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Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione




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DELITTI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE

PECULATO

Il peculato, inteso in senso lato, in sostanza non è altro che un'appropriazione indebita commessa da un pubblico funzionario. Questo tipo di delitto, era spezzato nel nostro codice in tre distinte figure autonome: il peculato, la malversazione a danno dei privati e il peculato mediante profitto dell'errore altrui. Dopo la riforma con la legge 26 aprile 1990 n. 86, abrogato il delitto di malversazione, residuano le due figure del peculato e del peculato mediante profitto dell'errore altrui. Ad esse il legislatore della riforma a ritenuto opportuno di introdurre la previsione espressa del peculato d'uso.

PECULATO (art. 314). Consiste nel fatto del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che, "avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria". Presupposto del delitto è che il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio abbia, per ragione di ufficio, il possesso o comunque la disponibilità della cosa o del denaro. Il possesso, come inteso dalla norma, consiste nella possibilità di disporre, al di fuori della sfera altrui di vigilanza, della cosa sia in virtù di una situazione di fatto, sia in conseguenza della funzione giuridica esplicata dall'agente nell'ambito della Pubblica Amministrazione. Incertezze sorgono anche nel percepire quando si abbia la ragion d'ufficio come titolo di possesso. In senso stretto, questa espressione esige che tra la funzione pubblica ed il possesso della cosa o del denaro intercorra un rapporto di dipendenza immediata. Intesa invece in senso ampio, la ragione d'ufficio diventa equivalente di occasione, in modo da comprendere ogni possesso che comunque tragga origine dalla funzione pubblica esercitata dal soggetto. La cosa, o il denaro devono essere altrui cioè possono appartenere alla Pubblica Amministrazione, o a qualsiasi altro soggetto privato. La giurisprudenza è da tempo orientata nel senso di una maggiore estensione del concetto di appartenenza. In particolare, fin dalla sentenza 9 novembre del 1948 la Cassazione ha affermato che nell'ambito del diritto pubblico il concetto anzidetto comprende non solo i poteri che derivano da rapporti di natura patrimoniale, ma anche da rapporti di altre indole che, comunque, importino la facoltà di disporre della cosa per destinarla al conseguimento di particolari scopi. Il vincolo, quindi, può essere puramente personale.

Il fatto materiale consiste nell'appropriarsi, il denaro o la cosa mobile altrui posseduti per ragione di ufficio o servizio. Appropriarsi di una cosa significa esercitare su di essa atti di dominio incompatibili con il titolo che ne giustifica il possesso. Il reato si consuma nel momento in cui si realizzano gli atti di appropriazione. Trattandosi però di c.d. "vuoto di cassa", la consumazione non si verifica prima della messa in mora o della scadenza del termine prescritto per il versamento da parte del pubblico funzionario. In tali casi però, se non si perfeziona il delitto in esame, potrà sussistere il peculato d'uso. L'elemento soggettivo consiste nella coscienza e volontà di porre in essere un comportamento di appropriazione nel significato sopra descritto, al fine di ricavarne un profitto per sé o per altri.

PECULATO D'USO (art. 314 comma 2). Ai sensi di tale articolo "Si applica la pena della reclusione da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito col solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita". Trattasi per certo di reato autonomo non circostanza attenuante dell'ipotesi di cui al primo comma. La cosa usata deve essere di natura tale da non perdere consistenza economica per effetto dell'uso e il precetto esprime un principio già evidenziato dalla giurisprudenza. La durata maggiore o minore dell'uso può incidere soltanto sulla pena, non sull'esistenza del reato. Ma i limiti dell'uso momentaneo restano affidati di volta in volta all'equo apprezzamento del giudice. Pur se il tentativo sarà di difficilmente ipotizzabile, non vi sono ragioni per escluderne la possibilità. Il dolo consiste nella volontà di far uso della cosa, qualificato dallo scopo che tale uso è soltanto momentaneo.

PECULATO MEDIANTE PROFITTO DELL'ERRORE ALTRUI (art. 316). Concrea questo reato il fatto del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, il quale "nell'esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell'errore altrui, riceve o ritiene indebitamente per sé o per un terzo, denaro o altra utilità". È dovere del pubblico funzionario non accettare cose che gli siano consegnate per errore e restituirle subito dopo essersi accorto dell'errore stesso, se le ha ricevute in buona fede. La violazione di questo obbligo costituisce l'essenza del reato. L'ipotesi in esame costituisce una forma attenuata del peculato. In ordine all'elemento oggettivo si osserva che ricevere significa accettare una cosa, mentre ritenere importa la non restituzione della cosa ricevuta. La indebita ritenzione si ha anche nella mancata consegna di ciò che, per errore, non si sia richiesto nell'atto di una riscossione. Il dolo esige la consapevolezza dell'errore altrui e la volontà di ricevere o di ritenere indebitamente dopo la scoperta dell'errore.

MALVERSAZIONE A DANNO DEI PRIVATI (art. 315 abrogato). L'art. 315 chiamava a rispondere di questo delitto "il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che si appropria o, comunque, distrae, a profitto proprio o di un terzo, denaro o qualsiasi cosa mobile non appartenente alla Pubblica Amministrazione, di cui egli ha il possesso per ragione del suo ufficio o servizio". Il delitto è stato espressamente abrogato dall'art. 20 della legge 26 aprile 1990 n. 86.

MALVERSAZIONE A DANNO DELLO STATO

L'art. 316 bis, introdotto nel codice dall'art. 3 della legge 26 aprile 1990 n. 86, e modificato nel 1992, contempla il fatto di "chiunque, estraneo alla Pubblica Amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalle Comunità Europee contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità". Con questo reato si è inteso tutelare l'interesse dello Stato e degli enti pubblici minori a far sì che gli interventi economici di sostegno ad opere o attività di pubblico interesse non siano messi nel nulla o indeboliti dall'inerzia dei beneficiari. Con la formula contributi, sovvenzioni o finanziamenti si è voluta intendere ogni forma di intervento economico, così che devono ritenersi compresi nella sfera di azione della norma anche i mutui agevolati cui accenna l'articolo 640 bis. Si è scritto che il riferimento ad opere o attività di pubblico interesse è piuttosto vago e incerto. Ma a noi sembra che la formula normativa abbia riguardo non tanto alla natura dell'opera o dell'attività in sé e per sé considerate, quanto piuttosto allo scopo perseguito dall'ente erogante. La condotta si sostanzia nella mancata destinazione dei benefici economici ottenuti. Trattandosi di comportamenti omissivi e non risultando fissato un termine per la loro attuazione, sorgerà di frequente il problema del momento consumativo del reato. Se il provvedimento che autorizza l'erogazione e l'atto che la rende operante, specificano sia l'opera sia il termine massimo di adempimento, è a tale termine che bisognerà avere riguardo. In difetto e quando il termine, se pur inespresso, non possa essere desunto interpretando i provvedimenti o le normative di massima dell'ente pubblico erogante, il che dovrebbe avvenire assai di rado, dovrà il magistrato accertare se il contributo non sia stato in concreto destinato ad opera diversa, a nulla rilevando che l'opera diversa possa presentare profili di pubblico vantaggio. Quando, prima della scadenza del termine, risultino compiuti atti idonei diretti in modo non equivoco ad escludere la destinazione del finanziamento per scopi di pubblica utilità, sarà ravvisabile il tentativo. Se il finanziamento è stato ottenuto con artifizi o raggiri che hanno indotto in errore l'ente pubblico e successivamente l'opera o l'attività non siano state compiute è ravvisabile il concorse del delitto in esame con quello di cui all'art. 640 bis. L'art. 640 bis guarda al momento dell'acquisto delle erogazioni e il delitto in esame al mancato adempimento del vincolo di destinazione.

Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà dell'omessa destinazione dei benefici ottenuto dall'ente pubblico alle opere o attività di pubblico interesse previste.

