gli è stata per così dire «soffiata la vita». Ma che cosa significa ciò? Forse l'uomo ha la possibilità di compiere stregonerie? In realtà l'uso dell'immagine non ci obbliga a creare miti. Ciò che si vuol mettere in rilievo è che «la freccia indica soltanto nell'applicazione che l'essere vivente ne fa» (oss. 454).

Il passaggio dalla freccia come cosa morta alla freccia come segno di rinvio è dovuto ad una modificazione dell'intendere. In questa modificazione la cosa è cambiata. Se si chiedesse come ciò divenga possibile, dovremmo interrogarci sulla struttura degli «atti di coscienza» - dovremo entrare nel regno vero e proprio di una fenomenologia dell'esperienza. Né «atto di coscienza» né «fenomenologia dell'esperienza» sono espressioni che si trovano in Wittgenstein. Nella sua indagine tuttavia il problema è chiaramente posto e di esso vi è anche qualche sviluppo significativo, anche se non interamente dispiegato. Ed è in ogni caso molto interessante richiamare l'attenzione su questi cenni, proprio per la particolarità del filo conduttore e del modo di approccio.

3. Il vuoto e il pieno

Nelle oss. 437-465 il problema che viene colto e posto al centro della riflessione è la caratteristica di insaturazione degli atti di coscienza. Questa caratteristica richiama l'immagine del vuoto e del pieno, ad esempio di un cilindro vuoto e di un cilindro pieno che è in grado di riempirlo: quindi di qualcosa di non adempiuto e che è destinato ad adempiersi, di qualcosa di soddisfatto e che deve soddisfarsi.

Prendiamo il caso del desiderio. La cosa desiderata è fuori dal desiderio nella misura in cui il desiderio non è ancora realizzato; ed è all'interno di esso in quanto si tratta dell'oggetto del desiderio in quanto tale.

Wittgenstein ribadisce in vari modi che questa dinamica vuoto-pieno fa parte della struttura degli atti e non è una sorta di connotazione psicologica che ci avverte, quasi come una sensazione o un sentimento di insoddisfazione, che l'atto è inconcluso. Un conto è dire che se mangio una mela soddisfo la fame e un altro è dire che mangiando la mela si calma il senso di insoddisfazione che eventualmente accompagna la fame (oss. 440).

Considerazioni analoghe si possono svolgere per l'attesa. L'attesa è insoddisfatta non perché io abbia un sentimento di insoddisfazione durante l'attesa, ma perché ciò che è atteso non si è ancora realizzato. L'oggetto dell'attesa è dunque fuori e dentro di essa. (oss. 438).

Il rapporto con la realizzazione può generare qualche difficoltà interpretativa.

Non è difficile immaginare una situazione in cui ci si aspetta una detonazione ed al suo realizzarsi commentiamo: «La detonazione non è stata così forte come me la ero aspettata» (oss. 442). Si potrebbe allora pensare che nell'attesa ci sia una vera e propria prefigurazione della detonazione: come se la detonazione fosse pensata come già avvenuta, come una «ombra» che prende corpo nella detonazione reale (sono ancora i modi di pensare di origine empiristica che qui vengono presi di mira). Se le cose stessero così avrebbe senso osservare: «Dunque nella tua aspettazione la detonazione è stata più forte» - mentre una simile osservazione non avrebbe senso. Nell'attesa di una detonazione non c'è nessuna detonazione, nemmeno una prefigurazine di essa, una sua debole «idea». Attendere la venuta di un amico è qualcosa di diverso dal prefigurarsi questa venuta, e potremmo attendere un amico senza per questo immaginarci alcunché su che cosa potrebbe accadere nell'incontro.

Naturalmente posso anche dire, dopo la detonazione, che essa non è stata così forte come mi sarei aspettato, ma ciò può essere spiegato senza ricorrere alla rappresentazione mentale di una detonazione di una determinata intensità incorporata nell'attesa. Nell'attesa sono attivi sensi di contesto, che eventualmente rimandano ad esperienze precedenti oppure alla configurazione attuale della situazione, e sono questi sensi che sono in grado di rendere conto di quel tipo di reazione.

È interessante notare che problemi paralleli possono sorgere in rapporto alle proposizioni. Se dico «Sulla terrazza vi è un ibisco fiorito» possiamo considerare questa proposizione come una sorta di rispecchiamento linguistico di uno stato di cose. Ma possiamo anche considerare quella proposizione anzitutto come una «unità di significato» che può essere riempita dalla percezione corrispondente dell'ibisco fiorito sulla terrazza. L'atto percettivo è qui il cilindro pieno che riempie il cilindro vuoto rappresentato dalla proposizione considerata nel suo senso. Questo è anche il problema da cui prende le mosse Husserl a partire dalle Ricerche logiche. La proposizione è «intenzione significante» - la percezione corrispondente il suo riempimento.

Tutta una serie di interrogativi sorgono poi in rapporto ai «riempimenti mancati» - un problema che si presenta in varie forme per i desideri e per le attese così come per gli ordini che possono essere eseguiti o non eseguiti ed ancora per le proposizioni che possono essere vere e false (oss. 448).

