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Viaggio nell'universo del colore
nella cultura, nell'arte, nelle scienze dell'Ottocento e del Novecento
Nel corso dell'anno scolastico, tra i numerosi argomenti svolti nell'ambito delle diverse discipline oggetto di studio, hanno maggiormente suscitato il mio interesse quelli inerenti la storia dell'arte; in particolare mi hanno affascinata ed incuriosita le opere degli artisti in programma, che sono per lo più contemporanei, e che ho voluto conoscere più approfonditamente scoprendo una nuova passione, la stessa che mi ha spinto ad una riflessione più ampia relativamente alle valenze assunte dal colore in diversi ambiti culturali. Rivelandosi la ricerca troppo vasta, se si volesse trattare dell'uso del colore in generale, in quanto includerebbe una serie infinita di argomenti impossibile da approfondire in questa sede, ho circoscritto il mio lavoro all'analisi di due soli colori: il ROSSO e il NERO. Due colori forti, d'impatto, dai molteplici significati, mutevoli nel corso del tempo e nei diversi contesti: artistico, filosofico, politico, letterario. Ed è proprio su questa molteplicità di interpretazioni e di connotazioni attribuite al Rosso e al Nero, tra Ottocento e Novecento, che intendo soffermare la mia attenzione nel presente percorso. Partendo da un esame delle principali teorie del colore in ambito artistico, tra Ottocento e Novecento, dalla potenza generatrice del rosso, uno dei tre colori primari, e del nero come assenza, ho analizzato il contenuto simbolico dei suddetti colori nel Cloisonnisme di Gauguin, per poi prenderne in esame l'aspetto emotivo ed espressivo: dal rosso come esacerbazione ne 'il grido' di Edvard Munch al nero della visione espressionista della realtà; dal rumore colorato e la 'joie de vivre' fauves ne 'La stanza rossa' di Henri Matisse al tragico annientamento dell'essere, nel bianconero di 'Guernica', Picasso; fino alla veemenza del rosso futurista e la disgregazione della rappresentazione ne 'La citta' che sale', U. Boccioni 1911. Sempre rimanendo nell'ambito artistico, ho ritenuto doveroso far riferimento anche alla filosofia del colore, al 'peso' dei colori nell'astrattismo, si veda il rosso nel primo acquerello astratto, 'Senza titolo' di Kandinskij, così come al Suprematismo, con 'Quadrato nero su fondo bianco' o 'Quadrato nero e quadrato rosso' di Malevich; ancora, all'antagonismo del rosso-materia con il nero in 'Forme in lotta' di Franz Marc; alla sintesi della forma nel colore ne 'L'albero rosso' e 'Composizione in rosso, blu e giallo'di Piet Mondrian, passando per un confronto tra questi e l'opera di Theo Van Doesburg, 'Controcomposizione XIII', per analizzare proprio l'uso del colore, dalle forme statiche alle forme dinamiche. Ho infine voluto riportare un esempio di nero come 'presenza', così come è riscontrabile nelle incisioni del pittore metafisico Giorgio Morandi. Se del resto è naturale trovare così tanti argomenti in campo strettamente artistico, è importante porre in rielievo come la letteratura stessa, evocatrice di immagini ed emozioni al pari dell'arte, abbia fatto largo uso del colore, pur con diverse implicazioni. Il tema del colore è stato allora analizzato come elemento che nutre non solo l'immaginario culturale e figurativo, ma anche la dimensione della quotidianità con complesse valenze simboliche ed espressive, trasferite nella dimensione creativa del testo letterario. La connessione profonda tra colore e letteratura è stata appunto approfondita attraverso i due colori scelti in opere di diversa natura e intonazione, in primo luogo nei rapporti riguardanti la società, con riferimento a Il rosso e il nero, di Stendhal, dove il rosso della divisa militare e il nero della tonaca talare diventano emblemi della storia di un'epoca, dell'ipocrisia di una società e della coscienza di non avervi un posto. O ancora in Germinal di E. Zola, dove il rosso è legato alla violenza sollevata dalla sofferenza, alla rivolta sociale, quella dei minatori, all'ira: non a caso la marcia dei minatori si effettua in un paesaggio infuocato; mentre il nero è l'assenza di speranza, di chiarezza; è l'oscurità dello sfruttamento dei lavoratori; esso racchiude in sé tutta una serie di connotazioni simboliche, dalla miseria, alla fame, dalla paura, alla morte, fino ad un significato politico (il nero è associato nel XIX secolo al movimento anarchico). E tali tematiche di carattere sociale si intrecciano con una diversa interpretazione del colore, come fatto legato al costume, in Rosso Malpelo e Pane nero, di G. Verga, dove il rosso è il segno che 'marchia' un individuo e lo fa 'diverso', diviene strumento di ricognizione di un universo folclorico e spunto per la rappresentazione di una mentalità popolare, con le sue irrazionali distorsioni e con i suoi tradizionali principi che non ammettono deroghe. Analogamente, il tema del colore come tratto distintivo dell'individuo, ma che assume una sfumatura ancora diversa in quanto segno tangibile della situazione esistenziale umana, più che sociale, è riscontrabile in Eine Bericht für eine Akademie (Una relazione per un'accademia), di Franz Kafka: la cicatrice rossa è segno dalla malattia (tubercolosi), che rappresenta un punto di svolta nella vita dell'autore, la cui attività artistica è intesa come mezzo di superamento e sublimazione dell'esperienza di malattia stessa, da cui la vita può trarre nuovo senso (lotta dell'uomo contro il proprio destino). Il rosso diviene allora un tratto distintivo ripugnante e non condiviso - in quanto appunto segno della malattia che identifica completamente il narratore tanto da determinarne il soprannome 'Pietro il Rosso'- ma che possiede anche una connotazione positiva in quanto distingue lo stesso rispetto ad un'altra persona defunta presumibilmente a causa dello stesso male (tema del doppio). Il tema del doppio e delle moltiplicazioni
dell'Io, tipicamente Pirandelliano, ritorna in Sole e ombra, dove è svolto interamente attraverso un sistema oppositivo dei due
colori che il titolo preannuncia ed evoca immediatamente. All'interno di esso
si distribuiscono e si articolano tutti i gesti di un uomo, la sua solitudine
monologante, i soliloqui, i viaggi, la decisione finale: dal buio, nero,
dell'inizio, al rosso del cielo 'tutto in fiamme' e delle
acque del mare 'incendiate', fino al buio, di nuovo sopraggiunto,
della fine, con l''enorme, nera, orrida imminenza
irreparabile' della morte. E il colore come simbolo della situazione esistenziale dell'uomo, nel rapporto colore e psiche, e come genere a cui l'autore attinge (black novel), trova un altro grande interprete in Edgar Allan Poe, con The black cat (Il gatto nero): inizialmente simbolo di amicizia e affetto (ma anche di morte e superstizione), quindi segno di un'entità superiore che agisce come strumento di verità, giustizia e punizione dell'uomo soggetto all'inesorabile discesa verso il male e la rovina totale a causa della sua innata 'perversità'. O ancora con The masque of the red death, dove la morte rossa è simbolo della fine che giunge quando vuole, malgrado ogni tentativo dell'uomo di allontanarla. Il colore rosso diviene allora segno dell'orrore della morte stessa ('.[il male] si manifestava in tutto il rosso orrore del sangue.'), mentre il nero della stanza rivestita di pesanti tappezzerie e tappeto in velluto nero, con vetrate scarlatte - 'color sangue' - diviene la rappresentazione dell'assenza di vita, in cui le vetrate scarlatte sottolineano l'orrore di cui si tinge la mancanza di esistenza nel momento del trapasso alla morte. Rosso e nero sono anche poli antitetici dell'universo di Baudelaire, che non ha caso, si ricorda, ha tradotto in francese proprio l'opera di Poe. Nel capolavoro del maestro del Simbolismo, Les Fleurs du Mal, il rosso si oppone al nero obbedendo ad un gioco di antitesi e di contrari che costituisce la colonna vertebrale dell'opera: l'opposizione tra bene e male, tra spleen e ideale, tra colore e assenza di colore, tra passato e presente, amore e solitudine, tra viaggi esotici e realtà urbana. Il rosso ritorna senza sosta nella prima parte della sezione Spleen e Idéal e in numerose poesie come Parfum exotique, Le Vampire, Le Balcon , tanto per descrivere le sfumature di un tramonto che per evocare il sangue, così come in Hymne à la Beauté, dove il vino , l'aurora si oppongono all'abisso infernale, alla tomba e alle profondità.
Da questo punto di vista mi è parso poi interessante ricercare le possibili radici filosofiche, o meglio, le diverse interpretazioni, spesso strumentali, del pensiero di filosofi come Nietsche e Marx, in quanto presunti 'rossi' o 'neri'. Si pensi a Nietzsche e la sua teoria del superuomo fraintesa e sfruttata dal nazismo per affermare la superiorità della razza tedesca. Ho, quindi, condotto un'analisi del pensiero dei tre principali filosofi del periodo, partendo da Marx che demistifica l'idea che sia naturale lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, a Nietzsche che demistifica i valori tradizionali che condannano l'uomo a una condizione misera di vita, fino a Freud che demistifica l'idea che la coscienza esaurisca l'ambito della vita psichica dell'uomo, che ha, al contrario, risorse inimmaginabili. Non si poteva considerare completo il presente lavoro senza un accenno alla presenza del rosso e nero in ambito scientifico: dagli aspetti fisici del colore, la dispersione della luce e lo spettro di colori raccolto da Newton, la rifrazione e la lunghezza d'onda del rosso e il nero come assenza di colori, per arrivare all'intero universo, trattando dell'Evoluzione di stelle di grande massa (>10 Msole), dalla formazione della stella e ('gigante blu'), alla fine dell'idrogeno e fase d'instabilità, gigante rossa, fino alla 'Morte' della stella : supernova e e buchi neri . |
Storia dell'arteIl colore dalla scienza al simboloLa teoria del colore: La potenza generatrice del rosso, uno dei tre colori primari; il nero come assenza. La pittura: il rosso come massimo impatto percettivo nell'impressione retinica. Le tecniche: o il rosso puro e l'impasto retinico nella pennellata impressionista e divisionista; o il contenuto simbolico del rosso nel cloisonnisme di Paul Gauguin; o il nero come rinforzo del contenuto simbolico (la marcatura del simbolo) Colore emozioneIl rosso come esacerbazione: il cielo ne 'Il grido' di Edvard Munch, 1893; La drammaticità del segno: il nero della visione espressionista della realta' Il rumore colorato: la 'joie de vivre' fauves 'La stanza rossa' di Henri Matisse, 1908 Il tragico annientamento dell'essere: il bianconero di 'Guernica', Picasso 1937 La veemenza del rosso futurista: la disgregazione della rappresentazione ('La citta' che sale', U. Boccioni 1911) La filosofia del coloreIl 'peso' dei colori nell'astrattismo: il rosso nel primo acquerello astratto ('Senza titolo', Kandinskij 1910) e la teoria dei colori di Kandinskij Il Suprematismo: 'Quadrato nero su fondo bianco', Malevich L'antagonismo del rosso-materia con il nero: 'Forme in lotta', Franz Marc La sintesi della forma nel colore: 'L'albero rosso', 'Composizione in rosso, blu e giallo', Piet Mondrian 1930 Dalle forme statiche alle forme dinamiche: 'Controcomposizione XIII', Theo Van Doesburg Il nero come presenza: le incisioni del pittore metafisico Giorgio Morandi
ItalianoColore e societàIl rosso e il nero, di Stendhal:
Colore e costumeRosso Malpelo e Pane nero, di G. Verga
Colore e psicheDue Novelle per un anno di L. Pirandello : I colori percepiti come sonda di esplorazione della coscienza e specchio della complessità e problematicità dell'Io.
Colore e ideologiaAlla bandiera rossa, di P. P. Pasolini:
FranceseSymbolique du rouge et du noir dans la littérature française de 1800 à 1950 Le rouge comme symbole de vie, de force, de violence, d'anticonformisme et d'action Le noir comme symbole de nuit, de monotonie, de mélancolie, de pessimisme et de malheur 'Le Rouge et le Noir' de Stendhal: l'énigme du titreo Le rouge, couleur de l'uniforme de l'armée révolutionnaire o Le noir, couleur de la soutane ecclésiastique Le rouge et le noir dans 'Germinal' de Zola
o Le rouge, couleur de la violence, de la colère et de la révolte Mais la bande s'était remise en marche. Cinq heures allaient sonner, le soleil d'une rougeur de braise, au bord de l'horizon incendiait la plaine immense. (V, 4) A ce moment, le soleil se couchait, les derniers rayons d'un pourpre sombre, ensanglantaient la plaine. Alors la route semblait charrier du sang, les femmes, les hommes continuaient à galoper, saignants comme des bouchers en pleine tuerie. (V 5) à une révolution prochaine, la vraie, celle des travailleurs, dont l'incendie embraserait la fin du siècle de cette pourpre de soleil levant, qu'il regardait saigner au ciel. (VII, 6) o Le noir, couleur de la nuit, du charbon, de la misère, de la tristesse, de l'échec et de la mort la nuit sans étoiles, d'une obscurité et d'une épaisseur d'encre (I, 1) Aucune aube ne blanchissait dans le ciel mort, les hauts fourneaux seuls flambaient, ainsi que les fours à coke ensanglantant les ténèbres, sans en éclairer l'inconnu. (II, 1). Autour des batiments, le carreau s'étendait, et il ne se l'imaginait pas si large, chargé en un lac d'encre par les vagues montantes du stock de charbon. (I, 6) Le rouge et le noir dans l'univers baudelairien
IngleseColour as a symbol of the human existence and as a literary genre (black novel).
The theme of colour as a symbol of the human existence and as a literary genre on which the author draws his tales (black novel).
Colour and psycheThe black cat , by Edgar Allan Poe
Colour and existenceThe masque of the red death, by Edgar Allan Poe
TedescoFarbe und Existenz Bedeutung der LiteraturDas Thema der Farbe wie handgreiflicher Zeichen des Menschlichen Existenz und distinktive Merkmale des Individuums. Eine
Bericht für eine Akademie,
Eine rote Narbe wie Zeichen der Krankenheit (Tuberkulose), die einen Wendepunkt im Leben des Schriftellers darstellt, dessen künstliche Aktivität als ein Mittel der Überwindung und Erhöhung des Erlebnis der Krankheit gesehen ist. Durch diese Krankheit kann sein Leben einen neuen Sinn haben (der Kampf des Mannes wegen des Schicksals). Rot als widerliche distinktive Merkmale, die nicht geteilt ist - als Zeichen der Krankheit, die den Schriftellers ganz identifiziert, so daß sie den Name 'Rotpeter' bestimmt - aber sie hat auch einen positiven Wirt, denn sie unterschiedet den Held von einem anderen Individuum mit dem selben Name, der tot ist (wahrscheinlich wegen der selben Krankheit (Thema des Doppels) FilosofiaRosso
Le condizioni di vita dell'uomo sono essenzialmente dipendenti dalla struttura economica della società. La liberazione dell'uomo passa attraverso la trasformazione economica della produzione delle merci: con la collettivizzazione dei mezzi di produzione si instaura una società senza classi e senza sfruttamento.
Nietzsche: demistifica i valori tradizionali che condannano l'uomo a una condizione misera di vita. Occorre inventare nuovi valori che siano portatori di vita e non di morte.
La liberazione dell'uomo passa attraverso la critica della morale e della religione, che impongono l'ideologia del trionfo del debole sul forte. La morale e la religione negano la vita (nichilismo) e, per affermare il proprio potere distruttivo, inventano i concetti del 'peccato', della 'colpa' e del 'debole' come 'vittima del forte'. Con queste nozioni condannano chi vive senza conformarsi allo spirito del 'gregge' (che è l'insieme dei deboli).
La liberazione dell'uomo passa attraverso l'accettazione dell'inconscio, ossia di quell'aspetto della psiche che non conosce le prescrizioni e le proibizioni della morale, cause dei conflitti nevrotici. L'inconscio è, però, qualcosa di più del rimosso (ossia di ciò che viene 'dimenticato' perché entra in collisione con le esigenze della civiltà): è una risorsa psichica estremamente ricca che porta l'uomo all'invenzione e gli consente di percorrere strade differenti da quelle a cui la famiglia d'origine e l'educazione ricevuta lo obbligherebbero.
Nero
Il superuomo indica il superamento della dimensione umana, presa tra il senso del peccato della religione e il senso di colpa della morale; è l'uomo che è giunto a vivere inventando nuovi valori che esprimono amore, e non disprezzo, per la vita.