CONCUSSIONE

Per l'art. 317 del codice, così come sostituito dall'art. 4 della legge del 1990 n. 86, si ha concussione allorché il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o ad un terzo, denaro od altruità. Lo scopo dell'incriminazione è duplice: da un lato tutelare l'interesse dell'Amministrazione alla imparzialità, correttezza e buona reputazione dei pubblici funzionari; dall'altro, impedire che gli estranei subiscano delle sopraffazioni e, in generale, danni per gli abusi di potere dei funzionari medesimi. Ci troviamo di fronte ad un reato plurioffensivo. Soggetto attivo del reato era in passato soltanto il pubblico ufficiale e non l'incaricato di pubblico servizio. La legge del '90 ha provveduto a inserire questi tra i soggetti attivi del reato. Soggetto passivo, oltre alla Pubblica Amministrazione, è la persona che subisce il danno particolare derivante dall'azione criminosa. A costituire la fattispecie in oggettiva del delitto concorrono vari elementi che è necessario analizzare separatamente. Anzitutto si esige che l'agente abusi della sua qualità o dei suoi poteri. Si ha abuso dei poteri tutte le volte che questi sono esercitati fuori dei casi stabiliti dalla legge, dai regolamenti e dalle istruzioni di servizio o senza le forme prescritte. Occorre tenere presente che si ha vi è abuso di potere anche quando il funzionario fa uso di un potere che gli spetta e con le forme dovute, ma lo adopera per conseguire un fine illecito. L'abuso delle qualità ricorre quando gli atti compiuti dal soggetto non rientrano nella sfera della sua competenza funzionale o territoriale, ma egli fa valere la sua qualità di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio per conseguire il suo scopo illecito. L'abuso di cui si è parlato deve avere per effetto il costringimento o l'induzione della vittima alla dazione o promessa a cui tende il funzionario. A seconda che si verifichi l'uno o l'altra si parla in dottrina di concussione esplicita e di concussione implicita. Costringere vuol dire esercitare con violenza o minaccia una pressione su una persona. Il significato di induzione è assai ampio, comprendendo ogni comportamento che abbia per risultato di determinare il paziente ad una data condotta. La concussione può essere realizzata anche mediante omissione (inerzia) e persino col silenzio. Il costringimento o l'induzione deve avere per effetto una dazione o una promessa indebita. Nel concetto di dazione, per ovvie ragioni, rientra anche la ritenzione, come nel caso del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità si faccia regalare da un privato un oggetto che gli era stato consegnato semplicemente in visione o in prova. La promessa è l'impegno di eseguire una prestazione futura. Oggetto della dazione o promessa può essere tanto il denaro quanto altra utilità. La prestazione è indebita quando, in tutto o in parte, non è dovuta, per legge o per consuetudine, né al pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, né alla Pubblica Amministrazione. La concussione sussiste anche nel caso in cui il pubblico ufficiale abusi dei suoi poteri per costringere o indurre taluno a corrispondergli una somma che gli è dovuta come privato, perché egli per soddisfare il suo credito doveva avvalersi della sua posizione. Per l'incontro il delitto de quo deve escludersi nel caso che la prestazione sia dovuta alla Pubblica Amministrazione. Il funzionario che la ottenga con abuso dei poteri, risponderà di peculato se la converte in proprio profitto, mentre se nessun vantaggio personale trae dalla sua azione, incorrerà in sanzioni disciplinari, non essendo possibile ravvisare nel fatto gli estremi del reato di cui all'art. 323 (abuso d'ufficio), specie quando esso è dovuto ad eccesso di zelo. Il reato si consuma nel momento in cui ha luogo la dazione o la promessa. In ordine all'elemento psicologico, il dolo deve investire tutti gli elementi del reato e, quindi, esige anche la conoscenza del carattere indebito della dazione o promessa.

LA CORRUZIONE IN GENERALE

La corruzione consiste in un accordo tra un pubblico funzionario e un privato, in forza del quale il primo accetta dal secondo, per un atto relativo all'esercizio delle sue attribuzioni, un compenso che non gli è dovuto. Lo Stato lo vieta, assoggettando a pena ambedue le parti del reato. La dottrina prevalente ravvisa nel fatto due reati distinti: l'uno commesso dal funzionario e l'altro commesso dal privato. Il primo viene denominato corruzione passiva e il secondo corruzione attiva. Tale concezione non tiene però conto della compartecipazione che dicesi concorso necessario e che è caratterizzata dal fatto che una pluralità di agenti è richiesta come elemento essenziale della fattispecie criminosa. Riteniamo, pertanto, che la distinzione dottrinaria tra corruzione passiva e corruzione attiva non possa affermare l'esistenza di due distinti reati, ma semplicemente di due aspetti di un fatto criminoso unitario.

Il codice configura due distinte figure di corruzione. La prima avente ad oggetto un atto d'ufficio, è generalmente denominata corruzione impropria; la seconda, che ha per oggetto un atto contrario ai doveri d'ufficio e che, perciò, è evidentemente più grave, viene detta corruzione propria. Nell'ambito di queste due forme di corruzione, il codice fa una ulteriore distinzione, la cui necessità è piuttosto discutibile, delineando le figure della corruzione antecedente e susseguente. La prima si ha quando il mercimonio si riferisce ad un atto futuro del funzionario; l'altra allorché il mercimonio riguarda un atto già compiuto. L'elemento differenziante tra la corruzione e la concussione è costituito dal fatto che nelle prima l'iniziativa è presa dal privato, mentre nella seconda dal pubblico funzionario. Questo criterio distintivo è stato giustamente criticato, perché la concussione può essere realizzata anche senza una vera e propria richiesta del funzionario, come nel caso che costui, con un comportamento volutamente ostruzionistico, spinga il privato a corrispondergli una somma. In base a questi rilievi, la dottrina e la giurisprudenza si sono orientate per un diverso criterio, individuando l'essenza della corruzione nel libero accordo tra il pubblico funzionario e il privato, i quali pongono in essere un vero e proprio pactum sceleris. Quindi la corruzione è caratterizzata da una posizione di parità tra le parti, mentre la concussione è contraddistinta dalla superiorità del funzionario, alla quale corrisponde di regola nel privato una situazione di metus. Con la legge 1990 n. 86, le fattispecie di corruzione sono state in parte riscritte, ma la riforma è stata assai meno incisiva del previsto, tanto la dottrina non vi ha ravvisato modificazioni di rilievo. In sintesi tali modifiche si concretano:

Nella previsione di una figura di istigazione commessa dal pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio con pene uguali a quelle comminate per l'istigazione commessa dal privato (art. 322);

Nella previsione della corruzione per atti giudiziari (art. 319 ter), con pena accresciuta;

Nell'equiparazione, dal punto di vista sanzionatorio, della corruzione propria antecedente a quella susseguente (art. 319);

Nell'inserimento in un distinto articolo (art. 319 bis) delle circostanze aggravanti per la corruzione propria;

Nel richiedere un minimo di pena detentiva di sei mesi di reclusione per la corruzione impropria (art. 318);

Nell'eliminare tutte le previsioni di pena pecuniaria.

LE VARIE FIGURE DI CORRUZIONE

CORRUZIONE IMPROPRIA. Risulta dagli art. 318, 320 e 321. Il primo articolo prevede due ipotesi:

Il fatto del pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa (corruzione impropria antecedente);

Il fatto del pubblico ufficiale che riceve la retribuzione per un atto d'ufficio da lui già compiuto (corruzione impropria susseguente).

L'art. 320, d'altro canto, stabilisce al primo comma che le disposizioni dell'art. 318 si applicano anche se il fatto è commesso da persona incaricata di un pubblico servizio, qualora rivesta la qualità di pubblico impiegato.

