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Antropologia come frontiera




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ANTROPOLOGIA COME FRONTIERA


L'Antropologia è stata definita sotto diversi profili:

  • in base all'oggetto possiamo considerarla come STUDIO DELL'UOMO O SCIENZA DELLE SOCIETÀ PRIMITIVE;
  • in base ad alcuni elementi teorici caratterizzanti come SOCIOLOGIA PRIMITIVA,
  • dal punto di vista dell'orientamento intellettuale della disciplina stessa come SAPERE DELLA DIFFERENZA SOCIO-CULTURALE.

Fabietti invece ha voluto dare una definizione in base alla sua natura di sapere sociale e culturale cioè come forma di produzione del discorso tipica di un'epoca storica e di una circostanza culturale determinate. Egli considera l'antropologia sia come un sapere di frontiera che come un sapere nato su una frontiera.



L'antropologia è nata come riflessione sulle società incontrate dalle società moderne nel suo movimento di espansione. La sua caratteristica principale è quella di essere una critica implicita a qualunque pretesa di assolutizzazione degli elementi essenziali della cultura di cui essa stessa si è interessata.

Per capire meglio questa definizione è opportuno riferirsi a due pensieri filosofici quello di Descartes e quello di de Montaigne.

Secondo Descartes per trovare il punto fermo a cui ancorare la certezza dell'esistere, per trovare la verità bisogna essere liberi dai condizionamenti esterni e dai parametri che la cultura in cui si vive impone e cercare la verità stessa dentro se stessi, lontano dai pregiudizi; tutto ciò attraverso l'esercizio del dubbio metodico. Dubitare sempre delle apparenze ed esprimere giudizi sulla realtà che ci circonda usando solo il nostro Io.

De Montaigne sosteneva invece che i costumi, l'abitudine e l'esempio (cioè la cultura) hanno il potere di influenzare il nostro comportamento e modo di pensare e che proprio la diversità e molteplicità di essi porta ad affermare che "noi siamo ciò che essi ci fanno essere" e di conseguenza dovremmo essere cauti nel giudicare e nel trattare con chi ha costumi diversi dai nostri.

Sotto questi profili possiamo affermare che l'antropologia accetta si una critica dei costumi e delle verità trasmesseci dalla tradizione ma al tempo stesso sostiene che la verità non è qualcosa di raggiungibile al di fuori della propria cultura. Quindi per poter giungere a vedere il mondo con uno sguardo privo di pregiudizi e libero dalle catene imposteci dalla tradizione occorre estraniarsi dalle culture in cui si vive. (esilio culturale).

L'antropologia quindi è un sapere di frontiera in quanto nasce dall'incontro di due culture (quella dell'antropologo e quella del nativo) e un sapere nato su una frontiera in quanto nasce in una zona caratterizzata dal contatto tra molteplici forme di culture in una zona detta zona di contatto: zona caratterizzata dalla presenza di soggetti di diversa provenienza che vi agiscono e interagiscono influenzando l'ambiente circostante.

L'antropologia si distingue dalle altre scienze umane in quanto è caratterizzata da due elementi specifici e necessari per la sua definizione: l'esperienza e l'interpretazione.

L'esperienza è intesa come il contesto in cui l'antropologo svolge il suo operato, esperienza come campo in cui hanno luogo diverse situazioni caratterizzate da vari fattori quali il potere, le ideologie, le gerarchie, la solidarietà, la violenza ecc..ed in cui quindi si provano diverse sensazioni.

L'esperienza però ha valore solo con l'interpretazione cioè con la produzione di nuovi significati da parte dell'antropologo.


CAPITOLO I°

VIAGGIARE


  1. Il viaggio e il campo

Per viaggio si intende lo spostamento fisico nello spazio da parte del soggetto conoscente e questo viaggio è strettamente legato ad una osservazione diretta dell'oggetto di studio e quindi ad una comparazione.

Tale idea di comparazione intesa come strumento attraverso il quale era possibile uno studio delle somiglianze e delle differenze è stata introdotta nel XIX secolo da molti autori settecenteschi tra cui Rousseau il quale riteneva che solo attraverso un confronto tra i costumi degli uomini distribuiti sulla terra si può conoscere la vera natura dell'uomo.

La comparazione e il viaggio sono diventati quindi la base dell'antropologia moderna in quanto permettono agli antropologi di formulare sulla base di osservazioni empiriche idee generali sulla cultura e società umana.

Il viaggio antropologico però a differenza degli altri tipi di viaggi, comporta una sorta di pratica intellettuale detta ricerca sul campo.

Tale concezione è nata intorno agli anni '20 quando Malinowski tornando dalle isole Trobriand affermò che "il compito dell'antropologo è essenzialmente quello di cogliere il punto di vista del nativo, il suo rapporto con la vita e capire la sua visione del mondo" quindi in questo periodo e secondo questa prospettiva il viaggio e lo studio dell'alterità cioè la ricerca sul campo divennero la base della moderna pratica antropologica.

Diversi Antropologi si sono imbattuti in questa concezione e Barley e Rabinow nei loro scritti sono arrivati ad affermare se pur in modo differente che il campo è la pratica a cui ogni aspirante antropologo deve sottoporsi per essere considerato tale, è una specie di rito di passaggio al termine del quale si entra a far parte della pratica antropologica.


  1. ricerca sul campo ed etnografia

Il termine ricerca sul campo ed etnografia in linea generale vengono fatti coincidere ma ciò non è del tutto esatto in quanto tali espressioni presentano caratteri diversi e ricoprono ambiti operativi distinti.

Innanzitutto la ricerca sul campo è un ambiente interattivo più ampio rispetto a ciò che indica l'etnografia in quanto non si risolve solo con l'incontro col nativo e la raccolta di informazioni sulla società e sulla cultura ma implica anche una serie di spostamenti e di operazioni che l'antropologo compie quando viene a contatto con nuove culture.

Quindi la ricerca sul campo tende includere e influenzare l'etnografia in quanto ha un campo d'azione più ampio rispetto ad essa. Tuttavia i due termini sono strettamente collegati in quanto l'uno non esiste senza l'altro. Il lavoro etnografico che oggi gli antropologi compiono è altamente influenzato da fattori ed elementi che sono scaturiti dalla ricerca sul campo, elementi che un tempo non venivano considerati in quanto ritenuti inutili rispetto al tema della ricerca, elementi di carattere soggettivo che oggi in qualche modo rendono più esauriente il resoconto dell'antropologo. Esso stesso infatti si è trovato spesso in difficoltà nel non poter raccontare qualcosa che invece è stata esenziale per poter arrivare ad un teoria scientifica, per poter cioè rendere possibile l'etnografia.


  1. Antropologia ed etnografia

Secondo Clifford Geertz l'impresa antropologica consiste nel portare alla luce i significati impliciti delle enunciazioni di coloro che sono oggetto di studio dell'antropologo. Quindi il compito di quest'ultimo è quello di decodificare i segni e il significato di certi gesti effettuati all'interno di un contesto come ad esempio un rito o una particolare pratica e di riportare tale interpretazione in un altro contesto formato da coloro che leggeranno lo studio effettuato. Quindi avviene una specie di traduzione da un contesto ad un altro, da un codice ad un altro, da una cultura ad un'altra e questo lavoro di traduzione viene fatto contemporaneamente al lavoro di decodificazione perciò secondo questo profilo l'etnografia coincide con l'antropologia, per molto tempo infatti l'etnografia è stata considerata il primo gradino dello studio antropologico.

L'etnografia comunque è intesa in diversi modi.

Secondo il primo significato l'etnografia indica una sorta di ricerca sul campo come il termine stesso indica: ethnos = popolo, graphèin = scrivere cioè descrivere un gruppo, una cultura, un popolo, effettuare delle ricerche, raccogliere dati e poi decodificare il tutto. (PRATICA DI RICERCA).

In base al secondo significato invece l'etnografia si occupa dello studio di un particolare gruppo, società o cultura. (STUDIO SINGOLO).

Mentre il terzo modo di intendere l'etnografia si riferisce all'insieme dei lavori prodotti su un determinato gruppo, società o cultura. (CORPUS DI STUDI).


  1. Decentrare lo sguardo

Secondo la pratica antropologica, colui che osserva e interpreta deve adottare un punto di vista totalmente libero da ogni condizionamento imposto dalla propria cultura (e questo perché comunque ogni principio o formulazione scaturisce sempre da un contesto culturalmente condizionato), ciò però è impossibile. L'unica soluzione più facilmente ammissibile è quella di assumere un punto di vista relativo, cioè provare a decentrarsi rispetto al proprio mondo assumendo un atteggiamento il più lontano possibile dai propri pregiudizi e dalle proprie abitudini.

Tale pratica rientra nel movimento intellettuale detto relativismo il quale per molto tempo è stato un carattere distintivo dell'antropologia infatti ogni ragionamento antropologico è libero dai propri pregiudizi e parte dal presupposto che ogni cultura è un ambito di significati precisi e quindi non diversa in quanto a superiorità rispetto ad un'altra.

Il relativismo è un atteggiamento dove la spiegazione, la comprensione e la giustificazione tendono e confondersi e a interdire una qualunque forma di giudizio morale in quanto con esso si dà per scontato che ogni situazione, ogni mentalità ed ogni comportamento trovano giustificazione nelle circostanze che li hanno prodotti.

Negli anni dopo la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti si affermò la teoria del relativismo culturale, inteso come un interrogativo sulla validità o meno di certi giudizi di valore espressi verso ciò non apparteneva alla propria esperienza culturale. Melville Herskovits che fu il principale sistematore delle idee relativiste in campo antropologico affermò che i giudizi sono basati sull'esperienza, e l'esperienza è interpretata da ciascun individuo in termini della sua propria inculturazione .

Egli sosteneva che le nozioni di giusto e ingiusto, buono e cattivo, bello e brutto erano presenti in tutte le culture, ciò che invece variava, ciò che cioè era relativo erano i criteri di valutazione e di decidibilità circa il fatto che una qualunque cosa fosse giusta o ingiusta, buona o cattiva, bella o brutta. E questo perché tali criteri dipendevano da modelli valutativi e decisionali appresi dagli individui durante il proprio processo educativo. Tale relativismo promuoveva un atteggiamento di tolleranza, rispetto e comprensione per la diversità.

Secondo David Bidney il relativismo proposto da Herskovits aveva dei limiti. Egli sosteneva infatti che all'interno di una società e di una cultura esistono sempre dei punti di vista dominanti. I valori anziché essere distribuiti e condivisi in maniera omogenea sono sempre il frutto di rapporti di forza esistenti tra le stesse componenti di una società. Quindi secondo questo relativismo non possono esistere valori certi se non nell'interesse di ciascun individuo.

Alla base del relativismo culturale c'è la considerazione che a partire da premesse diverse sul piano culturale gli esseri umani traggono conclusioni culturali differenti.

Il relativismo parte dal presupposto che le culture si equivalgono .