StoriaIl rosso e nero nella loro valenza ideologica Rosso come comunismo:Rivoluzione russaCause e fasi: rivoluzione di febbraio, guerra civile; Rivoluzione e controrivoluzione: armate rosse e bianche Terrore rosso Nero come fascismo:1919-1920 - passato alla storia come biennio rosso Affermazione del fascismo: crisi dello stato liberale Squadrismo e camicie nere Nascita del Partito Nazionale Fascista (P.N.F.): La linea del 'doppio binario' (squadristico e 'legalitario') Normalizzazione, regime, stato corporativo Politica estera e avvicinamento ad Hitler Nero come nazismo:La nascita dell'ideologia L'avvento del nazismo in Germania La politica di Hitler Rosso contro neroLa guerra civile in Spagna: terrore rosso e terrore nero La seconda guerra mondiale come scontro di ideologie
FisicaRosso e Nero come fenomeni fisici Un raggio di luce bianca come miscela di colori: la dispersione della luce e lo spettro di colori raccolto da Newton su uno schermo
La rifrazione e la lunghezza d'onda del rosso Il nero come assenza di colori: i corpi 'assorbono' tutti i colori che il raggio di luce trasporta
Geografia AstronomicaEvoluzione di stelle di grande massa (>10 Msole)Formazione della stella e sequenza principale ('gigante blu') Fine dell'idrogeno e fase d'instabilità: gigante rossa Alcuni dati sulle giganti rosse più 'famose' (es. Antares, Betelgeuse):diametro, temperatura, massa. Cenni alle nuove reazioni nucleari (es.ciclo C-N-O) 'Morte' della stella : supernovae e buchi neri Spiegazione 'fisica' dei buchi neri: legge di gravitazione e velocità di fuga (raggio di Schwarzschild) Caratteristiche dei buchi neri (massa, rotazione, etc.) Evidenze osservative di probabili buchi neri |
Monet |
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Il rosso come segno che 'marchia' un individuo e lo fa 'diverso'.
Il colore come strumento di ricognizione di un universo folclorico e spunto per la rappresentazione di una mentalità popolare, con le sue irrazionali distorsioni e con i suoi tradizionali principi che non ammettono deroghe.
Malpelo si chiamava così perché
aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un
ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone.
Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino
sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo
nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando
tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo
c'era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi: nel dubbio, per
non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Però il
padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in
coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe
voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo
accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un
brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli
altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano
un po' di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le
gambe, per rosicchiarsi quel po' di pane bigio, come fanno le bestie sue pari,
e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché
il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c'ingrassava, fra i
calci, e si lasciava caricare meglio dell'asino grigio, senza osar di lagnarsi.
Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s'era
fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a ripulirlo la domenica.
Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Caverna,
tanto che la cava dove lavorava la chiamavano 'la cava di Malpelo', e
cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per
carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava. Era
morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo,
di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell'ingrottato, e dacché non
serviva più, s'era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di
rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la
mezza giornata del lunedì.
Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto
lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano
mastro Misciu Bestia, ed era l'asino da basto di tutta la cava. Ei, povero
diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue
braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo
faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e
così piccolo com'era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: -
Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre -. Invece nemmen suo
padre ci morì, nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo
sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l'avrebbe tolto per venti
onze, tanto era pericoloso; ma d'altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se
si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare
l'avvocato. Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo
pilastro che l'avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni
avevano accesa la pipa e se n'erano andati dicendogli di divertirsi a grattar
la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del
sorcio. Ei, che c'era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto
cogli 'ah! ah!' dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto
borbottava: - Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di
Nunziata! - e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del
suo appalto, il cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e
girava al pari di un arcolaio. Il grosso pilastro rosso, sventrato a
colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di
pancia, e dicesse ohi! anch'esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e
metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre,
che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: - Tirati in là! - oppure: -
Sta attento! Bada se cascano dall'alto dei sassolini o della rena grossa, e
scappa! - Tutt'a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri
nel corbello, udì un tonfo sordo, come fa la rena traditora allorché fa pancia
e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L'ingegnere che dirigeva i lavori della cava, si trovava a teatro quella sera,
e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo
per il babbo di Malpelo che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le
femminucce di Monserrato, strillavano e si picchiavano il petto per annunziare
la gran disgrazia ch'era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non
dicesse nulla, e sbatteva i denti invece, quasi avesse la terzana. L'ingegnere,
quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da
circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell'e arrivato in Paradiso,
andò proprio per scarico di coscienza, con scale e corde, a fare il buco nella
rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il
sotterraneo ci voleva almeno una settimana. Della rena ne era caduta una
montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle
mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n'era da riempire delle carra per
delle settimane.
Il bell'affare di mastro Bestia! Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la
faccia ed urlava, come una bestia davvero. - To'! - disse infine uno. - È
Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso? - Se non fosse stato Malpelo non se
la sarebbe passata liscia - Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva
nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno
s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso
stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le
unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi
quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare,
mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per
tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno,
quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il
pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle
più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni
corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava,
si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi
stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo
gli susurrasse nelle orecchie, dall'altra parte della montagna di rena caduta.
In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava
quasi, e il pane lo buttava al cane, quasi non fosse grazia di Dio. Il cane gli
voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano che gli dà il pane, e
le botte, magari. Ma l'asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto
lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico
della zappa, e borbottava: - Così creperai più presto! - Dopo la morte del
babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di
quei bufali feroci che si tengono coll'anello di ferro al naso. Sapendo che era
malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se
accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si
rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che
era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come
se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo
loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si
volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s'immaginava gli avessero
fatto gli altri, a lui e al suo babbo.
Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i
maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in
cui l'avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: - Anche con me
fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché egli non faceva così! - E
una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un'occhiata torva: - È
stato lui! per trentacinque tarì! - E un'altra volta, dietro allo Sciancato: -
E anche lui! e si metteva a ridere! Io l'ho udito, quella sera! - Per un
raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero
ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta
da un ponte s'era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il
poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo
che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così Ranocchio
com'era, il suo pane se lo buscava. Malpelo gliene dava anche del suo, per
prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. Infatti egli lo tormentava in
cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio
non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli:
- To', bestia! Bestia sei! Se non ti senti l'animo di difenderti da me che non
ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da
quello! - O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e
dalle narici: - Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne
anche tu! - Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del
sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso,
ansante e coll'occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico
della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte.
Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze,
non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n'era uno il quale era
caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe.
Malpelo soleva dire a Ranocchio: - L'asino va picchiato, perché non può
picchiar lui; e s'ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci
strapperebbe la carne a morsi -. Oppure: - Se ti accade di dar delle busse,
procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne
avrai tanti di meno addosso -. Lavorando di piccone o di zappa poi menava le
mani con accanimento, a mo' di uno che l'avesse con la rena, e batteva e
ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. - La
rena è traditora, - diceva a Ranocchio sottovoce; - somiglia a tutti gli altri,
che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in
molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva
sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e
la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui -. Ogni volta
che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a
guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: -
Taci, pulcino! - e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano,
dicendo con un certo orgoglio: - Lasciami fare; io sono più forte di te -.
Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane
asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: - Io ci sono avvezzo -. Era
avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di
badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a
dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di
lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli
il pane o la minestra.
Ei diceva che la razione di busse non gliel'aveva levata mai, il padrone; ma le
busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto,
a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda
il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole
non era stato lui. Già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e
non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come
Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di
scolparsi, ei ripeteva: - A che giova? Sono malpelo! - e nessuno avrebbe potuto
dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di fiero orgoglio
o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse
salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai
una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai. Il sabato sera, appena
arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa,
e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il
manico della scopa, scoprendolo sull'uscio in quell'arnese, ché avrebbe fatto
scappare il suo damo se vedeva con qual gente gli toccava imparentarsi; la
madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a
rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Per questo, la domenica, in
cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per
andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso
che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia alle lucertole e
alle altre povere bestie che non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare
le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli
non gli piacevano. La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio
quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei
cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello,
finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva
che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno
sottoterra, nella cava della rena, brutto, cencioso e lercio com'era, non lo
beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei
capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole.
Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne
mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d'ingresso è a picco, ci si
calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero,
comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a
strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e
Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera,
era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a
portare a sua madre la paga della settimana. Certamente egli avrebbe preferito
di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in
mezzo all'azzurro del cielo, col sole sulla schiena, - o il carrettiere, come
compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi
sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per
le belle strade di campagna; - o meglio ancora, avrebbe voluto fare il
contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti
carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa.
Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui.
E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso
al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva
a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che
quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo,
il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva
paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva
sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre
soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e
descriveva come l'intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro
piedi all'infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera
e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n'erano rimasti
tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano
ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e
senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano
inutilmente. Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle
scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo
all'aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci
al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il
rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea
essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e
qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse
capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe
da una parte e i piedi dall'altra. Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo
fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del
babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul
capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle
più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il
cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava
imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto penar molto a finire, perché
il pilastro gli si era piegato proprio addosso, e l'aveva sepolto vivo: si
poteva persino vedere tutt'ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di
liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. -
Proprio come suo figlio Malpelo! - ripeteva lo sciancato - ei scavava di qua,
mentre suo figlio scavava di là -. Però non dissero nulla al ragazzo, per la
ragione che lo sapevano maligno e vendicativo. Il carrettiere si portò via il
cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli
asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un
compagno, e di carne battezzata.
La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale
così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta. Solo le scarpe furono messe
in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolire le scarpe non si
potevano, e il fidanzato della sorella non le aveva volute le scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli
pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano
accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe
poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le
pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le
provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a
guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore
intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio. Ei possedeva delle idee
strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre,
se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l'età sua; e quando gli
aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli
aveva risposto di no. Suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico
colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e
lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo
era crepato di stenti e di vecchiaia l'asino grigio; e il carrettiere era
andato a buttarlo lontano nella sciara. - Così si fa, - brontolava Malpelo; -
gli arnesi che non servono più, si buttano lontano -.
Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi
conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e
Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia
ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l'avida curiosità di un
monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a
disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i
ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso
non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. - Vedi quella cagna nera,
- gli diceva, - che non ha paura delle tue sassate? Non ha paura perché ha più
fame degli altri. Gliele vedi quelle costole al grigio? Adesso non soffre più
-. L'asino grigio se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e
lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde, e a
spolpargli le ossa bianche; i denti che gli laceravano le viscere non lo
avrebbero fatto piegare di un pelo, come quando gli accarezzavano la schiena a
badilate, per mettergli in corpo un po' di vigore nel salire la ripida viuzza.
- Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle
guidalesche; anch'esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per
andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava
dicesse: 'Non più! non più!'. Ma ora gli occhi se li mangiano i cani,
ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e
tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio -. La sciara si
stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva
in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o
un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di
piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che la
terra lì sotto era tutta vuota dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e
verso la valle; tanto che una volta un minatore c'era entrato da giovane, e
n'era uscito coi capelli bianchi, e un altro, cui s'era spenta la candela,
aveva invano gridato aiuto per anni ed anni. - Egli solo ode le sue stesse
grida! - diceva, e a quell'idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara,
trasaliva. - Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura
d'andare. Ma io sono Malpelo, e se non torno più, nessuno mi cercherà -. Pure,
durante le belle notti d'estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla
sciara, e la campagna circostante era nera anch'essa, come la lava, ma
Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso
verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell'alto; perciò
odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna
si disegna qua e là vagamente - perché allora la sciara sembra più bella e
desolata. - Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, - pensava Malpelo, -
dovrebbe essere buio sempre e da per tutto -. La civetta strideva sulla sciara,
e ramingava di qua e di là; ei pensava: - Anche la civetta sente i morti che
son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli -. Ranocchio
aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava,
perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno
l'asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni
non sentivano più il dolore di esser mangiate. - Tu eri avvezzo a lavorar sui
tetti come i gatti, - gli diceva, - e allora era tutt'altra cosa. Ma adesso che
ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né
dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in
compagnia dei morti -. Ranocchio invece provava una tale compiacenza a
spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava
che lassù c'era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e
non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. - Chi te l'ha detto? - domandava
Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma. Allora Malpelo
si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio
malizioso che la sa lunga. - Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni,
tu dovresti portar la gonnella -. E dopo averci pensato un po': - Mio padre era
buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia. Invece è là
sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho
indosso io -. Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si
ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull'asino,
disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato.
Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel
mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle,
bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di
mantenersi così sano e vigoroso in quell'aria malsana, e con tutti quegli
stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua
maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso,
Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue; allora Malpelo spaventato si
affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava
che non avea potuto fargli poi gran male, così come l'aveva battuto, e a
dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un
sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un
calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e
soltanto dopo che l'operaio se ne fu andato, aggiunse: - Lo vedi? Non mi ha fatto
nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro! - Intanto Ranocchio non
guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni.
Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del
vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi, che lo
coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre, e alcune volte sembrava
soffocasse; la sera poi non c'era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né
con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata.
Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui
ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati, quasi volesse fargli
il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso
trafelato e l'occhio spento, preciso come quello dell'asino grigio allorché
ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava: - È
meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu
crepi! - E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a
quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo. Finalmente un lunedì Ranocchio non
venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui
era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove
stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là
che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di
quelli che guadagnano dieci lire la settimana. Cotesto non arrivava a
comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel
modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma
il povero Ranocchio non gli dava retta; sembrava che badasse a contare quanti
travicelli c'erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare
che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era
sempre stato debole e malaticcio, e l'aveva tenuto come quei marmocchi che non
si slattano mai.
Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai
pianto per lui, perché non aveva mai avuto timore di perderlo. Poco dopo, alla
cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso
strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del
grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio
non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato
così. Sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di
Malpelo s'era asciugati i suoi, dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si
era maritata un'altra volta, ed era andata a stare a Cifali colla figliuola
maritata, e avevano chiusa la porta di casa. D'ora in poi, se lo battevano, a
loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come
il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
Verso quell'epoca venne a lavorare nella cava uno che non s'era mai visto, e si
teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che
era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per
anni ed anni. Malpelo seppe in quell'occasione che la prigione era un luogo
dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi
là dentro e guardati a vista. Da quel momento provò una malsana curiosità per
quell'uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato.
Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco
di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta
la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci
coi suoi piedi. - Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si
fanno mettere in prigione? - domandò Malpelo. - Perché non sono malpelo come
te! - rispose lo Sciancato. - Ma non temere, che tu ci andrai! e ci lascerai le
ossa! - Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo
diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che doveva comunicare col
pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe
risparmiata una buona metà di mano d'opera nel cavar fuori la rena. Ma a ogni
modo, però, c'era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché
nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si
arrischiasse il sangue suo, per tutto l'oro del mondo. Malpelo, invece, non
aveva nemmeno chi si prendesse tutto l'oro del mondo per la sua pelle, se pure
la sua pelle valeva tanto: sicché pensarono a lui. Allora, nel partire, si
risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e
cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo. Ma non
disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il
piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne
andò: né più si seppe nulla di lui. Così si persero persin le ossa di Malpelo,
e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo,
ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli
occhiacci grigi.
Il rosso come segno che 'marchia' un individuo e lo fa 'diverso'.
Il colore come strumento di ricognizione di un universo folclorico e spunto per la rappresentazione di una mentalità popolare, con le sue irrazionali distorsioni e con i suoi tradizionali principi che non ammettono deroghe.
Appena
chiuse gli occhi compare Nanni, e ci era ancora il prete colla stola, scoppiò
subito la guerra tra i figliuoli, a chi toccasse pagare la spesa del mortorio,
ché il reverendo lo mandarono via coll'aspersorio sotto l'ascella. Perché la
malattia di compare Nanni era stata lunga, di quelle che vi mangiano la carne
addosso, e la roba della casa. Ogni volta che il medico spingeva il foglio di
carta sul ginocchio, per scrivere la ricetta, compare Nanni gli guardava le
mani con aria pietosa, e biascicava: - Almeno, vossignoria, scrivetela corta,
per carità! - Il medico faceva il suo mestiere.
Tutti a questo mondo fanno il loro mestiere. Massaro Nanni nel fare il proprio,
aveva acchiappato quelle febbri lì, alla Lamia, terre benedette da Dio, che
producevano seminati alti come un uomo. I vicini avevano un bel dirgli: -
Compare Nanni, in quella mezzeria della Lamia voi ci lascierete la pelle! -
Quasi fossi un barone - rispondeva lui - che può fare quello che gli pare e
piace! - I fratelli, che erano come le dita della stessa mano finché viveva il
padre, ora dovevano pensare ciascuno ai casi propri. Santo aveva moglie e
figliuoli sulle braccia; Lucia rimaneva senza dote, su di una strada; e
Carmenio, se voleva mangiar del pane, bisognava che andasse a buscarselo fuori
di casa, e trovarsi un padrone. La mamma poi, vecchia e malaticcia, non si
sapeva a chi toccasse mantenerla, di tutti e tre che non avevano niente. L'è
che è una bella cosa quando si può piangere i morti, senza pensare ad altro! I
buoi, le pecore, la provvista del granaio, se n'erano andati col padrone.
Restava la casa nera, col letto vuoto, e le facce degli orfani scure
anch'esse.
Santo vi trasportò le sue robe, colla Rossa, e disse che pigliava con sé
la mamma. - Così non pagava più la pigione della casa - dicevano gli altri.
