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I delitti di omicidio in particolare




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I DELITTI DI OMICIDIO IN PARTICOLARE

Occorre analizzare il testo dell'art. 575 dove viene tutelata la vita umana. Il problema si pone in relazione al termine uomo. Che cosa si deve intendere per uomo? La tutela garantita alla vita dall'art. 575 si estende ad ogni appartenente al genere umano, uomo o donna, quale che sia la sua morfologia fisica, perché ciò che interesse è la sua morfologia biologica. L'art. 575 non può essere applicato al caso dell'uccisione del mostro umanoide e neppure al caso dell'uccisione dell'evolutissimo essere alieno: l'uno e l'altro dei casi non è preveduto dalla legge penale italiana come reato di omicidio, perché è un caso che non è contemplato dalla legge penale italiana. Nel nostro ordinamento vige il principio delle riserva di legge assoluta in materia penale, e quindi, non è possibile l'estensione analogica del tipo legale. Per ciò che concerne il tentativo occorre chiedersi se esso sia un fatto o un fatto considerato nella dizione dell'art. 575. L'intenzione criminosa che non si manifesta in un'attività non è altro che pensiero pensato e dunque non è un fatto; la semplice intenzione di uccidere non è perciò sufficiente per configurare il tentativo di omicidio, perché manca il fatto nel quale possano essere ravvisati gli estremi del tentato omicidio e cioè gli atti idonei e diretti in modo non equivoco a cagionare la morte di un uomo (art. 56 e 575).

L'articolo 3 del codice penale, sotto la rubrica "obbligatorietà della legge penale", stabilisce che: "la legge penale italiana obbliga tutti coloro che, italiani o stranieri, si trovano nel territorio dello stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o internazionale. La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che cittadini italiani o stranieri si trovano all'estero, ma limitatamente a casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale". Tale articolo enuncia il principio della territorialità. L'articolo 4 precisa che: "agli effetti della legge penale è territorio dello Stato il territorio della Repubblica e ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato". Inoltre, come specifica l'articolo 4 stesso, anche "le navi o gli aeromobili italiani sono considerati territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, a una legge territoriale straniera". Quindi, attraverso gli articoli 3 e 4, si può affermare che soggetto attivo del reato di cui all'art. 575, può essere sia un italiano che uno straniero, quanto un apolide e che l'equiparazione dell'apolide ai cittadini non avviene in applicazione dell'art. 3 ma dell'art. 4 nella parte in cui dispone che, agli effetti della legge penale, l'apolide residente in Italia è considerato cittadino italiano. Può essere punito per l'omicidio dovunque commesso chiunque lo abbia commesso.

L'articolo 575 descrive la condotta omicida e la descrive come causa della morte, tale descrizione implica l'acquisizione del concetto normativo di rapporto di causalità, che viene mediatamente a costituire parte integrante del tipo legale dell'omicidio. Per ritenere che il fatto concreto è conforme al tipo legale, è necessario quindi accertare la causalità nei modi delle regole di accertamento fissati dagli articoli 40 e 41 c.p.

Occorre ora precisare il significato e la portata del termine morte. La morte deve essere accertata in modo uniforme e che essa deve consistere nella cessazione dell'attività cerebrale dell'individuo: pertanto, sarà ritenuta una condotta omicida quella di chiunque abbia cagionato "la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo" di un altro uomo. Sul piano oggettivo la diagnosi di morte si basa sui criteri indicati dalla legge e ciò che l'accertamento della morte produce è l'esclusione del fatto che l'organismo sul quale avviene l'accertamento sia ancora un uomo; la definizione di morte diviene perciò il limite naturale di applicabilità dell'art. 575.

La vita umana è un bene giuridico in quanto è oggetto di tutela giuridica, ma è ovvio che in sé considerata essa non ha nulla di giuridico, anzi si può affermare che la tutela giuridica non le aggiunge nulla. Si può sicuramente affermare che è fuori discussione l'irrinunciabilità della tutela della vita, anche per il ruolo fondante che essa svolge nei confronti degli altri beni giuridici. Relativamente all'essere lasciati in vita si potrebbe ipotizzare un diritto-dovere, un diritto di vivere al quale però faccia riscontro anche un dovere di vivere: questa concezione risulta avvalorata dall'art. 32 Cost., il quale tutela la salute, e dunque per estensione la vita come "fondamentale diritto dell'individuo", ma anche come interesse della collettività".