Diversi studiosi hanno posto delle critiche alla teoria relativista tra cui Ernesto De Martino e Ernest Gellner. Essi seppur in modo diverso consideravano il relativismo una minaccia all'apertura verso nuove culture, consideravano il relativismo una dottrina, un dogma sociale.

Il relativismo però dal punto di vista antropologico è solo un metodo per poter interpretare e comprendere la diversità.


5.Distanza e straniamento

Il tema dello straniamento e della distanza sono condizioni dell'osservazione che permettono di descrivere efficacemente una particolare situazione etnografica.

Secondo Lévi-Strauss, per poter descrivere obiettivamente una descrizione senza farsi coinvolgere dalla situazione studiata, è importante allontanare lo sguardo culturale dall'oggetto di studio sia fisicamente che mentalmente.

Infatti oltre che "allontanarsi da casa" l'antropologo deve essere in grado di prendere le distanze dalla propria cultura (intesa come insieme di norme, abitudini e valori) e in questa condizione partecipare alla vita di coloro che intende studiare.

Secondo Sklovskij, per afferrare la vera natura delle cose, occorre partecipare con maggior ingenuità, occorre capire meno e restare stupefatti.

Lo straniamento di cui fa uso l'antropologo è uno straniamento personale finalizzato a vedere le cose diversamente da come le si potrebbe vedere restando nel proprio ambiente, vederle dal di fuori per poi ritrovare elementi di familiarità con la propria cultura. Ciò è importante anche per poter osservare il nostro mondo con uno sguardo più attento.


CAPITOLO II°

COMUNICARE


  1. OSSERVAZIONE E PARTECIPAZIONE

Il comportamento dell'antropologo sul campo è caratterizzato dal principio di osservazione partecipante. Tale comportamento consiste sia in un'attenta osservazione degli eventi e dei fenomeni che hanno luogo sul campo di studio dell'antropologo, sia in un coinvolgimento partecipativo da parte di esso teso a cogliere il punto di vista dell'indigeno.

Tale binomio però ha scaturito diverse perplessità proprio perché i due termini in un certo senso si contraddicono: la partecipazione comporta un coinvolgimento emotivo, mentre l'osservazione richiede un distacco. Infatti è difficile prendere interamente parte alla vita di coloro che sono oggetto di studio e poi descriverli con distacco senza farsi influenzare da ciò che in qualche modo è entrato nel mondo dell'osservante.

Come conseguenza di ciò l'etnografo si trova di fronte al cosiddetto paradosso dell'osservazione partecipante secondo il quale, quanto maggiore è la partecipazione e il coinvolgimento dell'antropologo alla vita di coloro che studia, tanto minore è la sua capacità di cogliere le differenze.

La critica alla validità o meno di questo binomio è stata avanzata da diversi studiosi che hanno cercato di interpretarlo.

Jean-Pierre Oliver de Sardan ha cercato di distinguere il procedimento osservativo inteso come il procedimento attraverso cui il ricercatore registra e ordina i dati necessari al resoconto etnografico, da ciò che è stato chiamato IMPREGNAZIONE intesa a sua volta come l'assimilazione da parte del ricercatore dei metodi culturali locali. Secondo questo studioso, tutto ciò che rientra nel processo di impregnazione non è considerarsi dato etnografico, mentre ciò che ricade nell'ambito dell'osservazione si.

Francis Affergan invece ha sottolineato che vedere non consiste solo nello stare attenti ma anche e soprattutto nello stare disattenti, nel lasciarsi accostare dall'inaspettato e dall'imprevisto.

Secondo Georges Devereux, le conoscenze che hanno luogo in campo antropologico sono il prodotto di una conoscenza tanto dell'oggetto osservato quanto del soggetto osservante. Seguendo questa linea, si è passati dall'idea di osservazione partecipante a quella che Barbara Tedlock ha definito osservazione della partecipazione secondo cui gli etnografi sperimentano e osservano contemporaneamente la compartecipazione propria e altrui all'interno dell'incontro etnografico.

James Clifford invece ha sostenuto che l'espressione osservazione partecipante sarebbe più comprensibile se fosse messa in relazione al binomio esperienza e interpretazione. Egli sostiene che l'espressione osservazione partecipante è troppo incentrata sulla esperienza personale dell'antropologo e sul suo rapporto con la propria cultura. Partecipazione e osservazione intesi come partecipare e poi distaccarsi dalla vita dei nativi, escludono ciò che Wilhelm Dilthey chiamò "la sfera comune dei significati". Secondo Clifford si deve instaurare un dialogo tra i soggetti comunicanti in modo da creare un "mondo condiviso" (come lo chiama Dilthey) e di fare della propria esperienza un'interpretazione fondata sui significati condivisi.

Clifford comunque si riferisce all'esperienza del campo intesa nel suo complesso: il fatto di "essere là", di provare un certo straniamento, di trovarsi dinnanzi a culture diverse e di sentirle lontane, di compiere uno sforzo per renderle comprensibili agli altri. L'idea di esperienza etnografica però è leggermente diversa da tale considerazione, in questo caso l'esperienza per l'antropologo viene intesa come una serie di operazioni mentali, gestuali e linguistiche attraverso le quali egli mette in atto un "apprendimento di regole" che gli servono per creare quel mondo condiviso di significati necessario per il suo resoconto. Egli comunica con i nativi, comprende ed impara le loro regole e quindi interpreta i fatti tenendo conto sia della propria cultura che di quella dei soggetti studiati.


  1. IL dialogo tra <<antropologo>> e nativo

L'esperienza della pratica etnografica significa per l'antropologo diventare "diversi" rispetto a prima. Tale diversità è riferita sia alla propria cultura che a quella del nativo ed è rappresentata da quelle esperienze sociali e culturali che hanno luogo sul campo, cioè da quel contesto che prende il nome di Mondo terzo, ed è proprio questo nuovo contesto che è oggetto del resoconto dell'antropologo.

Questo Mondo terzo scaturisce dal dialogo tra l'antropologo e il nativo ed è costituito da un mondo di significati culturali comuni alle due culture. In questo senso anche l'assenza di dialogo e il silenzio costituiscono oggetto di interpretazione sia dell'antropologo che del nativo.

La corrente dialogica che ha luogo in antropologia però è caratterizzata dalla non parità culturale dei soggetti comunicanti i quali spesso rivestono un ruolo di dominante e dominato; a questo proposito Michail Bachtin ha distinto due tipi di dialoghi: i dialoghi anacretici e i dialoghi sincretici. I dialoghi anacretici (detti anche dialoghi solo nella forma) sono quelli che illustrano il punto di vista di un solo interlocutore e quindi in questo caso dell'antropologo, mentre le considerazioni del nativo servono solo da supporto all'intera operazione.

I dialoghi sincretici invece sono considerati tali nella funzionalità e sono caratterizzati dal fatto che coesiste una certa parità tra i 2 soggetti comunicanti che danno luogo appunto a un mondo terzo dove le voci dell'antropologo e dei nativi sono messe ed ascoltate sullo stesso piano.

Dal dialogo quindi nasce una nuova cultura formata da significati e regole che scaturiscono appunto dall'interazione dei soggetti comunicanti e che non coincide con la cultura studiata dall'antropologo ma è appunto un mondo terzo. Questo perché il dialogo in sé non si esaurisce mai , ma esiste già quando l'antropologo entra in contatto col nativo e continua anche quando egli ha compiuto la sua opera.


  1. L'APPROPRIAZIONE DEL SENSO: INTENZIONE E RISONANZA

Un altro elemento importante nella pratica antropologica è rappresentato dalla DIMENSIONE DELL'INTENZIONALITÀ.

Per intenzionalità si intende, secondo Edmund Husserl, una predisposizione da parte di un soggetto di appropriarsi del senso del mondo attraverso un atto della coscienza e di trasformare tale mondo in "mondo della vita". Senza intenzionalità non c'è conoscenza. Sul campo l'intenzionalità è spesso duplice: è rappresentata sia dal fatto che antropologo e nativo sono mossi dalla volontà di comprendere e di conoscere sia dal fatto che l'antropologo nel suo sforzo di comprendere l'altro deve esercitare intenzionalmente un continuo controllo dei propri metodi interpretativi. Quindi in questo senso la "ricerca sul campo " può essere ridefinita attraverso un'idea di esperienza condivisa dall'antropologo e i suoi interlocutori, un'esperienza mossa però da una intenzione interpretativa.

Insieme a intenzionalità si parla anche di risonanza.

Per risonanza si intende il riconoscimento da parte di un soggetto delle emozioni che nascono dalle enunciazioni di un altro soggetto. In campo antropologico la risonanza presuppone che entrambe le parti si impegnino con un mondo diverso e che usino la propria esperienza per cercare di cogliere significati che scaturiscono dall'incontro delle esperienze.

Alla base del principio di risonanza c'è ciò che il filosofo Donald Davidson chiama principio di carità: "tratta gli altri come trattiamo noi stessi" e "ricerca sempre la coerenza tra atteggiamenti e atti".


  1. ANTROPOLOGI E <<INFORMATORI.>>

Per quanto riguarda la ricerca dell'antropologo e la sua riproduzione del sapere, gli informatori rivestono un ruolo fondamentale in quanto costituiscono il punto di contatto tra gli etnografi e la realtà che essi intendono studiare.

Il rapporto tra antropologo e informatore è stato visto per molto tempo sotto diversi aspetti. Esso è stato considerato sia in termini opportunistici da parte dell'antropologo che sotto un aspetto di reciproco vantaggio da parte di entrambi: per l'antropologo in termini di ottenimento di informazioni per l'informatore in termini di vantaggio materiale e prestigio sociale.

La relazione tra antropologo e informatore comunque è stata considerata sia in una prospettiva strettamente strumentale che in una prospettiva aneddotica.

La prospettiva strumentale è rappresentata da tutte le operazioni effettuate per scegliere l'informatore più adatto al ruolo affidatogli e questo perché l'elaborazione del resoconto etnografico si conclude lontano dal campo oggetto di studio e quindi è importante che le informazioni ottenute siano attendibili ed esaurienti.

Il maggior esponente di questa prospettiva fu Marcel Griaule il quale considerò la ricerca dell'informatore come una vera e propria teoria. Egli sosteneva che l'inchiesta etnografica doveva essere un'operazione strategica in cui l'antropologo doveva essere in grado di saper scegliere tra gli informatori candidati quelli che avevano maggiori competenze non lasciandosi influenzare dalle loro dichiarazioni. Egli doveva trattare essi sia come imputati che come pazienti, doveva essere abile nel mettere il paraocchi all'indigeno e portarlo là dove si nascondono i segreti della cultura tradizionale. Griaule è stato anche uno dei maggiori promotori di una "etnografia d'urgenza", con il compito di descrivere fatti sociali e culturali destinati a scomparire rapidamente per la progressiva avanzata della cultura occidentale.

Secondo Griaule il bottino promesso all'abile etnografo è rappresentato dai "Documenti umani" .

La prospettiva aneddotica invece è caratterizzata dal fatto che l'antropologo proprio in relazione a questi "documenti Umani" di cui parla Griaule, deve considerare l'informatore oltre che come individuo capace di fornire informazioni, anche come persona animata da sentimenti, pensieri, aspettative, speranze in cui egli stesso può riconoscersi.