Su questi riempimenti mancati, o su conferme di assenze, ecc. Wittgenstein riprende la costruzione dei suoi magistrali paradossi.

«Se dico 'non ho alcun dolore al braccio' questo vuol dire che ho un'ombra della sensazione di dolore che accenna per così dire al posto in cui il dolore dovrebbe sopraggiungere?» (oss. 448).

L'ordine «comanda ciò che verrà eseguito più tardi»? Oppure dobbiamo dire che «l'ordine anticipa ciò che verrà eseguito o anche non eseguito più tardi»? (oss. 461).

E se cerco qualcosa, all'interno dell'atto della ricerca essa c'è; e se non la trovo? «Deve pur esserci, se la cerco» (oss. 462).

Non è ora il caso di seguire Wittgenstein in queste circonvoluzioni - lo è invece comprenderne il senso generale: «Ciò che mi propongo di insegnare è: passare da un nonsenso occulto ad un nonsenso palese» (oss. 464) - ovvero: mostrare il nonsenso là dove c'è. Così l'intendere l'anticipazione come un quasi-riempimento significa misconoscere il carattere dinamico dell'atto, e di qui possono avere origine nonsensi occulti che i nostri paradossi rendono palesi. Se l'oggetto del desiderio viene concepito come una quasi-cosa che sta dentro il desiderio, la tensione che caratterizza l'atto del desiderare viene del tutto meno. Desideri, ordini, direzioni, attese, proposizioni, ecc. debbono essere concepiti come direzioni - l'oggetto a cui si riferiscono sussiste in essi solo come poli di una direzione.

«E qui voglio proprio dire: l'aspettazione è insoddisfatta perché è l'aspettazione di qualche cosa; la credenza, l'opinione è insoddisfatta perché è l'opinione che qualche cosa accada, qualcosa di reale, qualcosa che è al di fuori del processo dell'opinare» (oss. 438)

«Sì, l'intendere (meinen) è come se ci si dirigesse verso qualcuno» (oss. 457).

Molti e molti anni prima delle Ricerche Filosofiche, ma anche molti e molti anni prima del Tractatus, Husserl con la sua idea di oggetto intenzionale e di intenzionalità aveva sostenuto, esattamente la stessa idea, portandola ad un'imponente elaborazione. Ciò che in ogni caso piace in questo nuovo approccio è la sua immediatezza, la sua capacità di proporsi con un'esemplificazione incisiva ed efficace, la sua apparente mancanza di riferimenti alla tradizione filosofica - cosa che talvolta non è solo un difetto, ma anche un pregio.

VI. Il linguaggio ed i linguaggi

(Ric. Fil., oss. 487-535)

1. Lo scopo del linguaggio

Un tema ricorrente nelle Ricerche Filosofiche è che le parole sono strumenti o possono essere considerati come tali. Ciò naturalmente ha anche a che fare con la tematica dell'«uso» nella teoria del significato. La stessa cosa può essere detta per il linguaggio nel suo insieme. Anch'esso è uno strumento. Ma non è anche il caso che si esiga una risposta abbastanza chiara alla domanda: uno strumento per che cosa?

La risposta più naturale sembra essere: uno strumento per comunicare fra noi. Che la comunicazione sia la funzione essenziale da attribuire al linguaggio, oltre che ovvio, sembra essere in accordo con il punto di vista dei giochi linguistici. Ma vi è forse una risposta che sembra ancora più aderente a quel punto di vista: il linguaggio è un mezzo per influenzare gli altri, per agire con loro e su di loro. In modo un po' brutale, ma molto efficace: «Senza il linguaggio non possiamo costruire strade e macchine, ecc.». (oss. 491). Sembra che Wittgenstein pensi che in certo senso solo subordinatamente a ciò si parli poi del linguaggio come mezzo di comunicazione tra gli uomini.

Di ciò vi è qualche buona ragione che ci riporta all'orientamento filosofico generale delle Ricerche. Ovunque in quest'opera si cerca una filosofia «concreta» del linguaggio, ed il parlare semplicemente di comunicazione ci riporta forse ad una concezione del linguaggio secondo la quale esso rappresenta anzitutto una pura «esteriorizzazione di pensieri» considerata come una comunicazione possibile. In realtà un'esteriorizzazione di pensieri diventa una comunicazione effettiva forse solo quando viene calata in un contesto in cui si vuol provocare, attraverso di essa un'azione, si vuole esercitare una influenza.

In questo senso si dice una volta (oss. 304) che occorre rompere in modo radicale con l'idea che il linguaggio funzioni sempre in un unico modo, che esso serva sempre allo stesso scopo, e cioè a trasmettere pensieri, siano questi intorno a cose, a colori, al bene o al male o a qualunque altra cosa. La critica della concezione secondo cui «Scopo del linguaggio è esprimere pensieri» è del tutto esplicita nella oss. 501. Ad essa potremmo contrapporre: «Scopo del linguaggio è costruire ponti». E se questo riferimento al costruire ponti ci sembra troppo «pratico», siamo liberi di arricchire a piacere in altra direzione i nostri esempi. Quando dico di provare dolore, non vogliamo mai fare soltanto una comunicazione, ma orientare l'altro ad assumere un determinato comportamento verso di me.