Carmenio fece il suo fagotto, e andò pastore da curatolo Vito, che aveva un
pezzetto di pascolo al Carmemi; e Lucia, per non stare insieme alla cognata,
minacciava che sarebbe andata a servizio piuttosto. - No! - diceva Santo. - Non
si dirà che mia sorella abbia a far la serva agli altri. - Ei vorrebbe che la
facessi alla Rossa! - brontolava Lucia. La quistione grossa era per
questa cognata che s'era ficcata nella parentela come un chiodo. - Cosa posso
farci, adesso che ce l'ho? - sospirava Santo stringendosi nelle spalle. - E'
bisognava dar retta alla buona anima di mio padre, quand'era tempo! - La
buon'anima glielo aveva predicato: - Lascia star la Nena, che non ha dote, né
tetto, né terra -. Ma la Nena gli era sempre alle costole, al Castelluccio, se
zappava, se mieteva, a raccogliergli le spighe, o a levargli colle mani i sassi
di sotto ai piedi; e quando si riposava, alla porta del casamento, colle spalle
al muro, nell'ora che sui campi moriva il sole, e taceva ogni cosa: - Compare
Santo, se Dio vuole, quest'anno non le avrete perse le vostre fatiche! -
Compare Santo, se il raccolto vi va bene, dovete prendere la chiusa grande,
quella del piano; che ci son state le pecore, e riposa da due anni. - Compare
Santo, quest'inverno, se avrò tempo, voglio farvi un par di calzeroni che vi
terranno caldo -. Santo aveva conosciuta la Nena quando lavorava al Castelluccio,
una ragazza dai capelli rossi, ch'era figlia del camparo, e nessuno la
voleva. Essa, poveretta, per questo motivo faceva festa a ogni cane che
passasse, e si levava il pan di bocca per regalare a compare Santo la berretta
di seta nera, ogni anno a santa Agrippina, e per fargli trovare un
fiasco di vino, o un pezzo di formaggio, allorché arrivava al Castelluccio. -
Pigliate questo, per amor mio, compare Santo. È di quel che beve il padrone -.
Oppure: - Ho pensato che l'altra settimana vi mancava il companatico -. Egli
non sapeva dir di no, e intascava ogni cosa. Tutt'al più per gentilezza
rispondeva: - Così non va bene, comare Nena, levarvelo di bocca voi, per darlo
a me. - Io son più contenta se l'avete voi -.
Poi, ogni sabato sera, come Santo andava a casa, la buon'anima tornava a
ripetere al figliuolo: - Lascia star la Nena, che non ha questo; lascia star la
Nena, che non ha quest'altro. - Io lo so che non ho nulla - diceva la Nena,
seduta sul muricciuolo verso il sole che tramontava. - Io non ho né terra, né
case; e quel po' di roba bianca ho dovuto levarmela di bocca col pane che mi
mangio. Mio padre è un povero camparo, che vive alle spalle del padrone; e
nessuno vorrà togliersi addosso il peso della moglie senza dote -. Ella aveva
però la nuca bianca, come l'hanno le rosse; e mentre teneva il capo
chino, con tutti quei pensieri dentro, il sole le indorava dietro alle orecchie
i capelli color d'oro, e le guance che ci avevano la peluria fine come le
pesche; e Santo le guardava gli occhi celesti come il fiore del lino, e il
petto che gli riempiva il busto, e faceva l'onda al par del seminato. - Non vi
angustiate, comare Nena - gli diceva. - Mariti non ve ne mancheranno -. Ella
scrollava il capo per dir di no; e gli orecchini rossi che sembravano di
corallo, gli accarezzavano le guance. - No, no, compare Santo. Lo so che non
son bella, e che non mi vuol nessuno. - Guardate! - disse lui a un tratto, ché
gli veniva quell'idea. - Guardate come sono i pareri! E' dicono che i
capelli rossi sieno brutti, e invece ora che li avete voi non mi fanno specie
-. La buon'anima di suo padre, quando aveva visto Santo incapricciato della
Nena che voleva sposarla, gli aveva detto una domenica: - Tu la vuoi per forza,
la Rossa? Di', la vuoi per forza? - Santo, colle spalle al muro e le
mani dietro la schiena, non osava levare il capo; ma accennava di sì, di sì,
che senza la Rossa non sapeva come fare, e la volontà di Dio era quella.
- Ci hai a pensar tu, se ti senti di campare la moglie.
Già sai che non posso darti nulla. Una cosa sola abbiamo a dirti, io e tua
madre qui presente: pensaci prima di maritarti, che il pane è scarso, e i
figliuoli vengono presto -. La mamma, accoccolata sulla scranna, lo tirava pel
giubbone, e gli diceva sottovoce colla faccia lunga: - Cerca d'innamorarti
della vedova di massaro Mariano, che è ricca, e non avrà molte pretese, perché
è accidentata. - Sì! - brontolava Santo. - Sì, che la vedova di massaro Mariano
si contenterà di un pezzente come me! - Compare Nanni confermò anche lui che
la vedova di massaro Mariano cercava un marito ricco al par di lei, tuttoché
fosse sciancata. E poi ci sarebbe stato l'altro guaio, di vedersi nascere i
nipoti zoppi. - Tu ci hai a pensare - ripeteva al suo ragazzo. - Pensa che il
pane è scarso, e che i figliuoli vengono presto -. Poi, il giorno di Santa
Brigida, verso sera, Santo aveva incontrato a caso la Rossa, la quale
coglieva asparagi lungo il sentiero, e arrossì al vederlo, quasi non lo sapesse
che doveva passare di là nel tornare al paese, mentre lasciava ricadere il
lembo della sottana che teneva rimboccata alla cintura per andar carponi in
mezzo ai fichidindia.
Il giovane la guardava, rosso in viso anche lui, e senza dir nulla.
Infine si mise a ciarlare che aveva terminata la settimana, e se ne andava a
casa. - Non avete a dirmi nulla pel paese, comare Nena? Comandate. - Se andassi
a vendere gli asparagi verrei con voi, e si farebbe la strada insieme - disse
la Rossa. E come egli, ingrullito, rispondeva di sì col capo, di sì:
ella aggiunse, col mento sul petto che faceva l'onda: - Ma voi non mi vorreste,
ché le donne sono impicci. - Io vi porterei sulle braccia, comare Nena, vi
porterei -. Allora comare Nena si mise a masticare la cocca del fazzoletto rosso
che aveva in testa. E compare Santo non sapeva che dire nemmen lui; e la
guardava, e si passava le bisacce da una spalla all'altra, quasi non trovasse
il verso. La nepitella e il ramerino facevano festa, e la costa del monte,
lassù fra i fichidindia, era tutta rossa del tramonto. - Ora andatevene,
- gli diceva Nena, - andatevene, che è tardi -. E poi si metteva ad ascoltare
le cinciallegre che facevano gazzara. Ma Santo non si muoveva. - Andatevene,
ché possono vederci, qui soli -. Compare Santo, che stava per andarsene infine,
tornò all'idea di prima, con un'altra spallata per assestare le bisacce, che
egli l'avrebbe portata sulle braccia, l'avrebbe portata, se si faceva la strada
insieme. E guardava comare Nena negli occhi che lo fuggivano e cercavano gli
asparagi in mezzo ai sassi, e nel viso che era infuocato come se il tramonto vi
battesse sopra. - No, compare Santo, andatevene solo, che io sono una povera
ragazza senza dote. - Lasciamo fare alla Provvidenza, lasciamo fare - Ella
diceva sempre di no, che non era per lui, stavolta col viso scuro ed
imbronciato. Allora compare Santo scoraggiato si assettò la bisaccia sulle
spalle e si mosse per andarsene a capo chino. La Rossa almeno voleva
dargli gli asparagi che aveva colti per lui. Facevano una bella pietanza, se
accettava di mangiarli per amor suo. E gli stendeva le due cocche del grembiale
colmo. Santo le passò un braccio alla cintola, e la baciò sulla guancia, col
cuore che gli squagliava. In quella arrivò il babbo, e la ragazza scappò via
spaventata.
Il camparo aveva il fucile ad armacollo, e non sapeva che lo tenesse di far la
festa a compare Santo, che gli giuocava quel tradimento. - No! non ne faccio di
queste cose! - rispondeva Santo colle mani in croce. - Vostra figlia voglio
sposarla per davvero. Non per la paura del fucile; ma son figlio di un uomo
dabbene, e la Provvidenza ci aiuterà perché non facciamo il male -. Così la
domenica appresso s'erano fatti gli sponsali, colla sposa vestita da festa, e
suo padre il camparo cogli stivali nuovi, che ci si dondolava dentro come un'anitra
domestica. Il vino e le fave tostate misero in allegria anche compare Nanni,
sebbene avesse già addosso la malaria; e la mamma tirò fuori dalla cassapanca
un rotolo di filato che teneva da parte per la dote di Lucia, la quale aveva
già diciott'anni, e prima d'andare alla messa ogni domenica, si strigliava per
mezz'ora, specchiandosi nell'acqua del catino. Santo, colla punta delle dieci
dita ficcate nelle tasche del giubbone, gongolava, guardando i capelli rossi
della sposa, il filato, e tutta l'allegria che ci era per lui quella domenica.
Il camparo, col naso rosso, saltellava dentro gli stivaloni, e voleva
baciare tutti quanti ad uno ad uno. - A me no! - diceva Lucia, imbronciata pel
filato che le portavano via. - Questa non è acqua per la mia bocca -.
Essa restava in un cantuccio, con tanto di muso, quasi sapesse già quel che le
toccava quando avrebbe chiuso gli occhi il genitore. Ora infatti le toccava
cuocere il pane e scopar le stanze per la cognata, la quale come Dio faceva
giorno andava al podere col marito, tuttoché fosse gravida un'altra volta, ché
per riempir la casa di figliuoli era peggio di una gatta. Adesso ci volevano
altro che i regalucci di Pasqua e di santa Agrippina, e le belle paroline che
si scambiavano con compare Santo quando si vedevano al Castelluccio. Quel
mariuolo del camparo aveva fatto il suo interesse a maritare la figliuola senza
dote, e doveva pensarci compare Santo a mantenerla. Dacché aveva la Nena vedeva
che gli mancava il pane per tutti e due, e dovevano tirarlo fuori dalla terra
di Licciardo, col sudore della loro fronte. Mentre andavano a Licciardo, colle
bisacce in ispalla, asciugandosi il sudore colla manica della camicia, avevano
sempre nella testa e dinanzi agli occhi il seminato, ché non vedevano altro fra
i sassi della viottola. Gli era come il pensiero di un malato che vi sta sempre
grave in cuore, quel seminato; prima giallo, ammelmato dal gran piovere; poi,
quando ricominciava a pigliar fiato, le erbacce, che Nena ci si era ridotte le
due mani una pietà per strapparle ad una ad una, bocconi, con tanto di pancia,
tirando la gonnella sui ginocchi, onde non far danno.
E non sentiva il peso della gravidanza, né il dolore delle reni, come se ad
ogni filo verde che liberava dalle erbacce, facesse un figliuolo. E quando si
accoccolava infine sul ciglione, col fiato ai denti, cacciandosi colle due mani
i capelli dietro le orecchie, le sembrava di vedere le spighe alte nel giugno,
curvandosi ad onda pel venticello l'una sull'altra; e facevano i conti col
marito, nel tempo che egli slacciava i calzeroni fradici, e netteva la zappa
sull'erba del ciglione. - Tanta era stata la semente; tanto avrebbe dato se la
spiga veniva a 12, o a 10, od anche a 7; il gambo non era robusto ma il
seminato era fitto. Bastava che il marzo non fosse troppo asciutto, e che
piovesse soltanto quando bisognava. Santa Agrippina benedetta doveva pensarci
lei! - Il cielo era netto, e il sole indugiava, color d'oro, sui prati verdi,
dal ponente tutto in fuoco, d'onde le lodole calavano cantando sulle zolle,
come punti neri. La primavera cominciava a spuntare dappertutto, nelle
siepi di fichidindia, nelle macchie della viottola, fra i sassi, sul tetto dei
casolari, verde come la speranza; e Santo, camminando pesantemente dietro la
sua compagna, curva sotto il sacco dello strame per le bestie, e con tanto di
pancia, sentivasi il cuore gonfio di tenerezza per la poveretta, e le andava
chiacchierando, colla voce rotta dalla salita, di quel che si avrebbe fatto, se
il Signore benediceva i seminati fino all'ultimo.
Ora non avevano più a discorrere dei capelli rossi, s'erano belli o
brutti, e di altre sciocchezze. E quando il maggio traditore venne a rubare
tutte le fatiche e le speranze dell'annata, colle sue nebbie, marito e moglie,
seduti un'altra volta sul ciglione a guardare il campo che ingialliva a vista
d'occhio, come un malato che se ne va all'altro mondo, non dicevano una parola
sola, coi gomiti sui ginocchi, e gli occhi impietriti nella faccia pallida. -
Questo è il castigo di Dio! - borbottava Santo. - La buon'anima di mio padre me
l'aveva detto! - E nella casuccia del povero penetrava il malumore della
stradicciuola nera e fangosa. Marito e moglie si voltavano le spalle
ingrugnati, litigavano ogni volta che la Rossa domandava i danari per la
spesa, e se il marito tornava a casa tardi, o se non c'era legna per l'inverno,
o se la moglie diventava lenta e pigra per la gravidanza: musi lunghi,
parolacce ed anche busse. Santo agguantava la Nena pei capelli rossi, e
lei gli piantava le unghie sulla faccia; accorrevano i vicini, e la Rossa
strillava che quello scomunicato voleva farla abortire, e non si curava di
mandare un'anima al limbo.
Poi, quando Nena partorì, fecero la pace, e compare Santo andava portando sulle
braccia la bambina, come se avesse fatto una principessa, e correva a mostrarla
ai parenti e agli amici, dalla contentezza. Alla moglie, sinché rimase in
letto, le preparava il brodo, le scopava la casa, le mondava il riso, e le si
piantava anche ritto dinanzi, acciò non le mancasse nulla. Poi si affacciava
sulla porta colla bimba in collo, come una balia; e chi gli domandava, nel
passare, rispondeva: - Femmina! compare mio. La disgrazia mi perseguita sin
qui, e mi è nata una femmina. Mia moglie non sa far altro -. La Rossa
quando si pigliava le busse dal marito, sfogavasi colla cognata, che non faceva
nulla per aiutare in casa; e Lucia rimbeccava che senza aver marito gli erano
toccati i guai dei figliuoli altrui. La suocera, poveretta, cercava di metter
pace in quei litigi, e ripeteva: - La colpa è mia che non son più buona a
nulla. Io vi mangio il pane a tradimento -. Ella non era più buona che a
sentire tutti quei guai, e a covarseli dentro di sé: le angustie di Santo, i
piagnistei di sua moglie, il pensiero dell'altro figlio lontano, che le stava
fitto in cuore come un chiodo, il malumore di Lucia, la quale non aveva uno
straccio di vestito per la festa, e non vedeva passare un cane sotto la sua
finestra. La domenica, se la chiamavano nel crocchio delle comari che
chiacchieravano all'ombra, rispondeva, alzando le spalle: - Cosa volete che ci
venga a fare! Per far vedere il vestito di seta che non ho? - Nel crocchio
delle vicine ci veniva pure qualche volte Pino il Tomo, quello delle rane, che
non apriva bocca e stava ad ascoltare colle spalle al muro e le mani in tasca,
sputacchiando di qua e di là. Nessuno sapeva cosa ci stesse a fare; ma quando
s'affacciava all'uscio comare Lucia, Pino la guardava di soppiatto, fingendo di
voltarsi per sputacchiare. La sera poi, come gli usci erano tutti chiusi,
s'arrischiava sino a cantarle le canzonette dietro la porta, facendosi il basso
da sé - huum! huum! huum! - Alle volte i giovinastri che tornavano a casa
tardi, lo conoscevano alla voce, e gli rifacevano il verso della rana, per
canzonarlo. Lucia intanto fingeva di darsi da fare per la casa, colla testa
bassa e lontana dal lume, onde non la vedessero in faccia. Ma se la cognata
brontolava: - Ora comincia la musica! - si voltava come una vipera a
rimbeccare: - Anche la musica vi dà noia? Già in questa galera non ce ne deve
essere né per gli occhi né per le orecchie! - La mamma che vedeva tutto, e
ascoltava anch'essa, guardando la figliuola, diceva che a lei invece quella
musica gli metteva allegria dentro. Lucia fingeva di non saper nulla.
