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Un excursus sulla storia della detenzione delle donne in italia




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Un excursus sulla storia della detenzione delle donne in Italia



"E dio mi fece donna,/ con capelli lunghi,

occhi naso e bocca di donna.

Con curve/ e pieghe

e dolci avvallamenti/ e mi ha scavato dentro,

mi ha reso fucina di esseri umani.

Ha intessuto delicatamente i miei nervi

E bilanciato con cura/ Il numero dei miei ormoni.

Ha composto il mio sangue

E lo ha iniettato in me/ perché irrigasse

tutto il mio corpo;

sono nate così le idee,/ i sogni,/ l'istinto.

Tutto quel che ha creato soavemente

a colpi di mantice/ e trapano d'amore,

le mille e una cosa che mi fanno donna ogni giorno

per cui mi alzo orgogliosa/ al mattino/

e benedico il mio sesso".

( Gioconda Belli "E dio mi fece donna")


La storia della delinquenza femminile s'intreccia ineluttabilmente con le vicende relative al ruolo sociale assunto dalle donne nei vari periodi storici ed a come le medesime hanno vissuto quel ruolo. Allo stesso modo la storia della detenzione femminile rispecchia inevitabilmente l'avvicendarsi dei cambiamenti storici ma più di tutto rispecchia la visione maschile di come avrebbe dovuto essere trattata la donna deviante per poter essere riportata a seguire non solo le leggi dello Stato, ma anche e soprattutto le regole proprie del suo "status naturae". Parliamo di visione maschile proprio perché governi e regimi sono stati composti sempre prevalentemente da uomini e di conseguenza le leggi emanate sono state l'espressione della visione maschile del mondo; anche Vianello e Caramazza sostengono che in tutte le società storiche (le eccezioni sono talmente poche da essere trascurabili) il potere pubblico è un fenomeno maschile. Tale assunzione di potere precede ciò che Lévi-Strauss definisce prima legge d'ogni cultura: lo scambio delle donne. "Se, infatti, il potere l'avessero avuto quest'ultime, è ovvio che sarebbero stati i maschi ad essere scambiati".

In breve, solo in tempi recenti abbiamo visto affacciarsi alla scena politica una minima rappresentanza femminile in grado di contribuire all'enunciazione delle regole cui noi tutti dobbiamo sottostare, un lasso di tempo troppo breve per poterne constatare i risultati.

Faccioli35, a tal proposito, parla delle donne (e dei minori) come di "soggetti deboli" ed afferma:

" La debolezza dei minori è nel non essere adulti. La debolezza delle donne è nell'essere di un sesso diverso. Il soggetto « forte », intorno al quale minori e donne vengono definiti, è il maschio adulto (possibilmente proprietario). E' questo il soggetto imputabile (responsabile e capace anche di responsabilità civile, cioè patrimoniale), delineato dalla legislazione penale; giovani e donne che trasgrediscono sono considerati « eccezioni »".

Anche Smaus36 interviene riguardo al ruolo del diritto penale nella definizione dello status femminile; essa cita due autori, I. Goessler-Lerier e H. Steinert , secondo i quali il diritto penale si trova nel campo di tensione dei rapporti di potere sociale e riproduce questi rapporti, li assicura e li legittima. Parlando di controllo sociale informale, lo definiscono con l'espressione "controllo privato maschile" ed affermano che il diritto penale illustra lo status quo desiderato dalla società e contribuisce alla sua continuazione nel tempo.

Osserveremo quindi come l'articolazione del sistema delle punizioni e la loro gestione abbiano rispecchiato questa perpetrazione dello status quo cui la donna deve adeguarsi.