2.Pluralità dei linguaggi e linguaggio ordinario

Ma qui è sottinteso un altro problema di notevole importanza per una comprensione della filosofia complessiva delle Ricerche. Stiamo parlando del linguaggio al singolare. Parliamo del linguaggio Ma abbiamo veramente il diritto di esprimerci in questo modo? Forse vi è un solo linguaggio? Oppure impiegando il singolare si ricade nell'idea di un concetto di linguaggio nel senso di ciò che tutti i linguaggi hanno in comune?

Sappiamo già che le cose stanno diversamente. Ma è bene tornare a riflettere su questo punto. In fin dei conti il punto di vista dei giochi linguistici dovrebbe spingerci in direzione di una concezione accentuatamente «plurale», e magari suggerirci che l'espressione singolare - il linguaggio - non dovrebbe essere presa molto sul serio.

Eppure, se andiamo a rileggerci l'oss. 7 nella quale veniva introdotta la nozione di gioco linguistico, troviamo la parola linguaggio usata proprio al singolare. «Inoltre chiamerò gioco linguistico anche tutto l'insieme costituito dal linguaggio e dalle attività in cui è intessuto».

Nell'oss. 494 si spiega: «Voglio dire: ciò che chiamiamo 'linguaggio' è, innanzitutto, l'apparato del nostro linguaggio ordinario, del nostro linguaggio parlato; e poi altre cose, secondo la loro analogia o la loro confrontabilità con esso».

Questo riferimento al linguaggio (al singolare) ed al tempo stesso al linguaggio «ordinario» - è stato frainteso. Perciò è opportuno indugiare un poco su questo punto.

Di fronte a noi ci sono una molteplicità di linguaggi (lingue) - l'italiano, il francese, l'inglese ed anche le lingue della scienza, il linguaggio della fisica, della biologia, ecc. Per quanto riguarda l'istituzione della nozione di linguaggio, dobbiamo attribuire una sorta di priorità al linguaggio ordinario - poiché in esso stiamo anzitutto installati. Questo linguaggio fa parte della nostra esperienza del mondo.

Ma questa precisazione rende forse ancora più urgente la domanda: di che linguaggio si tratta? Risponderei: proprio questo, quello in cui ora sto parlando. Dunque si tratta della lingua italiana? Evidentemente no! Il linguaggio ordinario non è per l'italiano la lingua italiana, per l'inglese la lingua inglese e così via: anche se naturalmente passa attraverso tutte queste lingue ed ognuna di esse può pretendere di rappresentarlo. Il punto essenziale è che il linguaggio che chiamiamo «ordinario» non deve essere concepito come uno tra i molti linguaggi, ma è ciò che chiamiamo anzitutto, appunto al singolare, il linguaggio. Ad esso attingiamo l'idea stessa di linguaggio. Poi potremo chiamare linguaggio anche altre cose «secondo la loro analogia o la loro confrontabilità con esso»: «Il gallo chiama le galline con il suo canto» (oss. 493).

La formulazione dell'oss. 494 che abbiamo citato poco fa, rammenta da vicino - proprio per quanto riguarda l'importante inciso: «e poi altre cose, secondo la loro analogia o la loro confrontabilità con esso» - altre formulazioni come le seguenti:

«Il risultato è che soltanto dell'uomo vivente, e di ciò che gli somiglia, si può dire che abbia sensazioni» (oss. 281).

«Solo dell'uomo, e di ciò che è ad esso simile, diciamo che pensa» (oss. 360).

Questa somiglianza di formulazione non solo non è casuale, ma esprime un preciso raccordo problematico. Potremmo anzi parafrasare l'oss. 360 - «Solo dell'uomo, e di ciò che è ad esso simile, diciamo che pensa» - in questo modo: «solo dell'uomo, e di ciò che è ad esso simile, diciamo che parla». Se aggiungiamo: ed il linguaggio che parla è quello ordinario, si comprende subito che forse questa è una precisazione di troppo. L'uomo anzitutto parla - ed a questo parlare è legato il linguaggio. A partire di qui la nozione potrà diventare plurale a piacere, vi saranno le lingue naturali, i linguaggi più o meno artificiali e quelli immaginari, e tra essi non troveremo il linguaggio ordinario.

Quanto al parlare possiamo considerarlo da un duplice punto di vista: o come un comportamento - emettere suoni - da cui conseguono altri comportamenti, oppure come emissioni sonore che generano certe reazioni in quanto hanno un senso e questo senso viene compreso.

Questo problema è in realtà già presente fin dalle prime battute delle Ricerche Filosofiche. Comprendere una proposizione nel suo senso non è la stessa cosa che reagire ad essa, anche se da un punto di vista esterno non possiamo far altro che registrare che ad una certa emissione fonica è seguita una certa reazione comportamentale.

