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Sulle istituzioni totali




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SULLE ISTITUZIONI TOTALI



1 Definizione e caratteristiche


Prima di analizzare il significato della nozione di istituzione totale, si chiarirà cosa si intende con il termine istituzione. Si può intendere il concetto in maniera statica e reificata, come "organizzazione retta da un certo tipo di comunicazione", come "insieme strutturato e stabilizzato di attività sociali, di norme, regole e funzioni": questo è l'approccio utilizzato da T. Parsons e dall'etnologia classica.

Accanto a questo modello vi è quello dinamico-relazionale, noto come analisi istituzionale, che in Italia è stato seguito da F. Basaglia: egli analizza l'istituzione dal punto di vista della divisione dei ruoli e della relazione di potere che ad essa corrisponde. "Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli e del lavoro: servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato. Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha"[1]. Divisione dei ruoli, esercizio di potere ed esclusione da esso caratterizzano ogni istituzione, in quanto tali elementi sono funzionali alle varie finalità di quest'ultima: l'educazione per le istituzioni della famiglia e della scuola; la cura della malattia per gli ospedali, psichiatrici o meno; la risocializzazione per il carcere .

In questo modello il potere appare organizzato gerarchicamente: vi è il cosiddetto custode del codice, ovvero l'attore che detiene e gestisce il codice normativo, e l'iniziato, cioè l'attore che deve conformare il suo comportamento a quel codice, pena l'esclusione dal sistema. In questo senso, l'istituzione ordinaria si differenzia dall'istituzione totale per il grado di intensità con cui i guardiani dell'istituto esercitano il loro potere, e con cui gli istituenti ordinari esercitano la loro controspinta: infatti nell'istituzione totale i reclusi non hanno il potere di entrare liberamente in conflitto con essa[3].

Le istituzioni ordinarie sono dunque abbastanza elastiche e porose, in modo tale da non escludere, almeno potenzialmente, una trasformazione dell'azione dell'istituente[4], cosa che invece non può avvenire nelle istituzioni totali, in quanto, tra l'altro, la relazione tra gli attori che le fanno vivere è gerarchica e unidirezionale.

La nozione di istituzione totale più conosciuta, tuttavia, è quella proposta dal sociologo Erving Goffman, il quale si riferisce nello specifico agli ospedali psichiatrici e alla loro interazione con i degenti dell'istituzione stessa. Si intende in tal senso un "sistema chiuso, soggetto ad un potere inglobante, in cui vi sia impedimento allo scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno: il suo carattere inglobante è continuo, permanente, non poroso, soggetto ad un potere[5]". In queste istituzioni l'individuo vive recluso attraverso diverse modalità: appartengono dunque alla categoria di istituzione totale anche le carceri, le caserme, i conventi, i manicomi, gli orfanotrofi e i collegi. Ogni istituzione totale si compone di due elementi: la struttura - che riguarda gli elementi dell'organizzazione: l'edificio chiuso ed isolato, i cancelli, gli orari di visita, le regole comuni, lo staff - e la cultura - relativa alla qualità, al tipo e alla modalità in cui opera l'istituzione: la formazione e la custodia - .

La caratteristica principale delle istituzioni totali è palesemente la rottura delle barriere che abitualmente separano le tre sfere principali della vita di ogni individuo, la famiglia, il lavoro e il divertimento: l'uomo, infatti, tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità e senza alcuno schema razionale di carattere globale[7]. All'interno dell'istituzione totale, invece, tutte le espressioni della vita si svolgono nello stesso luogo, calcolate nel tempo, sotto il controllo della stessa autorità e in mezzo agli altri detenuti, i quali sono trattati tutti allo stesso modo : la privacy e l'autonomia vengono così soppresse.

L'istituzione governa la vita del recluso e con un sistema di premi e punizioni cerca di indurlo ad accettare la de-responsabilizzazione che ne consegue: "egli è di regola trattato, apostrofato e punito come se fosse un bambino o un deficiente" [9]. Quando un individuo viene istituzionalizzato, infatti, non solo viene privato della propria libertà e delle proprie esperienze relazionali, ma viene anche passivizzato: non può disporre liberamente dei propri beni personali oltre che di se stesso, viene continuamente sorvegliato e privato di ogni sua autonomia - "l'istituzione è l'occhio che ti guarda continuamente "-, mentre ogni iniziativa privata, anche la più banale, viene scoraggiata.