Il trattamento delle "donne disoneste" nel XVI secolo


Tra Seicento e Settecento, per affrontare i problemi della cosiddetta povertà "pericolosa", fanno la loro comparsa un po' ovunque in Europa strutture di internamento quali "alberghi dei poveri" e "case di correzione". Tra carcere e casa di correzione avrebbero dovuto esservi delle differenze, tuttavia la ricerca di un antecedente storico del carcere e gli innumerevoli internamenti forzati contribuiscono alla confusione tra questi due tipi di istituzione. E' sempre esistita quindi, all'interno dei vari stati in cui era divisa la penisola italiana, nel periodo in cui l'ideologia penitenziaria stava ancora sviluppandosi38 una distanza "teorica" tra internamento "correttivo" ed internamento carcerario

La figura sociale dei poveri, dei vagabondi, ecc., a partire dal secolo XVI diviene sempre più oggetto di interventi di polizia quasi sempre basati sull'internamento in ospedali, "alberghi", case di lavoro. Con tali misure i ceti dominanti fronteggiano quello che considerano una fonte permanente di turbamento della tranquillità e della quiete pubblica; anche a Milano, Torino, Roma, Modena sorgono asili, "scuole dei poveri", ospizi apostolici ed istituzioni simili.

Troviamo notizie specifiche riguardanti il trattamento riservato alle donne nella bolla "Ad exercitium pietatis" del 20 maggio 1663, con la quale il papa Innocenzo XII si proponeva di estirpare la mendicità ordinando la fondazione dell'Ospizio apostolico dei poveri invalidi. Questo consisteva in tre luoghi distinti: la fabbrica sistina, nella quale trovavano posto i vecchi di entrambe i sessi; il S. Michele, dove erano raccolti i fanciulli ed il palazzo di S. Giovanni in Laterano, dove erano raccolte le zitelle. A quanto pare quest'ultima era una categoria particolarmente a rischio, oltre ad essere donne povere queste non erano nemmeno sposate, perciò prive di una tutela maschile in grado di preservarle da comportamenti "pericolosi".

Nel 1684 la Compagnia di S. Paolo di Torino fondò l'Opera del Deposito per "donne cadute, pericolose o di attuale o imminente scandalo al prossimo". L'internamento in questo luogo aveva carattere temporaneo e le sue regole istitutive suddividevano le donne da accogliere in tre classi: le pubblicamente prostitute che, tuttavia, non erano ammesse "senza segni molto chiari di una vera e ben soda conversione, massimamente se già da molto tempo vivessero in tale stato"; quelle "cadute di fresco, ma non esposte al pubblico"; infine, "quelle che sono in pericolo prossimo di cadere o in sospetto di già seguita caduta"39

L'opera, nel 1742, cadde sotto la protezione regia sabauda che le dette anche un nuovo nome ossia "Opera delle Convertite". Mutarono parallelamente anche le condizioni per la concessione del ricovero ed accanto alle donne che intendevano "pentirsi" vennero aggiunte quelle "non inclinate a mutar vita". L'unica cautela adottata consistette nel mantenere in luoghi separati le ritirate volontariamente da quelle rinchiuse forzosamente. E' chiaro che, con queste regole, tutte le donne che si prostituivano o che erano sospettate di farlo erano altrettanto passibili di ricovero forzato a discrezione delle autorità.

A causa di questa riunione nel medesimo luogo delle due classi di "peccatrici" si levarono proteste da parte della congregazione finché un ordine regio autorizzò la ricerca di un altro luogo atto ad ospitare le donne rinchiuse coattivamente; nacque così nel 1750 la nuova opera denominata "Ritiro delle Forzate". Avrebbero dovuto esservi rinchiuse "tutte le donne di malavita, tanto le privatamente che le pubblicamente prostitute, e pertinaci nella loro disonestà, di qualunque città, luogo e condizione, purché residenti negli stati di sua Maestà". Tuttavia, sia per la limitata grandezza dei locali, sia per la scarsità dei redditi, l'opera non riusciva ad assolvere appieno ai suoi obblighi e, nelle medesime istruzioni, si suggeriva di dare preferenza a : "1) le più ben fatte, più avvenenti e più giovani; 2) le più distinte per nascita e tra queste le abitanti di questa città; 3).quelle pure che, o per sé o per mezzo di altri, saranno in stato di pagare una conveniente pensione o una parte della medesima" . A questo punto, quella che poteva essere un'istituzione atta ad incontrare le difficoltà delle più povere e a "redimerle" dalla loro situazione di degrado, tende invece ad escluderle perché privilegia coloro che hanno possibilità economiche e che vengono da famiglie con maggior prestigio.