L'art. 321, infine, dispone che le pene stabilite nel primo comma del predetto art. 318 si applicano anche a chi dà o promette al pubblico ufficiale o all'incaricato di un pubblico servizio il denaro o altre utilità. Il privato non è punibile nella corruzione susseguente, e cioè allorché dà o promette al funzionario denaro o altra utilità per un atto d'ufficio che è già stato compiuto. L'atto d'ufficio, che deve essere oggetto dell'accordo criminoso, è l'atto legittimo compiuto nell'esercizio della pubblica mansione è che perciò rientra nella sfera di competenza del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio. L'accordo dei soggetti deve riguardare, direttamente o indirettamente, uno o più atti determinati. Il compenso che il privato dà al funzionario è indicato dalla legge come retribuzione. Questa consiste in ogni prestazione in denaro od altra utilità che abbia il carattere di corrispettivo per l'atto compiuto dal funzionario. Si richiede che la retribuzione non sia dovuta, il che si verifica non solo quando è espressamente vietata dall'ordinamento giuridico, ma anche quando non è espressamente consentita dal medesimo. Si domanda se sia lecita la retribuzione per servizi straordinari. La legittimazione di una tale retribuzione può ammettersi a due condizioni:

Che il funzionario non sia obbligato a prestare la prestazione a titolo gratuito o a tariffa fissa;

Che la prestazione non cagioni l'omissione o il ritardo di altri atti d'ufficio.

Anche verificandosi tali condizioni, però, la retribuzione deve ritenersi illecita se l'accettazione di essa nuoce in modo sensibile al prestigio del funzionario. Il delitto si consuma nel momento in cui il funzionario accetta la retribuzione o la promessa di retribuzione. Il dolo del funzionario è costituito dalla coscienza e volontà di ricevere, per sé o per altri, una retribuzione non dovuta, con la consapevolezza che essa viene prestata per ottenere il compimento di un atto d'ufficio e con la consapevolezza che la retribuzione è data per un atto d'ufficio già compiuto.

CORRUZIONE PROPRIA. Vi si riferiscono gli art. 319, 320 e 321. L'art. 319, analogamente all'articolo precedente, contempla il fatto del pubblico ufficiale "che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, riceve per sé o per il terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa". Ai sensi dell'articolo 320 le disposizioni ora riportate "si applicano anche all'incaricato di un pubblico servizio". L'art. 321, da ultimo, sancisce l'estensione delle pene stabilite negli art. 319 e 320 al corruttore. Risulta da queste norme che del reato di corruzione propria possono rendersi responsabili tutti indistintamente gli incaricati di un pubblico servizio, anche se non rivestano la qualità di pubblici impiegati, e che il privato è punito non solo nel caso di corruzione antecedente, ma anche in quello di corruzione susseguente. Affinché ricorra il delitto di corruzione propria è necessario che il compenso sia dato o promesso per uno di questi due scopi: 

Omettere o ritardare un atto d'ufficio;

Compiere un atto contrario ai doveri d'ufficio.

L'art. 319 bis comprende due aggravanti speciali in relazione al fatto di cui all'art. 319 e cioè alla corruzione propria. In antecedenza le aggravanti si applicavano soltanto al pubblico ufficiale e non all'incaricato di pubblico servizio e si riferivano anche all'ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Ora, dopo la legge n.86 del '90, quest'ultima ipotesi è stata prevista in autonomo articolo (319 ter) ed è sorto il problema se le aggravanti residue dell'art. 319 bis siano oggi estese all'incaricato di pubblico servizio. A favore della soluzione positiva si osserva che il nuovo articolo contempla un aumento di pena per il fatto di cui all'art. 319 e questo, come emerge dall'art. 320 è riferibile altresì all'incaricato di pubblico servizio. La soluzione è ragionevole anche se, almeno per quanto attiene al caso di corruzione per la stipulazione dei contratti, l'ultima parte dell'art. 319 bis accenna soltanto al pubblico ufficiale.

CORRUZIONE IN ATTI GIUDIZIARI. L'art. 319 ter, inserito nel codice dall'art. 9 della legge n. 86 del '90, reca: "Se i fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono commessi per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo, si applica la pena della reclusione da tre a otto anni. Se dal fatto deriva l'ingiusta condanna di taluno alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione da quattro a dodici anni; se deriva l'ingiusta condanna alla reclusione superiore a cinque anni o all'ergastolo, la pena è della reclusione da sei a venti anni.

ISTIGAZIONE ALLA CORRUZIONE. L'art. 322, come sostituito dall'art. 7 n. 181 del '92, prevede le seguenti ipotesi:

L'offerta o la promessa di denaro o altra utilità non dovuti, ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio che rivesta la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere un atto dell'ufficio o servizio, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata (istigazione alla corruzione impropria);

L'offerta o la promessa fatte per indurre un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio ad omettere o ritardare un atto dell'ufficio o servizio, ovvero a fare un atto contrario ai propri doveri, qualora l'offerta o la promessa non sia accettata (istigazione alla corruzione propria);

La richiesta della promessa o dazione di denaro o altra utilità fatta da un privato per compiere un atto di ufficio, e posta in essere dal pubblico ufficiale o da incaricato di pubblico servizio che rivesta la qualità di impiegato;

La analoga richiesta, da parte di un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio per omettere o ritardare un atto di ufficio, ovvero per compiere un atto contrario ai doveri d'ufficio.

ABUSI D'UFFICIO

1. L'EVOLUZIONE DELLA NORMA

Il codice Rocco prevedeva originariamente, sotto la dizione di 'abuso d'ufficio in casi non previsti dalla legge', la punibilità del pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un vantaggio o per procurargli un profitto, qualsiasi fatto non previsto come reato da una particolare disposizione di legge. La norma, rimasta in vigore fino al 1990, aveva dunque natura residuale, escludeva dalla condotta punibile le attività compiute dall'incaricato di pubblico servizio e non riguardava le ipotesi in cui il pubblico ufficiale avesse agito per un interesse personale: in tali casi infatti la condotta era sanzionata dall'art. 324 c.p. (interesse privato in atti d'ufficio). Il reato era connotato dal dolo specifico consistente nell'intenzione di arrecare ad altri un danno o un vantaggio, senza che si richiedesse che tale vantaggio o tale danno fossero ingiusti. Ciò comportava ad esempio che un Sindaco potesse essere ritenuto responsabile del reato per aver rilasciato una concessione edilizia in assenza dei prescritti pareri tecnici anche se quella concessione avrebbe potuto comunque essere rilasciata essendo il progetto conforme agli strumenti urbanistici, e si perseguì (fin quando la Cassazione non escluse la sussistenza del reato) un funzionario che aveva concesso dei sussidi a persone effettivamente bisognose di assistenza ma che non avevano presentato domanda come invece stabilito. La formulazione della norma era oggetto di aspre critiche per il suo contenuto estremamente indeterminato che in definitiva consentiva una forte ingerenza dell'autorità giudiziaria nelle scelte della P.A. Nel 1990 si arrivò, dopo un lungo e travagliato dibattito, alla organica modifica dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. riformulando così anche l'art. 323 c.p. la cui rubrica divenne semplicemente 'Abuso d'ufficio'. La riforma del reato avrebbe dovuto mirare a dare concretezza alla condotta punita e a delineare più efficacemente le ipotesi rientranti nella previsione normativa, ma di fatto ciò non avvenne. Anzi, in definitiva, ci si ritrovò con una disposizione di portata per certi versi più ampia della precedente, tanto che da più parti si sottolineò come la riforma dell'abuso d'ufficio operata nel 1990 avesse fallito il suo scopo.