Nel bel mezzo di una conversazione, io potrei rivolgermi a qualcuno dicendo una combinazione insensata di parole, e potrei far questo per provocare stupore nel mio interlocutore, per far sì che egli mi fissi con la bocca spalancata. Qui l'aver senso e il comprendere sono chiaramente distinti dal «produrre un effetto». «Se l'effetto è che l'altro mi fissa con la bocca spalancata, io non dirò per questo che quella frase è un ordine di fissarmi, ecc., anche se avessi voluto produrre proprio questo effetto» (oss. 498).

Ciò naturalmente chiarisce anche che, quando parlavamo dello scopo del linguaggio come un «produrre effetti» non intendevamo eliminare il problema del senso, il problema dell'«anima delle parole» (oss. 503-510).

Quanto alla distinzione tra senso e nonsenso essa deve ricevere la forma più libera possibile. Affermare che una certa combinazione di parole è priva di senso significa che essa è fuori dalla circolazione (oss. 500): si tratta di una «combinazione esclusa dal dominio del linguaggio». Queste esclusioni siamo noi stessi a farle e quindi siamo noi stessi che delimitiamo i limiti del linguaggio (oss. 499).

Dentro questa concezione aperta si comprende come ogni estensione sia possibile. L'espressione «linguaggio» non deve essere necessariamente riservata alle parole. Oltre il linguaggio delle parole vi può essere il linguaggio delle rappresentazioni (oss. 512). Nel Tractatus per l'idea di un simbolismo logicamente adeguato, in realtà Wittgenstein avevo preso come modello la rappresentazione mediante figure - mentre ora, rammentando quelle posizioni egli contesta che vi sia nella rappresentazione figurale un qualche privilegio sotto il profilo logico. Certo, nel linguaggio delle parole è possibile formulare contraddizioni come «Pietro è a sinistra ed a destra di Paolo» - mentre non posso disegnare uno stato di cose corrispondente a questa frase. Ma potrebbe non essere difficile trovare esempi analoghi anche nel campo dei disegni, come raffigurazioni di corpi impossibili da realizzare (oss. 512). Di linguaggio, di senso e di nonsenso si può dunque parlare anche in rapporto a cose che non sono affatto parole. Ci troviamo di fronte ad una estensione nell'uso del termine e della problematica corrispondente.

Quando parliamo di «linguaggio pittorico» non diciamo semplicemente: esistono molti linguaggi, e fra essi vi è il linguaggio pittorico. E tanto meno ipotizziamo una superteoria del segno al quale subordinare l'universo intero. Ma cominciamo ad avviare un confronto e sulla sua base a dar senso alla possibilità di estendere la parola linguaggio anche alla pittura. Non vi è un concetto generale di linguaggio rispetto al quale tutte le cose che chiamiamo linguaggi siano specie rispetto al genere.

Possiamo così paragonare una proposizione ad una raffigurazione, e servirci di questo paragone per estendere le nostre riflessioni. Analogamente nel caso della musica. Parlando di linguaggio musicale cominciamo ad operare confronti che mettono a loro volta in moto le nostre riflessioni in direzioni che proprio da quei confronti sono suggerite. Naturalmente in questo modo potremo anche imboccare vicoli ciechi, porci domande falsamente impostate - ma la riflessione critica serve appunto ad evitare questi rischi; ed a orientarci in quelle direzioni in cui invece quei suggerimenti possono essere produttivi.

Come nel caso di un dipinto potremmo dire che il suo senso mi è mostrato dalla sua struttura cromatica e figurale, così per il senso di un tema musicale: anch'esso si mostra all'udito nella struttura, nel modo in cui i suoni sono configurati in essa (oss. 523). Anche in questo caso, come in quello delle proposizioni, si potrà distinguere tra senso e non senso, oppure parlare di un comprendere o di un fraintendere.

In effetti, chiamando in causa musica e pittura, diamo anche alcuni chiarimenti sulla tematica del comprendere. Comprendere una proposizione potrebbe voler dire saperla sostituire con un'altra che dice la stessa cosa. «Ora dillo con parole tue» - per vedere se l'altro ha veramente compreso o ripete la cosa macchinalmente. Se tuttavia consideriamo il linguaggio poetico vale l'opposto: comprendere in questo caso significa afferrare la necessità interna di una proposizione in quel determinato luogo, quindi comprendere che essa non può essere sostituita da nessun'altra. Certo, è possibile proporre una parafrasi di una poesia, ma con ciò viene chiarito solo il suo significato concettuale: il suo significato poetico non può essere parafrasato (oss. 531).

Il riferimento agli altri linguaggi può insegnarci persino qualcosa in rapporto al linguaggio delle parole.

«il comprendere una proposizione del linguaggio è molto più affine al comprendere un tema musicale di quanto forse non si creda» (oss. 527).