Un'altra casa per donne, situata "fuori della Porta di Susa" e con capienza di 48 ospiti, fu istituita nel 1787. Il regolamento era molto rigido infatti, dopo la premessa che le donne in essa ritirate "dovranno persuadersi che non usciranno sino a che abbiano dati segni costanti di una vera emendazione del passato loro tenore di vita", questo stabiliva che ognuna "dovrà seriamente applicarsi ad eseguire a dovere la porzione e la qualità di lavoro che le sarà destinato dalla signora Madre"41. Da tali parole si deduce che questo internamento forzato equivaleva ad una pena indeterminata e rinnovabile qualora le istitutrici non avessero riscontrato i segni costanti dell'emenda. Per quanto riguarda invece i "castighi" per coloro che non sottostavano alle regole della casa, questi erano in tal modo disciplinati: "Non levandosi per tempo due nervate. Non ascoltando la messa o non recitando le orazioni con attenzione, e raccoglimento, si darà loro soltanto pane ed acqua per il corso de΄ giorni che stimerà l'Ill.mo Signor Vicario della presente città. Non ubbidendo alla Sign. Madre si darà soltanto pane e acqua per un giorno. Non eseguendo tutta la porzione del lavoro assegnato o non facendolo a dovere saranno punite con quel numero di nervate che sarà prescritto dall'Ill.mo Sign. Vicario, oltre la privazione della tangente del prodotto dai lavori. Usando discorsi e parole improprie due nervate. Essendo poi recidive saranno punite con quel maggior numero di nervate e col prolungo di soggiorno nella Casa ad arbitrio del medesimo Ill.mo Sig.Vicario".

La coattività dell'internamento venne abbandonata molto più tardi quando, nel 1823 fu istituita da re Carlo Felice una casa il cui regolamento stabiliva che "Si riceveranno nella casa di ricovero solamente donne povere o zitelle giuridicamente od economicamente punite, ovvero colpevoli, ma ravvedute de' loro falli, che desiderino volontariamente di darsi a stabile lavoro, ed avranno dato non dubbie prove di pentimento". Una misura quindi che si pone come successiva alla carcerazione, non obbligata e non alternativa alla carcerazione medesima.

A Genova venne istituito nel 1664 un albergo dei poveri con capienza di circa un migliaio di persone; nei codicilli del suo fondatore (E. Brignole) è possibile conoscere a chi era destinato, ovvero: a uomini e donne vecchie incapaci di provvedere al proprio sostentamento; ai "figliuoli spersi, orfani et abbandonati", alle "povere figlie abbandonate da parenti e dalla fortuna" perché fossero educate, avviate al lavoro e per poterle poi sposare o dar loro un'occupazione idonea; alle "adultere, mal maritate e penitenti che volessero ben fare e sottrarsi da que pericoli che gli sovrastano et all'anima et al corpo"; non solo, infatti "saranno ancora ricevute contro loro voglia quell'hora che da tribunali di qualsivoglia foro e da chi haverà legittimo potere sovra di esse saranno mandate tanto per occasione di condanna, o sia relegatione quanto sotto qualsivoglia altro titolo"; infine saranno accolte le donne "gravide che per povertà altri rispetti non hanno luogo né comodità per il parto" .

Dodici anni dopo l'apertura dell'albergo, gli internamenti corrispondevano nella sostanza a quanto indicato nei codicilli, infatti vi era stata una suddivisione in due "quartieri", San.Giorgio che conteneva prigioni per i giovani di "mala piega e marioli" da sottoporre a correzione e un quartiere per le prigioniere, incarcerate per condanne del magistrato o come "scandalose ed incorreggibili", rinchiuse fino ad emendazione.

Interventi di internamento verso i poveri sono presenti anche a Bologna dove nel 1693 un editto disponeva che la città fosse "espurgata" dai vagabondi dediti ad ogni sorta di "sordida attività" con la loro reclusione in case di accoglienza distinte tra l'opera dei Poveri Mendicanti e, per gli infermi e gli incurabili, l'ospedale di Sant'Orsola43.