La stessa materialità di illecito è valutata dalla legge in modo diverso e tale diversità dipende dall'atteggiamento psicologico dell'autore rispetto al fatto. Affinché il fatto integri con la necessaria determinatezza la fattispecie legale dolosa oppure quella colposa, posto che entrambe descrivono la stessa materialità di fatto, è necessario corredare il fatto di un elemento descrittivo ulteriore e precisamente di quello sintomatico dell'esistenza del dolo o della colpa (575, fattispecie dolosa; 589 fattispecie colposa).

Per ciò che riguardo le norme legittimanti, queste potrebbero essere prese in considerazione come norme in antitesi, in conflitto con le norme incriminatrici, come sostiene un illustre penalista, Giorgio Marinucci, e cioè come conto-precetti, ovvero come precetti che negano, limitatamente a determinate situazioni di fatto descritte nelle singole norme legittimanti, la validità di altri precetti penali, escludendone l'applicabilità secondo la logica della soluzione di un conflitto apparente di norme. In questa concezione è da apprezzare il chiarimento della connessione esistente fra reato e conseguenze giuridiche. L'affermazione del principio di materialità in forza dell'art. 25 Cost. deve valere all'interno del principio di legalità: così, il fatto che deve essere punito è per definizione il fatto preveduto come reato che non è con-presente a uno dei fatti preveduti dalla legge come scriminanti. La garanzia costituita dalla materialità del fatto deve dunque valere tanto riguardo al fatto che costituisce il reato quanto riguardo al fatto che esclude il reato. Sulla base di questa constatazione l'individuazione dell'elemento soggettivo dell'illecito investe quindi non solo la ricognizione degli elementi che ci devono essere affinché il fatto sia conforme alla previsione incriminatrice, ma si estende anche agli elementi che non ci devono essere affinché il fatto non corrisponda a una previsione scriminante (elementi positivi ed elementi negativi). Si deve precisare, inoltre, che buona parte della dottrina è favorevole all'estensione per analogia (c.d. in bonam partem) delle fattispecie scriminanti, per la ragione che le norme che le prevedono sono norme in forza delle quali non si punisce e dunque non sono norme penali, ma sono espressione di principi generali dell'ordinamento.