Per quanto riguarda questa prospettiva il maggior esponente fu Joseph B. Casagrande il quale nel 1960 pubblicò un libro in cui 20 antropologi raccontavano altrettanti personaggi indigeni. Lo scopo del libro era di rendere pubblico il fatto che l'antropologo sul campo vive innanzitutto delle esperienze umane proprio attraverso questa descrizione degli indigeni-informatori, i quali erano presentati come testimoni del fatto che l'antropologo sul campo vive un'esperienza fatta di incontri tra culture diverse e che si basano su un rapporto di umana simpatia.

Questi personaggi però rimangono degli informatori e ciò non permette di comprendere come esattamente avviene il lavoro sul campo da parte dell'antropologo, non permette di vedere come i significati culturali degli interlocutori si fondono e danno vita al cosiddetto mondo terzo.

L'informatore infatti è una figura attiva nel lavoro che gli antropologi conducono sul campo, è un suo collaboratore.

Il problema che nasce da tale interazione riguarda la posizione che antropologo e informatore occupano nel contesto di tale incontro. Lucia Rodeghiero ha dimostrato che a seconda del tipo di relazione che viene a delinearsi tra essi, scaturisce un tipo di cultura di volta in volta diversa.  


  1. "COGLIERE IL PUNTO DI VISTA DEL NATIVO

La dimensione dell'intenzionalità è importante sia per l'antropologo che per il nativo e dovrebbe servire per ridurre la distanza tra essi, cioè dovrebbe portarli  ad adottare una serie di atteggiamenti più o meno volontari e coscienti che rientrano sia in comportamenti imitativi sul piano gestuale che nella condivisione di certe forme discorsive.

Da Malinowski in poi la maggior parte degli sforzi antropologici sono stati tesi a cogliere il "punto di vista del nativo", il suo rapporto con la vita, la sua visione del suo mondo. Capire le caratteristiche della sua cultura e vederle attraverso i suoi occhi. Seguendo la linea di Malinowski però si intenderebbe questo processo come un punto di arrivo della pratica antropologica. Ciò che realmente significa "cogliere il punto di vista del nativo" è stato ampiamente illustrato da Geertz attraverso la distinzione tra concetti vicini e concetti lontani dall'esperienza.

Un concetto vicino all'esperienza del nativo è un tipo di concetto facilmente riconoscibile e utilizzabile da colui che parla, nel nostro caso l'informatore nel senso che esso per definire ciò che lui e i suoi colleghi vedono utilizza dei concetti comuni senza alcuno sforzo (quindi facilmente comprensibili). Un concetto lontano (lontano cioè dall'esperienza del nativo) invece è quel concetto non immediatamente riconoscibile da colui che parla. La descrizione antropologica, dato che oscilla tra i due tipi di concetti, per essere attendibile deve utilizzare efficacemente entrambi e non escludere l'uno o l'altro.



Secondo Geertz la distinzione tra punto di vista emico (dell'osservato) e punto di vista etico (dell'osservante) non ha molta differenza per quanto riguarda la ricerca di un punto di vista oggettivo nella pratica antropologica.


  1. RICERCA SUL CAMPO E RICERCHE DELL'IDENTITÀ

Per politiche dell'identità si intendono quei meccanismi consapevoli e inconsapevoli di manipolazione del rapporto con l'altro i quali si traducono in una collocazione di quest'ultimo in un sistema di rappresentazioni mediante il quale si tende a validare un discorso di tipo culturale, sociale e politico in senso lato.

Dato che sia l'antropologo che i suoi interlocutori si collocano sul campo in base a rapporti di forza, sguardi e interpretazioni che si combinano e ricombinano secondo le circostanze, lo sforzo dei due interlocutori è quello di ridurre la distanza che li separa cercando di interpretare ciò che a loro è noto ed ignoto.

Un potente marcatore della distanza è rappresentato dal modo di vestirsi che se è simile ai soggetti studiati, diventa un modo per essere considerato uguale a loro, e questo porta alla costruzione di un unico mondo comune. La riduzione dalla distanza porta ad una certa "confidenza" tra i soggetti comunicanti.

Molto spesso l'antropologo viene considerato un intruso, un perturbatore in quanto con la sua presenza porta i suoi ospiti a discutere e riflettere sulla propria cultura e più di tutto crea scompiglio all'interno della comunità per quanto riguarda la definizione dei ruoli sociali, e questo perché comunque il campo è formato da diversi elementi che non sempre hanno a che vedere con la raccolta di informazioni in senso stretto.

L'antropologo sul campo si imbatte in un processo di negoziazione con le autorità che non sempre sono solo di tipo governativo, in alcuni paesi infatti abbiamo le autorità tradizionali che anche se a livello informale hanno un potere simile a quelle ufficiali. Questo spesso è un problema per l'antropologo il quale tante volte si trova in una situazione di contesa del potere da parte delle autorità esistenti in loco e ciò fa di lui una figura importante in quanto rappresenta colui che ha dato luogo alle divergenze sociali e politiche.



CAPITOLO 3

RAPPRESENTARE


1. STRATEGIE DI LOCALIZZAZIONE

Una strategia di localizzazione è l'insieme di tutte le operazioni intellettuali, pratiche teoriche e ideologiche compiute dall'antropologo per rappresentare il proprio oggetto di ricerca come spazialmente situabile e riconoscibile, e quindi appartenente a un'area determinata. Tali strategie danno luogo alle nozioni di zonazione e territorializzazione che rappresentano gli esiti della messa in opera di tali strategie.

Richard Fardon ha fatto notare che in quei paesi dove gli studi etnografici sono più sviluppati, gli antropologi si sono concentrati sullo studio di un'area culturale o due. Tale tendenza porta diversi effetti: innanzitutto una precomprensione da parte dell'antropologo che si accosta a studiare per la prima volta quella determinata area delle problematiche che intende osservare, inoltre una specie di essenzializzazione dell'area considerata. Poi un effetto di occultamento di altre problematiche ed infine gli effetti legati alla migrazione di certe astrazione etnografiche da un contesto areale a un altro.

Per quanto riguarda il primo di questi effetti si deve tenere conto che l'antropologo entra in un campo immaginativamente mappato da altri. Altre persone che possono essere etnografi stessi o storici o linguisti o geografi, hanno già tastato l'oggetto di studio dell'antropologo e quindi egli ha una conoscenza immaginativa di ciò che lo aspetta. Quindi per precomprensione si indicano quelle categorie epistemologiche, metodologiche e interpretative che servono all'antropologo per avvicinarsi al suo oggetto di studio (filtra la sua esperienza sul campo). Quindi la descrizione etnografica è costituita da rappresentazioni che l'antropologo ha già dell'oggetto di studio, rappresentazioni che sono a lui precomprese e che gli scaturiscono da un corpus di studi effettuati da altri. Sotto queste conoscenze, l'antropologo può individuare spazialmente il campo da studiare e riconoscerlo anche dal punto di vista delle caratteristiche culturali che lo costituiscono. Questo è l'effetto dell'essenzializzazione: consiste nell'identificare un campo sia per la sua localizzazione che per le sue tipizzazioni socio-culturali. Per quanto riguarda le società più complesse però la scelta di un particolare aspetto identificante porta a nascondere quegli altri elementi che contribuiscono a dare una definizione più esauriente dell'area studiata portando alla definizione di ciò che Appadurai chiama "concetti guardiani" della teorizzazione antropologica: concetti cioè che sembrano limitare la teorizzazione antropologica sul luogo in questione e che definiscono le domande essenziali e di interesse dominante nella regione. Tali concetti portano pertanto a un occultamento delle altre caratteristiche di un campo che potrebbero essere importanti all'antropologo per svolgere appieno il suo studio. Questa è una conseguenza negativa della presenza di strategie di localizzazione in quanto esse guidano in qualche modo colui che si propone di studiare un contesto già mappato da altri.

L'ultimo aspetto è quello della migrazione di alcune e particolari astrazioni etnografiche da un contesto areale ad un latro.


2. METODO, VALIDITÀ E AUTORITÀ DEL RESOCONTO ETNOGRAFICO

In antropologia non esistono delle regole precise e valide sull'attendibilità del metodo etnografico. Esistono delle aree di opinione diverse e contrastanti tra loro.

Nel caso dell'OSSERVAZIONE PARTECIPANTE, vi sono diverse considerazioni: alcuni antropologi sostengono che essa è un fatto di sensibilità personale, di creatività e di immaginazione, mentre altri pensano che è un corpus di procedure e strategie comunicative che possono essere controllate in maniera scrupolosa; altri ancora invece sostengono che nella ricerca etnografica è fondamentale la sensibilità dell'etnografo.

George Devereux e Pierre Bourdieu hanno sostenuto che l'elaborazione e l'applicazione  di un metodo in etnografia è un modo per controllare la situazione etnografica in modo da descriverla oggettivamente senza farsi influenzare dalla propria cultura.

Gli antropologi comunque sono alle prese con il significato attendibile da attribuire all'espressione "fare etnografia" in riferimento alle questioni legate alla possibilità di "cogliere il punto di vista del nativo".

Gli scritti di diversi autori che riguardano il metodo etnografico più attendibile e giusto da adottare nella pratica antropologica, sono molto vaghi e imprecisi e si basano su resoconti di natura aneddotica e informale.

Questo fatto ha ragioni di carattere sociologico: dal secondo dopoguerra le ricerche etnografiche aumentarono e presero una forma pressoché individuale quindi i finanziamenti per esse diminuirono e ciò portò alla conclusione che i progetti etnografici dovevano avere gli stessi principi di campionamento, verificabilità delle ipotesi, e affidabilità adottati da discipline come la sociologia o la psicologia in quanto indici di scientificità. In risposta a ciò è venuta a delinearsi una tendenza contraria che ha finito per far diventare la scrittura dei testi etnografici il nucleo della pratica etnografica. Un antropologo sul campo non è un soggetto capace di osservare i fatti in modo neutrale né tanto meno di controllare e prevedere la totalità delle variabili che determinano una particolare dinamica sociale e culturale. Egli dovrebbe inoltre descrivere dei fenomeni particolari e riferirli ad un contesto socio-culturale più ampio. Quest'ultima affermazione è conosciuta come "prospettiva olistica" ed è una caratteristica propria dell'antropologia. Essa si è sviluppata in relazione a una concezione delle società e delle culture studiate dagli antropologi come insiemi chiusi e compatti. Gli antropologi sul campo, lavorano seguendo questa prospettiva che consente loro di "connettere le parti a tutto e il tutto alle parti".

Il problema dell'antropologo a questo punto diventa quello di capire come certi significati culturali che emergono dalla sua esperienza sul campo, diventano l'oggetto del suo sapere e la base delle sue conoscenze e danno vita a teorie del tutto obbiettive.