Settant'anni dopo le case dell'Opera dei Mendicanti sono tre (Casa della Pietà, per orfani; Ospedale di Sant'Orsola per ammalati e Casa di S. Gregorio, per donne) e si trovano in esse internati per ragioni diverse tra loro. Nella Casa della Pietà, accanto agli orfani, si trovano "ospitati" i forzati in casa di correzione, mentre in quella di S. Gregorio sono custodite alcune "donne di mala vita". Assistiamo quindi, anche se i due tipi di internati venivano tenuti in quartieri separati, ad una commistione/confusione tra internamento "assistenziale" ed internamento carcerario. Per quanto riguarda le donne, in particolare, le case della Pietà funzionavano anche come luoghi di correzione dove potevano essere rinchiuse ad istanza della madre o dei parenti, alcune venivano invece portate in ragione dei loro "cattivi costumi", altre erano orfane e per le zitelle il direttore per trovar loro marito s'industrierà ".si adoprerà co' loro parenti, ove ne abbiano, affinché questo succeda, prendendo diligente informazione dei partiti.".

Alla luce dei documenti presentati possiamo quindi notare come le donne "problematiche" fossero una sotto-categoria dei bisognosi di aiuto e/o correzione, una fascia di deboli tra i deboli, accomunate agli anziani ed ai ragazzi indipendentemente dalla loro età, poste ancora più ai margini se non provviste di marito; esse devono "redimersi" e devono stare sotto la tutela di qualcuno, vengono prese quindi sotto l'ala protettiva dell'autorità che si adopera per metterle in condizione di potersi sposare in modo tale che dalla reclusione passino direttamente alla supervisione di un nuovo tutore cioè il marito.


L' Ottocento e la gestione delle prime carceri femminili


Tornando a citare le vicende relative agli Stati Pontifici che, agli inizi del XVII secolo, vantavano una tradizione di riforme e sperimentazioni proprio inerenti gli istituti di pena per donne e minori, bisogna notare che, fin dal 1735, Clemente XII aveva ordinato la costruzione di una nuova ala dell'ospizio di S. Michele per la reclusione delle donne condannate e delle prostitute .

Negli anni trenta dell'Ottocento queste occupavano la parte di S. Michele assegnata loro originariamente ed anche l'antico correzionale dei giovani. La struttura era dotata di ottantun celle : sessanta piccole celle ( 2,67 m per 2,22 m) e ventuno celle un po' più grandi ( 3,80 m per 2,22 m) nelle quali alloggiavano circa 250 detenute che, perciò, erano costrette a vivere anche in due o tre per ogni angusta cella.

L'istituto era direttamente custodito da un "capitano" e da alcune guardiane, mentre il mantenimento delle detenute era appaltato a privati.

La disciplina, rispetto a quella del correzionale minorile, era meno severa, infatti non vi era isolamento notturno né vigeva l'obbligo di stretto silenzio; non erano permesse battiture, ma solo digiuno a pane e acqua a giorni alterni o la reclusione in una cella detta il "discolato". La regola di vita si ispirava all' ora et labora benedettino, l'orario di lavoro era rigido e le mansioni delle condannate consistevano nella filatura della lana per conto dell'ospizio apostolico. La retribuzione era fissata alla "metà del prezzo delle donne libere", ricevevano per intero il loro salario grazie al quale potevano acquistare generi alimentari atti ad integrare la minestra distribuita una volta al giorno. La giornata tipo delle condannate era distinta così:

"Si levano fatto giorno d'inverno, dopo un'ora di luce l'estate. Nettate le celle ascoltano la messa e dicono alcune preci, poi il lavoro. A mezzodì si dispensa il vitto (che prevedeva solo pane, vino ed una razione di pasta o riso e legumi al giorno), che ciascuna consuma al suo luogo, perché non v'è comune refettorio. Dopo pranzo v'è un'ora di riposo, quindi si riprende il lavoro che lasciasi un'ora prima del tramonto del sole in tutto l'anno. Appresso si torna a far le nettezze e poi tutte o ai dormitori o alle celle, le quali si chiudono all'avemaria" .

Questa casa di pena accoglieva le condannate da tutti i tribunali dello Stato mentre, le detenute in attesa di giudizio erano rinchiuse ancora nelle carceri preventive insieme agli uomini.

Nella città di Roma esisteva anche un istituto presso il monastero di S. Croce della Penitenza alla Longara; questo era nato nel 1615 come ritiro per donne volontariamente penitenti e, nel XIX secolo, si trasformò in casa di correzione. Le donne venivano detenute senza processo e senza sentenza su istanza dei genitori o dei mariti e dovevano rimanervi a tempo indeterminato, "finché non si hanno per emendate".