Però ogni giorno nell'ora in cui passava quello delle rane, non mancava mai di
affacciarsi all'uscio, col fuso in mano. Il Tomo appena tornava dal fiume, gira
e rigira pel paese, era sempre in volta per quelle parti, colla sua cesta di
rane in mano, strillando: - Pesci-cantanti! pesci-cantanti! - come se i
poveretti di quelle straducce potessero comperare dei pesci-cantanti! - E'
devono essere buoni pei malati! - diceva la Lucia che si struggeva di mettersi
a contrattare col Tomo. Ma la mamma non voleva che spendessero per lei. Il
Tomo, vedendo che Lucia lo guardava di soppiatto, col mento sul seno,
rallentava il passo dinanzi all'uscio, e la domenica si faceva animo ad
accostarsi un poco più, sino a mettersi a sedere sullo scalino del ballatoio
accanto, colle mani penzoloni fra le cosce; e raccontava nel crocchio come si
facesse a pescare le rane, che ci voleva una malizia del diavolo. Egli era
malizioso peggio di un asino rosso, Pino il Tomo, e aspettava che le
comari se ne andassero per dire alla gnà Lucia: - E' ci vuol la pioggia pei
seminati! - oppure: - Le olive saranno scarse quest'anno. - A voi cosa ve ne
importa? che campate sulle rane - gli diceva Lucia. - Sentite, sorella mia;
siamo tutti come le dita della mano; e come gli embrici, che uno dà acqua
all'altro. Se non si raccoglie né grano, né olio, non entrano denari in paese,
e nessuno mi compra le mie rane. Vi capacita? - Alla ragazza quel 'sorella
mia' le scendeva al cuore dolce come il miele, e ci ripensava tutta la
sera, mentre filava zitta accanto al lume; e ci mulinava, ci mulinava sopra,
come il fuso che frullava. La mamma, sembrava che glielo leggesse nel fuso, e
come da un par di settimane non si udivano più ariette alla sera, né si vedeva
passare quello che vendeva le rane, diceva colla nuora: - Com'è tristo
l'inverno! Ora non si sente più un'anima pel vicinato -. Adesso bisognava tener
l'uscio chiuso, pel freddo, e dallo sportello non si vedeva altro che la
finestra di rimpetto, nera dalla pioggia, o qualche vicino che tornava a
casa, sotto il cappotto fradicio. Ma Pino il Tomo non si faceva più vivo, che
se un povero malato aveva bisogno di un po' di brodo di rane, diceva la Lucia,
non sapeva come fare. - Sarà andato a buscarsi il pane in qualche altro modo -
rispondeva la cognata. - Quello è un mestiere povero, di chi non sa far altro
-. Santo, che un sabato sera aveva inteso la chiacchiera, per amor della
sorella, le faceva il predicozzo: - A me non mi piace questa storia del Tomo.
Bel partito che sarebbe per mia sorella! Uno che campa delle rane, e sta colle
gambe in molle tutto il giorno! Tu devi cercarti un campagnuolo, ché se non ha
roba, almeno è fatto della stessa pasta tua -. Lucia stava zitta, a capo basso
e colle ciglia aggrottate, e alle volte si mordeva le labbra per non
spiattellare: - Dove lo trovo il campagnuolo? - Come se stesse a lei a trovare!
Quello solo che aveva trovato, ora non si faceva più vivo, forse perché la Rossa
gli aveva fatto qualche partaccia, invidiosa e pettegola com'era. Già Santo
parlava sempre per dettato di sua moglie, la quale andava dicendo che quello
delle rane era un fannullone, e certo era arrivata all'orecchio di compare
Pino. Perciò ad ogni momento scoppiava la guerra tra le due cognate: - Qui la
padrona, non son io! - brontolava Lucia. - In questa casa padrona è quella che
ha saputo abbindolare mio fratello, e chiapparlo per marito. - Se sapevo quel
che veniva dopo, non l'abbindolavo, no, vostro fratello; ché se prima avevo
bisogno di un pane, adesso ce ne vogliono cinque. - A voi che ve ne importa se
quello delle rane ha un mestiere o no? Quando fosse mio marito, ci avrebbe a
pensar lui a mantenermi -. La mamma, poveretta, si metteva di mezzo, colle
buone; ma era donna di poche parole, e non sapeva far altro che correre
dall'una all'altra, colle mani nei capelli, balbettando: - Per carità! per
carità! - Ma le donne non le davano retta nemmeno, piantandosi le unghie sulla
faccia, dopo che la Rossa si lasciò scappare una parolaccia
'Arrabbiata!' - Arrabbiata tu! che m'hai rubato il fratello! - Allora
sopravveniva Santo, e le picchiava tutte e due per metter pace, e la Rossa,
piangendo, brontolava: - Io dicevo per suo bene! ché quando una si marita senza
roba, poi i guai vengono presto -. E alla sorella che strillava e si strappava
i capelli, Santo per rabbonirla tornava a dire: - Cosa vuoi che ci faccia, ora
ch'è mia moglie? Ma ti vuol bene e parla pel tuo meglio. Lo vedi che bel
guadagno ci abbiamo fatto noi due a maritarci? - Lucia si lagnava colla mamma.
- Io voglio farci il guadagno che ci han fatto loro! Piuttosto voglio andare a
servire! Qui se si fa vedere un cristiano, ve lo scacciano via -. E pensava a
quello delle rane che non si lasciava più vedere.
Dopo si venne a conoscere che era andato a stare colla vedova di massaro
Mariano; anzi volevano maritarsi: perché è vero che non aveva un mestiere, ma
era un pezzo di giovanotto fatto senza risparmio, e bello come San Vito in
carne e in ossa addirittura; e la sciancata aveva roba da pigliarsi il marito
che gli pareva e piaceva. - Guardate qua, compare Pino - gli diceva: - questa è
tutta roba bianca, questi son tutti orecchini e collane d'oro; in questa giara
ci son 12 cafisi d'olio; e quel graticcio è pieno di fave. Se voi siete
contento, potete vivere colle mani sulla pancia, e non avrete più bisogno di
stare a mezza gamba nel pantano per acchiappar le rane. - Per me sarei contento
- diceva il Tomo. Ma pensava agli occhi neri di Lucia, che lo cercavano
di sotto all'impannata della finestra, e ai fianchi della sciancata, che si
dimenavano come quelli delle rane, mentre andava di qua e di là per la casa, a
fargli vedere tutta quella roba. Però una volta che non aveva potuto buscarsi
un grano da tre giorni, e gli era toccato stare in casa della vedova, a
mangiare e bere, e a veder piovere dall'uscio, si persuase a dir di sì, per
amor del pane. - È stato per amor del pane, vi giuro! - diceva egli colle mani
in croce, quando tornò a cercare comare Lucia dinanzi all'uscio. - Se non fosse
stato per la malannata non sposavo la sciancata, comare Lucia! - Andate a
contarglielo alla sciancata! gli rispondeva la ragazza, verde dalla bile. -
Questo solo voglio dirvi: che qui non ci avete a metter più piede -. E la
sciancata gli diceva anche lei che non ci mettesse più piede, se no lo
scacciava di casa sua, nudo e affamato come l'aveva preso. - Non sai che, prima
a Dio, mi hai obbligo del pane che ti mangi? A suo marito non gli mancava
nulla: lui ben vestito, ben pasciuto, colle scarpe ai piedi, senza aver altro
da fare che bighellonare in piazza tutto il giorno, dall'ortolano, dal beccaio,
dal pescatore, colle mani dietro la schiena, e il ventre pieno, a vedere
contrattare la roba. - Quello è il suo mestiere, di fare il vagabondo! - diceva
la Rossa. E Lucia rimbeccava che non faceva nulla perché aveva la moglie
ricca che lo campava. - Se sposava me avrebbe lavorato per campar la moglie -.
Santo, colla testa sulle mani, rifletteva che sua madre glielo aveva
consigliato, di pigliarsela lui la sciancata, e la colpa era sua di essersi
lasciato sfuggire il pan di bocca. - Quando siamo giovani - predicava alla
sorella - ci abbiamo in capo gli stessi grilli che hai tu adesso, e cerchiamo
soltanto quel che ci piace, senza pensare al poi. Domandalo ora alla Rossa
se si dovesse tornare a fare quel che abbiamo fatto! - La Rossa,
accoccolata sulla soglia, approvava col capo, mentre i suoi marmocchi le
strillavano intorno, tirandola per le vesti e pei capelli. - Almeno il Signore
Iddio non dovrebbe mandarci la croce dei figliuoli! - piagnucolava. Dei
figliuoli quelli che poteva se li tirava dietro nel campo, ogni mattina, come
una giumenta i suoi puledri; la piccina dentro le bisacce, sulla schiena, e la
più grandicella per mano. Ma gli altri tre però era costretta lasciarli a casa,
a far disperare la cognata.
Quella della bisaccia, e quella che le trotterellava dietro zoppicando,
strillavano in concerto per la viottola, al freddo dell'alba bianca, e la mamma
di tanto in tanto doveva fermarsi, grattandosi la testa e sospirando: - Oh,
Signore Iddio! - e scaldava col fiato le manine pavonazze della piccina, o
tirava fuori dal sacco la lattante per darle la poppa, seguitando a camminare.
Suo marito andava innanzi, curvo sotto il carico, e si voltava appena per darle
il tempo di raggiungerlo tutta affannata, tirandosi dietro la bambina per la
mano, e col petto nudo - non era per guardare i capelli della Rossa,
oppure il petto che facesse l'onda dentro il busto, come al Castelluccio.
Adesso la Rossa lo buttava fuori al sole e al gelo, come roba la quale
non serve ad altro che a dar latte, tale e quale come una giumenta. - Una vera
bestia da lavoro - quanto a ciò non poteva lagnarsi suo marito - a zappare, a
mietere e a seminare, meglio di un uomo, quando tirava su le gonnelle, colle
gambe nere sino a metà, nel seminato. Ora ella aveva ventisette anni, e
tutt'altro da fare che badare alle scarpette e alle calze turchine. - Siamo
vecchi, - diceva suo marito, - e bisogna pensare ai figliuoli -. Almeno si
aiutavano l'un l'altro come due buoi dello stesso aratro. Questo era adesso il
matrimonio. - Pur troppo lo so anch'io! - brontolava Lucia - che ho i guai dei
figli, senza aver marito. Quando chiude gli occhi quella vecchierella, se
vogliono darmi ancora un pezzo di pane me lo danno. Ma se no, mi mettono in
mezzo a una strada -. La mamma, poveretta, non sapeva che rispondere, e stava a
sentirla, seduta accanto al letto, col fazzoletto in testa, e la faccia gialla
dalla malattia. Di giorno s'affacciava sull'uscio, al sole, e ci stava quieta e
zitta sino all'ora in cui il tramonto impallidiva sui tetti nerastri dirimpetto,
e le comari chiamavano a raccolta le galline. Soltanto, quando veniva il
dottore a visitarla, e la figliuola le accostava alla faccia la candela,
domandava al medico, con un sorriso timido: - Per carità, vossignoria È cosa
lunga? - Santo, che aveva un cuor d'oro, rispondeva: - Non me ne importa di
spendere in medicine, finché quella povera vecchierella resta qui, e so di
trovarla nel suo cantuccio tornando a casa. Poi ha lavorato anch'essa la sua
parte, quand'era tempo; e allorché saremo vecchi, i nostri figli faranno
altrettanto per noi -. E accadde pure che Carmenio al Camemi aveva acchiappato
le febbri.
Se il padrone fosse stato ricco gli avrebbe comprato le medicine; ma curatolo
Vito era un povero diavolo che campava su di quel po' di mandra, e il ragazzo
lo teneva proprio per carità, ché quelle quattro pecore avrebbe potuto
guardarsele lui, se non fosse stata la paura della malaria. Poi voleva fare
anche l'opera buona di dar pane all'orfanello di compare Nanni, per ingraziarsi
la Provvidenza che doveva aiutarlo, doveva, se c'era giustizia in cielo. Che
poteva farci se possedeva soltanto quel pezzetto di pascolo al Camemi, dove la
malaria quagliava come la neve, e Carmenio aveva presa la terzana? Un dì che il
ragazzo si sentiva le ossa rotte dalla febbre, e si lasciò vincere dal sonno a
ridosso di un pietrone che stampava l'ombra nera sulla viottola
polverosa, mentre i mosconi ronzavano nell'afa di maggio, le pecore irruppero
nei seminati del vicino - un povero maggese grande quanto un fazzoletto da
naso, che l'arsura s'era mezzo mangiato. Nonostante zio Cheli, rincantucciato
sotto un tettuccio di frasche, lo guardava come la pupilla degli occhi suoi,
quel seminato che gli costava tanti sudori, ed era la speranza dell'annata. Al
vedere le pecore che scorazzavano. - Ah! che non ne mangiano pane, quei
cristiani? - E Carmenio si svegliò alle busse ed ai calci dello zio Cheli, il
quale si mise a correre come un pazzo dietro le pecore sbandate, piangendo ed
urlando.
Ci volevano proprio quelle legnate per Carmenio, colle ossa che gli aveva già
rotte la terzana! Ma gli pagava forse il danno al vicino cogli strilli e cogli
ahimè? - Un'annata persa, ed i miei figli senza pane quest'inverno! Ecco il
danno che hai fatto, assassino! Se ti levassi la pelle non basterebbe! - Zio
Cheli si cercò i testimoni per citarli dinanzi al giudice colle pecore di
curatolo Vito. Questi, al giungergli della citazione, fu come un colpo
d'accidente per lui e sua moglie. - Ah! quel birbante di Carmenio ci ha
rovinati del tutto! Andate a far del bene, che ve lo rendono in tal maniera!
Potevo forse stare nella malaria a guardare le pecore? Ora lo zio Cheli finisce
di farci impoverire a spese! - Il poveretto corse al Camemi nell'ora di
mezzogiorno, che non ci vedeva dagli occhi dalla disperazione, per tutte le
disgrazie che gli piovevano addosso, e ad ogni pedata e ad ogni sorgozzone che
assestava a Carmenio, balbettava ansante: - Tu ci hai ridotti sulla paglia! Tu
ci hai rovinato, brigante! - Non vedete come son ridotto? - cercava di
rispondere Carmenio parando le busse. - Che colpa ci ho se non potevo stare in
piedi dalla febbre? Mi colse a tradimento, là, sotto il pietrone! - Ma tant'è
dovette far fagotto su due piedi, dir addio al credito di due onze che ci aveva
con curatolo Vito, e lasciar la mandra. Che curatolo Vito si contentava di
pigliar lui le febbri un'altra volta, tante erano le sue disgrazie. A casa
Carmenio non disse niente, tornando nudo e crudo, col fagotto in spalla
infilato al bastone.
Solo La mamma si rammaricava di vederlo così pallido e sparuto, e non sapeva
che pensare. Lo seppe più tardi da don Venerando, che stava di casa lì vicino,
e aveva pure della terra al Camemi, al limite del maggese dello zio Cheli. -
Non dire il motivo per cui lo zio Vito ti ha mandato via! - suggeriva la mamma
al ragazzo - se no, nessuno ti piglia per garzone -. E Santo aggiungeva pure: -
Non dir nulla che hai la terzana, se no nessuno ti vuole, sapendo che sei
malato -. Però don Venerando lo prese per la sua mandra di Santa Margherita,
dove il curatolo lo rubava a man salva; e gli faceva più danno delle pecore nel
seminato. - Ti darò io le medicine; così non avrai il pretesto di metterti a
dormire, e di lasciarmi scorazzare le pecore dove vogliono -. Don Venerando
aveva preso a benvolere tutta la famiglia per amor della Lucia, che la vedeva
dal terrazzino quando pigliava il fresco al dopopranzo. - Se volete darmi anche
la ragazza gli dò sei tarì al mese -. E diceva pure che Carmenio avrebbe potuto
andarsene colla madre a Santa Margherita, perché la vecchia perdeva terreno di
giorno in giorno, e almeno alla mandra non le sarebbero mancate le ova, il
latte e il brodo di carne di pecora, quando ne moriva qualcuna. La Rossa
si spogliò del meglio e del buono per metterle insieme un fagottino di roba
bianca. Ora veniva il tempo della semina, loro non potevano andare e venire
tutti i giorni da Licciardo, e la scarsezza d'ogni cosa arrivava coll'inverno.
Lucia stavolta diceva davvero che voleva andarsene a servire in casa di don
Venerando. Misero la vecchierella sul somaro, Santo da un lato e Carmenio
dall'altro, colla roba in groppa; e la mamma, mentre si lasciava fare, diceva
alla figliuola, guardandola cogli occhi grevi sulla faccia scialba: - Chissà se
ci vedremo? chissà se ci vedremo? Hanno detto che tornerò in aprile. Tu statti
col timor di Dio, in casa del padrone. Là almeno non ti mancherà nulla -. Lucia
singhiozzava nel grembiale; ed anche la Rossa, poveretta. In quel
momento avevano fatto la pace, e si tenevano abbracciate, piangendo insieme. -
La Rossa ha il cuore buono - diceva suo marito. - Il guaio è che non
siamo ricchi, per volerci sempre bene. Le galline quando non hanno nulla da
beccare nella stia, si beccano fra di loro -. Lucia adesso era ben accollata,
in casa di don Venerando, e diceva che voleva lasciarla soltanto dopo ch'era
morta, come si suole, per dimostrare la gratitudine al padrone. Aveva pane e
minestra quanta ne voleva, un bicchiere di vino al giorno, e il suo piatto di
carne la domenica e le feste. Intanto la mesata le restava in tasca tale e
quale, e la sera aveva tempo anche di filarsi la roba bianca della dote per suo
conto. Il partito ce l'aveva già sotto gli occhi nella stessa casa: Brasi, lo
sguattero che faceva la cucina, e aiutava anche nelle cose di campagna quando
bisognava.