Diverse sequenze nello speciale del TG3 "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8"[11] testimoniano l'aborto di questi tentativi: una di queste, ad esempio, mostra un detenuto addetto al cambio della biancheria ipotizzare ad alta voce che le lenzuola non si trovano perché "forse stanno in magazzino", e l'agente quasi iniziare a riflettere per un momento su quell'ipotesi per poi improvvisamente zittire il ristretto, anche se scherzosamente, con un: "tu questi ragionamenti non li devi proprio fare! Questo è un ragionamento che devo fare solo io, e basta. Tu fai il lavoro tuo. Tu sei carcerato, punto e basta. Fai le zampogne , quello è il lavoro tuo". Dunque sembrerebbe ci siano i ragionamenti per gli agenti e i ragionamenti per i detenuti .

Un'altra sequenza, invece, ben più drammatica nella sua semplicità, mostra un detenuto deputato alle pulizie dei corridoi, un cosiddetto scopino, completamente istituzionalizzato da venticinque anni di carcere, che prova ogni tanto a mettere in atto delle iniziative, le quali vengono puntualmente censurate: esce nel campo di calcio e comincia ad asciugare le pozzanghere, ma viene apostrofato da un agente: "Le pulizie, fai solo le pulizie! Poi ti senti male . Fallo fare ai giocatori questo, tu fai solo le pulizie. Posa quel coso!"; estende l'area da pulire anche ad altri settori ma viene continuamente bloccato; cerca di rassettare il laboratorio di artigianato ma di nuovo: "Feli'! Devi svuota' i cassetti e basta!", e lui timidamente "Ma . gli stampi . " "Non ti interessa, quella è robba da butta'. Svuota i cassetti e basta, poi ce penso io". Al detenuto, sfiaccato dalla lunga detenzione e dagli psicofarmaci, non resta che eseguire passivamente gli ordini, ed aggirarsi come un automa nell'istituto.

La passivizzazione opera attraverso vari metodi, in un'istituzione totale: tramite, come fatto ora notare, l'impossibilità di decidere e gli psico-farmaci, ma anche tramite l'isolamento o il controllo ossessivo, o il letto di contenzione negli ospedali psichiatrici. Tuttavia l'effetto è lo stesso, ciò che Goffman[13] ha chiamato sindrome da internamento, che si manifesta con apatia, mancanza di iniziativa, regressione, dipendenza e incapacità di sopravvivere al di fuori dall'istituzione.

2 La sindrome da prisonizzazione


Per quanto riguarda il carcere in particolare, invece, il fenomeno nosografico ricorrente negli istituti di pena è stato scientificamente chiamato per la prima volta da Donald Clemmer[14] sindrome da prisonizzazione. L'autore, all'interno del carcere di massima sicurezza dell'Illinois del sud, studiò le relazioni tra i detenuti e la loro organizzazione sociale, e riscontrò un "processo di progressiva assunzione da parte del ristretto dei valori, dei principi e della cultura, oltre che degli atteggiamenti e delle abitudini tipiche del clima carcerario". Con il termine intese dunque l'effetto globale dell'esperienza carceraria sull'individuo, indicato dall'assuefazione allo stile di vita detentivo: quasi un percorso di adattamento progressivo alla comunità carceraria culminante nell'identificazione più o meno completa con l'ambiente, con i suoi usi e costumi, con le sue singolari abitudini, con la sua cultura, con il suo codice d'onore, con i suoi esempi da imitare .

In quest'occasione si è dunque messa in evidenza l'esistenza di una dimensione autonoma, definita appunto cultura detentiva[16].

Tale sindrome si articola in una vasta gamma di quadri psicopatologici, che vanno dalla comune e breve reazione ansioso-depressiva alla sindrome di Ganser[17]. La prisonizzazione è alimentata anche da altre situazioni contingenti, quali l'isolamento e la carenza di stimoli propria di molti istituti carcerari. Ciò può causare un deterioramento mentale, inteso come riduzione generalizzata dello status mentale antecedente all'esperienza carceraria. Alcuni di questi soggetti sembrano essere più suscettibili di altri a deteriorare in tale senso: ad esempio quelli che non hanno legami significativi col mondo esterno, gli emarginati .