Dal 1838 l'istituto fu dato in affidamento a dodici suore del Buon Pastore che impostarono la gestione seguendo il modello di vita claustrale. Diversamente da quanto accadeva al S. Michele la vita delle recluse non doveva seguire una rigida disciplina lavorativa ma tutto era improntato ad una rieducazione morale delle corrigende tramite la conduzione di una vita austera e pia. Le giornate sono quindi scandite dal compimento di attività religiose e dall'osservazione di un comportamento irreprensibile:

"Durante il pranzo cantano delle canzoni spirituali..Avanti il pranzo fan l'esame di coscienza. Pranzano in silenzio sentendo la lezione spirituale.Si esercitano nell'umiltà, nell'obbedienza e nella mortificazione..Si devono guardare da ogni scherzo, da ogni riso eccessivo, da ogni movimento indecente. Esse vanno ordinariamente due a due quando passano tutte insieme da un luogo, si chiamano fra loro sorelle e si servono a vicenda, massime nelle infermità. La carità è loro soprattutto ispirata" .

Solo nell'ora di ricreazione era permesso rompere il silenzio e tuttavia "non è permesso parlar sottovoce, né di mode, né di vanità, sciocchezze, e molto meno di cose meno oneste".

In definitiva, come è risultato chiaro fin dal paragrafo precedente, la storia del carcere femminile è contrassegnata dalle crociate morali tese a risocializzare queste donne. Questa risocializzazione ruota attorno a due sfere della vita: quella sessuale e quella lavorativa; da un lato si cerca di riportare le donne a condurre una vita casta fino al matrimonio ed in seguito fedele, dall'altro si fa loro apprendere lo svolgimento del lavoro domestico, fondamentale per il ruolo che esse devono avere in famiglia ma anche utile per poter svolgere le mansioni di domestica presso case altrui.

Nella fase di affermazione storica del carcere le donne vengono quindi incarcerate soprattutto per atti lesivi di valori morali e per comportamenti considerati "troppo liberi"; le detenute accusate di reati considerati gravi dalla coscienza collettiva sono una piccola parte. Per gli uomini avviene esattamente il contrario, l'intervento penale ed il carcere si applicano solo in presenza di atti lesivi di precisi beni giuridici. Tale diversità fa si che, alla fine dell'800, i riformatori e le case penali ospitino per lo più donne scappate di casa, vagabonde, donne considerate troppo libere e prostitute.

La gestione del controllo delle detenute è una gestione tutta femminile, per molto tempo inoltre è stata concessa a personale religioso; in altri contesti sono state donne dell'alta borghesia a promuovere campagne di purezza sociale ed a gestire gli istituti penitenziari. Il controllo e la rieducazione delle detenute vengono così affidati a donne che, da una parte appaiono come investite da una missione sociale col fine di salvare altre donne, dall'altra sono rappresentanti di un modello di realizzazione connotato da un'alta adesione ai valori morali.

Lo stesso discorso vale naturalmente anche per le ragazze; i motivi della reclusione nel riformatorio sono legati alla decisione parentale di procedere alla correzione e all'impedimento del vagabondaggio. Si evidenzia in particolar modo l'arretratezza dei riformatori femminili rispetto ai maschili sia per quanto riguarda le strutture, sia per ciò che concerne le metodologie rieducative. Non sono previsti, ad esempio, alcun tipo di istruzione né l'apprendimento di un lavoro, infatti la "rieducazione" consiste esclusivamente nei lavori domestici ed in lavori di cucito. Il motivo di tale diversità viene individuato nella gestione religiosa che, allora e fino a tempi recenti, ha retto le strutture di rieducazione per ragazze. Il fatto che i riformatori femminili fino ai primi del '900 non fossero governativi, lasciava totale autonomia all'ordine religioso. Le strutture di internamento per ragazze non erano per tanto sottoposte alle commissioni speciali di controllo previste per quelle maschili, che erano governative.

Faccioli48 denomina questo tipo di gestione "modello familiare" proprio perché si basa sulla riproduzione in carcere di un ambiente che simula il gruppo familiare, dominato da una disciplina basata sul paternalismo e garantita da figure prevalentemente femminili.