Innanzitutto bisogna tenere presente che la conoscenza antropologica si forma su uno scambio intersoggettivo tra antropologo e informatore in cui l'antropologo oltre che dialogare con esso cattura i dialoghi che avvengono tra i soggetti studiati; ciò da luogo ad una sorta di "articolazione significante" tra i due mondi che è poi ciò che nasce dalla ricerca sul campo. Il modo in cui tale articolazione viene svolta ed elaborata rappresenta il tipo di conoscenza antropologica che nasce dall'operato dell'antropologo.

Il problema dell'attendibilità del resoconto etnografico comunque non si risolve con tali teorie.

L'attendibilità del resoconto etnografico emerge dalla coesistenza di due fattori principali: la "validità etnografica" e "l'autorità etnografica".

Secondo Roger Sanjek, la validità etnografica è formata da tre elementi: il CANDORE TEORETICO che consiste nel fatto che i resoconti etnografici contengono indicazioni molto precise circa le scelte teoriche dell'antropologo, avvenute sia prima che durante la ricerca stessa. IL SECONDO ELEMENTO è costituito dalla descrizione del cammino seguito dall'etnografo durante la sua esperienza (modalità di accesso alle informazioni, varietà dei suoi interlocutori,ecc.). IL TERZO ELEMENTO infine è rappresentato dall'esposizione di come le note prese sul campo abbiano portato alle argomentazioni del resoconto etnografico.

Oltre a ciò l'esperienza e l'interpretazione etnografica per essere considerate valide devono essere presentate in un testo il quale risulta valido se è coerente con l'esperienza vissuta e se è scritto secondo determinati criteri che lo rendono autorevole oppure no. La maggiore o minore autorevolezza del testo etnografico dipende dal grado di attendibilità che il lettore gli attribuisce.


3. LA FUNZIONE PARADIGMATICA DELL'AUTORITÀ ETNOGRAFICA

Secondo Thomas Kuhn, storico della scienza, un paradigma è un insieme di ipotesi, di idee, e di pratiche di ricerca che guidano, a partire da un dato momento, il lavoro di una comunità scientifica.

Quindi una Scienza nasce in riferimento al paradigma che l'ha prodotta e per tale motivo è considerata valida dalla comunità scientifica. Durante il suo cammino essa attraversa quella che da Kuhn è chiamata rivoluzione scientifica e consiste nell'abbandono o nel cambiamento dei paradigmi ad essa propri o nell'adozione di altri nuovi tesi a convalidare le teorie che da essa scaturiscono.

Sotto determinati aspetti anche in antropologia esistono dei paradigmi anche se tale espressione è più adatta a quelle Scienze considerate DURE, scienze cioè le cui tesi possono venir dimostrate in laboratorio.

Prendendo in considerazione la prospettiva funzionalista, la si può considerare come un paradigma in quanto la maggior parte dei ricercatori britannici tra la metà degli anni '20 e la fine degli anni '50 adottarono tale metodo per le loro ricerche e i loro studi, esso consisteva nel sostenere che la struttura dell'organizzazione sociale è basata sulle dimensioni dell'equilibrio e della riproduzione. In seguito i punti essenziali della pratica antropologica si spostarono sull'importanza del conflitto e del cambiamento sociale, così il paradigma della funzionalità fu "sostituito" dalla prospettiva dinamista la quale si basava sui concetti di conflitto e cambiamento.

Da ciò si può dedurre che in antropologia i paradigmi sono meno rigidi che in altre scienze, nel senso che non esistono delle ipotesi e teorie formulabili con una certa precisione in quanto la pratica antropologica presuppone dei giudizi di valore ed inoltre essi non ottengono mai il pieno consenso da parte di tutti i ricercatori.

L'antropologia può essere considerata come un sapere paradigmatico, in quanto essa fa riferimento a più paradigmi più o meno recenti all'antropologo, esso infatti in alcuni casi prende spunto per l'elaborazione delle sue teorie da paradigmi per certi versi obsoleti.

Tali prospettive però vanno considerate con prudenza in quanto secondo il pensiero di Kuhn, il termine paradigma si usa per indicare un punto di riferimento teorico grazie al quale si sviluppa una scienza "normale". Ciò in antropologia è utile per affrontare il tema dell'autorità etnografica e della sua funzione paradigmatica nel guidare la pratica dei ricercatori.

Per quanto riguarda la pratica scientifica, il paradigma di una Scienza è considerato autorevole in quanto autorizza i membri di una certa comunità a seguire la linea che esso stesso impone in quanto esso è considerato valido e legittimo. Ciò porta all'interno delle comunità scientifiche a considerare non valide le teorie prodotte al di fuori del paradigma proprio della Scienza di riferimento .

Anche i paradigmi antropologici sono autorevoli in quanto legittimano coloro che ne fanno uso a seguire la linea da essi prescritta, essi però sono meno circoscrivibili, hanno la tendenza a convivere e sono cumulativi.

Sulla base delle teorie sulla figura dell'autore di Michel Foucault, Clifford Geertz, ha affermato che l'antropologia è più vicina alla letteratura che alla scienza. Così come accade per i poeti e gli scrittori, anche i nomi degli antropologi sono associati a libri e articoli e non a scoperte vere e proprie. ("funzione-autore").

Tuttavia gli antropologi hanno sempre voluto dare un'immagine di loro pressoché scientifica, scrivendo i loro testi con un carattere neutrale e obiettivo, ciò però creava dei problemi per quanto riguarda la credibilità dei loro testi da parte del pubblico. Essi in qualche modo dovevano dimostrare che i loro scritti erano frutto della loro esperienza personale e per questo motivo si è cercato di dare una certa autorità al testo etnografico facendo apparire l'antropologo come una figura professionale nell'ambito dei suoi studi. Essi quindi hanno sempre sentito il bisogno di essere presenti nel loro resoconto, tale problematica è stata definita da Geertz "il problema della firma" (p. 91). Tenendo presente la distinzione tra Autore e Scrittore di Foucault e cioè che l'autore è colui che scrive un'opera mentre lo scrittore colui che scrive un testo, Geertz sostiene che l'antropologo proprio per il suo bisogno di apparire nel testo, cerca sempre di essere un "autore", cioè colui che produce un'opera la quale è intesa come un discorso che per diversi motivi diventa punto di riferimento e modello per altri scrittori. Secondo Geertz quindi sono autori quegli antropologi che ricadono sotto questo profilo, cioè coloro che sono fondatori di una certa discorsività che è presa come modello da altri e quindi sono paradigmatici ed autorizzano un certo stile etnografico.


4. RAPPRESENTAZIONI ETNOGRAFICHE

Oggi la maggior parte degli studi recenti si è concentrata sul problema della "crisi della rappresentazione etnografica".

Secondo Marcus e Fischer, oggi l'antropologia non ha più la funzione che aveva una volta e cioè quella di far conoscere al mondo euro occidentale le diverse culture esistenti al di fuori di tale mondo e di creare una relazione con esso. Oggi infatti il crescente processo di globalizzazione che si sta sviluppando nel mondo occidentale, fa si che le diversità culturali esistenti siano un qualcosa di normale e ben accettato e che non portino alcun effetto sulla realtà degli occidentali.

Sotto questo aspetto quindi l'analisi etnografica deve essere in grado di cogliere con più precisione il contesto storico dei soggetti oggetto di studio e le loro caratteristiche culturali e inserirli nelle società moderne.

Gli antropologi hanno così cercato di ridefinire i concetti base dell'antropologia.  Uno di questi, il presupposto che l'inchiesta etnografica si svolge in uno spazio neutro in cui non sussiste alcuna relazione di potere tra l'antropologo e i suoi interlocutori come invece era accaduto per lungo tempo. Tale espressione si è tradotta nell'opinione che la diversità culturale non è un qualcosa che si può descrivere come un fenomeno naturale. Inizialmente l'antropologia si è sviluppata grazie al contesto politico ed economico sviluppatosi con la dominazione coloniale quindi tra antropologo e interlocutore si è sempre creato un rapporto caratterizzato dall'idea di dominazione e potere, anche se l'antropologo stesso non ha mai cercato di civilizzare l'indigeno dato che ha sempre preso in seria considerazione la sua dignità. Questo rapporto di dominio che si è venuto creare tra antropologo e nativo, prende forma nel momento in cui lo si concretizza nei testi etnografici.

La rappresentazione comunque rimane la condizione essenziale per l'antropologo affinché possa trasmettere le conoscenze acquisite sul campo. È un modello percettivo e cognitivo cioè un mezzo per intendere e conoscere l'altro ed è anche un modello culturale e comunicativo, cioè un modo per fornire e trasmettere una visione dell'altro. Attraverso la rappresentazione etnografica, l'antropologo trasmette le proprie percezioni sull'oggetto di studio. Tali percezioni derivano sempre da condizionamenti esterni e quindi dalla precomprensione, intesa in questo senso come l'idea che si fa l'antropologo dei propri interlocutori sulla base della propria immaginazione e delle proprie conoscenze.

(Allegoria pastorale: struttura di retrospezione, modo di utilizzare testimonianze ricavate da società semplici assumendo che esse posano illuminare le origini e le caratteristiche di strutture sociali contemporanee.) (pag. 100)


5. ALLEGORIE E RIFLESSIVITÀ

In etnografia l'uso di figure retoriche e in particolare delle Allegorie, è molto importante e ricorrente in quanto dà la possibilità di rappresentare qualcosa con effetti di riconoscibilità immediata sul piano morale da parte del destinatario; egli infatti attraverso un'allegoria si ritrova nella situazione descritta dall'etnografo in quanto comune a lui e quindi la comprende.

Sotto quest'aspetto quindi la condizione allegorica si fonda sull'esperienza dell'antropologo il quale nel dover esprimere una situazione sotto forma di Allegoria, si ritrova a sperimentare in prima persona ciò che intende trasmettere agli altri.

Da questo punto di vista l'allegoria si incontra con la questione della riflessività in quanto attraverso l'uso di essa si può arrivare a vedere e sentire gli eventi e le descrizioni dell'etnografo così come le sente il nativo o comunque il soggetto dell'azione. L'antropologo quindi facendo uso di tali strumenti si pone da "ponte" tra due mondi culturali distanti tra loro.


6. LE "IMPASSES" DEL POSTMODERNISMO ETNOGRAFICO.

L'unione tra un'allegoria e uno sguardo riflessivo da luogo alla "profondità soggettiva" (cioè per i soggetti). Tale prospettiva costituisce un punto debole dell'antropologia in quanto il resoconto etnografico rischia di perdere di oggettività e di diventare un puro e semplice dialogo riflessivo dell'etnografo con se stesso.

Gli antropologi che seguono la linea della soggettività vengono definiti da Ernest Gellner postmodernisti.


CAPITOLO IV°

DESCRIVERE


1. SCRITTURA ETNOGRAFICA

Dal momento che qualunque esperienza di ricerca non è considerata valida se non è resa pubblica, la scrittura rappresenta il mezzo principale attraverso cui gli antropologi si servono per comunicare i risultati delle loro ricerche.

Lo storico antropologo francese Michel de Certeau, in un importante lavoro degli anni '70, ha affermato che l'antropologia è diventata scienza del sapere e ha sviluppato le sue capacità discorsive in virtù di 4 elementi entro cui essa si muove: oralità, atemporalità, alterità e inconscio. Tali elementi coincidono con i lati di ciò che Egli chiama quadrilatero etnologico.