Il padrone s'era arricchito allo stesso modo, stando al servizio del barone, ed
ora aveva il don, e poderi e bestiami a bizzeffe. A Lucia, perché veniva da una
famiglia benestante caduta in bassa fortuna, e si sapeva che era onesta, le avevano
assegnate le faccende meno dure, lavare i piatti, scendere in cantina, e
governare il pollaio; con un sottoscala per dormirvi che pareva uno stanzino, e
il letto, il cassettone e ogni cosa; talché Lucia voleva lasciarli soltanto
dopo che era morta. In quel mentre faceva l'occhietto a Brasi, e gli confidava
che fra due o tre anni ci avrebbe avuto un gruzzoletto, e poteva 'andare
al mondo', se il Signore la chiamava. Brasi da quell'orecchio non ci
sentiva. Ma gli piaceva la Lucia, coi suoi occhi di carbone, e la grazia di Dio
che ci aveva addosso. A lei pure le piaceva Brasi, piccolo, ricciuto, col muso
fino e malizioso di can volpino. Mentre lavavano i piatti o mettevano legna
sotto il calderotto, egli inventava ogni monelleria per farla ridere, come se le
facesse il solletico. Le spruzzava l'acqua sulla nuca e le ficcava delle foglie
d'indivia fra le trecce. Lucia strillava sottovoce, perché non udissero i
padroni; si rincantucciava nell'angolo del forno, rossa in viso al pari
della bragia, e gli gettava in faccia gli strofinacci ed i sarmenti, mentre
l'acqua gli sgocciolava nella schiena come una delizia. - E colla carne si fa
le polpette - fate la vostra, ché la mia l'ho fatta. - Io no! - rispondeva
Lucia. - A me non mi piacciono questi scherzi -. Brasi fingeva di restare
mortificato.
Raccattava la foglia d'indivia che gli aveva buttato in faccia, e se la ficcava
in petto, dentro la camicia, brontolando: - Questa è roba mia. Io non vi tocco.
È roba mia e ha da star qui. Se volete mettervi della roba mia allo stesso
posto, a voi! - E faceva atto di strapparsi una manciata di capelli per
offrirglieli, cacciando fuori tanto di lingua. Ella lo picchiava con certi
pugni sodi da contadina che lo facevano aggobbire, e gli davano dei cattivi
sogni la notte, diceva lui. Lo pigliava pei capelli, come un cagnuolo, e
sentiva un certo piacere a ficcare le dita in quella lana morbida e ricciuta. -
Sfogatevi! sfogatevi! Io non sono permaloso come voi, e mi lascierei pestare
come la salsiccia dalle vostre mani -. Una volta don Venerando li sorprese in
quei giuochetti e fece una casa del diavolo. Tresche non ne voleva in casa sua;
se no li scacciava fuori a pedate tutt'e due. Piuttosto quando trovava la
ragazza sola in cucina, le pigliava il ganascino, e voleva accarezzarla con due
dita. - No! no! - replicava Lucia. - A me questi scherzi non mi piacciono. Se
no piglio la mia roba e me ne vado. - Di lui ti piacciono, di lui! E di me che
sono il padrone, no? Cosa vuol dire questa storia? Non sai che posso regalarti
degli anelli e dei pendenti di oro, e farti la dote, se ne ho voglia? - Davvero
poteva fargliela, confermava Brasi, che il padrone aveva danari quanti ne
voleva, e sua moglie portava il manto di seta come una signora, adesso che era
magra e vecchia peggio di una mummia; per questo suo marito scendeva in cucina
a dir le barzellette colle ragazze. Poi ci veniva per guardarsi i suoi
interessi, quanta legna ardeva e quanta carne mettevano al fuoco. Era ricco,
sì, ma sapeva quel che ci vuole a far la roba, e litigava tutto il giorno con
sua moglie, la quale aveva dei fumi in testa, ora che faceva la signora, e si
lagnava del fumo dei sarmenti e del cattivo odore delle cipolle. - La dote
voglio farmela io colle mie mani - rimbeccava Lucia. - La figlia di mia madre
vuol restare una ragazza onorata, se un cristiano la cerca in moglie. - E tu
restaci! - rispondeva il padrone. - Vedrai che bella dote! e quanti verranno a
cercartela la tua onestà! - Se i maccheroni erano troppo cotti, se Lucia
portava in tavola due ova al tegame che sentivano l'arsiccio, don Venerando la
strapazzava per bene, al cospetto della moglie, tutto un altro uomo, col ventre
avanti e la voce alta. - Che credevano di far l'intruglio pel maiale? Con due
persone di servizio che se lo mangiavano vivo! Un'altra volta le buttava la
grazia di Dio sulla faccia! - La signora, benedetta, non voleva quegli
schiamazzi, per via dei vicini, e rimandava la serva strillando in falsetto: -
Vattene in cucina; levati di qua, sciamannona! paneperso! - Lucia andava a
piangere nel cantuccio del forno, ma Brasi la consolava, con quella sua faccia
da mariuolo: - Cosa ve ne importa? Lasciateli cantare! Se si desse retta ai
padroni, poveri noi! Le ova sentivano l'arsiccio? Peggio per loro! Non potevo
spaccar legna nel cortile, e rivoltar le ova nel tempo istesso. Mi fanno far da
cuoco e da garzone, e vogliono essere serviti come il re! Che non si
rammentavano più quando lui mangiava pane e cipolla sotto un olivo, e lei gli
coglieva le spighe nel campo? -. Allora serva e cuoco si confidavano la loro
'mala sorte' che nascevano di 'gente rispettata' e i loro
parenti erano stati più ricchi del padrone, già da tempo.
Il padre di Brasi era carradore, nientemeno! e la colpa era del figliuolo che
non aveva voluto attendere al mestiere, e si era incapricciato a vagabondare
per le fiere, dietro il carretto del merciaiuolo: con lui aveva imparato a
cucinare e a governar le bestie. Lucia ricominciava la litania dei suoi guai: -
il babbo, il bestiame, la Rossa, le malannate: - tutt'e due gli stessi,
lei e Brasi, in quella cucina; parevano fatti l'uno per l'altra. - La storia di
vostro fratello colla Rossa? - rispondeva Brasi. - Grazie tante! - Però
non voleva darle quell'affronto lì sul mostaccio. Non gliene importava nulla
che ella fosse una contadina. Non ricusava per superbia. Erano poveri tutti e
due e sarebbe stato meglio buttarsi nella cisterna con un sasso al collo. Lucia
mandò giù tutto quell'amaro senza dir motto, e se voleva piangere andava a
nascondersi nel sottoscala, o nel cantuccio del forno, quando non c'era Brasi.
Ormai a quel cristiano gli voleva bene, collo stare insieme davanti al fuoco
tutto il giorno. I rabbuffi, le sgridate del padrone, li pigliava per sé, e
lasciava a lui il miglior piatto, il bicchier di vino più colmo, andava in
corte a spaccar la legna per lui, e aveva imparato a rivoltare le ova e a
scodellare i maccheroni in punto. Brasi, come la vedeva fare la croce, colla
scodella sulle ginocchia, prima d'accingersi a mangiare, le diceva: - Che non
avete visto mai grazia di Dio? - Egli si lamentava sempre e di ogni cosa: che
era una galera, e che aveva soltanto tre ore alla sera da andare a spasso o
all'osteria; e se Lucia qualche volta arrivava a dirgli, col capo basso, e
facendosi rossa: - Perché ci andate all'osteria? Lasciatela stare
l'osteria, che non fa per voi. - Si vede che siete una contadina! - rispondeva
lui. - Voi altri credete che all'osteria ci sia il diavolo. Io son nato da
maestri di bottega, mia cara. Non son mica un villano! - Lo dico per vostro
bene. Vi spendete i soldi, e poi c'è sempre il caso d'attaccar lite con
qualcheduno -. Brasi si sentì molle a quelle parole e a quegli occhi che
evitavano di guardarlo. E si godeva il solluchero: - O a voi cosa ve ne
importa? - Nulla me ne importa. Lo dico per voi. - O voi non vi seccate a star
qui in casa tutto il giorno? - No, ringrazio Iddio del come sto, e vorrei che i
miei parenti fossero come me, che non mi manca nulla -. Ella stava spillando il
vino, accoccolata colla mezzina fra le gambe, e Brasi era sceso con lei in
cantina a farle lume.
Come la cantina era grande e scura al pari di una chiesa, e non si udiva una
mosca in quel sotterraneo, soli tutti e due, Brasi e Lucia, egli le mise un
braccio al collo e la baciò su quella bocca rossa al pari del corallo. La
poveretta l'aspettava sgomenta, mentre stava china tenendo gli occhi sulla
brocca, e tacevano entrambi, e udiva il fiato grosso di lui, e il gorgogliare
del vino. Ma pure mise un grido soffocato, cacciandosi indietro tutta tremante,
così che un po' di spuma rossa si versò per terra. - O che è stato? -
esclamò Brasi. - Come se v'avessi dato uno schiaffo! Dunque non è vero che mi
volete bene? Ella non osava guardarlo in faccia, e si struggeva dalla voglia.
Badava al vino versato, imbarazzata, balbettando: - O povera me! o povera me!
che ho fatto? Il vino del padrone! - Eh! lasciate correre; ché ne ha tanto
il padrone. Date retta a me piuttosto. Che non mi volete bene? Ditelo, sì o no!
- Ella stavolta si lascia prendere la mano, senza rispondere, e quando Brasi le
chiese che gli restituisse il bacio, ella glielo diede, rossa di una
cosa che non era vergogna soltanto. - Che non ne avete avuti mai? - domandava
Brasi ridendo. - O bella! siete tutta tremante come se avessi detto di
ammazzarvi. - Sì, vi voglio bene anch'io - rispose lei; - e mi struggevo di
dirvelo. Se tremo ancora non ci badate. È stata per la paura del vino. - O
guarda! anche voi? E da quando! Perché non me lo avete detto? - Da quando s'è
parlato che eravamo fatti l'uno per l'altro. - Ah! - disse Brasi, grattandosi
il capo. - Andiamo di sopra, che può venire il padrone -. Lucia era tutta
contenta dopo quel bacio, e le sembrava che Brasi le avesse suggellato sulla
bocca la promessa di sposarla. Ma lui non ne parlava neppure, e se la ragazza
gli toccava quel tasto, rispondeva: - Che premura hai? Poi è inutile mettersi
il giogo sul collo, quando possiamo stare insieme come se fossimo maritati. -
No, non è lo stesso. Ora voi state per conto vostro ed io per conto mio; ma
quando ci sposeremo, saremo una cosa sola. - Una bella cosa saremo! Poi non
siamo fatti della stessa pasta. Pazienza, se tu avessi un po' di dote! - Ah!
che cuore nero avete voi! No! Voi non mi avete voluto bene mai! - Sì,
che ve n'ho voluto. E son qui tutto per voi; ma senza parlar di quella cosa. -
No! Non ne mangio di quel pane! lasciatemi stare, e non mi guardate più! - Ora
lo sapeva com'erano fatti gli uomini.
Tutti bugiardi e traditori. Non voleva sentirne più parlare. Voleva buttarsi
nella cisterna piuttosto a capo in giù; voleva farsi Figlia di Maria; voleva
prendere il suo buon nome e gettarlo dalla finestra! A che le serviva, senza
dote? Voleva rompersi il collo con quel vecchiaccio del padrone, e procurarsi
la dote colla sua vergogna. Ormai! Ormai! Don Venerando l'era sempre
attorno, ora colle buone, ora colle cattive, per guardarsi i suoi interessi, se
mettevano troppa legna al fuoco, quanto olio consumavano per la frittura,
mandava via Brasi a comprargli un soldo di tabacco, e cercava di pigliare Lucia
pel ganascino, correndole dietro per la cucina, in punta di piedi perché sua
moglie non udisse, rimproverando la ragazza che gli mancava di rispetto, col
farlo correre a quel modo! - No! no! - ella pareva una gatta inferocita. -
Piuttosto pigliava la sua roba, e se ne andava via! - E che mangi? E dove lo
trovi un marito senza dote? Guarda questi orecchini! Poi ti regalerei 20 onze
per la tua dote. Brasi per 20 onze si fa cavare tutti e due gli occhi! - Ah!
quel cuore nero di Brasi! La lasciava nelle manacce del padrone, che la
brancicavano tremanti! La lasciava col pensiero della mamma che poco poteva
campare, della casa saccheggiata e piena di guai, di Pino il Tomo che l'aveva
piantata per andare a mangiare il pane della vedova! La lasciava colla
tentazione degli orecchini e delle 20 onze nella testa!
E un giorno entrò in cucina colla faccia tutta stravolta, e i pendenti d'oro
che gli sbattevano sulle guance. Brasi sgranava gli occhi, e le diceva: - Come
siete bella così, comare Lucia! - Ah! vi piaccio così? Va bene, va bene! -
Brasi ora che vedeva gli orecchini e tutto il resto, si sbracciava a mostrarsi
servizievole e premuroso quasi ella fosse diventata un'altra padrona. Le
lasciava il piatto più colmo, e il posto migliore accanto al fuoco. Con lei si
sfogava a cuore aperto, ché erano poverelli tutti e due, e faceva bene
all'anima confidare i guai a una persona che si vuol bene. Se appena appena
fosse arrivato a possedere 20 onze, egli metteva su una piccola bettola e
prendeva moglie. Lui in cucina, e lei al banco. Così non si stava più al
comando altrui. Il padrone se voleva far loro del bene, lo poteva fare senza
scomodarsi, giacché 20 onze per lui erano come una presa di tabacco. E Brasi
non sarebbe stato schizzinoso, no! Una mano lava l'altra a questo mondo. E non
era sua colpa se cercava di guadagnarsi il pane come poteva. Povertà non è
peccato. Ma Lucia si faceva rossa, o pallida, o le si gonfiavano gli
occhi di pianto, e si nascondeva il volto nel grembiale. Dopo qualche tempo non
si lasciò più vedere nemmeno fuori di casa, né a messa, né a confessare, né a
Pasqua, né a Natale. In cucina si cacciava nell'angolo più scuro, col viso
basso, infagottata nella veste nuova che le aveva regalato il padrone, larga di
cintura. Brasi la consolava con buone parole. Le metteva un braccio al collo,
le palpava la stoffa fine del vestito, e gliela lodava. Quegli orecchini d'oro
parevano fatti per lei. Uno che è ben vestito e ha denari in tasca non ha
motivo di vergognarsi e di tenere gli occhi bassi; massime poi quando gli occhi
son belli come quelli di comare Lucia. La poveretta si faceva animo a
fissarglieli in viso, ancora sbigottita, e balbettava: - Davvero, mastro Brasi?
Mi volete ancora bene? - Sì, sì, ve ne vorrei! - rispondeva Brasi colla mano
sulla coscienza. - Ma che colpa ci ho se non son ricco per sposarvi? Se aveste
20 onze di dote vi sposerei ad occhi chiusi -. Don Venerando adesso aveva preso
a ben volere anche lui, e gli regalava i vestiti smessi e gli stivali rotti.
Allorché scendeva in cantina gli dava un bel gotto di vino, dicendogli: - Tè!
bevi alla mia salute -. E il pancione gli ballava dal tanto ridere, al vedere
le smorfie che faceva Brasi, e al sentirlo barbugliare alla Lucia, pallido come
un morto: - Il padrone è un galantuomo, comare Lucia! lasciate ciarlare i
vicini, tutta gente invidiosa, che muore di fame, e vorrebbero essere al vostro
posto -. Santo, il fratello, udì la cosa in piazza qualche mese dopo. E corse
dalla moglie trafelato.
Poveri erano sempre stati, ma onorati. La Rossa allibì anch'essa, e corse
dalla cognata tutta sottosopra, che non poteva spiccicar parola. Ma quando
tornò a casa da suo marito, era tutt'altra, serena e colle rose in volto. - Se
tu vedessi! Un cassone alto così di roba bianca! anelli, pendenti e collane
d'oro fine. Poi vi son anche 20 onze di danaro per la dote. Una vera
provvidenza di Dio! - Non monta! - Tornava a dire di tanto in tanto il
fratello, il quale non sapeva capacitarsene. - Almeno avesse aspettato che
chiudeva gli occhi nostra madre! - Questo poi accadde l'anno della neve, che
crollarono buon numero di tetti, e nel territorio ci fu una gran mortalità di
bestiame, Dio liberi! Alla Lamia e per la montagna di Santa Margherita, come
vedevano scendere quella sera smorta, carica di nuvoloni di malaugurio, che i
buoi si voltavano indietro sospettosi, e muggivano, la gente si affacciava
dinanzi ai casolari, a guardar lontano verso il mare, colla mano sugli occhi,
senza dir nulla. La campana del Monastero Vecchio, in cima al paese, suonava
per scongiurare la malanotte, e sul poggio del Castello c'era un gran brulichìo
di comari, nere sull'orizzonte pallido, a vedere in cielo la coda del
drago, una striscia color di pece, che puzzava di zolfo, dicevano, e voleva
essere una brutta notte.