Il primo regolamento penitenziario della fase post unitaria (Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari e per i riformatori governativi del Regno, 1891) prevede la possibilità di concedere la gestione delle carceri femminili ad "istituti di carità muliebri" e che la custodia delle detenute sia comunque affidata a personale femminile, meglio se appartenente ad un ordine religioso.

La figura femminile religiosa diviene, in questo contesto, centrale perché appare lo strumento più adatto al pentimento delle detenute e per far loro acquisire regole di condotta basate sulla docilità, sulla dipendenza e la subalternità. Spesso, inoltre, il rapporto tra queste donne e le suore comporta coinvolgimento affettivo; proprio perché la maggior parte delle detenute proviene da situazioni di abbandono e violenza, la suora diviene una sorta di sostituto materno, qualcuno che , finalmente, oltre a sorvegliare e guidare si prende cura della sopravvivenza fisica delle stesse.


Cambiamenti sociali e legislativi del Novecento


Il Novecento è un secolo ricco di cambiamenti per quanto riguarda la situazione sociale femminile; alla fine dell'800 l' Italia era uno dei Paesi a più alta percentuale di donne occupate nell'industria, ciò nonostante le lavoratrici non miglioravano la loro condizione sociale. Le questioni del suffragio e del lavoro femminile cominciarono allora ad interessare le diverse forze politiche presenti nel Paese. Nacquero e si diffusero anche alcuni movimenti femministi che comprendevano la necessità di ottenere il voto ed agivano sulle masse affinché prendessero al più presto coscienza di questo loro diritto. Per raggiungere questo obiettivo dovettero passare ancora parecchi anni e, dopo la stasi del periodo fascista, le esperienze della guerra e della Resistenza popolare, alla quale le donne diedero il loro contributo individuale e collettivo, riproposero la questione dell'emancipazione femminile. Il primo febbraio del 1945 finalmente le donne ottennero il suffragio e poterono votare per il referendum istituzionale dal quale nacque la Repubblica Italiana. Divenute forza politica determinante, in un quadro storico (dall'immediato dopoguerra in poi) caratterizzato da cambiamenti e riprese, mutarono le loro abitudini di vita e fecero sentire la loro voce in più occasioni. La causa che più ha catalizzato le forze del movimento femminile è stata quella dell'aborto ma, in generale, ciò che si è andato consolidando nel corso del Novecento è una nuova concezione del proprio peso sociale e la consapevolezza di poterlo far valere mirando ad una situazione reale di pari opportunità sociali tra uomo e donna.

Focalizzando la nostra attenzione sulla situazione dell'istituzione penitenziaria dobbiamo dire che la condizione carceraria descritta nel paragrafo precedente ( modello di gestione familiare attuato attraverso la vigilanza di suore) rimase pressoché inalterata fino alla riforma del 1975.

Tuttavia, durante gli anni '70 assistiamo ad una serie di importanti avvenimenti; le pessime condizioni di vita negli istituti penitenziari portano allo scoppio di numerose rivolte all'interno delle carceri stesse ed impongono la necessità di profonde modificazioni.

Questa situazione non è propria solo dell'Italia, infatti, sebbene il Consiglio d'Europa nel 1973 avesse indicato 94 "regole minime" per il trattamento dei detenuti ( rispetto della dignità umana, ripartizione dei detenuti, istruzione, formazione professionale, ecc.), durante il Congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione ed il trattamento del crimine tenutosi a Ginevra nel 1975, chiaramente emerse che pressoché nessun Paese poteva onestamente dichiarare di avere ottemperato alle regole indicate50.

Parallelamente l'idea di una pena basata sul modello custodiale-punitivo, di fronte ad un alto tasso di recidiva, entra in crisi.

Le donne presenti nelle carceri italiane, per i crimini da loro commessi e per il tipo di gestione attuata, durante il secolo precedente erano viste soprattutto sotto il profilo della loro "amoralità" piuttosto che dal punto di vista dell'illegalità. Per tutti i mutamenti indicati poc'anzi, nel corso del Novecento, cambia anche la composizione della popolazione detenuta. Tra le donne aumentano le giovani ed in generale il quadro della trasgressione appare più complesso. Aumentano infatti i reati contro il patrimonio, quelli contro lo Stato, l'amministrazione della giustizia e l'ordine pubblico, mentre diminuiscono quelli contro la famiglia e contro la morale.