L'OMICIDIO PRETERINTENZIONALE

Nella fattispecie dell'omicidio preterintenzionale è indifferente che si verifichi l'evento voluto (lesioni personali o percosse) perché l'evento costitutivo dalla fattispecie è l'evento della morte, non voluto ma causato; ai fini della descrizione della fattispecie è dunque superflua la menzione della verificazione dell'evento voluto, poiché ciò che è determinante è la sussistenza del dolo del delitto di percosse o di lesioni, perché nell'omicidio preterintenzionale questo elemento psichico deve dirigere la condotta dalla quale deriva l'evento più grave non voluto. Si ricordi la definizione data dall'articolo 43 c.p., per la quale il delitto è preterintenzionale "quando dall'azione od omissione deriva un evento più grave di quello dovuto dall'agente". Si deve concludere, dunque, che almeno il tentativo di percosse o di lesioni personali è necessario affinché possa sussistere il dolo relativo all'evento del reato di passaggio, quello attraverso il quale si cagiona la morte, evento che deve essere voluto perché la definizione normativa del delitto preterintenzionale data nell'articolo 43 postula l'esistenza del dolo rispetto all'evento meno grave. La limitazione modale riferita, che restringe l'ambito della condotta rilevante da quella genericamente causale dell'art. 575 a quella che si specifica per essere diretta a commettere il delitto di percosse o il delitto di lesioni, non esclude che la fattispecie descritta dall'art. 584 sia anch'essa una fattispecie causalmente orientata. Occorre però che sia ben chiaro che il dolo del reato di passaggio non ha nulla a che vedere con l'evento morte, che è un evento non voluto. Si è detto anche che l'evento morte può essere imputato a titolo di responsabilità oggettiva oppure a titolo di colpa. La prima era più coerente con la sistematica del codice Rocco e con la previsione in linea generale della responsabilità oggettiva enunciata all'articolo 42. La seconda ipotesi deve essere però attualmente essere preferita, anche se manca nell'art. 584 la previsione espressa della responsabilità a titolo di colpa per l'evento morte, che sarebbe richiesta dall'art. 42. Infatti, dopo la nota sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, l'esigenza di adeguare la legge vigente al principio di personalità della responsabilità penale (art. 27 Cost.) rende necessaria la rilettura dell'art. 584 nel senso della responsabilità soggettiva: dolo, quindi, per l'antecedente causale, colpa per l'evento più grave di quello voluto. Un caso particolare di omicidio preterintenzionale è preveduto dall'art. 18, comma quattro della legge n. 194 del 1978. La struttura della fattispecie differisce da quella generale descritta nell'art. 584 c.p., perché in questo caso la morte che costituisce l'evento dell'omicidio preterintenzionale deve essere causata da un aborto e dunque la vittima può essere esclusivamente una donna in stato di gravidanza. La condotta tipica è alternativamente descritta come quella di chi "cagiona l'interruzione della gravidanza senza il consenso della donna", oppure come quella di chi "provochi l'interruzione della gravidanza con azioni dirette a provocare lesioni alla donna". Nell'uno e nell'altro caso il reato di passaggio, che ai sensi di questa particolare norma incriminatrice deve essere consumato, è quello di aver cagionato l'interruzione della gravidanza in assenza del consenso della donna. L'aborto causato è anch'esso preterintenzionale. Occorre aggiungere la precisazione che l'evento morte della donna, preveduto dall'art. 19 comma 5 e 6 della stessa legge n. 94 del 1978, costituisce una circostanza aggravante della procurata interruzione della gravidanza con inosservanza delle prescrizioni di legge; l'addebito di tale circostanza è dunque subordinato alla disciplina generale, disposta dall'art. 59 c.p.

LA MORTE COME DELITTO ABERRANTE: L'ARTICOLO 586

L'art. 586 stabilisce che "quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell'art. 83 ma le pene stabilite negli articoli 589 e 590 sono aumentate". L'evento morte, che si realizza a causa di un errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del delitto doloso o per un'altra causa, deve essere causato per colpa dell'agente. Non deve dunque trattarsi di una causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento e neppure di una causa che rappresenti l'evenienza del caso fortuito o della forza maggiore. Quando si avvera l'ipotesi dell'errore nell'uso dei mezzi di esecuzione del reato esso è usualmente qualificato come errore inabilità o errore imperizia.

All'interno dell'art. 586, il rinvio alle disposizioni dell'art. 83 costituisce un supplemento descrittivo che specifica la disciplina applicabile nel senso che, sotto un primo profilo, l'iniziale condotta dolosa non determina responsabilità penale per l'evento aberrante, salvo che tale evento non si realizzi per colpa e tale fatto non sia autonomamente già previsto dalla legge come delitto colposo, e, sotto un secondo profilo, che trovano applicazione le regole del concorso formale di reati, quando si avveri l'ipotesi considerata sotto il primo profilo. L'articolo 83 rappresenta la norma generale che disciplina i casi in cui, a seguito del tentativo o della realizzazione di un reato se ne cagiona per colpa un altro preveduto come delitto colposo, qualunque sia. L'articolo 586 disciplina l'ipotesi particolare in cui a seguito di un delitto doloso si cagiona per colpa la morte o la lesione di una persona; l'articolo 586 è dunque norma doppiamente speciale rispetto all'articolo 83: in primo luogo perché l'art. 586 presuppone la commissione di un delitto doloso e non anche di una contravvenzione dolosa, a differenza dell'art. 83 che presuppone genericamente un reato; in secondo luogo perché l'evento non voluto, rilevante per l'art. 586, è limitato alla morte o alla lesione personale, mentre per l'art. 83 può essere qualunque evento costitutivo di un delitto colposo. Come l'art. 83 anche l'art. 586 non è una norma incriminatrice.