"Inviterei a venire a vedere la vita nel carcere, per rendersi conto chi è il detenuto dopo anni di carcere", afferma a tal proposito un detenuto[19], "è un essere non solo disperato: è annullato, non ha personalità, non ha nulla". Un'altra delle caratteristiche delle istituzioni totali è infatti l'obiettivo di annullare l'individualità del recluso. L'istituzione, dal momento dell'ingresso dell'individuo, cercherà di renderlo inoffensivo e insieme di curarlo: "il detenuto varca la soglia del carcere e, cancello dopo cancello, lascia non solo il proprio ruolo sociale, rappresentato ad esempio dal lavoro, dalla famiglia, dalle amicizie, ma anche e soprattutto se stesso; viene immesso in uno spazio, cioè, di vuoto emozionale" .

Inizia la spersonalizzazione: varcato il portone di ingresso del carcere, l'uomo non più individuo, ma cosa[21]. Secondo la teoria di Goffman, i reclusi sono infatti sottoposti ad un processo di spoliazione del sé a seguito della separazione dal loro ambiente originario e da ogni altro elemento costitutivo della loro identità. Ciò avviene "attraverso successive riduzioni del ": dall'iniziale barriera che li separa dal mondo, "si passa alla cosiddetta morte civile" , tramite la perdita dei diritti sul denaro, l'impossibilità a votare, e altri meccanismi che fanno cessare di essere un cittadino comune. Inoltre le successive umiliazioni e profanazioni del sé, le punizioni e la vita di gruppo costante, contribuiscono a creare ansia per la propria sicurezza.

Iniziano così alcuni cambiamenti nella cosiddetta carriera morale del detenuto, determinata dal progressivo mutare del tipo di credenze che l'individuo ha su di sé e su coloro che gli sono vicini[23].

Alcune dinamiche sono il risultato di una lenta assimilazione, da parte dei detenuti, dei ritmi e delle esigenze di ordine, di controllo e di sicurezza imposte dal sistema penitenziario, il quale incentiva un'uniformità di comportamento e di identità che è accettato inconsapevolmente dalla quasi totalità dei reclusi: l'assunzione di un ruolo inferiore, l'adozione di alcuni nuovi modi di mangiare, vestire, lavorare, dormire, l'adozione del linguaggio locale e il riconoscimento che niente è dovuto all'ambiente per la soddisfazione dei bisogni, sono aspetti della prisonizzazione che possono essere riscontrati in tutti i detenuti[24]. Il detenuto è così fagocitato dall'istituzione, e i suoi bisogni e desideri personali sono così annullati, sostituiti da altri eteroindotti e più coerenti con le finalità dell'istituzione.

L'immagine del detenuto ormai del tutto prigionizzato, che sa come funziona il carcere e qual è il suo posto in questa organizzazione, spesso a causa dei tanti anni passati qui, è ben tratteggiata da un agente di polizia penitenziaria[25]: "Si vede il detenuto educato, si vede dal comportamento, da come si sveglia la mattina . Non parla mai, non dà fastidio, cerca di trascorrere le sue ore facendo qualche lavoretto, andando a scuola . Normalmente (quando vuole parlare) si mette all'udienza e dice: beh ispettore vorrei cambiare cella perché, non è che mi trovo male, e già quando comincia a dire sa, non è che mi trovo male , però sono ragazzi giovani, sono pieni di vita, cantano, ridono, la sera vogliono guardare la televisione a volume alto, io sono anzianuccio, sa, se mi mette in quella stanza starei meglio. Io chiedo alla guardia è vero, si comporta bene?, allora è a posto, lo cambio".

Tuttavia l'azione della prisonizzazione si concretizza anche in quelle dinamiche - più preoccupanti - che perpetuano e cronicizzano la criminalità e l'antisocialità.

È vero però che non tutti i detenuti rispondono allo stesso identico modo: il grado di prigionizzazione è infatti funzione della sensibilità del recluso alla cultura di provenienza, del tipo di relazioni intraprese prima dell'incarcerazione, dei suoi trascorsi di vita, della sua personalità e del durata di esposizione alla cultura carceraria. Egli può dunque diventare prisonizzato per diversi aspetti, ma la maggior parte di essi subisce questa situazione, in pochi cercano di opporsi all'ambiente: nelle parole di un detenuto[26] "te levano tutto, è inutile che t'affezioni (a qualcuno), te manna fori tutto . Come lasci un attimo la presa . sei loro . e io nun ce sto".