Per oralità de Certeau intende l'oralità di quel soggetto oggetto di studio dell'antropologo che non scrive e che quindi ha la sola caratteristica di comunicare.

L'a-temporalità invece è costituita dall'idea tipica che si ha delle società studiate dall'antropologia e cioè che sono considerate prive di una storia nota.

L'alterità è intesa come la distanza che separa l'antropologo dal proprio soggetto dovuta proprio alla diversità culturale.

L'ultimo elemento-confine è rappresentato dalla natura inconscia di certi fenomeni culturali il cui significato nascosto deve essere messo in luce dall'antropologo.

Grazie alla scrittura, ciò che è orale viene tradotto, ciò che è senza tempo viene inserito in una storia, l'alterità diventa differenza e l'inconscio acquista un valore esplicito.

La scrittura etnografica è stata riconosciuta solo da poco tempo e da allora è stata sottoposta ad una revisione critica: se ne sono state esaminate le finalità, le strategie di occultamento e le tecniche di presentazione degli oggetti, sono state valutate le figure retoriche in essa contenute, sono stati segnalati gli intenti persuasivi, se ne è reso noto l'uso politico, si è riconosciuto l'uso autoriale.

Il "prodotto testuale" nasce dalla manipolazione e interpretazione della parola "altra" e passa dall'identificazione di tre forme testuali: le note prese dall'etnografo sul campo, il testo etnografico vero e proprio e l'insieme di tutti i testi etnografici, provenienti da diverse fonti, relativi ad una determinata cultura. Questi tre elementi si trovano ai vertici di ciò che è chiamato "triangolo etnografico" il quale può essere collocato all'interno del "quadrilatero etnografico" per identificare la connessione tra la scrittura e il pensiero etnografico.

Il vertice inferiore del triangolo rappresentato dalle note di campo coincide con la nozione-limite di alterità ed è il "momento" in cui l'antropologo e il suo soggetto danno vita a un primo tentativo di descrizione delle impressioni attraverso una serie di note le quali sono costituite da tutti quelli elementi necessari a rappresentare in modo coerente il proprio soggetto.

Tali note rappresentano il primo tentativo di rappresentazione dell'alterità, attraverso esse l'oralità e la natura inconscia dei fenomeni prendono forma in un testo etnografico compiuto e l'alterità viene a diventare differenza inserita a sua volta in una monografia.

Il superamento dell'oralità e dell'inconscio dei fenomeni sono processi che si realizzano grazie all'intenzionalità dell'autore il quale comunque è sempre influenzato da una certa precomprensione costituita sia da un corpus etnografico già esistente sia dalle conoscenze teoriche dell'antropologo.

La detemporalizzazione dell'oggetto dell'antropologia coincide con un allontanamento dell'Altro nel tempo e tale detemporalizzazione è data dalla monografia la quale va ad aggiungersi al corpus etnografico precedente. L'effetto di tale "incremento testuale" è quello per cui si instaura la possibilità di parlare di società e di culture osservate in momenti diversi come se queste fossero sempre contemporanee a se stesse, tali culture si trovano in una situazione di atemporalità da cui si distacca solo il soggetto osservante, scrivente, leggente.

In questo senso Il compito principale dell'antropologia è quello di esplicitare significati che scaturiscono dall'interazione col nativo e quindi sulla base di un dialogo che attraverso i processi del quadrilatero etnografico prende forma in un testo scritto.


2. DAL PRESENTE ETNOGRAFICO ALL'ETNOGRAFIA DEL PRESENTE (p.120)

La testualizzazione dell'esperienza etnografica, avviene secondo regole ben precise: l'uso della prima persona, l'introduzione di "diversioni descrittive, l'evocazione di una "totalità" socio-culturale, forme di scrittura che trasmettono l'idea di un certo distacco tra l'osservatore e il proprio oggetto, l'esplicitazione di alcuni elementi che caratterizzano la ricerca sul campo ecc. Tali regole comunque non sono mai fisse ma variano a seconda del periodo e del paradigma di riferimento.  



L'unica che rimane costante è l'uso del presente in quanto è necessaria per riflettere meglio la situazione dell'incontro, la contemporaneità e "l'essere là" da parte dell'etnografo, esso infatti presenta e rappresenta le culture studiate al presente e la sua produzione letteraria può aggiungersi al corpus etnografico di una determinata cultura producendo un effetto di detemporalizzazione e generalizzazione in modo tale da rendere tale cultura al di fuori della storia. Questo avviene perché il presente etnografico venendo utilizzato per descrivere una certa realtà, è causa di una scelta dell'antropologo il quale ha lo scopo di dare una certa idea di cultura autentica e per fare ciò egli elimina dal suo resoconto tutti quegli elementi che non servono a rafforzare l'idea che vuole trasmettere e utilizza un presente che dia l'idea di atemporalità delle culture studiate, le quali appaiono fuori dal tempo. L'antropologo infatti anche se incontra le società da studiare in un tempo ad egli presente e quindi in una situazione di contemporaneità, esso le considera comunque calate in una realtà immutabile e sempre uguale e quindi senza tempo. Secondo Johannes Fabian, in questa situazione, la contemporaneità viene sostituita dall'Allocronia, in cui gli Altri sono in un altro tempo.(p. 124).

La descrizione degli eventi al tempo presente indipendentemente dal tempo reale in cui essi si sono prodotti, permette di presentare un quadro coerente e contemporaneo dei fenomeni stessi.

Attraverso la scrittura gli Altri finiscono per appartenere a un mondo e a una dimensione spazio-temporale diversi e lontani da colui che scrive. Gli elementi che stanno alla base di tale situazione sono insiti nella pratica di ricerca sul campo e si riferiscono a diversi processi: una specie di schizofrenia del ricercatore nella realtà in cui è calato; la testualizzazione delle informazioni secondo regole ben precise, la posizione distinta dell'informatore rispetto alla società studiata; la supposta "neutralità intellettuale" dell'osservatore, le stesse allegorie "pastorali". La conseguenza di tali processi è quella di un'allocronia dell'etnografo e del nativo che dà luogo quindi ad un presente etnografico.

Per fare etnografia del presente invece si intende restituire agli altri un posto nella storia e per fare ciò è necessario interessarsi al passato delle società studiate in relazione al rapporto che si intende instaurare tra la dimensione storica di tali società e la ricerca sul campo.

L'interessamento alla storia può essere di diversi tipi: legato a una prospettiva antropologica e quindi come semplice indagine sul passato delle società oggetto di studio; oppure come indagine storica con lo scopo di spiegare il presente attraverso un'attenta analisi del passato.

Inoltre il ricercatore può studiare il passato per cercare capire il presente che a sua volta è la base del futuro della società studiata. Il nativo stesso si rispecchia in questa prospettiva in quanto egli riflette su se stesso e sul suo destino tale "incontro" tra passato e futuro che appunto è rappresentato dal presente, il compito dell'antropologo è quindi quello di cogliere quella situazione etnografica che si crea in questo contesto dando al nativo una dimensione storica ben precisa.


3. FINZIONI: LETTERARIE, SISTEMICHE, CONCETTUALI

L'utilizzo del presente etnografico porta a ciò che è chiamato "collages etnografici". Questi sono il prodotto di una compressione temporale ottenuta dall'insieme di tutti i resoconti etnografici. Infatti l'insieme delle conoscenze e riflessioni su una particolare cultura sommandosi nel tempo, si comprimono in rappresentazioni totali caratterizzate da un effetto di detemporalizzazione.

Ciò rappresenta un problema a livello comparativo per quelle discipline vicine all'antropologia che possono utilizzare tali collages per le proprie ricerche e quindi dare vita a culture convenzionali poco valutate umanamente.

Per regolarizzare questo problema si fa uso del principio di FINZIONE ETNOGRAFICA, inteso però come idea di costruzione. L'antropologo non descrive mai fedelmente ciò che osserva ma fa uso di diverse connessioni tra le varie informazioni a sua disposizione e le elabora sempre secondo una sua interpretazione, quindi "costruisce" la nuova realtà sulla base di diversi elementi o finzioni.

Nelle opere di antropologia sono presenti diversi tipi di finzioni, i principali sono: letterario, sistemico, concettuale.

Il primo, è strettamente legato alla forma elegante e persuasiva del discorso e serve a catturare l'attenzione del lettore e a far comprendere meglio alcune situazioni empiriche.

Il tipo di finzione sistemico invece riguarda la costruzione di modelli che identificano particolari oggetti o situazioni etnografiche.

Infine, il tipo concettuale riguarda i concetti stessi e le nozioni che vengono utilizzati dagli antropologi, concetti che tante volte perdono il loro significato tradizionale se si comprende quello attribuito dal nativo, come ad esempio il termini tribù o etnie che acquistano diversi significati a seconda di chi li utilizza.

Le finzioni quindi sono anche il prodotto di coloro che sono oggetto di studio dell'antropologo, e diventano dei "dogmi" per interpretare la diversità.


4.CULTURA COME COSTRUZIONE

Per molto tempo, scrivere circa una cultura ha significato descriverla, descriverne cioè i contenuti esattamente come erano. Roy Wagner nel suo libro l'invenzione della cultura, ha invece sostenuto che le "cose" descritte in una monografia, sono il frutto di un processo creativo che l'antropologo mette in atto per rendere più comprensibile l'oggetto della sua descrizione.

Un etnografo, chiama "cultura" ciò che sta studiando in modo tale da poterla comprendere in termini a lui familiari e quindi descrivere la sua esperienza in modo chiaro, ragionando in prospettiva "come se" di fronte a lui vi fosse una "cultura" da raccontare. L'idea di cultura da parte degli antropologi di stampo occidentale, si rifà alla definizione che ha dato Tylor nel 1871:

"la cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume, di qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società".

In riferimento a tale definizione, un antropologo sul campo sa già di cosa e sta parlando e come deve muoversi.

Dalla fine del XVIII secolo si sviluppò una concezione di cultura basata sul suo significato collettivo cioè riferito non ad un individuo (concezione ciceroniana: cultura animi; crescita e affinamento interiori) ma a popoli e nazioni. Tale concezione si suddivise in due prospettive: quella particolaristica riferita cioè a un preciso popolo (secondo Herder) e quella universalistica (riferita all'intera umanità (secondo Kant).

La definizione di Tylor, comprende sia la concezione particolaristica che quella universalistica, entrambe in opposizione all'idea individualistica di Cicerone. Per l'antropologia comunque il concetto di cultura comprende sia significati e tendenze collettive che individualistiche in quanto ciò permette di avere un quadro completo del significato del termine "cultura".

Il passaggio dall'idea individualistica a quella collettiva si ebbe con la rivoluzione industriale che portò anche una rivoluzione culturale all'interno dell'Europa e ciò permise di poter ampliare il concetto di "cultura" a un numero maggiore di individui; l'esistenza di forme di civiltà inferiori a quelle europee ha portato all'estensione del termine cultura anche a questi popoli che sono stati considerati come rappresentativi di stadi precedenti allo sviluppo complessivo della cultura umana la quale è stata considerata come un patrimonio ottenuto cumulativamente e ulteriormente incrementabile.