La riformulazione del reato comprendeva tra i soggetti attivi del reato anche gli incaricati di pubblico servizio, e sostituiva all'espressione 'abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni' quella, assolutamente tautologica, di 'abusa del suo ufficio', concetto che innanzitutto 'comprende una gamma di comportamenti molto più vasta di quella compresa nella precedente previsione normativa, giacché riferisce la condotta dell'agente a qualsiasi abuso della pubblica funzione, e dunque a qualsiasi strumentalizzazione dell'ufficio, senza necessità che l'abuso si concretizzi nel porre in essere atti legislativi, giurisdizionali e amministrativi' (Sez. I, sent. n. 5340 del 26 maggio 1993 ). Inoltre il reato ricomprendeva 'tutti quei comportamenti che concretizzano un uso deviato o distorto dei poteri funzionali (o un cattivo esercizio dei compiti inerenti un pubblico servizio) e che di conseguenza mettono a repentaglio il buon funzionamento o l'imparzialità dell'azione amministrativa, nel senso che l'abuso deve sfociare in una strumentalizzazione oggettiva dell'ufficio tale da frustrare o alterare le finalità istituzionali perseguite.' (Sez. 5, sent. n. 7764 del 18 agosto 1993). L'abuso insomma veniva a configurarsi come un esercizio illegittimo del potere pubblico: commetteva abuso d'ufficio il pubblico funzionario che non rispettasse le regole che disciplinano il suo ufficio - regole che sono improntate ai principi di legalità, di buon andamento e imparzialità della P.A. - e che, conseguentemente, esercitasse il potere connesso alla funzione per un fine improprio rispetto alla funzione medesima, in modo da far conseguire all'atto uno scopo estraneo rispetto a quello previsto dalla legge .Sulla base dell'elaborazione giurisprudenziale si affermava ancora che, allorquando l'abuso si concretizzava in un atto amministrativo, gli eventuali vizi di violazione di legge o di incompetenza rilevati erano da considerare soltanto sintomi della condotta di abuso, che era sempre rappresentata dall'eccesso di potere, ovvero dall'esercizio del potere per finalità diverse da quelle funzionali all'esercizio del potere. Infatti il bene giuridico protetto era da identificare nel buon andamento e nell'imparzialità dell'azione amministrativa, e l'attentato a tale interesse non poteva che realizzarsi con le modalità di un abuso funzionale (Cass. Sez. 6, sent. n. 13321 dell'11 ottobre 1990).

Tale amplissima portata della norma doveva ricevere, nell'intenzione del legislatore dell'epoca, una significativa specificazione nell'elemento soggettivo del reato, costruito sempre come dolo specifico ma consistente nell'arrecare un danno o un vantaggio ingiusti. Si ritenne cioè di limitare interpretazioni estensive della norma introducendo il requisito dell'ingiustizia del danno o del vantaggio che avrebbe dovuto segnare il confine tra atto illegittimo e reato. Tale discrimine si rivelò però eccessivamente evanescente anche perché, come acutamente osservato (Catalano), 'la prova dell'elemento psicologico del reato, proprio perché si tratta di elemento interno al soggetto agente, è necessariamente affidata ad un processo induttivo'. Ed infatti benché in varie pronunce la Cassazione ebbe a precisare che il reato si configurava solo in presenza di una doppia ingiustizia, nel senso che l'ingiustizia del vantaggio o del danno doveva essere tale a prescindere dall'abuso perpetrato, nell'esperienza giurisprudenziale 'il dolo veniva per lo più desunto dalla illegittimità dell'atto amministrativo, il vantaggio o il danno venivano considerati ingiusti semplicemente perché derivavano da un atto adottato per finalità diverse da quelle che avrebbero dovuto ispirarlo' (Catalano). Così da un lato la giustizia penale veniva ad avere un sindacato amplissimo sull'azione della P.A. che finiva per sovrapporsi al controllo amministrativo, dall'altro la denuncia alla Procura diveniva un modo più rapido per impugnare un provvedimento rispetto al ricorso alla giustizia amministrativa. A ciò si aggiunga che l'elevato numero di episodi denunciati e la conseguente iscrizione nel registro degli indagati degli amministratori pubblici, spesso ampiamente pubblicizzata sugli organi di stampa, aveva prodotto quello che è stato definito 'il terrore della firma', paralizzando di fatto l'azione amministrativa o inducendo gli amministratori a richiedere - con grande dispendio di energie e grande dilazione dei tempi - pareri preventivi agli organi di controllo al solo fine di cautelarsi dalla temuta informazione di garanzia. Infine, alla considerazione che l'indeterminatezza della norma metteva gli amministratori in situazione di grande incertezza circa le condotte che potevano loro essere penalmente iscritte, faceva riscontro l'evidenza dell'altissimo numero di assoluzioni dispensate nei processi, derivanti soprattutto dalla difficoltà di dimostrare la sussistenza dell'elemento psicologico del reato.

2. LA NUOVA FORMULAZIONE

La finalità che ha ispirato la nuova formulazione dell'abuso d'ufficio è stata indubbiamente quella di riportare la condotta punibile entro confini ben limitati, e di garantire ai pubblici amministratori che agissero nel rispetto delle norme la certezza di non incorrere in sanzioni penali. L'attuale formulazione sancisce la responsabilità penale per 'il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto'. È stato osservato che nella ridefinizione della norma si è puntato 'ad abbandonare qualsiasi riferimento, espresso o tacito, all'eccesso di potere limitando la condotta di abuso alla sola violazione di norme o alla omessa astensione nei casi prescritti' (Della Monica). Ed in effetti non vi è dubbio che gran parte del dibattito parlamentare è stato incentrato sulla scelta di escludere, dalle condotte che possono dar luogo all'ipotesi di reato, l'adozione di un atto viziato esclusivamente da eccesso di potere, i cui confini sono molto più labili rispetto agli altri vizi amministrativi. Dunque - secondo i primi commenti al nuovo reato - se il funzionario non ha violato una espressa e specifica previsione normativa, ovvero l'obbligo di astensione, non può configurarsi il reato. Anche in presenza di tale violazione poi il reato sussisterà solo ed unicamente nel caso in cui al provvedimento illegittimo sia conseguito un risultato ingiusto, ed infatti il reato è ora costruito come un reato di evento che si consuma soltanto in presenza della realizzazione del risultato perseguito. Ma va subito osservato che se il fine perseguito dal legislatore era appunto quello di escludere dalle condotte punibili gli atti viziati esclusivamente da eccesso di potere, la formulazione della norma è, a dir poco, equivoca: l'eccesso di potere è comunque un vizio di legittimità e, come tale, comporta necessariamente l'inosservanza di leggi. Ed infatti è indubitabile che tra le leggi che devono regolare la condotta dei pubblici funzionari debba ricomprendersi il precetto costituzionale dell'art. 97 Cost., che rappresenta anzi la costante linea di comportamento degli amministratori pubblici. In tale ottica tornerebbe ad avere autonoma rilevanza, allora, il vizio di eccesso di potere e potrebbe configurarsi l'abuso tutte le volte in cui il funzionario facesse un uso deviato o distorto dei poteri funzionali e dunque pregiudicasse l'imparzialità dell'azione amministrativa. A questa tesi si potrebbe obiettare che tale argomentazione non terrebbe conto della ratio sottesa all'intervento legislativo, ma va pure precisato che in sede di dibattito parlamentare vennero scartate altre scelte che avrebbero più esplicitamente estromesso il vizio di eccesso di potere dalle modalità esecutive della condotta. E così venne ad esempio scartata la proposta dell'on. Marotta di mantenere il testo approvato dalla Commissione Giustizia del Senato, che menzionava accanto alla violazione di legge anche l'incompetenza, per significare che inclusio unius est exclusio alterius, unica dizione che avrebbe chiarito l'intento di non voler più attribuire una rilevanza autonoma all'eccesso di potere.

È stato peraltro osservato (Della Monica) che 'il riferimento alla violazione di norme di leggi o di regolamento lascia intendere chiaramente che il presupposto necessario dell'abuso è costituito dall'inosservanza di previsioni specifiche durante il processo di formazione del provvedimento' e non dal generico obbligo di perseguire il buon andamento e l'imparzialità dell'azione amministrativa, e che 'il funzionario pubblico che agisce nel pieno rispetto delle regole deve avere la certezza di non incorrere in responsabilità penali'. Occorrerà naturalmente attendere l'evoluzione giurisprudenziale sull'argomento per definire se la formulazione letterale della norma consenta di aderire alle finalità avute di mira dal legislatore; resta comunque da osservare che se si aderirà a tale interpretazione molte condotte oggettivamente gravi verranno a configurare al più un illecito disciplinare. E così soprattutto in presenza di atti assolutamente discrezionali, quali ad esempio l'assegnazione di un appalto a trattativa privata, una volta riscontrata l'inesistenza di violazioni specifiche (in quanto ad esempio sussisteva il requisito di urgenza che ne legittimava l'adozione) non si configurerebbe alcuna ipotesi di reato a carico del funzionario che effettui l'aggiudicazione ad una ditta palesemente inidonea e magari gestita da persona a lui legata da vincoli di amicizia. Se questa sarà l'interpretazione della norma sfuggiranno quindi alla sanzione penale tutti quei comportamenti formalmente legittimi, ma adottati unicamente per interessi di natura privata e sovente altamente dannosi per l'amministrazione pubblica

È stato osservato (Chiavario, Padovani) che si è così creato un vuoto di tutela della collettività di fronte a comportamenti anche altamente scorretti e si è sottolineato (Catalano) che sarebbe stato auspicabile almeno accompagnare la modifica dell'abuso d'ufficio, ad una effettiva riforma dei criteri e dei sistemi di controllo dell'attività amministrativa.