Nel sistema penitenziario si verifica così un paradosso: tale istituzione avrebbe il compito di insegnare al detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel mondo libero, ma nello stesso tempo lo obbliga a vivere in un modo che di quel mondo è l'antitesi[28]. Alcuni studi hanno infatti evidenziato ulteriori effetti dell'ambiente carcerario sull'individuo, quali la perdita dei valori che il soggetto aveva prima dell'internamento - fenomeno che viene anche chiamato dis-cultura, ovvero "incapacità momentanea o definitiva di gestire situazioni tipiche della vita quotidiana " - e l'estraniamento, cioè l'incapacità di adattarsi al nuovo contesto dopo la scarcerazione .




F. BASAGLIA, L'istituzione negata, Torino, 1968.

R. CURCIO, nell'ambito del seminario "Reclusioni e Risorse", organizzato dalla Cooperativa Sensibili alle Foglie, tenutosi a Milano nel marzo 1998. Lo stage di formazione, rivolto soprattutto agli operatori, rientra nella strategia di sensibilizzazione, e nella prospettiva del contrasto all'istituzionalizzazione.

F. BASAGLIA, L'esclusione (La soluzione finale), in AA. VV., Le scelte del '68, Milano 1998, Libro del Leoncavallo.

R. CURCIO, op. cit., 1998.

E. GOFFMAN, Asylums. Le istituzioni totali, Torino, 1968.

C. SERRA, op. cit., 2002.

E. GOFFMAN, op. cit., 1968.

Goffman chiama queste dinamiche esposizioni contaminanti.

F. BERTI, "Funzione della pena e ruolo del carcere", in Cronache dal carcere: storia di un'esperienza di formazione, UPAD, articolo pubblicato su internet all'indirzzo https://www.provinz.bz.it 2003.

R. CURCIO, op. cit., 1998.

Puntata del 21 settembre 2004.

Con questo termine si intendono i fagotti che i detenuti addetti al cambio ottengono con la biancheria sporca, ma anche i sacchi che i ristretti in procinto di uscire preparano con la propria roba.

E. GOFFMAN, op. cit., 1968.

D. CLEMMER, The prison community. Christopher house, Boston, 1940.

Ristretti Orizzonti, mensile on line realizzato dai detenuti del carcere Due Palazzi di Padova, pubblicato all'indirizzo https://www.ristretti.it , settembre 2004.

G. ARENA, "Psicologia e regime carcerario. La pena, il reato, il reo e il problema della riabilitazione-rieducazione", Quaderni di Psicologia Giuridica, Pubblicazione dello Studio di Psicologia Forense e assistenza giudiziaria di Milano, n.6, pubblicata su internet all'indirizzo https://www.psicologiaforense.it., ottobre 2004.

Tale sindrome si manifesta più frequentemente nei detenuti non ancora giudicati, e consiste sostanzialmente in reazioni di tipo isterico, nate originariamente come simulazioni.

F. BERTI, op. cit., 2003.

Recluso intervistato dallo speciale del TG1 "Voci di dentro", cit., puntata del 30 novembre 2003.

F. BASAGLIA, op. cit., 1968.

A. RICCI, G. SALIERNO, Il carcere in Italia, Torino, 1971.

C. SERRA, Marginalità ed emarginazione, Kappa, Roma, 1983.

E. GOFFMAN, op. cit

Ristretti Orizzonti, rivista citata.

Testimonianza raccolta da C. SARZOTTI "La cultura giuridica degli operatori penitenziari", articolo pubblicato sul sito internet del Centro interculturale - Città di Torino all'indirizzo https://www.comune.torino.it settembre 2004.

Tommaso, detenuto nel carcere di Rebibbia, intervistato dallo speciale del tg3 "Il mestiere di vivere. Rebibbia G8", puntata del 28 settembre 2004.

Leggasi: "stravolge i tuoi piani".

Ristretti Orizzonti, cit.

E. GOFFMAN, op. cit., 1968.

Per importanti considerazioni sui meccanismi psichici attivati durante la detenzione e difficilmente estinguibili al momento del reingresso in carcere, cfr. anche G. GARAVAGLIA, Aspetti e problemi di antropologia criminale, Torino, 1969.

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Appunti su: tesina sulle istituzioni totali, le istituzioni totali e gli effetti sulle persone, https:wwwappuntimaniacomtecnicheforensicssulle-istituzioni-totali53php,



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