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L'onore - carcere




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L'ONORE



Il carcere è un ambiente ostile in cui risulta necessario mettere in campo ogni genere di comportamento e risorsa per sopravvivere; come in tutte le situazioni di forte deprivazione si possono manifestare due dinamiche fondamentali ed opposte: quella dell'estremo individualismo e quella del mutuo soccorso[1].

La prima risposta - della seconda ci si è occupati nel precedente paragrafo - è adottata da chi per sopravvivere ad ogni costo decide di farlo a costo di altri. Ciò implica, nelle parole di Renato Curcio, "una desolidarizzazione nei confronti di chiunque, un'indifferenza per la sorte comune"[2], anche perché, come già detto, "la legge della sopravvivenza non va molto d'accordo con la solidarietà ".

Il fenomeno è accentuato dal sistema meritocratico di premi e punizioni vigente in carcere, inaugurato dalla legge Gozzini, in funzione del quale "impari ciò che conviene o non conviene fare, e l'essere opportunisti spesso diventa una necessità di sopravvivenza, un'abitudine che ti accompagna anche quando torni libero: calcoli i possibili vantaggi e svantaggi di tornare a delinquere e decidi di conseguenza."[4].

Tuttavia, il criterio discriminatorio della coerenza con le proprie scelte passate, impone che gli irriducibili godano di particolare prestigio, mentre i pentiti - cioè i collaboratori di giustizia - e i dissociati incontrino la disapprovazione della comunità detenuta; le laconiche parole di un recluso[5] illustrano questo semplice e ineluttabile concetto: "per essere accettato dalla comunità detenuta non devi anzitutto mai aver collaborato o permesso l'arresto di qualche tuo complice, o fosse anche un estraneo per te. Questo sta alle fondamenta di questa pseudo cultura come il Primo Comandamento sta alla Chiesa".

Ciò è un aspetto funzionale alla vita del criminale: il fare la spia è l'atto più infame anche perché per esso si può rischiare la morte propria o di un parente. "Gli infami", afferma un ex detenuto[6], "sapevano già che non avrebbero trovato posto tra i detenuti comuni, e allora erano loro stessi a chiedere il proprio isolamento sperando in cuor loro di non doversi mai imbattere in qualcuna delle loro vittime". È quanto confermato da una detenuta , la quale addirittura non presenziò durante uno dei suoi processi "su consiglio di Radio Galera: rischiavo di compromettere altre persone".

È più o meno ciò che sottostà all'emarginazione dei detenuti considerati striscianti con gli agenti: in ambito carcerario il sistema di premi e punizioni fa sì che alcuni detenuti per ottenere benefici facciano la spia su particolari loro compagni di detenzione: "scherzando tra amici si possono fare apprezzamenti, manifestare intenti, validi solo per quell'attimo di gioco o di scherzo, ma se quegli stessi intenti vengono presi per veri da un eventuale confidente e riferite come tali alle autorità, possono avere gravi ripercussioni"[8]. Un altro detenuto riferisce a tal proposito come in passato, "c'era una maggiore confidenza con i compagni di sezione. Adesso si usa di più il cervello. Tutto a causa dei signori pentiti, che prima fanno la bella vita, poi ti tradiscono", e introduce una dinamica: "la solidarietà tra detenuti era sempre mantenuta proprio grazie ai capi", per mezzo anche dei "tanti rituali di riconoscimento, dai quali si veniva a sapere il grado occupato nella gerarchia mafiosa: . chi più chi meno era conosciuto, si sapeva cosa potersi aspettare dall'altro, chi apparteneva a clan nemici".

Anche un altro motivo, tuttavia, più ideologico ma ugualmente forte, sta alla base del rispetto dell'onorabilità: la regola della lealtà. A volte è l'ultimo requisito perché uomini che hanno perso la propria onestà giuridica possano ancora considerarsi persone rispettabili, al pari delle persone giuridicamente oneste nella società libera: "Questa mia voglia di uscire dall'illegalità è fortissima", si sfoga un ex detenuto[10], "ma non baratterei mai la mia lealtà per una scarcerazione: se la libertà non ha prezzo, il coraggio di affrontare le conseguenze dei propri errori ti dà un senso di dignità e quella sì che ha un valore inestimabile".

Introduce inoltre una sostanziale differenza, tra "il pentimento morale" e "quello falso e strumentale del pentimento giudiziario: il primo avviene nell'animo, quando si prende coscienza di aver stravolto la propria vita, e ti dà la forza di affrontare con più coraggio, serenità e rassegnazione la pena . che viene inflitta; il secondo, è quello subdolo che permette ad una persona senza un briciolo di onore di riacquistare la propria libertà pagandola il misero prezzo del tradimento".

Il fenomeno del pentitismo nella maggior parte dei casi è infatti in funzione di questo sistema: "può darsi il caso in cui il detenuto sia mosso da un effettivo pentimento e che abbia maturato un senso della giustizia", spiega un recluso[11], "ma spesso i soggetti che siano appartenuti ad una qualche associazione criminale diventano collaboratori per ricevere almeno la protezione dello Stato, in quanto l'alternativa sarebbe di rimanere nell'associazione, oppure di essere eliminato da essa: spesso, in questi casi, non potendo punirlo direttamente, gli ex complici si vendicano uccidendo i parenti del collaboratore, comprese le donne ed i bambini, quindi violando pure le regole morali, da loro stessi create, secondo cui donne e bambini devono essere rispettati" .