Per chi «comprende» un tema musicale è molto difficile immaginarsi in quale situazioni si trovi chi, udendo un tema musicale, non lo comprende. Inversamente, chi non comprende non riesce a farsi un'idea di che cosa dovrebbe comprendere - dal momento che comunque ode quello che ode. Supponiamo allora di porci il problema di insegnare ad ascoltare - dunque di insegnare a comprendere che ciò che stiamo udendo è un «tema», una «linea melodica». Dobbiamo in qualche modo rendere avvertibile quella «curva» eventualmente in uno dei suoi possibili travestimenti. Durante l'ascolto faremo forse dei gesti, richiameremo l'attenzione su un passaggio -«vedi che cosa accade ora» Eventualmente faremo sentire più volte quel motivo, oppure lo rifaremo al pianoforte semplificandolo, mettendone a nudo l'impalcatura. In tutto ciò ci serviremo di imitazioni gestuali, di parole, di immagini, di paragoni. Molto spesso ricorreremo certamente a termini che caratterizzano elementi del linguaggio, ad esempio frase o periodo; anche la punteggiatura potrebbe avere la sua importanza. «Qui è come se venisse aperta una parentesi ed ora - lo senti? - la parentesi è stata chiusa» (oss. 527). In breve: ci serviremo di materiali svariati, di svariati mezzi.

In questo modo, nello stesso tempo ovvio e complicato, cercheremo di trasmettere il senso, di «spiegarlo». Spiegare il senso non è qualcosa come una «analisi». Spieghiamo il senso nella misura in cui conduciamo qualcuno ad afferrarlo.

«Chiediti: in qual modo si conduce qualcuno alla comprensione di una poesia o di un tema? La risposta a questa domanda ti dice in qualche modo qui si spiega il senso». (oss. 533).

In tutto ciò risuona certamente ancora la antica distinzione tra dire e mostrare. L'esempio della musica è istruttivo anche da questo punto di vista, perché se qui non posso «dire» il senso, posso tuttavia mostrarlo.

Seguendo alcune regole possiamo scrivere successioni di accordi tali che essi si sviluppano secondo una logica interna che conduce ad una conclusione. Qui si parla di conclusione in senso percettivo: l'ultimo accordo risuona come ultimo - oltre di me non c'è bisogno di altro. Tuttavia non è affatto detto che chiunque, udendo una simile successione percepisca l'effetto di conclusione. Si tratta allora di insegnargli a percepirlo (oss. 535). Ma si può forse insegnare qualcuno a percepire qualcosa? Si può. Per far questo tuttavia non si tratterà di «verbalizzare» ovvero di «tradurre in parole» la percezione della conclusione: le parole possono avere una parte, ma non quella di costituire una sorta di sostituto del dato percettivo. Insegneremo a percepire la conclusione, ad esempio, facendo udire varie sequenze costruite in questo modo, accanto a sequenze che non concludono, che rimangono in sospeso. Ciò facendo, si faranno eventualmente commenti ad alta voce di vario genere. Non si tratta dunque di convertire la percezione in parole: ma di condurre qualcuno ad afferrare il senso.

3. Contesti del senso

«Udire una parola in questo significato. Come è strano che esista una cosa del genere» (oss. 534). Ma una cosa del genere comunque esiste. La parola suona ora in modo differente. Ad esempio, viene chiamato il mio nome. A seconda del contesto potrà accadere che il nome sarà circondato da un'atmosfera interamente indifferente. Ed è importante anche come viene enunciato - se esso venga chiamato ad alta voce, ed in modo brutale, o semplicemente sussurrato. Ciò vale a maggior ragione per le proposizioni. In rapporto ad esse, è importante anche il modo di enunciarle: «Fraseggiata in questo modo, accentata in questo modo, udita in questo modo, la proposizione è l'inizio di un passaggio a queste proposizioni, a queste immagini, a queste azioni» (oss. 534).

Tutto ciò non fa letteralmente parte del suo significato, così come esso ci è comunicato dalle parole di cui essa è fatta. E tuttavia la problematica della senso deve essere dilatata anche in questa direzione.

Nella oss. 525 ci cita una frase che sembra tratta a caso da un racconto. «Dopo che le ebbe detto questo, la lasciò come aveva fatto il giorno prima». Ma il racconto non c'è. Posso allora dire di aver compreso il senso di questa proposizione? In parte certamente sì. Ma si completa questo senso se conoscessi il contesto in cui essa è stata pronunciata. Ed essa potrebbe certo assumere una inclinazione differente. Nel contesto di un racconto, essa potrebbe rivelarsi come «carica di significati» inattesi e forse anche particolarmente «importanti» proprio in rapporto al suo senso.

Ciò che va subito notato è che una simile problematica può ritrovarsi anche in un ambito più vasto dei fenomeni linguistici in senso stretto. Ad esempio, potremmo dire di una risata che essa è carica di significati, e persino, secondo il contesto, di significati ben determinati (oss. 543). Qui siamo fuori dall'ambito del linguaggio delle parole ma restiamo all'interno di una problematica dell'espressione. Quest'ultimo termine potrebbe essere illustrato facendo riferimento a cose che non hanno affatto a che fare con il linguaggio - ad esempio potremmo parlare dell'espressione di un volto o dell'espressività di un gesto.