Le donne gli facevano gli scongiuri colle dita, al drago, gli mostravano
l'abitino della Madonna sul petto nudo, e gli sputavano in faccia, tirando giù
la croce sull'ombelico, e pregavano Dio e le anime del purgatorio, e Santa
Lucia, che era la sua vigilia, di proteggere i campi, e le bestie, e i loro
uomini anch'essi, chi ce li avea fuori del paese. Carmenio al principio
dell'inverno era andato colla mandra a Santa Margherita. La mamma quella sera
non istava bene, e si affannava pel lettuccio, cogli occhi spalancati, e non
voleva star più quieta come prima, e voleva questo, e voleva quell'altro, e
voleva alzarsi, e voleva che la voltassero dall'altra parte. Carmenio un po'
era corso di qua e di là, a darle retta, e cercare di fare qualche cosa. Poi si
era piantato dinanzi al letto, sbigottito, colle mani nei capelli. Il casolare
era dall'altra parte del torrente, in fondo alla valle, fra due grossi pietroni
che gli si arrampicavano sul tetto. Di faccia, la costa, ritta in piedi,
cominciava a scomparire nel buio che saliva dal vallone, brulla e nera
di sassi, fra i quali si perdeva la striscia biancastra del viottolo. Al calar
del sole erano venuti i vicini della mandra dei fichidindia, a vedere se
occorreva nulla per l'inferma, che non si moveva più nel suo lettuccio, colla
faccia in aria e la fuliggine al naso. - Cattivo segno! - aveva detto curatolo
Decu. - Se non avessi lassù le pecore, con questo tempo che si prepara, non ti
lascierei solo stanotte. Chiamami, se mai! - Carmenio rispondeva di sì, col
capo appoggiato allo stipite; ma vedendolo allontanare passo passo, che si
perdeva nella notte, aveva una gran voglia di corrergli dietro, di mettersi a
gridare, di strapparsi i capelli - non sapeva che cosa. - Se mai - gli gridò
curatolo Decu da lontano - corri fino alla mandra dei fichidindia, lassù, che
c'è gente -. La mandra si vedeva tuttora sulla roccia, verso il cielo, per quel
po' di crepuscolo che si raccoglieva in cima ai monti, e straforava le macchie
dei fichidindia. Lontan lontano, alla Lamia e verso la pianura, si udiva
l'uggiolare dei cani auuuh! auuuh! auuuh! che arrivava appena sin là,
e metteva freddo nelle ossa. Le pecore allora si spingevano a scorazzare in
frotta pel chiuso, prese da un terrore pazzo, quasi sentissero il lupo nelle
vicinanze, e a quello squillare brusco di campanacci sembrava che le tenebre si
accendessero di tanti occhi infuocati, tutto in giro. Poi le pecore si
arrestavano immobili, strette fra di loro, col muso a terra, e il cane finiva
d'abbaiare in un uggiolato lungo e lamentevole, seduto sulla coda. - Se sapevo!
- pensava Carmenio - era meglio dire a curatolo Decu di non lasciarmi solo -.
Di fuori, nelle tenebre, di tanto in tanto si udivano i campanacci della mandra
che trasalivano. Dallo spiraglio si vedeva il quadro dell'uscio nero
come la bocca di un forno; null'altro. E la costa dirimpetto, e la valle
profonda, e la pianura della Lamia, tutto si sprofondava in quel nero
senza fondo, che pareva si vedesse soltanto il rumore del torrente, laggiù, a
montare verso il casolare, gonfio e minaccioso.
Se sapeva, anche questa! prima che annottasse correva al paese a chiamare il
fratello; e certo a quell'ora sarebbe qui con lui, ed anche Lucia e la cognata.
Allora la mamma cominciò a parlare, ma non si capiva quello che dicesse, e
brancolava pel letto colle mani scarne. - Mamma! mamma! cosa volete? -
domandava Carmenio - ditelo a me che son qui con voi! - Ma la mamma non
rispondeva. Dimenava il capo anzi, come volesse dir no! no! non voleva. Il
ragazzo le mise la candela sotto il naso, e scoppiò a piangere dalla paura. - O
mamma! mamma mia! - piagnucolava Carmenio -. O che sono solo e non posso darvi
aiuto! - Aprì l'uscio per chiamare quelli della mandra dei fichidindia. Ma
nessuno l'udiva. Dappertutto era un chiarore denso; sulla costa, nel vallone,
laggiù al piano - come un silenzio fatto di bambagia. Ad un tratto arrivò
soffocato il suono di una campana che veniva da lontano, 'nton! 'nton! 'nton! e
pareva quagliasse nella neve. - Oh, Madonna santissima! - singhiozzava Carmenio
-. Che sarà mai quella campana? O della mandra dei fichidindia, aiuto! O santi
cristiani, aiuto! Aiuto, santi cristiani! - si mise a gridare. Infine lassù, in
cima al monte dei fichidindia, si udì una voce lontana, come la campana di
Francofonte. - Ooooh cos'èeee? cos'èeee? - Aiuto, santi cristiani! aiuto,
qui da curatolo Decuuu! - Ooooh rincorrile le pecoreee!
rincorrileeee! - No! no! non son le pecore non sono! - In quella passò
una civetta, e si mise a stridere sul casolare. - Ecco! - mormorò Carmenio
facendosi la croce. - Ora la civetta ha sentito l'odore dei morti! Ora la mamma
sta per morire! - A star solo nel casolare colla mamma, la quale non parlava
più, gli veniva voglia di piangere. - Mamma, che avete? Mamma, rispondetemi?
Mamma avete freddo? - Ella non fiatava, colla faccia scura.
Accese il fuoco, fra i due sassi del focolare, e si mise a vedere come ardevano
le frasche, che facevano una fiammata, e poi soffiavano come se ci dicessero su
delle parole. Quando erano nelle mandre di Resecone, quello di Francofonte, a
veglia, aveva narrato certe storie di streghe che montano a cavallo delle
scope, e fanno degli scongiuri sulla fiamma del focolare. Carmenio si
rammentava tuttora la gente della fattoria, raccolta ad ascoltare con tanto
d'occhi, dinanzi al lumicino appeso al pilastro del gran palmento buio, che a
nessuno gli bastava l'animo di andarsene a dormire nel suo cantuccio, quella
sera. Giusto ci aveva l'abitino della Madonna sotto la camicia, e la fettuccia
di santa Agrippina legata al polso, che s'era fatta nera dal tempo.
Nella stessa tasca ci aveva il suo zufolo di canna, che gli rammentava le sere
d'estate - Juh! juh! - quando si lasciano entrare le pecore nelle stoppie
gialle come l'oro, dappertutto, e i grilli scoppiettano nell'ora di
mezzogiorno, e le lodole calano trillando a rannicchiarsi dietro le zolle col
tramonto, e si sveglia l'odore della nepitella e del ramerino. - Juh! juh!
Bambino Gesù! - A Natale, quando era andato al paese, suonavano così per la
novena, davanti all'altarino illuminato e colle frasche d'arancio, e in ogni
casa, davanti all'uscio, i ragazzi giocavano alla fossetta, col bel sole di
dicembre sulla schiena. Poi s'erano avviati per la messa di mezzanotte, in
folla coi vicini, urtandosi e ridendo per le strade buie. Ah! perché adesso ci
aveva quella spina in cuore? e la mamma che non diceva più nulla!! ancora per
mezzanotte ci voleva un gran pezzo. Fra i sassi delle pareti senza intonaco
pareva che ci fossero tanti occhi ad ogni buco, che guardavano dentro, nel
focolare, gelati e neri. Sul suo stramazzo, in un angolo, era buttato un
giubbone, lungo disteso, che pareva le maniche si gonfiassero; e il diavolo del
San Michele Arcangelo, nella immagine appiccicata a capo del lettuccio,
digrignava i denti bianchi, colle mani nei capelli, fra i zig-zag rossi
dell'inferno. L'indomani, pallidi come tanti morti, arrivarono Santo, la Rossa
coi bambini dietro, e Lucia che in quell'angustia non pensava a nascondere il
suo stato. Attorno al lettuccio della morta si strappavano i capelli, e si davano
dei pugni in testa, senza pensare ad altro. Poi come Santo si accorse della
sorella con tanto di pancia, ch'era una vergogna, si mise a dire in mezzo al
piagnisteo: - Almeno avesse lasciato chiudere gli occhi a quella vecchierella,
almeno! E Lucia dal canto suo: - L'avessi saputo, l'avessi! Non le facevo
mancare il medico e lo speziale, ora che ho 20 onze. - Ella è in paradiso e
prega Dio per noi peccatori; - conchiude la Rossa. - Sa che la dote ce
l'avete, ed è tranquilla, poveretta. Mastro Brasi ora vi sposerà di certo -.
I colori percepiti come sonda di esplorazione della coscienza e specchio della complessità e problematicità dell'Io.
Il nero come segno di lutto e di dolore si carica, in questa novella, di un significato simbolico ulteriore. Lo scialle nero di Eleonora e il 'mucchio di vesti nere', sparsi nella scena finale, restano tragicamente a rappresentare tutta la coscienza di un Io sofferente, indifeso, murato nella parte che il caso, la società e il suo stesso essere gli hanno assegnato. Il nero diventa allora simbolo di una presa di coscienza e di una ribellione estrema.
I
Aspetta qua, - disse
il Bandi al D'Andrea. - Vado a prevenirla. Se s'ostina ancora, entrerai per
forza.
Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l'uno di fronte all'altro.
Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri,
rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con
meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando cosí tra loro, l'uno non
aggiustasse all'altro col dito il sellino delle lenti sul naso, o il nodo della
cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare, non toccasse
all'altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo. E la
tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore
dei volti. Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda fino
all'Università, dove poi l'uno s'era laureato in legge, l'altro in medicina.
Divisi ora, durante il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano
ancora insieme quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale all'uscita
del paese. Si conoscevano cosí a fondo, che bastava un lieve cenno, uno
sguardo, una parola, perché l'uno comprendesse subito il pensiero dell'altro.
Dimodoché quella loro passeggiata principiava ogni volta con un breve scambio
di frasi e seguitavano poi in silenzio, come se l'uno avesse dato all'altro da
ruminare per un pezzo. E andavano a testa bassa, come due cavalli stanchi;
entrambi con le mani dietro la schiena. A nessuno dei due veniva mai la
tentazione di volgere un po' il capo verso la ringhiera del viale per godere la
vista dell'aperta campagna sottostante, svariata di poggi e di valli e di
piani, col mare in fondo, che s'accendeva tutto agli ultimi fuochi del
tramonto: vista di tanta bellezza, che pareva perfino incredibile che quei due
vi potessero passar davanti cosí, senza neppure voltarsi a guardare.
Giorni addietro il Bandi aveva detto al D'Andrea: - Eleonora non sta bene. Il
D'Andrea aveva guardato negli occhi l'amico e compreso che il male della
sorella doveva esser lieve: - Vuoi che venga a visitarla? - Dice di no. E tutti
e due, passeggiando, s'erano messi a pensare con le ciglia aggrottate, quasi per
rancore, a quella donna che aveva fatto loro da madre e a cui dovevano tutto.
Il D'Andrea aveva perduto da ragazzo i genitori ed era stato accolto in casa
d'uno zio, che non avrebbe potuto in alcun modo provvedere alla riuscita di
lui. Eleonora Bandi, rimasta orfana anch'essa a diciotto anni col fratello
molto piú piccolo di lei, industriandosi dapprima con minute e sagge economie
su quel po' che le avevano lasciato i genitori, poi lavorando, dando lezioni di
pianoforte e di canto, aveva potuto mantenere agli studii il fratello, e anche
l'amico indivisibile di lui. - In compenso però, - soleva dire ridendo ai due
giovani - mi son presa tutta la carne che manca a voi due.
Era infatti un donnone che non finiva mai; ma aveva tuttavia dolcissimi i
lineamenti del volto, e l'aria ispirata di quegli angeloni di marmo che si
vedono nelle chiese, con le tuniche svolazzanti. E lo sguardo dei begli occhi neri,
che le lunghe ciglia quasi vellutavano, e il suono della voce armoniosa pareva
volessero anch'essi attenuare, con un certo studio che le dava pena,
l'impressione d'alterigia che quel suo corpo cosí grande poteva destare sulle
prime; e ne sorrideva mestamente. Sonava e cantava, forse non molto
correttamente ma con foga appassionata. Se non fosse nata e cresciuta fra i
pregiudizii d'una piccola città e non avesse avuto l'impedimento di quel
fratellino, si sarebbe forse avventurata alla vita di teatro. Era stato quello,
un tempo, il suo sogno; nient'altro che un sogno però. Aveva ormai circa
quarant'anni.
La considerazione,
del resto, di cui godeva in paese per quelle sue doti artistiche la compensava,
almeno in parte, del sogno fallito, e la soddisfazione d'averne invece attuato
un altro, quello cioè d'avere schiuso col proprio lavoro l'avvenire a due
poveri orfani, la compensava del lungo sacrifizio di se stessa.
Il dottor D'Andrea attese un buon pezzo nel salotto, che l'amico ritornasse a
chiamarlo. Quel salotto pieno di luce, quantunque dal tetto basso, arredato di
mobili già consunti, d'antica foggia, respirava quasi un'aria d'altri tempi e
pareva s'appagasse, nella quiete dei due grandi specchi a riscontro,
dell'immobile visione della sua antichità scolorita. I vecchi ritratti di
famiglia appesi alle pareti erano, là dentro, i veri e soli inquilini. Di nuovo,
c'era soltanto il pianoforte a mezzacoda, il pianoforte d'Eleonora, che le
figure effigiate in quei ritratti pareva guardassero in cagnesco. Spazientito,
alla fine, dalla lunga attesa, il dottore si alzò, andò fino alla soglia,
sporse il capo, udí piangere nella camera di là, attraverso l'uscio chiuso.
Allora si mosse e andò a picchiare con le nocche delle dita a quell'uscio.
- Entra, - gli disse il Bandi, aprendo.
- Non riesco a capire perché s'ostina cosí.
- Ma perché non ho nulla! - gridò Eleonora tra le lagrime. Stava a sedere su un
ampio seggiolone di cuojo, vestita come sempre di nero, enorme e
pallida; ma sempre con quel suo viso di bambinona, che ora pareva piú che mai
strano, e forse piú ambiguo che strano, per un certo indurimento negli occhi,
quasi di folle fissità, ch'ella voleva tuttavia dissimulare.
- Non ho nulla, v'assicuro, - ripeté piú pacatamente. - Per carità, lasciatemi
in pace: non vi date pensiero di me. - Va bene! - concluse il fratello, duro e
cocciuto.
- Intanto, qua c'è Carlo. Lo dirà lui quello che hai. - E uscí dalla camera,
richiudendo con furia l'uscio dietro di sé. Eleonora si recò le mani al volto e
scoppiò in violenti singhiozzi. Il D'Andrea rimase un pezzo a guardarla, fra
seccato e imbarazzato; poi domandò: - Perché? Che cos'ha? Non può dirlo neanche
a me?
E come Eleonora seguitava a singhiozzare, le s'appressò, provò a scostarle con
fredda delicatezza una mano dal volto: - Si calmi, via; lo dica a me; ci son
qua io.
Eleonora scosse il capo; poi, d'un tratto, afferrò con tutt'e due le mani la
mano di lui, contrasse il volto, come per un fitto spasimo, e gemette: - Carlo!
Carlo! Il D'Andrea si chinò su lei, un po' impacciato nel suo rigido contegno.
- Mi dica Allora ella gli appoggiò una guancia su la mano e pregò disperatamente,
a bassa voce: - Fammi, fammi morire, Carlo; ajutami tu, per carità! non trovo
il modo; mi manca il coraggio, la forza.
- Morire? - domandò il giovane, sorridendo. - Che dice? Perché? - Morire, sí! -
riprese lei, soffocata dai singhiozzi. - Insegnami tu il modo. Tu sei medico.
Toglimi da questa agonia, per carità! Debbo morire. Non c'è altro rimedio per
me. La morte sola. Egli la fissò, stupito. Anche lei alzò gli occhi a
guardarlo, ma subito li richiuse, contraendo di nuovo il volto e restringendosi
in sé, quasi colta da improvviso, vivissimo ribrezzo.
- Sí, sí, - disse poi, risolutamente. - Io, sí, Carlo: perduta! perduta!
Istintivamente il D'Andrea ritrasse la mano, ch'ella teneva ancora tra le sue.
- Come! Che dice? - balbettò. Senza guardarlo, ella si pose un dito su la
bocca, poi indicò la porta: - Se lo sapesse! Non dirgli nulla, per pietà! Fammi
prima morire; dammi, dammi qualche cosa: la prenderò come una medicina; crederò
che sia una medicina, che mi dai tu; purché sia subito! Ah, non ho coraggio,
non ho coraggio! Da due mesi, vedi, mi dibatto in quest'agonia, senza trovar la
forza, il modo di farla finita. Che ajuto puoi darmi, tu, Carlo, che dici? -
Che ajuto? - ripeté il D'Andrea, ancora smarrito nello stupore.
Eleonora stese di nuovo le mani per prendergli un braccio e, guardandolo con
occhi supplichevoli, soggiunse: - Se non vuoi farmi morire, non potresti in
qualche altro modo salvarmi? Il D'Andrea, a questa proposta, s'irrigidí piú
che mai, aggrottando severamente le ciglia. - Te ne scongiuro, Carlo! -
insistette lei. - Non per me, non per me, ma perché Giorgio non sappia. Se tu
credi che io abbia fatto qualche cosa per voi, per te, ajutami ora, salvami!