La definizione di Tylor si riferisce anche al fatto che esistono tante culture quante sono le società umane e che esse sono degli insiemi complessi scomponibili nelle sue stesse parti: tecnologia, economia, religione, politica, parentela ecc.. tali parti potevano essere comparate tra loro o con le culture occidentali portando a stabilire delle sequenze di sviluppo ed evoluzione per ciascuna di esse. Ciò si rifà perfettamente al progetto scientifico inscritto nel paradigma evoluzionista e imperniato sul metodo comparativo.

Nell'antropologia del '900 ciò che prevalse fu l'utilizzazione in senso particolaristico del termine cultura, caratterizzato appunto da elementi caratterizzanti come: lo sviluppo della ricerca sul terreno, lo studio di singoli gruppi localizzati, e la prospettiva solistica.

Il fondatore dell'antropologia statunitense tedesca fu Franz Boas. Egli sosteneva che gli antropologi dovessero impegnarsi nello studio delle singole culture e orientò gli interessi della sua scuola verso una considerazione delle diverse culture come "insiemi di tratti". Tali tratti descrivibili di una cultura permettono di assegnarle  caratteristiche determinate e distintive da parte di un osservatore esterno che appunto qualifica una certa cultura in base a degli elementi essenziali e costitutivi. Tali qualificazioni però non sono fisse e ad esempio nel giro di un secolo possono variare e opporsi l'una all'altra a causa di diversi fattori esterni. Quindi il problema che sorge è quello di delineare il momento in cui un "tipo" di cultura inizia e dove finisce.


L' "ESAGERAZIONE" DELLA CULTURA.

Il termine cultura inteso come "entità circoscritta, localizzata e descrivibile nei suoi elementi componenti", è in crisi.

In riferimento all'idea di "invenzione" di Wagner, si può affermare che la cultura non è qualcosa di ben definito e costante e nemmeno un'entità reale che si sviluppa in base a leggi proprie, bensì qualcosa che scaturisce da un accordo tra soggetti comunicanti, ognuno dei quali è portatore della propria cultura. James Boon ha parlato di "esagerazione delle culture". Tale esagerazione sarebbe il frutto di uno sforzo etnografico a creare degli oggetti di riflessione che possono essere comparabili sia tra loro che con l'esperienza culturale dell'osservatore; essa, secondo Boon, fa parte della cultura stessa, la quale a sua volta può essere ridefinita come la produzione di simboli e significati radicata in ogni processo di comunicazione tra soggetti. Egli sostiene che una cultura può "materializzarsi" solo in contrapposizione con un'altra cultura. E quindi l'attività etnografica è "culturale" in quanto comporta l'attivazione di quei processi comunicativi che sono alla base dell'esistenza di ogni cultura. Secondo Boon, vedere una cultura nuova in contrapposizione alla propria solo perché è diversa, vuol dire invaderla dei propri significati. Egli considera lo studio delle culture come "senso dell'antitesi". Secondo tale principio, l'antropologia è rappresentata proprio dal discorso comparativo il quale comporta un costante riferimento a due termini la cui presenza è necessariamente contemporanea: noi e gli altri. Gli antropologi studiando realtà culturali diverse dalla propria, giungono a conferire una coerenza interna alle culture da loro studiate e ad oggettivarle fino a giungere alla conclusione che ogni cultura è un estremo anche nella sua razionalità e senso comune. E questa veste "estrema" che per effetto di una esagerazione conferisce alle culture la tendenza di concepirsi come distinte dalle altre.

L'esagerazione della cultura ha due effetti principali: processo di reificazione e culturalismo.

Il processo di reificazione delle culture, può essere interno o esterno. Il processo interno è quello attraverso il quale i componenti di un determinato gruppo, che condividono una serie di codici e significati assegna a tali codici e significati una natura extarculturale che va al di là del significato assegnati a essi in base al flusso comunicativo e danno luogo a ciò che Roger M. Keesing ha chiamato "la magia dei simboli condivisi" attraverso cui ognuno di noi può comunicare ed essere compreso dagli altri. Il processo di reificazione esterno invece coincide con quell'esagerazione della cultura che scaturisce dalla scrittura etnografica.

Il culturalismo invece consiste nella tendenza ad enfatizzare la cultura come elemento di distinzione sul piano ideologico  come autovalorizzazione ed etnico come rivendicazione di autenticità, rispetto alle altre culture.

Il concetto di autenticità deriva proprio dall'uso del presente etnografico e vuole dare l'idea di una cultura autentica e immortale che è collocata fuori dal tempo e lontana da ogni condizionamento esterno dovuto ai processi di trasformazione e sviluppo.


LE MODALITÀ DI OGGETTIVAZIONE. L'INCIDENZA DEL GENERE.

Il "processo di oggettivazione" consiste nel "dare forma", costruire, produrre oggetti di discorso, esso non è un semplice riconoscimento di ciò che gli antropologi trovano durante le loro ricerche sul campo, ma passa attraverso una serie di operazioni che anche se indicano la stessa cosa, risultano essere diverse per il modo in cui vengono realizzate.

Ciò che in antropologia porta all'oggettivazione è detto "funzione formatrice" e consiste nel "dare forma" attraverso l'applicazione di determinate strategie, a dei simboli, a delle convenzioni a dei significati tipici di una cultura, in modo da produrre oggetti di discorso. Tali oggetti, sono quelli "autorizzati" da determinati paradigmi e si differenziano in base al tipo di discorso che intende impostare l'antropologo, infatti possono essere una cultura, una particolare struttura sociale o un dialogo. Anche per alcuni oggetti il cui significato è comune a tutti, può esserci una sorta di oggettivazione che rende tale significato differente. Tutto dipende dal tipo di discorso che si vuole produrre attorno a qualcosa.

Quindi in base alle forme di oggettivazione che l'etnografo intende dare, cambia anche il suo posizionamento all'interno del contesto etnografico. Tale contesto è considerato interattivo e proprio per questo, hanno grande importanza le dinamiche e le strategie di posizionamento degli antropologi che portano a diverse prospettive tra cui le più importanti sono quelle che dipendono dalla differenza di genere.

Le differenze di genere che permettono di concentrare le ricerche su determinati oggetti piuttosto che su altri, hanno una certa incidenza sul modo di descrivere le culture ma ciò è anche una questione di come l'antropologo vive la differenza all'interno della propria cultura.

Una questione importante per quanto riguarda la discussione sul genere è rappresentata dalla differenza tra i testi etnografici scritti da antropologi e quelli scritti da antropologhe. Quest'ultime infatti nella loro produzione etnografica, pongono la loro attenzione su aspetti che gli uomini difficilmente colgono e questo perché esiste una differenza di base tra la sensibilità maschile e quella femminile. Questa differenza è dovuta proprio alla posizione di controllo che l'uomo ha da sempre avuto nella società e che lo porta quindi a non immedesimarsi e a non saper "vedere" alcune situazioni che invece le donne proprio per la loro posizione sociale, riescono a sentire e provare.


CAPITOLO 5°

MODELLIZZARE

1. LA NATURA DEI MODELLI

I modelli sono delle costruzioni che permettono di rappresentare in maniera astratta e sintetica particolari rapporti tra elementi che l'antropologo ritiene di poter descrivere nel loro aspetto dinamico. I modelli "creano oggetti", li "costruiscono" per farceli "vedere".

In antropologia sono considerati modelli, oltre al frutto di lavoro teorico dell'antropologo, anche ciò che riguarda il nativo:

le enunciazioni dei nativi circa specifici comportamenti considerati da loro stessi validi

il loro stesso comportamento implicito o esplicito in determinate situazioni.

Ciò è importante per delineare le differenze tra modelli creati dall'antropologo e modelli dei nativi e capire dove essi si incontrano.


2. MODELLI ESPLICITI E IMPLICITI, CONSCI E INCONSCI, MECCANICI E STATISTICI

Un vero e proprio dibattito sui modelli è fatto risalire agli anni '45-50.

Alfred R. Radcliffe-Brown maggior esponente del cosiddetto indirizzo struttural-funzionalista, ha sostenuto, proprio in base a questo principio, che una società localizzata in uno spazio fosse un vero e proprio modello nato dalla combinazione delle relazioni multiple colleganti ciascun individuo con tutti gli altri individui per ottenere la struttura sociale.

Claude Lévi-Strauss criticò tale teoria, affermando che lo sguardo dell'antropologo non deve soffermarsi ai modelli che i nativi gli enunciano e gli dimostrano, e non deve considerarli "veri", ma deve "guardare oltre" e cogliere quelli aspetti non visibili  che hanno portato alla costruzione dei modelli da parte del nativo. A questo proposito egli effettua una distinzione tra modelli consci e inconsci, espliciti e impliciti.

I modelli coscienti, chiamati "norme" sono quelli la cui funzione è solo quella di rendere durevoli le credenze, e attraverso cui non si possono estrapolare significati più profondi oltre la loro struttura e quindi sono già dotati di forme di interpretazione in quanto costruiti dai nativi stessi. A differenza dei modelli inconsci che invece è compito dell'antropologo "cogliere" e costruire sulla base di ciò che non è stato percepito dai nativi.

Quindi abbiamo l'esistenza di due tipi di modelli: quelli dell'osservatore (impliciti) quelli dell'osservato (espliciti). A tale distinzione, sono stati proposti altri due tipi di modelli quelli impliciti e quelli espliciti da parte di Edmund Leach, il quale sostiene che gli antropologi descrivono dei modelli la cui struttura esiste solo nella loro mente come costruzione logica, e ad essi contrappone i modelli dei nativi che egli chiama regole giuridiche che riguardano il comportamento ordinato degli individui all'interno della struttura sociale, tali modelli rappresentano i modelli espliciti; mentre quelli impliciti consistono nelle norme statistiche che derivano da un'attenta analisi dell'antropologo verso le regole giuridiche. Infatti in questo modo egli studia e comprende il comportamento dei nativi e costruisce quei modelli impliciti di cui nemmeno il nativo è a conoscenza.

Lévi-Strauss ha introdotto un'altra distinzione: tra modelli meccanici e statici. I primi sono quelli che "guidano" alcuni comportamenti degli individui in quanto sono imposto dalla società, mentre i modelli statici, sono quelli in cui vengono presentate delle tendenze a cui ci si può conformare oppure no.




3. MODELLI RAPPRESENTAZIONALI E OPERATIVI; MODELLI "DI" E MODELLI "PER"

Esiste ancora un'altra distinzione e cioè quella tra modelli rappresentazionali e modelli operazionali. I primi sono quelli che corrispondono al modo in cui gli individui pensano che le cose stiano, mentre i modelli operazionali sono quelli in cui si riflette il modo d'agire degli individui in base a determinate situazioni.