Proprio l'esempio dell'espressione di un volto svolge una parte importante nello sviluppo di questo tema (oss. 536-537 e 539). Che cosa intendiamo dire quando diciamo: «In questo volto leggo la pusillanimità?». Si tratta di una sorta di giustapposizione interpretativa, di proiezione che si aggiunge dall'esterno sui lineamenti del volto che in sé non possono esprimere né il coraggio né la vigliaccheria?

Potremmo formulare la questione nei termini di una singolare alternativa: sono io stesso responsabile della tonalità emotiva del volto che vedo, cosicché lo stesso volto potrà apparirmi espressivo ora nel senso della vigliaccheria ora nel senso del coraggio, secondo un modo di guardarlo che posso orientare a mio piacimento; oppure vi sono effettivamente in questo volto dei tratti che sono essi stessi espressivi in questa o quella direzione? La prima tesi ci sembra troppo semplice e ingenua; e la seconda genera giustificate perplessità.

Wittgenstein, muovendosi intelligentemente tra questi due poli, rifiuta anzitutto la spiegazione di un'associazione estrinseca: « in ogni caso la pusillanimità non mi sembra semplicemente associata al volto, legata ad esso dall'esterno; ma il timore vive sui tratti del volto» (oss. 537). Dunque non siamo affatto liberi di imporre una variazione a piacere dell'espressione del volto. E tuttavia possiamo realmente sostenere che il timore sia stampato sulla faccia di quest'uomo come una impronta indelebile? A modo di prova, potremmo far valere la prima tesi e tentare di guardare questo volto in modo tale da fare apparire o trasparire qualcosa come il coraggio. La questione del resto si gioca in generale su situazioni in cui interviene appunto una variazione nell'espressione, eventualmente un suo rovesciamento di direzione. (oss. 536, 537, 539).

Intanto va chiarito che non bisogna confondere il coraggio con l'espressione di coraggio. Evidentemente effettuare una variazione espressiva non significa immaginare che «un tale con questa faccia possa, per esempio, salvare la vita di un uomo (naturalmente una cosa del genere si può immaginare di ogni volto)» (oss. 536). - L'espressione che viene colta nei tratti del volto non è il risultato di un pensiero che si aggiunga alla percezione del volto stesso e nemmeno è riducibile a dati di fatto o giustificabile attraverso dati di fatto Noi percepiamo la pusallinimità in questo volto, e in ciò nulla cambia se siamo perfettamente informati delle sue azioni coraggiose.

La stesso volto, lo stesso gesto può comunque subire una improvvisa variazione di senso. In che modo ciò possa avvenire è in realtà già stato suggerito dalla variazione del contesto, come nel caso della frase estratta a caso da un racconto ignoto. In un dipinto incompleto un volto sorride - e quel sorriso appare subito diverso che si immagina che quel volta «sorrida ad un gioco di bimbi oppure alle sofferenze di un nemico» (oss. 537). Oppure cogliamo nel volto che ci era apparso fin qui come timoroso, un'inclinazione che ce lo fa apparire come se in esso trasparisse una sorta di «indifferenza di fronte al mondo esterno». Avviene così una modificazione di «atmosfera», come accade quando, in teatro, lo stesso scenario viene illuminato con una luce di un diverso colore.

Il richiamo ai contesti ed alla variazione dei contesti istituisce un punto di raccordo con l'intera teoria del significato di Wittgenstein. E gli esempi si illustrano l'un l'altro:

«La diversa interpretazione dell'espressione di un volto può paragonarsi alla diversa interpretazione di un accordo musicale, quando sentiamo l'accordo come una modulazione ora in questa tonalità, ora in quest'altra» (oss. 536).