Debbo finir cosí, dopo aver fatto tanto, dopo aver tanto sofferto? cosí, in questa
ignominia, all'età mia? Ah, che miseria! che orrore!
- Ma come, Eleonora? Lei! Com'è stato? Chi è stato? - fece il D'Andrea, non
trovando, di fronte alla tremenda ambascia di lei, che questa domanda per la
sua curiosità sbigottita.
Di nuovo Eleonora indicò la porta e si coprí il volto con le mani: - Non mi ci
far pensare! Non posso pensarci! Dunque, non vuoi risparmiare a Giorgio questa
vergogna? - E come? - domandò il D'Andrea.
- Delitto, sa! Sarebbe un doppio delitto. Piuttosto, mi dica: non si potrebbe
in qualche altro modo rimediare? - No! - rispose lei, recisamente,
infoscandosi.
- Basta. Ho capito. Lasciami! Non ne posso piú Abbandonò il capo su la
spalliera del seggiolone, rilassò le membra: sfinita.
Carlo D'Andrea, con gli occhi fissi dietro le grosse lenti da miope, attese un
pezzo, senza trovar parole, non sapendo ancor credere a quella rivelazione, né
riuscendo a immaginare come mai quella donna, finora esempio, specchio di
virtú, d'abnegazione, fosse potuta cadere nella colpa. Possibile? Eleonora
Bandi? Ma se aveva in gioventú, per amore del fratello, rifiutato tanti
partiti, uno piú vantaggioso dell'altro! Come mai ora, ora che la gioventú era
tramontata
- Eh! ma forse per questo La guardò, e il sospetto, di fronte a quel corpo
cosí voluminoso, assunse all'improvviso, agli occhi di lui magro, un aspetto
orribilmente sconcio e osceno.
- Va', dunque, - gli disse a un tratto, irritata, Eleonora, che pur senza
guardarlo, in quel silenzio, si sentiva addosso l'inerte orrore di quel
sospetto negli occhi di lui.
- Va', va', a dirlo a Giorgio, perché faccia subito di me quello che vuole.
Va'.
Il D'Andrea uscí, quasi automaticamente. Ella sollevò un poco il capo per
vederlo uscire; poi, appena richiuso l'uscio, ricadde nella positura di prima.
II
Dopo due mesi
d'orrenda angoscia, quella confessione del suo stato la sollevò,
insperatamente. Le parve che il piú, ormai, fosse fatto. Ora, non avendo piú
forza di lottare, di resistere a quello strazio, si sarebbe abbandonata, cosí,
alla sorte, qualunque fosse. Il fratello, tra breve, sarebbe entrato e
l'avrebbe uccisa? Ebbene: tanto meglio! Non aveva piú diritto a nessuna
considerazione, a nessun compatimento. Aveva fatto, sí, per lui e per
quell'altro ingrato, piú del suo dovere, ma in un momento poi aveva perduto il
frutto di tutti i suoi benefizii. Strizzò gli occhi, colta di nuovo dal
ribrezzo. Nel segreto della propria coscienza, si sentiva pure miseramente
responsabile del suo fallo. Sí, lei, lei che per tanti anni aveva avuto la forza
di resistere agli impulsi della gioventú, lei che aveva sempre accolto in sé
sentimenti puri e nobili, lei che aveva considerato il proprio sacrifizio come
un dovere: in un momento, perduta! Oh miseria! miseria! L'unica ragione che
sentiva di potere addurre in sua discolpa, che valore poteva avere davanti al
fratello?
Poteva dirgli: - 'Guarda, Giorgio, che sono forse caduta per te'? -
Eppure la verità era forse questa. Gli aveva fatto da madre, è vero? a quel
fratello. Ebbene: in premio di tutti i benefizii lietamente prodigati, in
premio del sacrifizio della propria vita, non le era stato concesso neanche il
piacere di scorgere un sorriso, anche lieve, di soddisfazione su le labbra di
lui e dell'amico. Pareva che avessero entrambi l'anima avvelenata di silenzio e
di noja, oppressa come da una scimunita angustia. Ottenuta la laurea, s'eran
subito buttati al lavoro, come due bestie; con tanto impegno, con tanto
accanimento che in poco tempo erano riusciti a bastare a se stessi. Ora, questa
fretta di sdebitarsi in qualche modo, come se a entrambi non ne paresse l'ora,
l'aveva proprio ferita nel cuore. Quasi d'un tratto, cosí, s'era trovata senza
piú scopo nella vita. Che le restava da fare, ora che i due giovani non avevano
piú bisogno di lei? E aveva perduto, irrimediabilmente, la gioventú. Neanche
coi primi guadagni della professione era tornato il sorriso su le labbra del
fratello. Sentiva forse ancora il peso del sacrifizio ch'ella aveva fatto per
lui? si sentiva forse vincolato da questo sacrifizio per tutta la vita,
condannato a sacrificare a sua volta la propria gioventú, la libertà dei
proprii sentimenti alla sorella?
E aveva voluto parlargli a cuore aperto: - Non prenderti nessun pensiero di me,
Giorgio! Io voglio soltanto vederti lieto, contento capisci? Ma egli le
aveva troncato subito in bocca le parole: - Zitta, zitta! Che dici? So quel che
debbo fare. Ora spetta a me. - Ma come? cosí? - avrebbe voluto gridargli, lei,
che, senza pensarci due volte, s'era sacrificata col sorriso sempre su le labbra
e il cuor leggero. Conoscendo la chiusa, dura ostinazione di lui, non aveva
insistito. Ma, intanto, non si sentiva di durare in quella tristezza
soffocante. Egli raddoppiava di giorno in giorno i guadagni della professione;
la circondava d'agi; aveva voluto che smettesse di dar lezioni. In quell'ozio
forzato, che la avviliva, aveva allora accolto, malauguratamente, un pensiero
che, dapprincipio, quasi l'aveva fatta ridere: 'Se trovassi marito!'.
Ma aveva già trentanove anni, e poi con quel corpo oh via! - avrebbe dovuto
fabbricarselo apposta, un marito. Eppure, sarebbe stato l'unico mezzo per
liberar sé e il fratello da quell'opprimente debito di gratitudine. Quasi senza
volerlo, s'era messa allora a curare insolitamente la persona, assumendo una
cert'aria di nubile che prima non s'era mai data. Quei due o tre che un tempo
l'avevano chiesta in matrimonio, avevano ormai moglie e figliuoli. Prima, non
se n'era mai curata; ora, a ripensarci, ne provava dispetto; provava invidia di
tante sue amiche che erano riuscite a procurarsi uno stato. Lei sola era
rimasta cosí Ma forse era in tempo ancora: chi sa? Doveva proprio chiudersi
cosí la sua vita sempre attiva? in quel vuoto? doveva spegnersi cosí quella
fiamma vigile del suo spirito appassionato? in quell'ombra? E un profondo
rammarico l'aveva invasa, inasprito talvolta da certe smanie, che alteravano le
sue grazie spontanee, il suono delle sue parole, delle sue risa. Era divenuta
pungente, quasi aggressiva nei discorsi. Si rendeva conto lei stessa del cangiamento
della propria indole; provava in certi momenti quasi odio per se stessa,
repulsione per quel suo corpo vigoroso, ribrezzo dei desiderii insospettati in
cui esso, ora, all'improvviso, le s'accendeva turbandola profondamente.
Il fratello, intanto, coi risparmii, aveva di recente acquistato un podere e vi
aveva fatto costruire un bel villino. Spinta da lui, vi era andata dapprima per
un mese in villeggiatura; poi, riflettendo che il fratello aveva forse
acquistato quel podere per sbarazzarsi di tanto in tanto di lei, aveva
deliberato di ritirarsi colà per sempre. Cosí, lo avrebbe lasciato libero del
tutto: non gli avrebbe piú dato la pena della sua compagnia, della sua vista, e
anche lei a poco a poco, là, si sarebbe tolta quella strana idea dal capo, di
trovar marito all'età sua. I primi giorni eran trascorsi bene, e aveva creduto
che le sarebbe stato facile seguitare cosí. Aveva già preso l'abitudine di
levarsi ogni giorno all'alba e di fare una lunga passeggiata per i campi,
fermandosi di tratto in tratto, incantata, ora per ascoltare nell'attonito
silenzio dei piani, ove qualche filo d'erba vicino abbrividiva alla frescura
dell'aria, il canto dei galli, che si chiamavano da un'aja all'altra; ora per
ammirare qualche masso tigrato di gromme verdi, o il velluto del lichene sul
vecchio tronco stravolto di qualche olivo saraceno. Ah, lí, cosí vicina alla
terra, si sarebbe presto rifatta un'altr'anima, un altro modo di pensare e di
sentire; sarebbe divenuta come quella buona moglie del mezzadro che si mostrava
cosí lieta di tenerle compagnia e che già le aveva insegnato tante cose della
campagna, tante cose pur cosí semplici della vita e che ne rivelano tuttavia un
nuovo senso profondo, insospettato.
Il mezzadro, invece, era insoffribile: si vantava d'aver idee larghe, lui:
aveva girato il mondo, lui; era stato in America, otto anni a Benossarie; e non
voleva che il suo unico figliuolo, Gerlando, fosse un vile zappaterra. Da
tredici anni, pertanto, lo manteneva alle scuole; voleva dargli 'un po' di
lettera', diceva, per poi spedirlo in America, là, nel gran paese, dove
senza dubbio avrebbe fatto fortuna. Gerlando aveva diciannove anni e in tredici
di scuola era arrivato appena alla terza tecnica. Era un ragazzone rude, tutto
d'un pezzo. Quella fissazione del padre costituiva per lui un vero martirio.
Praticando coi compagni di scuola, aveva preso, senza volere, una cert'aria di
città, che però lo rendeva piú goffo. A forza d'acqua, ogni mattina, riusciva a
rassettarsi i capelli ispidi, a tirarvi una riga da un lato; ma poi quei
capelli, rasciugati, gli si drizzavan compatti e irsuti di qua e di là, come se
gli schizzassero dalla cute del cranio; anche le sopracciglia pareva gli
schizzassero poco piú giú dalla fronte bassa, e già dal labbro e dal mento
cominciavano a schizzare i primi peli dei baffi e della barba, a cespuglietti.
Povero Gerlando! faceva compassione, cosí grosso, cosí duro, cosí ispido, con
un libro aperto davanti. Il padre doveva sudare una camicia, certe mattine, per
scuoterlo dai saporiti sonni profondi, di porcellone satollo e pago, e avviarlo
ancora intontito e barcollante, con gli occhi imbambolati, alla vicina città;
al suo martirio. Venuta in campagna la signorina, Gerlando le aveva fatto
rivolgere dalla madre la preghiera di persuadere al padre che la smettesse di
tormentarlo con questa scuola, con questa scuola, con questa scuola! Non ne
poteva piú! E difatti Eleonora s'era provata a intercedere; ma il mezzadro, -
ah, nonononò - ossequio, rispetto, tutto il rispetto per la signorina; ma anche
preghiera di non immischiarsi. Ed allora essa, un po' per pietà, un po' per
ridere, un po' per darsi da fare, s'era messa ad ajutare quel povero
giovanotto, fin dove poteva. Lo faceva, ogni dopo pranzo, venir su coi libri e
i quaderni della scuola. Egli saliva impacciato e vergognoso, perché
s'accorgeva che la padrona prendeva a goderselo per la sua balordaggine, per la
sua durezza di mente; ma che poteva farci? il padre voleva cosí. Per lo studio,
eh, sí: bestia; non aveva difficoltà a riconoscerlo; ma se si fosse trattato
d'atterrare un albero, un bue, eh perbacco - e Gerlando mostrava le braccia
nerborute, con certi occhi teneri e un sorriso di denti bianchi e forti
Improvvisamente, da un giorno all'altro, ella aveva troncato quelle lezioni; non
aveva piú voluto vederlo; s'era fatto portare dalla città il pianoforte e per
parecchi giorni s'era chiusa nella villa a sonare, a cantare, a leggere,
smaniosamente.
Una sera, in fine, s'era accorta che quel ragazzone, privato cosí d'un tratto
dell'ajuto di lei, della compagnia ch'ella gli concedeva e degli scherzi che si
permetteva con lui, s'appostava per spiarla, per sentirla cantare o sonare: e,
cedendo a una cattiva ispirazione, aveva voluto sorprenderlo, lasciando d'un
tratto il pianoforte e scendendo a precipizio la scala della villa.
- Che fai lí?
- Sto a sentire - Ti piace?
- Tanto, sí signora Mi sento in paradiso.
A questa dichiarazione era scoppiata a ridere; ma, all'improvviso, Gerlando,
come sferzato in faccia da quella risata, le era saltato addosso, lí, dietro la
villa, nel bujo fitto, oltre la zona di luce che veniva dal balcone aperto
lassú. Cosí era stato. Sopraffatta a quel modo, non aveva saputo respingerlo;
s'era sentita mancare - non sapeva piú come - sotto quell'impeto brutale e
s'era abbandonata, sí, cedendo pur senza voler concedere. Il giorno dopo, aveva
fatto ritorno in città. E ora? come mai Giorgio non entrava a svergognarla?
Forse il D'Andrea non gli aveva detto ancor nulla: forse pensava al modo di
salvarla. Ma come? Si nascose il volto tra le mani, quasi per non vedere il
vuoto che le s'apriva davanti. Ma era pur dentro di lei quel vuoto. E non c'era
rimedio. La morte sola. Quando? come? L'uscio, a un tratto, s'aprí, e Giorgio
apparve su la soglia scontraffatto, pallidissimo, coi capelli scompigliati e
gli occhi ancora rossi di pianto. Il D'Andrea lo teneva per un braccio.
- Voglio sapere questo soltanto, - disse alla sorella, a denti stretti, con
voce fischiante, quasi scandendo le sillabe: - Voglio sapere chi è stato.
Eleonora, a capo chino, con gli occhi chiusi, scosse lentamente il capo e
riprese a singhiozzare. - Me lo dirai, - gridò il Bandi, appressandosi,
trattenuto dall'amico.
- E chiunque sia, tu lo sposerai!
- Ma no, Giorgio! - gemette allora lei, raffondando vie piú il capo e
torcendosi in grembo le mani.
- No! non è possibile! non è possibile!
- È ammogliato? - domandò lui, appressandosi di piú, coi pugni serrati,
terribile.
- No, - s'affrettò a risponder lei.
- Ma non è possibile, credi!
- Chi è? - riprese il Bandi, tutto fremente, stringendola da presso.
- Chi è? subito, il nome! Sentendosi addosso la furia del fratello, Eleonora si
strinse nelle spalle, si provò a sollevare appena il capo e gemette sotto gli
occhi inferociti di lui: - Non posso dirtelo
- Il nome, o t'ammazzo! - ruggí allora il Bandi, levando un pugno sul capo di
lei.
Ma il D'Andrea s'interpose, scostò l'amico, poi gli disse severamente: - Tu
va'. Lo dirà a me. Va', va' E lo fece uscire, a forza, dalla camera.
III
Il fratello fu irremovibile.
Ne' pochi giorni che occorsero per le pubblicazioni di rito, prima del
matrimonio, s'accaní nello scandalo. Per prevenir le beffe che s'aspettava da
tutti, prese ferocemente il partito d'andar sbandendo la sua vergogna, con
orribili crudezze di linguaggio. Pareva impazzito; e tutti lo commiseravano.
Gli toccò, tuttavia, a combattere un bel po' col mezzadro, per farlo
condiscendere alle nozze del figliuolo. Quantunque d'idee larghe, il vecchio,
dapprima, parve cascasse dalle nuvole: non voleva creder possibile una cosa
simile.
Poi disse: - Vossignoria non dubiti: me lo pesterò sotto i piedi; sa come? come
si pigia l'uva. O piuttosto, facciamo cosí: glielo consegno, legato mani e
piedi; e Vossignoria si prenderà tutta quella soddisfazione che vuole. Il
nerbo, per le nerbate, glielo procuro io, e glielo tengo prima apposta tre
giorni in molle, perché picchi piú sodo. Quando però comprese che il padrone
non intendeva questo, ma voleva altro, il matrimonio, trasecolò di nuovo: -
Come! Che dice, Vossignoria? Una signorona di quella fatta col figlio d'un vile
zappaterra? E oppose un reciso rifiuto.
- Mi perdoni. Ma la signorina aveva il giudizio e l'età; conosceva il bene e il
male; non doveva far mai con mio figlio quello che fece. Debbo parlare? Se lo
tirava sú in casa tutti i giorni. Vossignoria m'intende Un ragazzaccio A
quell'età, non si ragiona, non si bada Ora ci posso perdere cosí il figlio,
che Dio sa quanto mi costa? La signorina. Con rispetto parlando, gli può esser
madre
Il Bandi dovette promettere la cessione in dote del podere e un assegno
giornaliero alla sorella. Cosí il matrimonio fu stabilito; e, quando ebbe
luogo, fu un vero avvenimento per quella cittaduzza. Parve che tutti provassero
un gran piacere nel far pubblicamente strazio dell'ammirazione, del rispetto
per tanti anni tributati a quella donna; come se tra l'ammirazione e il
rispetto, di cui non la stimavano piú degna, e il dileggio, con cui ora la
accompagnavano a quelle nozze vergognose, non ci potesse esser posto per un po'
di commiserazione.