L'interpretazione letterale dell'art. 586, integrato dal rinvio all'art. 83, consente di ritenere che l'addebito della conseguenza non voluta è normativamente previsto a titolo di colpa. La medesima conclusione non è possibile senza una forzatura del testo dell'art. 584, nel quale non compare l'espressa menzione della colpa.

L'articolo 586 disciplina come evento aberrante la morte che derivi come conseguenza non voluta dalla commissione di un delitto doloso, consumato o almeno tentato; in tale caso esso rinvia alla disciplina dell'art. 589, con l'aumento fino ad un terzo della pena prevista per l'omicidio colposo, in concorso formale con il delitto doloso presupposto. Ovviamente, l'aumento fino al triplo previsto per il concorso formale di reati, sarà disposto in relazione alla pena prevista per la violazione più grave. Occorre precisare che il delitto doloso presupposto non può consistere di percosse o lesioni personali perché se da tali delitti deriva la morte della medesima persona offesa deve trovare applicazione, per il principio di specialità, l'art. 584, per cui il fatto deve essere valutato come omicidio preterintenzionale. L'art. 586 può trovare applicazione quando dal delitto presupposto di percosse o lesioni personali derivi la morte della persona diversa dal percosso o dal leso. Deve ancora precisarsi che il medesimo principio di specialità impedisce che anche altri delitti possano costituire il delitto presupposto rilevante ai sensi dell'art. 586. Ciò avviene in tutti i casi in cui la legge penale prevede espressamente un aumento di pena da applicarsi sulla pena prevista dal delitto doloso dal quale deriva la morte come conseguenza non voluta dal reo (ad es. gli articoli 571, 572, 588, 591 ecc.).

OMICIDIO COLPOSO

L'articolo 589 descrive l'omicidio colposo come il fatto di chi "cagiona per colpa la morte di una persona". La descrizione della condotta  è a forma libera e cioè c'è la possibilità di realizzare la morte della persona con una azione o con un'omissione. La specificità dell'art. 589 consiste nella previsione di una condotta colposa, come tale produttiva di un evento che si verifica contro l'intenzione dell'agente, ma pur sempre per una sua inosservanza volontaria di cautele doverose, inosservanza che rende la sua condotta imprudente, negligente o imperita ovvero inosservante delle regole specificamente mirate allo scopo di impedire danni per i terzi. L'evento colposo non è voluto, si verifica contro l'intenzione; ciò significa che anche quando l'agente si rappresenta la possibile verificazione dell'evento, la rappresentazione lo conduce ad escludere tale possibilità. Il grado delle colpa è direttamente proporzionale alla prevedibilità dell'evento. La previsione dell'evento è una circostanza aggravante dell'omicidio colposo perché alla colpevole indifferenza di chi espone gli altri ad un pericolo quando il danno era prevedibile, si aggiunge l'errore di valutazione del potenziale di pericolosità della condotta. Tale errore, che è poi una colpevole sottovalutazione del pericolo di un danno previsto, può consistere tanto nell'esclusione della verificazione di un accadimento, che invece poteva accadere e che in realtà si verifica, quanto nella ipervalutazione della abilità dell'agente, ritenuta tale da scongiurare l'evento e che tale invece non si dimostra, perché l'evento si verifica. È necessario rilevare che l'evento è preveduto anche in alcuni dei casi di colpa impropria, ad esempio quando un omicidio è commesso per eccesso colposo di una causa di liceità oppure nella supposizione erronea dell'esistenza di un tale causa. In tali casi non è possibile ravvisare l'esistenza della circostanza aggravante.