4. Il linguaggio e il metodo della filosofia

Che il riferimento al linguaggio rappresenti nella concezione di Wittgenstein un riferimento che circoscrive il metodo vero e proprio della filosofia è una tesi che non ci soddisfa - abbiamo già richiamato l'attenzione su questo punto. Questo metodo consisterebbe nel mettere alla prova i problemi filosofici attraverso un'analisi degli usi ordinari delle parole. Si tratta di una formulazione che sembra ad un primo sguardo del tutto corretta, eppure io penso che vi siano molte ragioni per respingere questa caratterizzazione come capace di cogliere il centro effettivo della problematica proposta. Una concezione che subordini il riferimento al linguaggio in Wittgenstein come un riferimento al linguaggio ordinario che dovrebbe assolvere in quanto tale una funzione di metodologia analitica può essere fraintesa e rivelarsi in realtà troppo riduttiva. Ovviamente si coglie certamente qui un aspetto del problema. Ci possono citare affermazioni molto chiare di Wittgenstein che lo confermano. L'idea che i problemi filosofici sorgano da fraintendimenti relativi all'uso del linguaggio, formulata nel Tractatus è ancora ben presente nelle Ricerche filosofiche. Tuttavia ora non si tratta di dipanare le equivocità del linguaggio ordinario attraverso il modello di un linguaggio logicamente in ordine. Si tratta piuttosto del fatto che nella filosofia usiamo espressioni tratte dal discorso corrente, ma in certo senso effettuando su di esse una sorta di svisamento estraendole dalle circostanze correnti del loro impiego. Da questa operazione sorgono appunto strani problemi. Ed allora compito della ricerca consisterà proprio «nel riportare le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano» (oss. 116). In linea generale si può dire che una simile metodologia venga messa in opera ogni volta che Wittgenstein indugia nell'illustrare la «grammatica filosofica» di una parola - comprendere, pensare, io, credenza, ecc. L'immagine secondo cui «quando filosofiamo siamo come selvaggi, come uomini primitivi che ascoltano il modo di esprimersi di uomini civilizzati, lo fraintendono e traggono le più strane conseguenze dalla loro erronea interpretazione» (oss. 194) compendia efficacemente questo aspetto del problema. Potremmo pensare che quando filosofiamo ci eleviamo rispetto alla vita di ogni giorno: mentre le cose stanno proprio all'opposto. Gli uomini civilizzati sono proprio gli uomini della strada rispetto al quale il filosofo appare come un primitivo. Egli deforma l'impiego delle espressioni sottraendole alle loro circostanze e inserendole in contesti che sono ad essi estranei. La stessa parola che nel discorso corrente è simile ad una ruota dentata che esplica una funzione ben determinata nel meccanismo complessivo, nel dibattito filosofico è invece una ruota dentata che non è collegata con nessun'altra ruota - gira a vuoto. Sembra che faccia qualcosa, ed invece non fa nulla.

«Le confusioni di cui ci occupiamo sorgono per così dire quando il linguaggio gira a vuoto, non quando è all'opera» (oss. 132).

«Quando i filosofi usano una parola - 'sapere», «essere», «oggetto», «io», «proposizione», «nome» - e tentano di cogliere l'essenza delle cosa ci si deve sempre chiedere: questa parola viene mai effettivamente usata così nel linguaggio, nel quale ha la sua patria?' (oss. 116). Ed il linguaggio di cui qui si parla è naturalmente «il linguaggio di tutti i giorni» (oss. 120).

Si tratta di dichiarazione molto esplicite - ad esse se ne possono aggiungere numerose altre. Ma il modo di intenderle ed anche di praticarle può essere assai diverso ed una formulazione del metodo troppo elementare come è quella che abbiamo proposto in precedenza aprirerebbe la porta a obiezioni giustificate. Resterebbe ad esempio da spiegare perché il linguaggio ordinario debba avere sempre ragione. Per quale motivo al filosofo, e proprio in una concezione tanto aperta, dovrebbe essere precluso di avvalersi di una terminologia propria, fatta talora di neologismi, talaltra di parole tratte dal discorso corrente, ma in accezioni differenti? Perché ne dovrebbero risultare comunque usi falsi, e quindi strani problemi? Questo punto sembra possa essere giustificato solo sulla base dell'assunzione di principio che la filosofia (a parte la nostra) sia una sorta di malattia, di condizione anomala che si innesti come una escrescenza su quella condizione di normalità che sarebbe rappresentata dal senso comune. Seguendo questa via è toccato al pensiero di Wittgenstein l'immeritato destino di essere integrata in quella filosofia del senso comune che ha una sua tradizione nei paesi anglosassoni. In realtà a noi sembra più aderente allo spirito della ricerca di Wittgenstein ed in ogni caso più ricco di interesse un accostamento ad una posizione fenomenologica. Il rimando ai contesti correnti delle parole in un discorso fenomenologicamente orientato appare giustificato non già da qualche privilegio filosofico attribuito in linea di principio al linguaggio quotidiano come tramite del senso comune, ma dall'assunzione che in esso si possa rivelare - attraverso il filtro della riflessione filosofica - il rapporto di esperienza che noi intratteniamo con il mondo. Cosicché negli impieghi correnti può manifestarsi una sorta di concettualizzazione primitiva che ha le sue radici in operazioni, distinzioni, confronti effettuati sul piano stesso dell'esperienza. L'accento può cadere sul lato linguistico per poi scivolare su quello del dato di esperienza. Ed il chiarimento si realizza in una ricerca volta ad individuare il contenuto concettuale mettendo in evidenza le sue condizioni di applicabilità. È difficile trovare in Wittgenstein formulazioni così nettamente orientate in questa direzione; e sul lato fenomenologico non vi è certamente quel sospetto contro il linguaggio dei filosofi che affiora di continuo in Wittgenstein. Ma non vi è dubbio che in molti casi si tratta di posizioni che appaiono particolarmente vicine.