Molte le lamentele dei detenuti sulla caduta dei valori carcerari e sulla conseguente de-regolamentazione inaugurata dalla stagione dei pentiti, ma "a cosa dovrebbero pensare . i compagni detenuti?"si chiede uno di loro[13], "a farsi un nome nell'ambiente della malavita, garantendosi la galera fino alla vecchiaia!? Cambiare vita, modificare atteggiamenti e comportamenti, non è una scelta obbligata per nessuno ma è per me la sola scelta intelligente, contrapposta a quella di adattarsi a regole e mentalità che portano solo alla perdita della propria autonomia".

In effetti il tema della collaborazione di giustizia è molto controverso anche tra gli stessi detenuti "spesso è nient'altro che uno squallido calcolo di convenienza, praticato sulla pelle degli altri", prosegue, "ma credo anche che, quella di poter cambiare vita, sia un'aspirazione legittima di ciascuno, a prescindere dal suo passato. Comunque", chiarisce, "bisognerebbe sempre distinguere le persone che denunciano i loro ex complici - che possono essere considerate, con ogni ragionevolezza, traditori - da quelle che, invece, denunciano persone estranee, che hanno usato violenza contro di loro, o contro altri, in ogni forma. Come potrebbero difendersi, se non in questo modo? Facendosi giustizia da sole? Oppure accettando con rassegnazione di subire il sopruso?"

Un ex detenuto[14], invece, risponde a chi taccia la sua omertà di folkloristica malavitosità: "tradirei me stesso se per ottenere un qualsiasi vantaggio danneggiassi qualcuno e non per questo devo essere accusato di nutrirmi a base di pane e malavita. Non bisogna per forza essere malavitosi per provare un sentimento avverso nei riguardi di un delatore, di una persona che . è detta Giuda. In tempo di guerra le spie le fucilavano, io mi accontento semplicemente di provare per loro un sano e legittimo disprezzo".

Tuttavia spesso, soprattutto nelle carceri del Sud, l'atteggiamento omertoso è anche un modo per mettersi in mostra agli occhi dei boss, per poter un giorno entrare nella onorata società, realtà che senza dubbio affascina i detenuti. Pur di poter diventare un giorno uomini d'onore, infatti, alcuni reclusi sono disposti ad eseguire, grazie alla minore visibilità agli occhi dell'amministrazione penitenziaria, diverse mansioni ordinate da un boss, "talmente gravose da rischiare pene molto superiori e l'annullamento di qualsiasi beneficio previsto per i comuni"[15].

Questa dinamica rappresenta dunque un importante ostacolo al processo di risocializzazione dei detenuti comuni, anche perché appartenere ad un clan comporta anche l'acquisizione di un posto di rilievo nell'ambiente malavitoso in generale, oltre ai privilegi che l'occupare questa posizione comporta: nelle scelta di vita del recluso, il calcolo dei costi e dei benefici potrebbe far optare per la carriera criminale.







Secondo le teorie della psicologia sociale evoluzionistica (tra gli esponenti della quale vi è K. Lorenz), ciò è diretta conseguenza della lotta per la sopravvivenza, per cui in un contesto di scarsità di risorse si può manifestare un tipo di aggressività, detta intraspecifica - se avviene nell'ambito della stesso gruppo - o interspecifica se tra gruppi diversi: quest'ultima potrebbe essere accompagnata dalla dinamica della solidarietà intraspecifica

R. CURCIO, op. cit., 1998.

N. TAYACHI, "Poca solidarietà dagli italiani, poca anche dai miei connazionali", Ristretti Orizzonti, cit., n. speciale 2000 "Stranieri". Pare che un'altra causa della desolidarizzazione sia anche il mutamento della composizione della popolazione carceraria, che è ben diversa da quella di anche solo quindici anni fa: il forte aumento degli stranieri e dei tossicodipendenti tra i detenuti fa sì che, nelle parole di Stefano Benivogli, cit., "spesso la solidarietà tra i detenuti è la prima vittima; la paura, la diffidenza la fanno da padrone"; anche di questo si parlerà nel paragrafo 3.9.

F. MORELLI, op. cit.

Nicola Sansonna, cit.

E. ROMANO, "I buoni cattivi e i cattivi buoni", testimonianza raccolta da Ristretti Orizzonti, cit., 2004.

Paola M., in C. CANNAVO', Libertà dietro le sbarre, Milano, 2004.

"In gergo si dice montare una bicicletta", Nicola Sansonna, cit. Sul modo di scongiurare questo pericolo cfr. anche par. 3.6.

Bianco, detenuto intervistato in G. DI GABALLO, op. cit., 2002.

E. ROMANO, op. cit.

F. MORELLI, op. cit.

Sembra, tuttavia, che la criminalità organizzata stia cambiando strategia di lotta nei confronti dei pentiti. Maurizio De Lucia, magistrato di Palermo, spiega che "lo Stato non riesce a vincere la concorrenza della mafia, che ormai, anziché minacciare di morte il collaboratore e i suoi cari, offre a sua volta protezione, assistenza, soldi", cfr. M. MARINETTI, "Quelle confessioni hanno un prezzo", Economy, 11 giugno 2004.

F. MORELLI, op. cit.

E. ROMANO, op. cit.

G. DI GABALLO, op. cit., 2002.

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