3. LE MODALITÀ DELLA CONDOTTA

Già sotto il vigore della precedente disposizione la Cassazione (Sez. VI, sent. n. 2733 del 4 marzo 1994 ) aveva più volte affermato che 'la condotta di abuso d'ufficio risulta compatibile con un comportamento meramente omissivo del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio.'. Ed anche nella nuova formulazione non vi è dubbio che la condotta prevista dal reato può essere attuata anche mediante omissione, sempreché l'atto che avrebbe dovuto essere emanato o il comportamento che avrebbe dovuto essere tenuto siano dovuti, cosicché l'omissione o il ritardo abbiano comportato la violazione di una disposizione di legge.

Del resto la violazione dell'obbligo di astensione, esplicitamente previsto dal nuovo testo, rappresenta una modalità della condotta mediante omissione. Tanto premesso, va evidenziato il rapporto tra l'abuso d'ufficio realizzatosi attraverso l'inerzia del pubblico funzionario in relazione ad un atto dovuto, e il delitto previsto dall'art. 328 c.p.  Sembra potersi affermare che quando l'omissione o il rifiuto di comportamenti dovuti sono strumentalizzati dal funzionario per un fine privato e da essi deriva un danno o un vantaggio ingiusto, si configurerà il delitto di abuso in atti d'ufficio (sempreché si tratti di vantaggio patrimoniale). Se invece l'omissione è fine a se stessa, o se è finalizzata a procurare a terzi un vantaggio non patrimoniale, sarà configurabile il delitto di cui all'art. 328 c.p. Va ancora sottolineato che, come già enunciato sotto il vigore della precedente disciplina, anche le attività materiali possono essere forme di manifestazione della condotta di abuso. Ed infatti 'la nozione di atti di ufficio è più ampia di quella di provvedimento amministrativo, poiché comprende in sé, a prescindere dalla forma, qualunque specie di atto posto in essere dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni, sia esso interno o esterno, decisionale o anche meramente consultivo, preparatorio e non vincolante, fino alle semplici operazioni, alle condotte materiali, alle attività tecniche' (Cass., Sez. 6, sent. n. 10896 del 12 novembre 1992). Anche nell'attuale formulazione normativa, poiché l'abuso non deve necessariamente estrinsecarsi in un tipico atto amministrativo, né avere contenuto necessariamente decisorio, esso può consistere in qualsiasi illegittima attività del pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni dalla quale derivi un ingiusto danno o vantaggio patrimoniale. La nuova formulazione ha innovato sul punto solo in quanto ha legato l'attività abusiva allo svolgimento delle funzioni o del servizio. Infine l'abuso è configurabile - ora come pure nella precedente formulazione - anche in relazione ad attività soggette al diritto privato nel cui svolgimento il pubblico ufficiale persegue comunque finalità pubbliche che, secondo la legge, possono essere realizzate più agevolmente mediante l'impiego di strumenti propri del diritto privato (Cass., Sez. 6, sent. n. 5086 del 7 maggio1991).

a) La violazione di norme di legge o di regolamento

Si è già detto che la riforma è stata ispirata alla necessità di limitare il potere di ingerenza del giudice penale alle sole ipotesi di illiceità collegate a specifiche violazioni di legge e di regolamenti. La violazione di legge, che è dunque elemento della condotta del reato, è la violazione delle disposizioni che regolano l'esercizio dei pubblici poteri. Si richiamano le osservazioni sopra formulate circa la considerazione che anche l'eccesso di potere non rappresenta altro che una violazione di norme giuridiche. Comunque sia, va sottolineato che le prime interpretazioni della norma accolgono le finalità perseguite dal Parlamento ancorando la sussistenza del reato a precisi vizi di legittimità, e cioè:

? alla violazione di leggi o regolamenti;

? all'incompetenza che è un'ipotesi di violazione di legge;

? alla violazione dell'obbligo di astensione.

Rimane comunque la difficoltà, per l'interprete, di individuare tutte le disposizioni vincolanti per la Pubblica Amministrazione, mentre non sarà sempre agevole il reperimento della normativa che regola quel determinato provvedimento sospettato di illiceità. Resta poi da chiarire cosa debba intendersi per 'norme di legge e di regolamento' ed in particolare se in esse debbano ricomprendersi anche le normative che regolano dall'interno l'azione degli apparati amministrativi, quali le circolari o le norme tecniche. Viene al riguardo rilevato che le norme interne non sono leggi in senso sostanziale, e quindi la loro trasgressione non comporta violazione di legge, cosicché non configura il reato in questione (Russo). Peraltro va considerato che quando l'Amministrazione Pubblica disciplina la sua attività con circolari o altre norme interne, individua le modalità più opportune per conseguire l'interesse pubblico (Landi e Potenza) e quelle norme sono per i pubblici funzionari vincolanti. Pertanto disattenderle senza motivazione comporterebbe comunque la violazione del dovere di perseguire in modo ottimale l'interesse pubblico, obbligo sancito dal precetto costituzionale. Anche in relazione a tale problematica dovranno attendersi le prime interpretazioni giurisprudenziali.

b) La mancata astensione

La violazione dell'obbligo di astenersi non è altro che una violazione di legge: ed infatti è stato osservato (Russo) come l'espressione 'omettendo di astenersi' debba essere intesa come 'omettendo di osservare l'obbligo di astenersi' non essendovi posto per alcuna valutazione discrezionale sul se astenersi o meno, in conformità del resto ai criteri che hanno ispirato questa riforma la cui finalità è stata quella di dare certezza al pubblico funzionario di non incorrere in responsabilità penali nel momento in cui presta osservanza alla legge. L'obbligo di astensione che può fondare la responsabilità per abuso d'ufficio deve essere ricercato dunque nella legge, e così possono richiamarsi, a titolo di esempio, l'art. 279 del R.D. 383/1934 per gli amministratori comunali e provinciali che devono astenersi dal prendere parte alle deliberazioni riguardanti liti o contabilità loro proprie verso i corpi cui appartengono; come pure liti o contabilità dei loro parenti o affini sino al quarto grado, o del coniuge, o di conferire impieghi ai medesimi. Il divieto di cui sopra importa anche l'obbligo di allontanarsi dalla sala delle adunanze durante la trattazione di detti affari. Non dovrebbe avere alcuna considerazione il possibile conflitto di interessi che potrà fondare al più una responsabilità disciplinare ma non certo penale. Nell'attuale impostazione legislativa la mancata astensione, costituirà abuso solo allorquando il soggetto abbia consapevolmente contravvenuto a tale obbligo ed abbia così intenzionalmente procurato, attraverso l'attività dalla quale avrebbe dovuto astenersi, un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusto. Appare anche evidente che la sussistenza del reato può configurarsi anche in presenza dell'omessa astensione nell'ambito di un organismo collegiale giacché 'anche la partecipazione ad un atto collegiale è esercizio dell'attività del pubblico ufficiale (Cass. Sez. 6, sent. n. 1467 dell'1 febbraio 1990) e anche se l'astensione era stata formalmente esercitata ma in unione ad concreta ingerenza nell'adozione del provvedimento, sempreché dallo stesso derivi un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusto. Occorre infine rammentare che nel corso dei lavori preparatori è stato sottolineato come nei provvedimenti a carattere generale (si pensi all'adozione di un piano regolatore), poiché i soggetti interessati sono moltissimi, sussisterebbe spessissimo un dovere di astensione essendo ipotizzabile per quasi tutti i consiglieri un interesse proprio o di un prossimo congiunto alla formulazione in un modo o in un altro del provvedimento. Peraltro non occorre dimenticare che la mancata astensione deve essere connotata, per configurare il reato, dal dolo intenzionale (v. oltre), cosicché sussisterà abuso solo se l'amministratore omette intenzionalmente di astenersi per arrecare a se o ad un congiunto un vantaggio patrimoniale ingiusto. Del resto la giurisprudenza amministrativa ha da tempo sottolineato che: 'Il dovere di astensione grava sul pubblico amministratore il quale debba prendere parte a deliberazioni concernenti propri parenti, riguarda i provvedimenti suscettibili di incidere in via immediata sulle sfere soggettive dei destinatari, non anche gli atti a contenuto generale o normativo che siano presupposti da quelli' (Consiglio di Stato, Sez. VI, sent. n. 385 del 23 maggio 1986).