I nostri commenti mostrano quanto sia vasto ed animato il quadro del «metodo» in Wittgenstein. A cominciare dal metodo degli esempi ed alla sottolineatura che in esso non si tratta di un «metodo indiretto di spiegazione»; oppure pensiamo all'invenzione di brevi storie; ai numerosi modi messi in campo per rendere palesi nonsensi occulti; all'impiego del paradosso; alle procedure di «rimpicciolimento», che riportano un problema maiuscolo alle sue proporzioni più minuscole. Ed in questo ambito metodico dovremmo certo annoverare anche i rimandi così consistenti alle situazioni dell'apprendimento, ad una pedagogia immaginaria, ed anche ad un'antropologia immaginaria: alla libera invenzione di usanze possibili, dove la fantasticheria proposta fa parte integrante dell'argomentazione critica che si intende di volta in volta sviluppare.

Un discorso sul metodo in Wittgenstein esibirebbe dunque una notevole varietà di procedure - cosicché al suo centro noi metteremmo la frase:

«Non c'è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire differenti terapie» (oss. 133).

Naturalmente, un aspetto metodico è inerente anche alla nozione di gioco linguistico, che è il punto di riferimento per le tesi filosofico generali che Wittgenstein fa valere nelle Ricerche filosofiche. Se volgiamo l'attenzione in questa direzione il travisamento implicito nella tesi precedentemente proposta appare con chiarezza anche maggiore. La nozione di gioco linguistico non coincide in alcun modo con quella di linguaggio ordinario. Si tratta invece di una nozione che serve a proporre «un'immagine per la natura del linguaggio» - del linguaggio senza aggettivi. A partire da questa nozione si suggerisce senz'altro una pluralità indefinita di linguaggi possibili. Nello stesso tempo dentro questa prospettiva possiamo ancora parlare del linguaggio al singolare, e forse persino del Linguaggio con la maiuscola, e ad esso ci possiamo riferire ancora come Linguaggio Ordinario. Ma in ciò non è contenuto nessun appello al senso comune. È contenuta invece l'idea semplice secondo cui gli uomini parlano, e il linguaggio in cui parlano rappresenta la base costitutiva della nozione di linguaggio.

Pluralità dei linguaggi e impiego del linguaggio al singolare non sono affatto in contraddizione. In rapporto a questo problema occorre anche sottolineare che l'adozione del punto di vista dei giochi linguistici non suggerisce in alcun modo una contrapposizione tra linguaggio ordinario e linguaggi scientifici nel senso per cui il primo sarebbe il concreto di fronte all'astratto, il vivo rispetto al morto. Certamente Wittgenstein in certo senso difende la «perfezione» del linguaggio di tutti i giorni; più volte ribadisce che il nostro compito non è quello di riformare il linguaggio (oss. 132). Polemicamente egli si chiede una volta: «Questo linguaggio è troppo grossolano, materiale, per quello che vogliamo dire? E allora come si fa a costruirne un altro?» (oss. 120). Ma la critica non riguarda affatto l'invenzione di simbolismi specializzati per particolari discipline scientifiche: si sostiene invece che questi miglioramenti debbono aver le loro precise motivazioni, i loro scopi ben determinati, e non a loro volta essere proposti unicamente sulla base di una presunta imperfezione logica di principio del linguaggio ordinario. Si dice una volta: «Una siffatta riforma volta a determinati scopi pratici, come il miglioramento della nostra terminologia al fine di evitare fraintendimenti nell'uso pratico è pienamente possibile» (oss. 132). Questi «usi pratici» non vanno intesi in un senso banalmente pragmatico. Si può ben trattare della prassi conoscitiva rivolta ad una determinata regione della scienza. In questo caso è necessario che i concetti siano rigorosamente determinati ed è anche giusto che il nostro linguaggio ci appaia realmente troppo «grossolano». Ciò è fuori discussione. Affermare la mobilità dei concetti non vuol dire escludere la possibilità ed anzi la necessità di una loro rigorosa determinazione. Questa rigorosa determinazione apre comunque un nuovo gioco linguistico e dovrà essere a sua volta intesa come una determinazione che riguarda il nostro modo di tracciare i confini per particolari scopi, e non una scoperta di confini che appartengono al concetto in sé e per sé. Dopo la rigorosa determinazione, il concetto può muoversi ancora. Questa condizione di mobilità fa tutt'uno con la possibilità del progresso della scienza, con la sua storicità interna.

Una volta Wittgenstein parla del linguaggio come di una vecchia città. Essa è cresciuta come è cresciuta, e così vi è un «dedalo di stradine e di piazze, di case vecchie e nuove, e di case con parti aggiunte in tempi diversi». Ma vi è anche, tutt'intorno, «una rete di nuovi sobborghi con strade diritte e regolari, e case uniformi» (oss. 18).

La «rete dei nuovi sobborghi» allude ai linguaggi della scienza. In essi è intervenuta un'attività organizzatrice e pianificatrice. Ciò a cui credo si debba dare il massimo rilievo è che si tratta di una unica città, e noi viviamo dappertutto in essa, e la possiamo percorrere in lungo e in largo, dal centro sino ai sobborghi più lontani. Questa nostra vecchia città ha una lunga storia, e si svilupperà ancora.

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