Nel contesto descritto emerge la necessità di un processo di modernizzazione all'interno dell'istituzione penitenziaria ed il momento centrale di tale processo di mutamento risiede nella riforma penitenziaria del 1975. La legge 26 luglio 1975, n. 354, "Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà" recepisce ed esprime l'ideologia del trattamento ed i principi di riduttivismo carcerario grazie anche all'introduzione di nuovi strumenti sanzionatori penali extramurari. La pena diventa un'occasione per individuare i bisogni del soggetto ed attuare attività di sostegno in grado di agevolare il suo reinserimento sociale. Questo indirizzo legislativo è pertanto simile ai tipi di intervento già escogitati nei confronti di donne e minori. Il carcere femminile che si era affermato alla fine dell'800 era proprio un'istituzione finalizzata ad educare e recuperare donne "traviate" provenienti solitamente dalle classi più disagiate.

L'applicazione della riforma, pur mantenendo il carattere già prevalentemente "assistenziale" delle modalità di controllo, comporta dei cambiamenti anche all'interno del carcere femminile. Le suore vengono sempre più spesso sostituite dalle vigilatrici dipendenti dello Stato cui viene affidata la funzione di sorvegliare e custodire; il trattamento e la rieducazione vengono affidati ad educatori, assistenti sociali, psicologi ed altri esperti in scienze psico-sociali che, comunque, sono spesso donne.

Mentre le suore vivono il lavoro in carcere come una missione e un'opera di carità, le operatrici hanno una professionalità specifica e, Faccioli sostiene, il modello di realizzazione femminile che propongono alle detenute è emancipatorio, basato sull'affermazione attraverso il lavoro .

L'istituzione delle carceri speciali negli anni dell'emergenza del terrorismo è una parentesi che apre una nuova fase nella politica penitenziaria; proprio lo stato di emergenza legittima un arresto nel processo di applicazione della riforma al quale consegue un arretramento sul piano dei diritti e delle garanzie dei detenuti. In questo momento la gestione femminile è quasi assente, nei confronti del "terrorista", uomo o donna che sia, il carcere sceglie la via della repressione e dell'annientamento del pericolo sociale che questa figura evoca. Le vigilatrici hanno un ruolo marginale, limitato ai normali controlli quotidiani e non hanno quasi rapporto con le detenute. Al primo segnale di allarme subentrano gli agenti, in molti bracci di massima sicurezza si parla attraverso i microfoni, la cella è sempre sotto controllo attraverso monitors.

Come scrive Faccioli "non vi può essere spazio per il discorso rieducativo finalizzato alla riproduzione del ruolo femminile tradizionale nei confronti di donne che hanno rifiutato questo ruolo nelle loro scelte di vita". Le detenute politiche, quindi, propongono un'immagine della trasgressione diversa da quella tradizionale perché quest'ultima investe l'ordine sociale e non semplicemente la sfera domestica:

"queste donne non sono rassegnate; spesso il loro delitto nasce da rabbia e insoddisfazione per condizioni do oppressione di cui vengono accusati i rapporti di potere. La loro storia non è quasi mai fatta di miseria e sottomissione e comunque, non viene chiamata in causa per giustificare la loro scelta di trasgredire. Le loro voci inoltre, escono fuori dal carcere per denunciare i meccanismi di potere che regolano la vita carceraria e per descrivere la violenza spesso latente e poco visibile, che scandisce la giornata delle detenute".

Con la legge n.663 del 1986 (cosiddetta legge Gozzini) le carceri speciali vengono abolite e per i detenuti che presentino una pericolosità penitenziaria (concetto diverso da quello di pericolosità sociale) è previsto il regime di sorveglianza particolare attuato tramite severe norme di sicurezza. La medesima legge riprende e approfondisce le linee guida della riforma del 1975 cercando di attuare al politica di riduttivismo carcerario tramite l'allargamento delle opportunità di uscita temporanea dal carcere (lavoro all'esterno, permessi premio, semilibertà) e l'allargamento delle opportunità di esenzione, in tutto o in parte, dell'esecuzione penitenziaria stessa (affidamento in prova, detenzione domiciliare, liberazione anticipata e liberazione condizionale)52.