c) L'incompetenza

È largamente riconosciuto che l'incompetenza non rappresenta altro che una violazione di legge, ed in particolare delle norme che disciplinano la ripartizione dei compiti e delle funzioni tra i vari organi dell'Amministrazione. In sostanza allorquando un funzionario pubblico adotta un provvedimento che, secondo i criteri di ripartizione della competenza, avrebbe dovuto essere adottato da un funzionario appartenente ad un ufficio diverso (ad es. in tema di contratti in quanto il valore eccede i limiti della sua delega), se lo sconfinamento è stato intenzionale ed è avvenuto al fine di arrecare un vantaggio o un danno ingiusto, si configura l'ipotesi di reato. La giurisprudenza ha costantemente affermato che solo l'incompetenza relativa può essere valutata penalmente, essendo il provvedimento emesso annullabile e dunque produttivo di effetti. Al contrario l'incompetenza assoluta (provvedimento adottato in una materia totalmente estranea alle attribuzioni del funzionario) comporta la nullità dell'atto che è dunque inidoneo a procurare un vantaggio o un danno (Cass., sent del 10 marzo 1989, Papale) cosicché il reato non può configurarsi per inidoneità della condotta. Tale argomentazione è tanto più valida in relazione alla nuova formulazione del reato, ormai costruito come reato di evento, cosicché perché il reato sia consumato deve effettivamente verificarsi il danno o il vantaggio patrimoniale ingiusto, mentre l'inidoneità della condotta impedisce anche la configurazione del tentativo.

4. L'ELEMENTO SOGGETTIVO

Si è già detto che la riforma ha costruito il reato di abuso d'ufficio in reato di evento. Il raggiungimento di un danno o di un vantaggio ingiusto non è più una finalità che l'agente deve perseguire perché sussista il reato (dolo specifico) ma rappresenta l'evento della condotta, ovvero la conseguenza che deve derivare dall'atto o dal comportamento adottato perché il reato possa definirsi consumato. Da ciò deriva che il dolo del delitto in questione non è più specifico (nel quale, secondo la definizione di Antolisei 'si esige che il soggetto abbia agito per un fine particolare la cui realizzazione non è necessaria per l'esistenza del reato e cioè per un fine che sta al di là e quindi fuori dal fatto che costituisce il reato') bensì generico in quanto è sufficiente che sia voluto il fatto descritto dalla norma incriminatrice. Occorrerà dunque 'riscontrare la coscienza e volontà di arrecare un ingiusto vantaggio patrimoniale o un ingiusto danno attraverso lo svolgimento illegittimo delle proprie funzioni o del servizio' (Ciccia). Va però sottolineato come la nuova formulazione dell'abuso d'ufficio precisa che l'evento - ovvero il danno o il vantaggio ingiusto - deve essere procurato intenzionalmente all'agente. L'introduzione di tale locuzione risponde ad una precisa esigenza, cioè quella di escludere dalla fattispecie il cosiddetto dolo eventuale, ovvero sia di escludere i casi in cui 'l'agente non ha intenzionalmente voluto l'evento ma lo ha accettato come conseguenza eventuale della propria condotta' (Mantovani). Conseguentemente l'adozione di un provvedimento in violazione di esplicite disposizioni di legge potrà configurare il delitto di cui all'art. 323 c.p. solo se il funzionario abbia, in tal modo voluto procurare un danno o un vantaggio ingiusto. Se invece il funzionario si è solo prospettato che dall'adozione di tale provvedimento possa derivare, come conseguenza eventuale della condotta, un risultato di danno o di vantaggio ingiusto, ma non ha comunque agito per realizzare tale scopo, il reato non sussiste. È stato osservato (Macrillò) come l'introduzione del dolo intenzionale potrà esplicare effetti concreti in tema di responsabilità penale conseguente all'adozione di deliberazioni da parte di organi collegiali. In passato sono state infatti elevate incriminazioni, ad esempio, a tutti i componenti di un Consiglio Comunale sul presupposto che tutti avevano comunque votato ed adottato, con coscienza e volontà, la delibera concretizzante un uso strumentale del potere. Si è dunque osservato che 'l'intenzionalità oggi richiesta dalla norma incriminatrice esprime la necessità che la punizione per il fatto di cui all'art. 323 c.p. derivi da un acclarato e provato grado di partecipazione dell'agente al reato, commisurabile sia al quantum di volontà del fatto, sia al quantum di coscienza dello stesso'(Macrillò).

5. L'INGIUSTIZIA DEL VANTAGGIO PATRIMONIALE E DEL DANNO

Qualsiasi atto adottato dal funzionario contrario a norme giuridiche (violazione di legge o mancata astensione) produce un risultato illegittimo. Tuttavia all'illegittimità dell'atto consegue anche l'illiceità penale a carico del soggetto agente solo quando il risultato causato è anche ingiusto. Si afferma così la distinzione tra illegittimità e illiceità penale: 'accertata la violazione di legge sarà proprio l'esatta considerazione del risultato raggiunto a sanzionare le modalità di intervento sanzionatorio, in sede penale, amministrativa o disciplinare' (Della Monica). Dunque 'se il risultato della condotta, sia pure adottata in contrasto con disposizioni di legge, è oggettivamente lecito, la violazione di legge compiuta dal pubblico ufficiale non rileverà penalmente, pur potendo l'atto rivestire i caratteri dell'illegittimità ed essere annullato nelle sedi competenti' (Scarpetta). Nella precedente formulazione della norma, ove il danno e il vantaggio ingiusto rappresentavano le connotazioni del dolo specifico, il vantaggio poteva essere patrimoniale o non patrimoniale, configurandosi due autonome ipotesi di reato (cosiddetta condotta affaristica e cosiddetta condotta favoritrice) sanzionate con pene ben diverse. Nell'attuale formulazione non configura più reato la condotta illegittima che cagioni un ingiusto vantaggio non patrimoniale. Pertanto se dalla condotta o dall'atto illegittimi deriva un evento di danno, la sanzione penale scatta sia che si tratti di un danno economico sia che se si tratti di un danno non patrimoniale; se invece dall'attività illegittima deriva, per il funzionario o per altri, un vantaggio ingiusto, il reato si configurerà solo se tale vantaggio ha un contenuto patrimoniale. La scelta di escludere dalla sanzione penale 'l'abuso non patrimoniale' discende, come specificato nel corso dell'acceso dibattito parlamentare sul punto, dalla volontà di separare nettamente, e disciplinare in modo difforme, gli abusi commessi per opprimere i cittadini (che cagionano cioè un danno ingiusto) e che configurano comunque reato, da quelli commessi al fine di favorirli (che cagionano cioè un vantaggio ingiusto), ritenuti meritevoli di una tutela attenuata. Tale conclusione non appare condivisibile se si pensa ad un magistrato che disponga arbitrariamente l'archiviazione di un procedimento a carico di un suo conoscente procurandogli così un vantaggio ingiusto: la condotta del magistrato non configura il delitto di cui all'art. 323 c.p. non essendo stato procurato al terzo un vantaggio patrimoniale; non configura il delitto di cui all'art.319-bis c.p. non essendosi il magistrato fatto dare alcun corrispettivo ma avendo agito per amicizia. L'unica forma di tutela riconosciuta dall'ordinamento, pur in presenza di un fatto così grave, è quella della responsabilità disciplinare. Dovendo ora definire il vantaggio patrimoniale - che può ricadere sia sul pubblico funzionario che su terzi - basta riportarsi alle precedenti indicazioni della Cassazione a proposito della condotta affaristica, e ribadire dunque che si ha vantaggio patrimoniale tutte le volte in cui lo stesso è valutabile in termini economici: deriverà perciò indubbiamente un ingiusto vantaggio patrimoniale da un concorso pubblico 'truccato', da un'assunzione arbitraria, dal riconoscimento dell'indennità di accompagnamento a chi non presenta effettive invalidità, dall'assegnazione di un appartamento a canone calmierato a chi non ha i requisiti soggettivi richiesti e così via. Non cagionerà invece alcun vantaggio patrimoniale, e non commetterà perciò reato, il professore che favorisca un candidato all'esame di maturità o l'agente penitenziario che recapiti al detenuto lettere o pacchi al di fuori dei casi previsti dall'ordinamento penitenziario. Il danno ingiusto - che riguarda unicamente i terzi - consiste invece nel verificarsi di una situazione giuridica meno favorevole per il cittadino di quella che sarebbe scaturita da una condotta legittima del funzionario. Infine è stato osservato (Cutrupi) che l'aggravante prevista dall'ultimo comma - per il caso in cui il danno o il vantaggio procurato siano di rilevante gravità - debba comunque riferirsi all'aspetto patrimoniale e dunque, per quanto riguarda l'evento di danno, vada contestata solo in presenza di un danno patrimoniale di rilevante gravità. Ciò in quanto, in relazione al danno non patrimoniale, non si ravviserebbero parametri oggettivi di giudizio.