La pena prevista per l'omicidio colposo è la reclusione da sei mesi a cinque anni. Tuttavia, l'articolo 589 prevede anche l'omicidio colposo plurimo e l'omicidio colposo in concorso con le lesione personali colpose; in tal caso si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni dodici. In relazione al regime sanzionatorio si deve rilevare che l'art. 589 stabilisce il minimo edittale di un anno di reclusione "se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quella per la prevenzione degli infortuni sul lavoro"; negli stessi casi la pena edittale massima, la reclusione di cinque anni, rimane inalterata. Se più fatti di omicidio colposo possono essere commessi con un'unica condotta, un solo fatto di omicidio colposo può essere commesso da più persone. Come è noto, l'ipotesi è prevista in astratto dall'art. 113, che descrive questa forma del concorso come una cooperazione di più persone nel cagionare l'evento di un delitto colposo. La cooperazione, però, non può essere identificata attraverso la convergenza causale delle condotte verso l'evento che determinano; infatti, ciò significherebbe ridurre la cooperazione colposa a responsabilità oggettiva. È necessario, invece, che la cooperazione colposa sia denotata non solo dalla cosciente volontà di unire la propria all'altrui condotta, ma anche dalla violazione di regole di cautela o di tutela che deve viziare le singole condotte: queste si palesano imprudenti o inosservanti perché era prevedibile che la cooperazione avrebbe determinato un evento di danno. Si rammenti, infine, che non è necessario che la condotta di ciascuno dei cooperatori sia viziata dalla stessa imprudenza, dalla stessa imperizia (l'uno si affida all'imprudenza dell'altro).

L'INFANTICIDIO IN CONDIZIONI DI ABBANDONO

L'art. 578, nel testo introdotto dalla legge n. 442 del 1981, punisce con la reclusione da quattro a dodici anni "la madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale o morale connesso al parto". La legge dell'81 ha abrogato la previsione del c.d. matrimonio riparatore, che costituiva una causa speciale di estinzione dei reati contro la libertà sessuale, e la fattispecie dell'omicidio per causa d'onore, che puniva con l'esigua pena della reclusione da tre a sette anni l'omicidio commesso contro il coniuge, la figlia o la sorella nell'atto della scoperta di una illegittima relazione carnale e nello stesso stato d'ira derivante appunto dall'offesa all'onore.

Le condizioni di abbandono materiale e morale costituiscono l'antecedente causale del fatto, il quale è ovviamente costituito dall'infanticidio nell'immediatezza del parto o dal feticidio durante il parto. Le condizioni rilevanti ai dell'art. 578 si ravvisano nell'isolamento psicologico e nella solitudine reale della madre e nella mancanza della necessaria assistenza dipende dall'isolamento cui la madre è in qualche modo costretta. Può inoltre concorrere a determinare tale situazione la grave indigenza della donna. L'articolo 578 stabilisce che a coloro che concorrono nel fatto si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi. Le condizioni di abbandono che determinano l'atroce scelta della madre, non spiegano la condotta del concorrente che, invece di attivarsi positivamente per alleviare, istiga la madre o agevola l'uccisione del feto o del neonato.

Il fatto costitutivo dell'infanticidio o del feticidio è costituito dalla condotta che cagiona la morte del neonato immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto. Le ipotesi di uccisione di mano propria, di uccisione di mano propria in concorso di due persone e del concorso della madre nell'uccisione perpetrata da un'altra persona rientrano nella previsione dell'art. 578 che dunque, nel suo nucleo principale descrive un reato proprio della madre. L'immediata connessione con il parto e le condizioni di abbandono sono dunque gli elementi che specificano il fatto preveduto dall'art. 578. L'elemento specializzante costituito dalle condizioni di abbandono materiale e morale connesse con il parto non rileva soltanto oggettivamente, ma anche soggettivamente, perché esso deve essere conosciuto dalla madre per determinarla all'infanticidio.

Il tenore letterale dell'art. 578, secondo comma, sembra restringere l'ambito della previsione soltanto al primo caso perché si riferisce espressamente a coloro che concorrono; stranamente, però, ai concorrenti nel fatto della madre si applica la pena non inferiore ad anni ventuno, che è la stessa pena dell'omicidio comune. La previsione può apparire sorprendete per la sua incongruenza con la regola generale del concorso di persone stabilita all'art. 110, in forza della quale "quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita". Nel caso di concorso di persone previsto dal secondo comma dell'art. 578, i concorrenti non sono puniti con la pena prevista per il reato proprio della madre, ma con una pena diversa e più precisamente con la stessa prevista per l'omicidio comune. Ciò induce a riflettere su una possibile alternativa:

L'art. 578 comma due, si limita a disciplinare un'ipotesi di concorso di persone introducendo una eccezione rispetto alla regola generale della medesima entità della pena;

L'art. 578 comma due, incrimina in via autonoma la condotta del concorrente in un delitto di feticidio o di infanticidio. Ci sembra che la seconda alternativa, quella ciò che ravvisa nell'art. 578, comma due, un'autonoma norma incriminatrice, debba essere preferita.