Per quanto riguarda l'antropologo, egli deve costruire dei modelli che spieghino i vari comportamenti degli individui sulla base delle sue conoscenze e sui modelli che gli stessi applicano nella loro quotidianità e deve fare ricorso a tutta una serie di significati che scaturiscono dai vari atteggiamenti degli indigeni.

Clifford Geertz ha distinto i modelli di che servono per rappresentare e i modelli per che servono per agire.


4 MODELLI DECISIONALI E MODELLI OPERATIVI

La base principale dell'antropologia è rappresentata dalla riflessione e analisi del punto di vista del nativo che comprende le sue emozioni, motivazioni, modi di vedere il mondo e la vita.

Su questa concezione sono stati ideati due tipi di modelli: i modelli decisionali e i modelli generativi.

I primi sono stati proposti da Roger M. Keesing e si fondano sullo studio del punto di vista emico cioè su un'analisi attenta delle caratteristiche della cultura studiata, e rispondono alle seguenti caratteristiche:

1) definire il contesto secondo il punto di vista del nativo

2) definire una gamma di possibili soluzioni culturalmente accettabili

3) indicare una serie di regole seguite per prendere decisioni appropriate in presenza di combinazioni di circostanze possibili sul piano culturale

4) indicare quali sono le strategie per decidere tra alternative possibili.

Tale modello quindi è costruito su parametri culturali e si basa sulla strategia come mezzo per raggiungere scopi alternativi e sulla scelta come principio-guida nell'azione dei membri di una società.

I modelli generativi, invece sono stati introdotti da Fredrik Barth e anch'essi si basano sulle nozioni di strategia e scelta ma messe in relazione con il concetto di status. Infatti egli sostiene che l'azione di un individuo anche se è guidata da una scelta e una strategia è sempre influenzata da una serie di vincoli culturali e sociali specifici e condivisi cioè da uno status e ciò genera appunto un modello di organizzazione sociale, che l'antropologo ha il compito di identificare ed elaborare proprio in funzione del comportamento degli individui.

Secondo Barth quindi, il modello generativo proprio perché si basa sulle scelte e strategie degli individui, non "sta nella testa del nativo" ma dipende dal comportamento di esso.


5. LO STATUTO DEI MODELLI.

Tra tutti i modelli proposti in antropologia, quello che maggiormente rispecchia la realtà e da una descrizione oggettiva delle dinamiche sociali, politiche e rappresentazionali presenti nel modello stesso, è il modello segmentario; esso racchiude l'aspetto rappresentazionale, operativo ed esplicativo di tutti gli altri modelli.

Rappresentazionale in quanto da un'immagine della realtà vissuta dai nativi i quali dichiarano di attuare determinate scelte in base ai criteri regolativi del modello stesso, il principale dei quali è la prossimità genealogica degli individui e dei segmenti sociali.



Operativo la struttura genealogica, in diverse occasione funge da riferimento per le scelte.

Esplicativo perché ha una pretesa esplicativa in quanto è presentato dagli antropologi.

Emry Peters, vede nel modello segmentario un puro modello rappresentazionale a cui non può essere dato l'attributo di esplicativo ma semplicemente di conoscitivo in quanto egli sostiene che tale modello preso così com'è tende ad oscurare un'analisi dei processi reali che avvengono all'interno delle società che ne fanno uso.

Ernest Gellner invece interpreta tale modello come operativo e affinché possa essere considerato tale, ne delinea le seguenti caratteristiche:

si fonda sul criterio dell'opposizione dei segmenti che, a qualunque livello di segmentazione, sono in grado di rispondere a una "minaccia dal di fuori"

si presenta come una struttura ad albero rovesciato; ciò permette di individuare i gruppi e la loro vicinanza e di identificare l'appartenenza di un individuo a un gruppo

la discendenza è unilineare

ogni gruppo riproduce gli altri a qualunque livello di segmentazione.

Tale modello per Gellner serve come piano d'azione.

Gli antropologi nel definire lo statuto del modello segmentario, si dividono e alcuni si schierano con Peters sostenendo che tale modello è un insieme di rappresentazioni della realtà e della pratica sociale largamente privo di rapporti con quest'ultime. Altri invece appoggiano le idee di gellner e sostengono che il modello segmentario sarebbe la rappresentazione di fatti empirici.



CAPITOLO 6°

COMPARARE


COMPARAZIONE COME SPIEGAZIONE

In antropologia tutto ciò che viene studiato, può essere comparato e questo perché la cultura è strettamente comparabile in quanto la sua caratteristica principale è quella di definirsi in rapporto a ciò che non è.

Ogni progetto comparativo quindi necessita della definizione dei termini stessi della comparazione.

In antropologia l'uso della comparazione è strettamente legato allo scopo della spiegazione che l'antropologo ha il dovere di esporre per poter descrivere un determinato fenomeno.

Affinché si stabilisca un legame tra comparazione e spiegazione è stato introdotto il metodo delle correlazioni statistiche o delle variazioni concomitanti. Tale metodo consente di prevedere che quando un fenomeno varia, varierà anche quello o quelli con cui il fenomeno è statisticamente associato. Infatti esso era alla base di una ricerca su circa trecento società che aveva lo scopo di stabilire una correlazione tra alcuni riti relativi al parto (la couvade), il tipo di discendenza e alcune istituzioni (la residenza postmatrimoniale). La finalità di questo lavoro era quella di dimostrare, su basi statistiche, che se questi elementi si presentavano congiuntamente in un certo numero di casi era lecito supporre che quando qualcuno di questi veniva segnalato isolatamente dovevano essere necessariamente presenti anche gli altri.

Qui la comparazione si fondava sull'accostamento di insiemi costituiti da fatti correlati tra loro dalla loro compresenza all'interno dello stesso contesto.

Il metodo delle correlazioni statistiche ha contribuito a consolidare l'idea di antropologia come sapere fondato sulla comparazione.


2 . MODELLI COMPARATIVI

La comparazione viene effettuata da parte dell'antropologo sia attraverso la costruzione della rappresentazione degli oggetti di studio, sia attraverso la costruzione di modelli che permettono di spiegare meglio determinati fatti o situazioni. E questo perché i modelli hanno la capacità di farci "vedere come" dandoci la possibilità di vedere la realtà nel suo complesso, cosa che altrimenti non potremmo fare in quanto privi dell'esperienza diretta sul campo.

Dato che le rappresentazioni etnografiche variano in funzione del modello applicato allo studio di un determinato contesto storico-etnografico, la capacitò dell'antropologo consiste nell'identificare quel modello preciso che rispetto ad un altro riesce a dare un quadro completo e generale di ciò che si intende far conoscere.



COMPARAZIONI CONTROLLATE

Il funzionalismo britannico, applicò una comparazione più ristretta nel senso che prestò maggior attenzione allo studio dell'integrazione sociale e quindi praticò un comparativismo "controllato".

Nel 1965 Evans-Pritchard in un celebre saggio sul metodo comparativo, affermò che l'antropologia doveva spiegare le differenze, in quanto sono proprio queste che permettono di delineare un certo tipo di cultura rispetto ad un'altra. Per fare ciò occorre un'adeguata comprensione dei dati etnografici e un abbandono dell'idea di comparazione generalizzante in quanto questo tipo di comparazione un tempo molto praticata, è basata su dati scarsi e poco contemporanei che non permettono di formulare delle leggi generali sulla vita sociale.

Affinché si passi dalla comparazione generalizzante a una conoscenza delle singole culture senza che l'atto antropologico perda del suo significato, Pritchard propone un tipo di comparazione su scala limitata, che prenda in considerazione un solo tipo di società o tematiche circoscritte.

Il metodo comparativo circoscritto, era già stato proposto da Siegried F. Nadel, il quale in un breve studio sulla stregoneria in quattro società africane, diede un saggio di comparazione controllata fondata sul principio delle relazioni concomitanti. Egli, si propose di spiegare i diversi punti di vista sulla stregoneria presso i popoli presi in considerazione e quindi non aveva intenzione di dare una teoria generalizzante sulla stregoneria.

Lo scopo del suo studio è quello di costruire un modello su piccola scala di una analisi comparativa in modo tale da poter spiegare alcuni fatti sociali relativi alla stregoneria, fatti che si presentano come variabili di uno stesso complesso di elementi.


CLASSIFICAZIONI POLITETICHE E RETI DI CONNESSIONI

Il metodo comparativo è stato largamente criticato, sia da Edmund R. Leach negli anni '50 che da Rodney Needham negli anni successivi.

Leach sosteneva che gli antropologi avendo un concetto piuttosto vago di società, sono portati a distinguerne sempre di nuove quasi ad infinitum e ciò è dovuto al fatto che ogni società conosciuta può essere individuata come un sottotipo diverso da ogni altro in base a delle classificazioni ben precise.

Negli anni '70 Needham, criticò il metodo comparativo per quanto riguarda le classificazioni. Egli innanzitutto attaccò il significato e l'uso che veniva fatto del termine parentela, infatti sosteneva che tale termine come molti altri di uso comune dovevano essere usati in relazione al significato che assumevano all'interno delle diverse società e quindi non dovevano indicare concetti di significato generico per qualunque area.

Egli sosteneva che gli antropologi tendono a produrre tipologie solo apparentemente fondate su classificazioni di tipo monotetico, classificazioni cioè che derivano dall'idea che determinate caratteristiche siano presenti in maniera costante in ogni tipo di categoria studiata e ciò riporta all'affermazione di Leach circa il fatto che a una classificazione monotetica se ne possono aggiungere di infinite e quindi porta alla distinzione di diverse società.

Needham propose delle classificazioni di tipo politetico, cioè classi formate da individui che non condividono tutti uno o più tratti specifici, ma che ne condividono alcuni variamente distribuiti.

Tali classificazioni politetiche si rifanno alle "somiglianze di famiglia" di Ludwig Wittgenstein, in cui l'autore aveva invitato a "non pensare ma a osservare" nel senso che anziché forzare i dati in categorie precostituite, era necessario legare tali dati mediante connessioni. Egli sosteneva che individui appartenenti alla stessa famiglia non hanno tutti le stesse caratteristiche ma comunque hanno degli elementi particolari che permettono di identificarli in una famiglia ben precisa. Quindi secondo tale autore questo è il modo in cui bisogna produrre le classificazioni di oggetti che a loro volta portano ad una produttività dei concetti.

Le categorie politetiche di Needham però incontrano dei limiti in quanto comunque dipendono da condizionamenti culturali che precludono l'oggettività della comparazione e ciò dipende dal fatto che le somiglianze tra le società sono il frutto di sviluppi storici largamente indipendenti.

Inoltre gli oggetti che entrano a far parte delle classificazioni sono a loro volta costruzioni di altri soggetti e quindi possiedono caratteri politetici.

Needham quindi afferma che se per comparazione si intende "accostare tra loro società simili allo scopo di costituire dei "tipi", ciò è impossibile. Egli comunque ritiene che il fatto che non esistano dei termini classificatori standard è utile in quanto permette all'antropologo di aprirsi totalmente al riconoscimento e a comprendere meglio le diverse realtà.

Diversi autori, tra cui alcuni italiani, hanno visto nelle classificazioni politetiche la possibilità di instaurare connessioni capaci di arricchire la capacità comparativa dell'antropologo.