6. CONSUMAZIONE DEL REATO E TENTATIVO

Si è già più volte ricordato che l'abuso d'ufficio è, nella nuova formulazione, un reato di evento e non più un reato di mera condotta. Evidentemente ne deriva che la consumazione del reato si verifica solo quando viene realizzato l'evento, e dunque quando il funzionario o altre persone ottengono l'ingiusto vantaggio patrimoniale o allorquando a qualcuno venga arrecato danno ingiusto. Peraltro è stato osservato (Della Monica) come la consumazione del reato non sia legata all'effettivo concretizzarsi del beneficio in termini economici ma semplicemente al prodursi di effetti favorevoli nella sfera dell'interessato. Pertanto nel caso in cui per giungere all'effettivo conseguimento del vantaggio sia necessaria un'attività da parte del beneficiario, e costui non la ponga in essere, il reato sarà ugualmente consumato. E così se ad un appalto truccato, concluso con l'aggiudicazione ad una determinata ditta, non segua poi l'esecuzione dei lavori, il reato sarà ugualmente consumato nel momento in cui si producono effetti favorevoli nella sfera giuridica dell'interessato (aggiudicazione dell'appalto) indipendentemente dalla effettiva concretizzazione in termini economici di tali effetti favorevoli, e dunque anche se poi la ditta rinunci ad eseguire i lavori e non percepisca perciò alcun compenso. In tale evenienza infatti il pubblico ufficiale ha comunque 'procurato' un vantaggio all'interessato, anche se poi costui non lo ha effettivamente 'conseguito' (Della Monica). Problema già posto sotto il vigore del precedente testo è quello della configurabilità del concorso nel reato per il terzo destinatario del vantaggio. Ove infatti il funzionario attui la sua illecita condotta non per trarne un utile personale, ma per favorire altri (ad es. un parente, un compagno di partito), resta da stabilire se anche tale terzo debba essere incriminato nel reato proprio. La giurisprudenza, in conformità con i principi generali che regolano l'art. 110 c.p., ha ribadito che la semplice consapevolezza di ricevere un vantaggio ingiusto dall'attività illegittima non è sufficiente a configurare il concorso, che richiede - da parte dell'extraneus - almeno una condotta di istigazione o di agevolazione del pubblico ufficiale nella commissione del reato. Riguardo al concorso di persone nel reato deve anche osservarsi che, poiché l'abuso può essere integrato sia dall'adozione provvedimenti sia attraverso attività materiali che comunque costituiscono manifestazioni dell'attività dell'ufficio, il reato può essere commesso da più funzionari in concorso tra loro: l'uno che esercita ad esempio pressioni sui componenti dell'organo collegiale, l'altro che è così messo in condizioni di adottare il provvedimento formale (in questo senso Cass., Sez. 6, sent. n. 2797 del 16 marzo 1995). Dalla configurazione dell'abuso d'ufficio come reato di evento consegue la configurabilità del tentativo (prima negata in relazione ad un reato di mera condotta) allorquando la condotta abusiva non riesca a raggiungere lo scopo per circostanze indipendenti dalla volontà dell'agente. È stato osservato (Della Monica) come 'il tentativo di abuso potrebbe rappresentare lo strumento giuridico per arretrare la soglia di punibilità ben oltre i limiti fissati dalla norma previgente''essendo la responsabilità subordinata ad una valutazione prognostica sulla commissione del delitto'. In realtà allorquando la condotta illecita è stata portata a compimento e solo l'evento non si realizza per cause indipendenti dalla volontà dell'agente, i confini del tentativo sono abbastanza nitidi : l'ipotesi è quella del provvedimento illegittimo tempestivamente annullato dal superiore gerarchico (tentativo compiuto). Quando invece la condotta illegittima sia stata realizzata solo in parte e sia stata poi interrotta per cause indipendenti dalla volontà del pubblico ufficiale (tentativo incompiuto) 'il tentativo è configurabile solo se la condotta si configuri come un iter criminis frazionabile, così da potersi concepire l'interruzione dell'azione esecutiva, e solo se gli atti fino a quel momento compiuti integrino già una violazione di legge (non siano cioè meri atti preparatori) e siano univocamente diretti verso un fine illecito'(Della Monica).

7. CONSEGUENZE DELLA NUOVA FORMULAZIONE SUI PROCESSI IN CORSO

Non vi è dubbio che tra la precedente e l'attuale formulazione vi è un nesso di continuità che non comporta una generalizzata abrogatio criminis bensì una successione di norme incriminatrici. Per quanto riguarda i processi in corso occorrerà dunque valutare, caso per caso, se nella condotta ascritta all'imputato siano presenti gli elementi del reato nella nuova formulazione e se siano stati enunciati chiaramente nell'imputazione. Da ciò consegue che se l'imputazione riguarda l'adozione di un atto illegittimo ma per arrecare un vantaggio non patrimoniale il reato non sarà più configurabile, come pure saremo fuori dalla previsione normativa (secondo le finalità della legge) se l'atto o il comportamento adottato non costituiscano inosservanza di una disposizione di legge, ma siano illegittimi in quanto adottati per una finalità diversa da quella prevista. Nel caso poi in cui l'atto illegittimo per violazione di legge non abbia in concreto procurato un vantaggio o un danno illecito, occorrerà verificare se sussistono almeno gli estremi per configurare il tentativo. Le sanzioni stabilite per il delitto sono state complessivamente ridimensionate: mentre infatti nella precedente formulazione era prevista la pena detentiva fino a due anni per l'abuso non patrimoniale (ora non più punibile se si tratta di una condotta 'favoritrice'), e da due a cinque anni per l'abuso patrimoniale, ora la pena va indistintamente da 6 mesi a tre anni. Occorrerà quindi individuare, nel caso concreto, la norma più favorevole da applicare ai sensi dell'art. 2, terzo comma, c.p. Dalle nuove sanzioni consegue: l'impossibilità di applicare, anche in presenza dell'aggravante, la custodia cautelare (prima consentita per l'abuso patrimoniale); l'impossibilità di procedere all'arresto in flagranza di reato (prima consentito per l'abuso patrimoniale); ma soprattutto termini di prescrizione molto più rapidi (sette anni e mezzo a fronte dei quindici anni prima previsti per l'abuso patrimoniale) conseguenza quest'ultima che rischia di rappresentare - considerato che sovente la notitia criminis perviene già a distanza di un notevole lasso di tempo dal fatto, e considerata la complessità dell'indagine nonché i tempi di svolgimento di tale tipo di dibattimento - un limite insufficiente per la definizione del processo.