La previsione incriminatrice dell'art. 578 secondo comma, riconosce efficacia attenuante all'aver agito "al solo scopo di favorire la madre". Orbene, posto che lo scopo di favorire non può coincidere con l'aiuto ai fini dell'uccisione, la circostanza attenuante speciale ad effetto speciale, deve consistere in una estremistica manifestazione di solidarietà, sentimento di per sé apprezzabile anche se nel caso è dissennatamente orientato. La circostanza in parola è facoltativa: dunque, l'applicazione della circostanza, anche quando in punto di fatto la sua sussistenza sia certa, è dalla legge rilasciata all'apprezzamento discrezionale del giudice, che potrebbe negare la concessione anche quando il concorrente avesse agito al solo scopo di agevolare la madre.

L'OMICIDIO DEL CONSENZIENTE

L'art. 579 punisce con la reclusione da sei a quindici anni "chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui". Il nucleo concettuale di questa disposizione consiste nell'esclusione del bene della vita dalla disponibilità individuale. L'uso dell'espressione "aiuto a morire", segnala un accostamento tra la fattispecie dell'articolo 579 e 580, poiché individua genericamente una condotta che in concreto realizza la volontà della vittima. L'enunciato aiuto a morire si attaglia con tragica precisione ai casi in cui una malattia irreversibile infligge una continua tortura psicofisica, che il malato rifiuta e quindi rifiuta di continuare a vivere. L'aiuto a morire presuppone dunque, almeno il consenso, ma richiede anche una capacità diagnostica e prognostica precisa.

La rilevanza del consenso della vittima all'interno della fattispecie dell'art. 579 è una rilevanza di fatto ovvero, più precisamente, il consenso rileva come fatto aggiuntivo rispetto al fatto di cagionare la morte, che l'art. 579 ha in comune con l'art. 575. Questa constatazione propone come possibile l'ipotesi che l'art. 579 primo comma, preveda una circostanza attenuante dell'omicidio comune e non una fattispecie autonoma di reato. L'ipotesi, però, non è fondata. Infatti, si deve considerare che lo stesso art. 579 al secondo comma stabilisce che non si applicano le aggravanti stabilite all'art. 61, il che  lascia intendere che la precedente statuizione del primo comma descrive un reato autonomo rispetto all'omicidio comune. Si applicano, all'omicidio dl consenziente, le disposizioni relative all'omicidio se l'omicidio del consenziente è commesso:

Contro una persona minore degli anni 18;

Contro una persona inferma di mente o che si trova in stato di deficienza psichica per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti;

Contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con l'inganno.

In questi casi l'omicidio del consenziente deve essere considerato come un omicidio comune. L'elemento del consenso è un elemento specializzante, nel senso che questo fatto aggiuntivo specializza la previsione dell'art. 579 rispetto a quella generale dell'art. 575.

Relativamente al consenso occorre analizzare:

Se il consenso è oggettivamente accertato, il fatto commesso è un omicidio del consenziente, tanto se il consenso sia conosciuto quanto se esso sia ignorato da chi uccide;

Se il consenso è oggettivamente inesistente, ma l'agente ritiene per errore che il consenso sussista, tale errore verte sul fatto costitutivo di reato che effettivamente commette, e cioè un omicidio comune, perché l'agente non si rappresenta il fatto di un omicidio comune, in quanto ciò che si rappresenta è il fatto di reato che contiene l'elemento specializzante del consenso e cioè l'omicidio del consenziente; l'errore di rappresentazione esclude il dolo del reato che effettivamente si commette, l'omicidio comune, ma non esclude che il fatto possa essere punito come reato diverso; non necessariamente come reato colposo, non proprio perché l'errore sul consenso potrebbe non essere un errore determinato da colpa, ma un errore scusabile, quanto piuttosto perché sarebbe illogico punire che ha comunque voluto un omicidio come se non lo avesse voluto: il ripiego sulla fattispecie dell'art. 579 sembra dunque essere, anche sulla base delle argomentazioni già svolte in sede di interpretazione dell'art. 578, un equo contemperamento tra le esigenze di tassatività e quelle di giustizia.