Francesco Remotti ha portato la problematica della comparazione sulla dimensione connessionista che a suo giudizio dovrebbe assegnare allo sguardo comparativo dell'antropologia una validità metodica fondamentale.

Egli propone di stabilire dei "fasci di connessioni" tra fenomeni, "reti di connessioni" che l'antropologia "va tessendo nei e tra i più svariati contesti".

La rete di connessione, pone un freno alla frantumazione della realtà umana dovuta all'utilizzazione di tipologie rigide e dato che è solo una parte di una totalità e permette di costruire dei fasci di relazione nelle culture che sono sempre di numero inferiore a quelli potenzialmente ricostruibili.


COMPARAIONE COME TRADUZIONE

Ogni comparazione porta sempre ad un problema di traduzione. In antropologia infatti quando si parla di traduzione ci si pone il problema di ricercare quei concetti di significati che permettono di stabilire delle leggi generali e di dare delle descrizioni di particolari situazioni che agli occhi dell'antropologo risultano essere conosciute ma che in realtà nel contesto del nativo hanno altri significati e quindi la loro denominazione risulta essere poco coerente con ciò che sta ad indicare.


CAPITOLO 7°

TRADURRE


IL DOPPIO PROBLEMA DELLA TRADUZIONE: LA LINGUA E LA CULTURA


Il problema principale dell'antropologo è quello di "tradurre", cioè "trasportare" la cultura oggetto di studio in un linguaggio comprensibile per il suo pubblico. Ma egli prima di testualizzare la propria esperienza etnografica, deve affrontare quel tipo di traduzione che avviene direttamente sul campo. Quindi quello della traduzione è un doppio problema.

Agli inizi degli anni '50 Nadel affermò che il problema principale per un antropologo è rappresentato dalla lingua in quanto essa è lo strumento principale per poter rappresentare i fatti e per poter comprendere i fatti stessi dato che ciò che si svolge sul campo, nasce sempre e comunque da un dialogo e quindi la stessa cultura è frutto di interazione linguistica tra i soggetti comunicanti. In questo senso quindi il compito dell'antropologo è principalmente quello di saper tradurre la situazione che osserva comprendendo bene l'uso testuale che viene fatto dei termini e avendo una buona conoscenza dell'intera organizzazione semantica delle lingue.


CULTURA COME TESTO E TRADUZIONE

Il lavoro di traduzione effettuato da un antropologo si manifesta principalmente sotto forma di testo scritto.

La metafora di cultura come testo è stata essa in luce dall'antropologia interpretativa che si muove su due livelli: da un lato fornisce i resoconti sugli altri mondi visti dall'interno e dall'altro riflette sui fondamenti epistemologici di questo genere di resoconti. Tradurre una cultura quindi va al di là della conoscenza della lingua e questo perché ogni cultura possiede una logica interna di ristrutturazione dei significati.

L'idea di una cultura come testo ha le proprie radici nell'ermeneutica filosofica contemporanea.

Hans-Georg Gadamer nel suo testo verità e metodo, dimostra come esistano delle analogie tra quello che è il compito del traduttore e il lavoro dell'antropologo.

Egli sostiene che ciò che il traduttore si prefigge è trasportare il significato del discorso, lasciandone inalterato il senso, nel contesto in cui vive colui al quale è rivolta la traduzione. Quindi la traduzione di un testo consiste nella sua interpretazione in quanto il senso del discorso viene ricostruito in un modo linguistico nuovo.

L'antropologo dal canto suo, si trova di fronte alla traduzione di una cultura che a sua volta non è riducibile a una sola lingua, ma è formata da un linguaggio fatto anche di pratiche e per di più è diversa dalla sua e quindi egli non può tradurre tutta una cultura. Quindi anche il "testo culturale" tradotto dall'antropologo risulta come un'interpretazione di quest'ultimo.

Gadamer fonda ciò che egli chiama ermeneutica storica. Egli propone una visione della conoscenza storica come caratterizzata dallo sforzo di mantenersi aperti a ciò che è altro, ad altri e svariati punti di vista, allargando gli orizzonti e la nostra comprensione in relazione a un contesto particolare che è parte di un mondo culturale e storico.

L'ermeneuta storico così come fa l'antropologo per le diverse culture, dovrebbe essere in grado di cogliere le differenze tra le diverse interpretazioni storiche, al fine di comprenderle.

L'antropologo però a differenza del rapporto che ha il traduttore col testo, si trova in una posizione di parità col suo informatore e ciò permette di rendere il dialogo più elastico e proprio perché i due soggetti "parlano" tra loro i significati vengono continuamente negoziati e riposizionati al fine di effettuare una traduzione sempre più "vicina" alla realtà studiata.


DAL TESTO AL PROTOTIPO CATEGORIALE

Molti scolari e seguaci di Clifford Geertz hanno mosso a quest'ultimo la critica secondo cui l'antropologia interpretativa risulta essere poco dialogica. Tale critica scaturisce dalla concezione della metafora "cultura come testo" come testo scritto e ciò pone dei limiti alla lettura in quanto con tale concezione essa viene effettuata sul modello del testo scritto.

Paul Ricoeur nel suo saggio Il modello del testo. L'azione significante considerata come testo, propone una diversa concezione di testo diversa dal suo significato letterario e discorsivo e inteso invece come azione testuale nel senso che può assumere diverse interpretazioni. Ciò è possibile attraverso un'oggettivazione del testo stesso che consiste nel fatto che: 1) il discorso per essere interpretato ha bisogno che l'interpretante abbia una buona conoscenza del contesto in cui esso avviene. 2) il discorso è pubblico e ciò genera appunto diverse interpretazioni da parte di diversi interpretanti. 3) il discorso esiste e quindi 4) è liberato dalle motivazioni soggettive del suo autore. Pertanto il discorso è intersoggettivo soggetto cioè a interpretazione che a sua volta consiste nella comprensione.

Il problema di una concezione troppo letterale della metafora testuale della cultura, può essere meglio compreso prendendo come riferimento la teoria dei prototipi e il concetto di densità semantica. Tali "pensieri" sono il frutto indipendente di due diversi modi di affrontare la questione di come vengono a prodursi determinate situazioni piuttosto che altre e ciò è dovuto al fatto che l'antropologo nel suo dialogo col nativo, negozia continuamente i significati e ciò gli permette di cogliere "le modalità di costituzione" delle rappresentazioni del nativo, tali modalità però anche se sono presenti in tutte le culture, non sono sempre e tutte uguali, ma possono definirsi "culturalmente orientate".

Facendo uso della teoria dei prototipi, di Eleanor Rosch, per quanto riguarda la costruzione di determinate categorie o classi di oggetti, si fa riferimento ad un prototipo, cioè a un oggetto-rappresentazione che costituisce il punto di riferimento per la costruzione degli altri.

Per quanto riguarda la densità semantica di Edwin Ardener invece, l'unica differenza che passa con la teoria dei prototipi è che l'idea di densità si basa sul principio della frequenza di associazioni che ricorrono nell'interazione con la realtà: le categorie incorporano degli elementi di natura statistica che le trasformano in veri e propri "oggetti", che ne fanno delle realtà separate, con una vita loro propria. Il compito delle teorie che sono il frutto dei processi di prototipizzazione o di densificazione, è quello di mettere ordine nel caos e nel disordine dell'esperienza.

Tenendo presente tali concetti, le categorie che gli esseri umani elaborano non sono dei testi veri e propri, cioè nella loro forma materiale, ma sono dei testi che vengono continuamente ricentrati dai soggetti durante l'interazione etnografica la quale permette all'antropologo di cogliere le dinamiche di categorizzazione di tali testi.


METAFORE, LINGUAGGIO E CONTETSI

L'uso della metafora in campo antropologico, è nato grazie alla riflessione sul reale problema della traduzione di culture che portano alle cosiddette "credenze apparentemente irrazionali". Infatti determinate affermazioni proprie di una cultura, risultano insensate agli occhi della cultura in cui vengono tradotte. In riferimento a tale problema, Godfrey Lienhardt afferma che il senso di determinate affermazioni apparentemente irrazionali, deve essere considerato e interpretato all'interno di quel contesto in cui vengono realizzate e ciò è possibile solo attraverso un resoconto completo delle concezioni relative alle relazioni tra umani e non umani.

In ogni caso però la metafora perde il senso pieno che possiede quando viene usata nel suo contesto e ciò porta ad una perdita nella traduzione delle culture che fa si che l'antropologo non trasmette mai totalmente ciò che egli crede di aver visto e compreso.


POTERE, INCOMMENSURABILITÀ E CONOSCENZA DELLA TRADUZIONE

L'idea di antropologia come traduzione di culture si è andata sempre più consolidando sostituendosi alla concezione di antropologia come forma di conoscenza psico-cognitiva e culturale dell'antropologo e da questo momento in poi è nato il problema del "riconoscimento".

David Pocock, un allievo di Evans-Pritchard, in base a ciò che secondo lui dovrebbe essere il compito dell'antropologo, ha affermato che affinché un lavoro di traduzione sia ben riuscito dovrebbe comportare l'adesione del nativo. Ma tale affermazione non è del tutto valida in quanto un lavoro di traduzione può essere fatto bene indipendentemente dall'adesione del nativo, infatti molti antropologi sostengono che i fenomeni sociologici sono obiettivamente studiati solo quando il loro significato soggettivo è preso in considerazione e le persone studiate possono condividere la coscienza sociologica che il sociologo ha di loro. In questo modo l'antropologo sovrapporrebbe la sua interpretazione a quella che i nativi stessi danno della propria vita imponendo ad essi la propria visione delle cose. Talal Asad ha messo in luce questo problema ribadendo il potere insito in ogni processo di traduzione e l'azione di superiorità esercitata da un linguaggio su di un altro.

Questo effetto egemonico oltre a riguardare il problema della traduzione investe anche piani estremamente "pratici" come le politiche di intervento di certi governi del terzo mondo nel settore educativo e in altri settori di sviluppo.

Allo scopo di chiarire il problema della traducibilità in antropologia intesa come impossibilità a tradurre fedelmente quella che è l'esperienza sul campo e a farla comprendere al lettore il filosofo Paul Feyerabend ha posto il problema della incommensurabilità. Egli sostiene che l'antropologia ha a che fare con cosmologie fondate su premesse incommensurabili essa si confronta con oggetti che hanno una diversa organizzazione concettuale interna, quindi per incommensurabilità intende una irriducibilità di un sistema a un altro in quanto una lingua è composta da regole e premesse ben precise e quindi incommensurabile con le altre ma ciò non pone dei limiti alla traduzione in quanto proprio in queste regole vanno ricercate quelle risorse adatte a spiegare determinati significati propri della cultura studiata. La traduzione pertanto avviene sulla base di una serie di relazioni e situazioni che hanno luogo durante il lavoro sul campo e che quindi permettono di comprenderle meglio e il compito dell'antropologo è proprio quello di ricercare ed usare la terminologia adatta a descrivere la sua esperienza.


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