La "Gozzini" quindi introduce una maggiore apertura del carcere all'esterno che dovrebbe coinvolgere nel processo di trasformazione della pena soggetti sociali esterni al carcere; questa scelta legislativa è rimasta alla base dei provvedimenti emanati negli anni successivi fino al D.P.R. del 30 giugno 2000, n.230, "Regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà" che all'art. 47 sull'organizzazione del lavoro riconosce un ruolo di rilievo alle cooperative sociali.

Nel frattempo, la comunità carceraria femminile viene nuovamente modificata dalla presenza sempre più numerosa di donne detenute per reati connessi alla droga e di straniere. Sono prevalentemente donne giovani, di diversa composizione sociale e di diverso livello culturale, anche se le classi più disagiate rimangono maggiormente rappresentate. Il loro rapporto con la trasgressione appare complesso, diversificato e, chiaramente, questa diversa composizione sociale ha avuto dei riflessi sulle modalità di articolazione del controllo e della risocializzazione. Appare utile un'analisi più approfondita della realtà penitenziaria femminile degli ultimi anni per constatare quali strumenti operativi siano stati posti in essere per affrontare questi cambiamenti nella composizione sociale delle detenute e per scoprire quale impatto abbiano avuto le riforme legislative sulla popolazione in questione.




Mino Vianello, Elena Caramazza "Donne e metamorfosi della politica. Verso una società post-maschilista" Editori Riuniti, 1998.

Franca Faccioli "I soggetti deboli. I giovani e le done nel sistema penale", op. cit.

Gerlinda Smaus "Il diritto penale e la criminalità femminile" in Dei Delitti e delle Pene, 1/92.

Irmtraut Goessler-Lernier, Heinz Steinert "Attempt at a Control of Female Crime" 1975, intervento presentato alla III Conferenza dell'European Group for the Study of Deviance and Social Control, Amsterdam.

Romano Canosa, Isabella Colonnello "Storia del carcere in Italia - dalla fine del '500 all'Unità" Edizioni Sapere 2000, 1984.

S. Cavallo "Assistenza femminile e tutela dell'onore della Torino del XVIII secolo in "Annali della Fondazione Einaudi", vol.XIV, anno 1980; opera citata nel testo di Canosa e Colonnello (vedi nota 38).

Vedi nota 39.

Archivio di Stato di Torino, Fondo Opere pie, comuni e borgate, Mazzo in Canosa, Colonnello op. cit.

E.Grendi "Pauperismo e albergo dei poveri nella Genova del Seicento" in "Rivista storica italiana" citato nel testo di Canosa Colonnello, op. cit.

Archivio di Stato di Bologna, Fondo Opera Pia Giovanni XXIII, Opera mendicanti (Atti di fondazione, Statuti) in Canosa, Colonnello, op. cit.


Anna Capelli "La buona compagnia. Utopia e realtà carceraria nell'Italia del Risorgimento" Franco Angeli editore, 1988.


C.L. Morchini "Degli istituti di pubblica carità ed istruzione primaria e delle prigioni in Roma"(1842 e 1870), citazione presente in "La buona compagnia" di Anna Capelli, op.cit.

Vedi nota 45.

Nel testo di Annarita Buttafuoco "Le Mariuccine. Storia di un'istituzione laica" ed. Franco Angeli 1985, abbiamo notizia di un'istituzione non religiosa dei primi anni del '900, l'Asilo Mariuccia, che si occupava del recupero di ragazze di strada. Nell'art.3 dello Statuto istitutivo è indicato: "A parità di condizioni saranno accolte a preferenza nell'Istituto le bambine profanate e in generale le minorenni"; nell'art. 4 ultimo comma, invece, abbiamo il chiaro rifiuto di adesione a forme di gestione religiosa " L'Istituto non potrà mai avere in qualsiasi forma o misura carattere confessionale".

Franca Faccioli "I soggetti deboli. I giovani e le donne nel sistema penale", op. cit

Rosetta Scaramaglia "Femminismo" Editrice Bibliografica, 1997.

Ferrando Mantovani "Il problema della criminalità" ed. CEDAM, 1984.

Franca Faccioli "I soggetti deboli", op.cit.

Gianluigi Ponti "Compendio di criminologia", op. cit.

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