L'AIUTO AL SUICIDIO

L'art. 580 primo comma punisce "chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione". La pena prevista dalla riferita norma incriminatrice è la reclusione da cinque a dodici anni "se il suicidio avviene"; "se il suicidio non avviene", la pena è la reclusione da uno a cinque anni, "sempre che dal tentativo derivi una lesione personale grave o gravissima". Lo stesso articolo al secondo comma, stabilisce che le pene previste, sono aumentate "se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri uno e due dell'articolo precedente". L'art. 580 non contiene altre disposizioni relative alle circostanze: dunque, a differenza di quanto stabilito nell'art. 579, all'aiuto al suicidio sono applicabili le circostanze aggravanti comuni.

La vigenza dell'art. 580 potrebbe essere insidiata dalla sanzione di illegittimità costituzionale, qualora fosse possibile dimostrare il riconoscimento del diritto al suicidio da parte di una norma sovraordinata di rango costituzionale. È noto però che la nostra Costituzione non stabilisce espressamente quale carattere, individuale o sociale, debba essere riconosciuto al diritto alla vita, anche se l'art. 2 Cost., richiedendo l'adempimento di doveri inderogabili di solidarietà, e l'art. 32 Cost., tutelando la salute in quanto fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività sembrano rafforzare piuttosto la concezione sociale e solidaristica che quella individualistica.

Per spiegare la norma dell'art. 578 non si può desumere la criminosità dell'aiuto dalla criminosità del suicidio, perché il suicidio non è preveduto dalla legge come reato. L'aiuto al suicidio è criminoso in se stesso, in quanto è causa dell'atto autolesionistico; non è invece criminoso l'atto autolesionistico per sé considerato, il quale per la legge penale rileva come un semplice dato di fatto coincidente con l'esito naturalistico cioè con la morte del suicida.

Il concorso apparente di norme tra l'art. 580 e l'omissione di soccorso di una persona che stia tentando o abbia tentato di uccidersi (art. 583) deve essere risolto con l'assorbimento dell'omissione di soccorso nell'aiuto al suicidio, quando l'omissione di soccorso sia soltanto il mezzo attraverso il quale l'omittente intende aiutare l'altra persona a morire suicida, perché il fatto integra una delle forme di condotta previste dall'art. 580.

LA RESPONSABILITA' CIVILE NEL CASO DEL TENTATO OMICIDIO DEL CONSENZIENTE E DI AIUTO AL TENTATO SUICIDIO

La legge penale non prevede come reato l'aiuto al suicidio, quando dal tentato suicidio non derivino lesioni personali gravi o gravissime. Ciò comporta che non sussiste la responsabilità civile per il danno non patrimoniale, perché l'obbligo al risarcimento del danno non patrimoniale, oltre che di quello patrimoniale, sussiste quando il fatto dannoso costituisce anche reato. La medesima conclusione è valida anche nell'ipotesi di omicidio del consenziente. Non è infatti ammissibile che il consenso dato alla propria morte lasci presumere il consenso alla lesione dell'integrità fisica: si tratta di beni diversi e dunque di due diversi diritti, dei quali l'uno non può essere considerato soltanto come una parte dell'altro.

LE FATTISPECIE CHE COMPRENDONO FATTI DI OMICIDIO

L'art. 276 nella formulazione modificata dalla legge n. 1317 del 1947, punisce con l'ergastolo "chiunque attenta alla vita del Presidente della Repubblica". Poiché lo stesso articolo non prevede il fatto che dall'attentato derivi la morte e poiché non c'è un'altra previsione al riguardo, è giocoforza interpretarlo nel senso che la previsione sia comprensiva anche dell'ipotesi in cui l'attentato produca la morte voluta.