RIVELAZIONE E UTILIZZAZIONE DI SEGRETI D'UFFICIO (art. 326). Commette il delitto di rivelazione il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio, che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità, rivela notizie del proprio ufficio, le quali debbono rimanere segrete, o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza. Il terzo comma, inserito dall'art. 15 della legge n. 86 del '90, afferma la responsabilità del pubblico ufficiale o dell'incaricato di pubblico servizio che, per procurare a sé o ad altri un indebito profitto patrimoniale si avvale illegittimamente di notizie di ufficio, le quali debbono rimanere segrete. Una pena minore è prevista nel caso che il fatto sia commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto non patrimoniale o di cagionare ad altri un danno ingiusto.

UTILIZZAZIONE D'INVENZIONI O SCOPERTE CONOSCIUTE PER RAGIONI DI UFFICIO (art. 325). È punito il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, il quale impiega a proprio o altrui profitto, invenzioni o scoperte scientifiche, o nuove applicazioni industriali, che egli conosca per ragioni d'ufficio o servizio, e che debbano rimanere segrete.

VIOLAZIONE DI DOVERI INERENTI ALLA CUSTODIA DI COSE SEQUESTRATE (art. 334 e 335). È previsto quel particolare abuso che consiste nel sottrarre, sopprimere o distruggere cose sottoposte a sequestro. L'art. 334, quale modificato dall'art. 86 della legge n. 689 del '91, formula tre ipotesi, secondo che il fatto sia commesso:

Dal custode, al solo fine di favorire il proprietario della cosa sequestrata;

Dal proprietario che abbia lo custodia della cosa stessa;

Dal proprietario della cosa sottoposta a sequestro che non ne sia custode.

Solo nei primi due casi il soggetto attivo riveste la qualità di pubblico ufficiale; il terzo caso è contemplato insieme con gli altri per ragioni di affinità. Il sequestro a cui si riferiscono gli art. in esame è quello ammesso dalla legge penale e disposto nel corso di un procedimento penale ed anche quello ammesso dalle leggi amministrative. Nella sfera di efficacia della norma non rientra invece più, come avveniva in passato, il sequestro che si fonda sulle leggi civili.

ECCITAMENTO AL DISPREGIO E VILIPENDIO DELLE ISTITUZIONI, DELLE LEGGI E DEGLI ATTI DELL'AUTORITA' (art. 327). Possono rendersi responsabili di questo delitto tre categorie di soggetti: i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati incaricati di un pubblico servizio e i ministri di un culto ammesso nello Stato. Il fatto incriminato consiste:

Nell'incitare al dispregio delle istituzioni o all'inosservanza delle leggi, delle disposizioni dell'Autorità o dei doveri inerenti ad un pubblico ufficio o servizio;

Nel fare apologia di fatti contrari alle leggi, alle disposizioni dell'Autorità o ai doveri predetti.

Il fatto deve essere commesso dai soggetti indicati nell'esercizio delle loro mansioni.

OMISSIONI DOLOSE DI DOVERI FUNZIONALI

Allo scopo di assicurare il regolare funzionamento delle pubbliche amministrazioni il codice punisce i pubblici ufficiali e gli incaricati di un pubblico servizio, i quali non per semplice trascuratezza o indolenza, ma intenzionalmente vengono meno ai loro doveri. Si prevedono due figure criminose, la seconda delle quali costituisce nulla più che una species della prima.

OMISSIONE O RIFIUTO DI ATTI D'UFFICIO (art. 328). Il testo attuale dell'articolo incrimina "Il pubblico ufficiale, o l'incaricato di pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto de suo ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo". Una pena minore è comminata nel capoverso dell'articolo per "il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo". Si precisa poi espressamente che tale richiesta deve essere redatta in forma scritta e il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa. La nuova norma fissa un termine, ma la preoccupazione del legislatore per l'eccessiva ingerenza del giudice concede una facile fuga all'amministratore infedele. E l'impressione complessiva è che si sia voluto devitalizzare una norma, traendo occasione da pochi non felici interventi della magistratura per togliere operatività ad una figura di reato non grata agli operatori pubblici. Atti d'ufficio sono gli atti dovuti e appartenenti alla competenza funzionale del soggetto. Il rifiuto consiste nel diniego di compiere un atto doveroso. Il rifiuto deve verificarsi indebitamente, e cioè senza un motivo legittimo. Il delitto del primo comma si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica il rifiuto. La fattispecie del secondo comma è consumata allo scadere del termine di trenta giorni. Il dolo richiesto è generico.

RIFIUTO O RITARDO DI OBBEDIENZA COMMESSO DA UN MILITARE O DA UN AGENTE DELLA FORZA PUBBLICA (art. 329). Si prevede il caso del militare o dell'agente della forza pubblica, il quale rifiuta o ritarda indebitamente di eseguire una richiesta fattagli dall'Autorità competente nelle forme stabilite dalla legge. Una differenza con la fattispecie precedente riguarda il soggetto attivo del reato che deve essere un militare, e cioè una persona appartenente con qualunque grado alle forze armate dello Stato, o un agente della forza pubblica.

SCIOPERO O OSTRUZIONISMO IN PUBBLICI UFFICI E IN SERVIZI PUBBLICI O DI PUBBLICA NECESSITA'

Gli articoli 330, 331, 332 e 333 prevedono lo sciopero o l'ostruzionismo, nonché alcuni fatti ad essi collegati che si verificano negli uffici pubblici e nei servizi pubblici. L'entrata in vigore della costituzione, la quale, nel dichiarare all'art. 40 che il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano, non fa eccezioni di sorta, ha creato nei dipendenti degli enti pubblici il convincimento che tale diritto spetti sempre anche ad essi. La legge regolatrice della materia, la legge 12 giugno 1990, n. 146, dopo aver elencato i servizi pubblici ritenuti essenziali, pone i limiti al diritto di sciopero con lo scopo di garantire un livello minimo di funzionalità di questi ultimi. L'inosservanza di tali limiti da luogo a sanzioni disciplinari e normative per i lavoratori, nonché di carattere patrimoniale per le organizzazioni sindacali e di categoria. L'inosservanza dell'ordinanza prefettizia che garantisce le prestazioni e i livelli di funzionamento indispensabili determina sanzioni pecuniarie e amministrative. Sono espressamente abrogati gli art. 330 e 333 del codice penale.

ABBANDONO COLLETTIVO DI PUBBLICI UFFICI, IMPIEGHI, SERVIZI O LAVORI (art. 330, abrogato dalla legge n. 146 del '90).

INTERRUZIONE DI UN SERVIZIO PUBBLICO O DI UNA PUBBLICA NECESSITA' (art. 331). Chi, esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità, interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi stabilimenti, uffici o aziende, in modo da turbare la regolarità del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi ad un anno e con la multa non inferiore a lire un milione. I capi, promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da tre a sette anni e con la multa non inferiore a lire sei milioni. Si applica la disposizione dell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.

OMISSIONE DI DOVERI DI UFFICIO IN OCCASIONE DI ABBANDONO DI UN PUBBLICO UFFICIO O DI INTERRUZIONE DI UN PUBBLICO SERVIZI (art. 332). Il pubblico ufficiale o il dirigente di un servizio pubblico o di una pubblica necessità, che, in occasione di alcuno dei delitti preveduti dai due articoli precedenti, ai quali non abbia preso parte, rifiuta od omette di adoperarsi per la ripresa del servizio cui è addetto o preposto, ovvero di compiere ciò che è necessario per la regolare continuazione del servizio, è punito con la multa fino a lire un milione.

ABBANDONO INDIVIDUALE DI UN PUBBLICO UFFICIO, SERVIZIO O LAVORO (art. 333 abrogato dall'art. 11 della legge n. 146 del '90).


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