All'art. 295 si afferma: "Chiunque nel territorio dello stato attenti alla vita, alla incolumità o alla libertà personale del capo di uno Stato estero è punito, nel caso nel caso di attentato alla vita, con la reclusione non inferiore a venti anni e, negli altri casi, con la reclusione non inferiore ad anni quindici. Se dal fatto è derivata la morte del capo dello Stato estero, il colpevole è punito con l'ergastolo". La norma incriminatrice, a differenza di quella di cui all'art. 276, tutela un interesse esterno al nostro ordinamento, e cioè l'inviolabilità della persona del capo di Stato estero. Il fatto deve essere commesso nel territorio dello Stato italiano.

Nella norma contenuta nell'art. 285 si afferma: "Chiunque, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, commette un fatto diretto a portare la devastazione, il saccheggio o la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso è punito con l'ergastolo". Come espressamente previsto all'art. 422 per aversi strage è necessario che, al fine di uccidere, vengano compiuti atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità. Il bene tutelato dalle norme è la sicurezza dello Stato; dunque l'attentato alla pubblica incolumità, e cioè la strage, costituiscono soltanto il modo dell'offesa.

LE CIRCOSTANZE AGGRAVANTI

Le circostanze aggravanti relative all'omicidio doloso sono previste agli articoli 576 e 577. Queste sono circostanze speciali e, dal momento che determinano un aumento di pena in misura diversa da quello comune (che è fino ad un terzo), esse sono anche circostanze ad effetto speciale; come tali devono essere valutate prima delle circostanze ad effetto comune e ciò significa che qualora esse concorrano con altre circostanze aggravanti l'aumento di pena relativo alle circostanze comuni deve essere effettuato dopo l'applicazione delle circostanze ad effetto speciale e cioè sulla pena stabilita per la circostanza anzidetta. Poiché, però, tanto l'art. 576 quanto l'art. 577 stabiliscono che l'effetto speciale delle aggravanti in esse previste consista nell'inflizione dell'ergastolo, quando è applicata una circostanza autonoma ad effetto speciale, l'inflizione della pena massima non lascia spazio, in concreto, per l'applicazione delle altre aggravanti, ancora speciali o comuni, che pure siano state eventualmente imputate e accertate. Le aggravanti speciali contemplate all'articolo 576 sono:

Col concorso di taluna delle circostanze indicate nel n. dell'art. 61. Trattasi della c.d. connessione teleologica e si sostanzia nel reato che viene commesso per commetterne un altro e quindi è in rapporto di mezzo a scopo con un ulteriore reato, ovvero nel reato che viene commesso per assicurarsi il profitto di un altro reato, oppure per assicurarsi l'impunità in relazione ad un reato già commesso.

Contro l'ascendente o il discendente, quando concorre taluna delle circostanze indicate nei numeri 1 e 4 dell'art. 61 o quando è adoperato un mezzo venefico o un altro mezzo insidioso ovvero quando vi è premeditazione;

Dal latitante, per sottrarsi all'arresto, alla cattura o alla carcerazione ovvero per procurarsi i mezzi di sussistenza durante la latitanza. È latitante, agli effetti della legge penale, chi si trova nelle condizioni indicate nel numero 6 dell'art. 61.

Dall'associato per delinquere, per sottrarsi all'arresto, alla cattura o alla carcerazione;

Nell'atto di commettere taluno dei reati preveduti dagli articoli 519, 520 e 521. Essendo stati abrogati con la legge n. 66 del '96, riteniamo che l'aggravante continui a sussistere con riferimento agli art. 609 bis e ter.

All'articolo 577 si prevede che si applica la pena dell'ergastolo se il fatto di cui all'art. 575 è commesso:

Contro l'ascendente o il discendente;

Col mezzo di sostanze venefiche, ovvero con un altro mezzo insidioso;

Con premeditazione;

Col concorso di talune delle circostanze indicate nei numeri 1 e 4 dell'articolo 61.

La pena è della reclusione da ventiquattro a trenta anni, se il fatto è commesso contro il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, o il figlio adottivo, o contro un affine in linea retta.

Le circostanze aggravanti prevedute dagli articoli 576 e 577 non si applicano al delitto di infanticidio e neppure all'istigazione o aiuto al suicidio, perché riguardo a queste fattispecie non esiste nessuna alcuna norma che a quelle circostanze faccia riferimento, ai fini dell'applicazione. Infatti l'art. 585 ne estende l'applicazione soltanto nei confronti della fattispecie dell'art. 584.


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