La commiserazione era tutta per il fratello; il quale, s'intende, non volle
prender parte alla cerimonia. Non vi prese parte neanche il D'Andrea,
scusandosi che doveva tener compagnia, in quel triste giorno, al suo povero Giorgio.
Un vecchio medico della città, ch'era già stato di casa dei genitori
d'Eleonora, e a cui il D'Andrea, venuto di fresco dagli studii, con tutti i
fumi e le sofisticherie della novissima terapeutica, aveva tolto gran parte
della clientela, si profferse per testimonio e condusse con sé un altro
vecchio, suo amico, per secondo testimonio. Con essi Eleonora si recò in
vettura chiusa al Municipio; poi in una chiesetta fuorimano, per la cerimonia
religiosa. In un'altra vettura era lo sposo, Gerlando, torbido e ingrugnato,
coi genitori. Questi, parati a festa, stavano su di sé, gonfi e serii, perché,
alla fin fine, il figlio sposava una vera signora, sorella d'un avvocato, e gli
recava in dote una campagna con una magnifica villa, e denari per giunta.
Gerlando, per rendersi degno del nuovo stato, avrebbe seguitato gli studii. Al
podere avrebbe atteso lui, il padre, che se n'intendeva. La sposa era un po'
anzianotta? Tanto meglio! L'erede già c'era per via. Per legge di natura ella
sarebbe morta prima, e Gerlando allora sarebbe rimasto libero e ricco. Queste e
consimili riflessioni facevano anche, in una terza vettura, i testimonii dello
sposo, contadini amici del padre, in compagnia di due vecchi zii materni.
Gli altri parenti e amici dello sposo innumerevoli, attendevano nella villa,
tutti parati a festa, con gli abiti di panno turchino, gli uomini; con le
mantelline nuove e i fazzoletti dai colori piú sgargianti, le donne; giacché il
mezzadro, d'idee larghe, aveva preparato un trattamento proprio coi fiocchi. Al
municipio, Eleonora, prima d'entrare nell'aula dello stato civile, fu assalita
da una convulsione di pianto; lo sposo che si teneva discosto, in crocchio coi
parenti, fu spinto da questi ad accorrere; ma il vecchio medico lo pregò di non
farsi scorgere, di star lontano, per il momento. Non ben rimessa ancora da
quella crisi violenta, Eleonora entrò nell'aula; si vide accanto quel ragazzo,
che l'impaccio e la vergogna rendevano piú ispido e goffo; ebbe un impeto di
ribellione; fu per gridare: - No! No! - e lo guardò come per spingerlo a gridar
cosí anche lui. Ma poco dopo dissero sí tutti e due, come condannati a una pena
inevitabile. Sbrigata in gran fretta l'altra funzione nella chiesetta
solitaria, il triste corteo s'avviò alla villa.
Eleonora non voleva staccarsi dai due vecchi amici; ma le fu forza salire in
vettura con lo sposo e coi suoceri. Strada facendo, non fu scambiata una parola
nella vettura. Il mezzadro e la moglie parevano sbigottiti: alzavano di tanto
in tanto gli occhi per guardar di sfuggita la nuora; poi si scambiavano uno
sguardo e riabbassavano gli occhi. Lo sposo guardava fuori, tutto ristretto in
sé, aggrottato. In villa, furono accolti con uno strepitoso sparo di mortaretti
e grida festose e battimani. Ma l'aspetto e il contegno della sposa raggelarono
tutti i convitati, per quanto ella si provasse anche a sorridere a quella buona
gente, che intendeva farle festa a suo modo, come usa negli sposalizi. Chiese
presto licenza di ritirarsi sola; ma nella camera in cui aveva dormito durante
la villeggiatura, trovando apparecchiato il letto nuziale, s'arrestò di botto,
su la soglia: - Lí? con lui? No! Mai! Mai!
- E, presa da ribrezzo, scappò in un'altra camera: vi si chiuse a chiave; cadde
a sedere su una seggiola, premendosi forte, forte, il volto con tutt'e due le
mani. Le giungevano, attraverso l'uscio, le voci, le risa dei convitati, che
aizzavano di là Gerlando, lodandogli, piú che la sposa, il buon parentado che
aveva fatto e la bella campagna. Gerlando se ne stava affacciato al balcone e,
per tutta risposta, pieno d'onta, scrollava di tratto in tratto le poderose
spalle. Onta sí, provava onta d'esser marito a quel modo, di quella signora:
ecco! E tutta la colpa era del padre, il quale, per quella maledetta fissazione
della scuola, lo aveva fatto trattare al modo d'un ragazzaccio stupido e inetto
dalla signorina, venuta in villeggiatura, abilitandola a certi scherzi che lo
avevano ferito. Ed ecco, intanto, quel che n'era venuto. Il padre non pensava
che alla bella campagna. Ma lui, come avrebbe vissuto d'ora in poi, con quella
donna che gl'incuteva tanta soggezione, e che certo gliene voleva per la
vergogna e il disonore? Come avrebbe ardito d'alzar gli occhi in faccia a lei?
E, per giunta, il padre pretendeva ch'egli seguitasse a frequentar la scuola!
Figurarsi la baja che gli avrebbero data i compagni! Aveva venti anni piú di
lui, la moglie, e pareva una montagna, pareva Mentre Gerlando si travagliava
con queste riflessioni, il padre e la madre attendevano agli ultimi preparativi
del pranzo. Finalmente l'uno e l'altra entrarono trionfanti nella sala, dove
già la mensa era apparecchiata. Il servizio da tavola era stato fornito per
l'avvenimento da un trattore della città che aveva anche inviato un cuoco e due
camerieri per servire il pranzo. Il mezzadro venne a trovar Gerlando al balcone
e gli disse: - Va' ad avvertire tua moglie che a momenti sarà pronto.
- Non ci vado, gnornò! - grugní Gerlando, pestando un piede. - Andateci voi.
- Spetta a te, somarone! - gli gridò il padre. - Tu sei il marito: va'! -
Grazie tante Gnornò! non ci vado! - ripeté Gerlando, cocciuto, schermendosi.
Allora il padre, irato, lo tirò per il bavero della giacca e gli diede uno
spintone. - Ti vergogni, bestione? Ti ci sei messo, prima? E ora ti vergogni?
Va'! È tua moglie! I convitati accorsero a metter pace, a persuadere Gerlando a
andare. - Che male c'è? Le dirai che venga a prendere un boccone
- Ma se non so neppure come debba chiamarla! - gridò Gerlando, esasperato.
Alcuni convitati scoppiarono a ridere, altri furono pronti a trattenere il
mezzadro che s'era lanciato per schiaffeggiare il figlio imbecille che gli
guastava cosí la festa preparata con tanta solennità e tanta spesa.
- La chiamerai col suo nome di battesimo, - gli diceva intanto, piano e persuasiva,
la madre.
- Come si chiama? Eleonora, è vero? e tu chiamala Eleonora. Non è tua moglie?
Va', figlio mio, va' E, cosí dicendo, lo avviò alla camera nuziale. Gerlando
andò a picchiare all'uscio. Picchiò una prima volta, piano. Attese. Silenzio. Come
le avrebbe detto? Doveva proprio darle del tu, cosí alla prima? Ah, maledetto
impiccio! E perché, intanto, ella non rispondeva? Forse non aveva inteso.
Ripicchiò piú forte. Attese. Silenzio. Allora, tutto impacciato, si provò a
chiamare a bassa voce, come gli aveva suggerito la madre. Ma gli venne fuori un
Eneolora cosí ridicolo, che subito, come per cancellarlo, chiamò forte, franco:
- Eleonora! Intese alla fine la voce di lei che domandava dietro l'uscio di
un'altra stanza: - Chi è? S'appressò a quell'uscio, col sangue tutto
rimescolato.
- Io, - disse - io Ger Gerlando È pronto.
- Non posso, - rispose lei. - Fate senza di me. Gerlando tornò in sala,
sollevato da un gran peso.
- Non viene! Dice che non viene! Non può venire! - Viva il bestione! - esclamò
allora il padre, che non lo chiamava altrimenti. - Le hai detto ch'era in
tavola? E perché non l'hai forzata a venire? La moglie s'interpose: fece
intendere al marito che sarebbe stato meglio, forse, lasciare in pace la sposa,
per quel giorno. I convitati approvarono.
- L'emozione il disagio si sa! Ma il mezzadro che s'era inteso di
dimostrare alla nuora che, all'occorrenza, sapeva far l'obbligo suo, rimase
imbronciato e ordinò con mala grazia che il pranzo fosse servito. C'era il
desiderio dei piatti fini, ch'ora sarebbero venuti in tavola, ma c'era anche in
tutti quei convitati una seria costernazione per tutto quel superfluo che
vedevano luccicar sulla tovaglia nuova, che li abbagliava: quattro bicchieri di
diversa forma e forchette e forchettine, coltelli e coltellini, e certi
pennini, poi, dentro gl'involtini di cartavelina.
Seduti ben discosti dalla tavola, sudavano anche per i grevi abiti di panno
della festa, e si guardavano nelle facce dure, arsicce, svisate dall'insolita
pulizia; e non osavano alzar le grosse mani sformate dai lavori della campagna
per prendere quelle forchette d'argento (la piccola o la grande?) e quei
coltelli, sotto gli occhi dei camerieri che, girando coi serviti, con quei
guanti di filo bianco incutevano loro una terribile soggezione.
Il mezzadro, intanto, mangiando, guardava il figlio e scrollava il capo, col
volto atteggiato di derisoria commiserazione: - Guardatelo, guardatelo! -
borbottava tra sé.
- Che figura ci fa, lí solo, spajato, a capo tavola? Come potrà la sposa aver
considerazione per uno scimmione cosí fatto? Ha ragione, ha ragione di
vergognarsi di lui. Ah, se fossi stato io al posto suo! Finito il pranzo fra la
musoneria generale, i convitati, con una scusa o con un'altra, andarono via.
Era già quasi sera.
- E ora? - disse il padre a Gerlando, quando i due camerieri finirono di
sparecchiar la tavola, e tutto nella villa ritornò tranquillo.
- Che farai, ora? Te la sbroglierai tu! E ordinò alla moglie di seguirlo nella
casa colonica, ove abitavano, poco discosto dalla villa. Rimasto solo, Gerlando
si guardò attorno, aggrondato, non sapendo che fare. Sentí nel silenzio la
presenza di quella che se ne stava chiusa di là. Forse, or ora, non sentendo
piú alcun rumore, sarebbe uscita dalla stanza. Che avrebbe dovuto far lui,
allora? Ah, come volentieri se ne sarebbe scappato a dormire nella casa
colonica, presso la madre, o anche giú all'aperto. Sotto un albero, magari! E
se lei intanto s'aspettava d'esser chiamata? Se, rassegnata alla condanna che
aveva voluto infliggerle il fratello, si riteneva in potere di lui, suo marito,
e aspettava che egli la sí, la invitasse a Tese l'orecchio. Ma no: tutto
era silenzio. Forse s'era già addormentata. Era già bujo. Il lume della luna
entrava, per il balcone aperto, nella sala. Senza pensar d'accendere il lume,
Gerlando prese una seggiola e si recò a sedere al balcone, che guardava
tutt'intorno, dall'alto, l'aperta campagna declinante al mare laggiú in fondo,
lontano.
Nella notte chiara splendevano limpide le stelle maggiori; la luna accendeva
sul mare una fervida fascia d'argento; dai vasti piani gialli di stoppia si
levava tremulo il canto dei grilli, come un fitto, continuo scampanellío. A un
tratto, un assiolo, da presso, emise un chiú languido, accorante; da lontano un
altro gli rispose, come un'eco, e tutti e due seguitarono per un pezzo a
singultar cosí, nella chiara notte. Con un braccio appoggiato alla ringhiera
del balcone, egli allora, istintivamente, per sottrarsi all'oppressione di
quell'incertezza smaniosa, fermò l'udito a quei due chiú che si rispondevano
nel silenzio incantato dalla luna; poi, scorgendo laggiú in fondo un tratto del
muro che cingeva tutt'intorno il podere, pensò che ora tutta quella terra era
sua; suoi quegli alberi: olivi, mandorli, carrubi, fichi, gelsi; sua quella
vigna. Aveva ben ragione d'esserne contento il padre, che d'ora in poi non
sarebbe stato piú soggetto a nessuno.
Alla fin fine, non era tanto stramba l'idea di fargli seguitare gli studii.
Meglio lí, meglio a scuola, che qua tutto il giorno, in compagnia della moglie.
A tenere a posto quei compagni che avessero voluto ridere alle sue spalle, ci
avrebbe pensato lui. Era un signore, ormai, e non gl'importava piú se lo
cacciavano via dalla scuola. Ma questo non sarebbe accaduto. Anzi egli si
proponeva di studiare d'ora innanzi con impegno, per potere un giorno, tra
breve, figurare tra i 'galantuomini' del paese, senza piú sentirne
soggezione, e parlare e trattare con loro, da pari a pari. Gli bastavano altri
quattro anni di scuola per aver la licenza dell'Istituto tecnico: e poi, perito
agronomo o ragioniere. Suo cognato allora, il signor avvocato, che pareva
avesse buttato là, ai cani, la sorella, avrebbe dovuto fargli tanto di
cappello. Sissignori. E allora egli avrebbe avuto tutto il diritto di dirgli:
'Che mi hai dato? A me, quella vecchia? Io ho studiato, ho una professione
da signore e potevo aspirare a una bella giovine, ricca e di buoni natali come
lei!'. Cosí pensando, s'addormentò con la fronte sul braccio appoggiato alla
ringhiera. I due chiú seguitavano, l'uno qua presso, l'altro lontano, il loro
alterno lamentío voluttuoso; la notte chiara pareva facesse tremolar su la
terra il suo velo di luna sonoro di grilli, e arrivava ora da lontano, come
un'oscura rampogna, il borboglío profondo del mare.
A notte avanzata, Eleonora apparve, come un'ombra, su la soglia del balcone.
Non s'aspettava di trovarvi il giovine addormentato. Ne provò pena e timore
insieme. Rimase un pezzo a pensare se le convenisse svegliarlo per dirgli quanto
aveva tra sé stabilito e toglierlo di lí; ma, sul punto di scuoterlo, di
chiamarlo per nome, sentí mancarsi l'animo e si ritrasse pian piano, come
un'ombra, nella camera dond'era uscita.
IV
L'intesa fu facile.
Eleonora, la mattina dopo, parlò maternamente a Gerlando: lo lasciò padrone di tutto, libero di fare quel che gli sarebbe piaciuto, come se tra loro non ci fosse alcun vincolo. Per sé domandò solo d'esser lasciata lí, da canto, in quella cameretta, insieme con la vecchia serva di casa, che l'aveva vista nascere. Gerlando, che a notte inoltrata s'era tratto dal balcone tutto indurito dall'umido a dormire sul divano della sala da pranzo, ora, cosí sorpreso nel sonno, con una gran voglia di stropicciarsi gli occhi coi pugni, aprendo la bocca per lo sforzo d'aggrottar le ciglia, perché voleva mostrare non tanto di capire, quanto d'esser convinto, disse a tutto di sí, di sí, col capo. Ma il padre e la madre, quando seppero di quel patto, montarono su tutte le furie, e invano Gerlando si provò a far intender loro che gli conveniva cosí, che anzi ne era piú che contento. Per quietare in certo qual modo il padre, dovette promettere formalmente che, ai primi d'ottobre, sarebbe ritornato a scuola. Ma, per ripicco, la madre gl'impose di scegliersi la camera piú bella per dormire, la camera piú bella per studiare, la camera piú bella per mangiare tutte le camere piú belle!
- E comanda tu, a
bacchetta, sai! Se no, vengo io a farti ubbidire e rispettare. Giurò infine che
non avrebbe mai piú rivolto la parola a quella smorfiosa che le disprezzava
cosí il figlio, un cosí bel pezzo di giovanotto, che colei non era neanco degna
di guardare. Da quel giorno stesso, Gerlando si mise a studiare, a riprendere
la preparazione interrotta per gli esami di riparazione. Era già tardi,
veramente: aveva appena ventiquattro giorni innanzi a sé; ma, chi sa!
mettendoci un po' d'impegno, forse sarebbe riuscito a prendere finalmente
quella licenza tecnica, per cui si torturava da tre anni. Scosso lo
sbalordimento angoscioso dei primi giorni, Eleonora, per consiglio della
vecchia serva, si diede a preparare il corredino per il nascituro. Non ci aveva
pensato, e ne pianse. Gesa, la vecchia serva, la ajutò, la guidò in quel
lavoro, per cui era inesperta: le diede la misura per le prime camicine, per le
prime cuffiette Ah, la sorte le serbava questa consolazione, e lei non ci
aveva ancora pensato; avrebbe avuto un piccino, una piccina a cui attendere, a
cui consacrarsi tutta! Ma Dio doveva farle la grazia di mandarle un maschietto.
Era già vecchia, sarebbe morta presto, e come avrebbe lasciato a quel padre una
femminuccia, a cui lei avrebbe ispirato i suoi pensieri, i suoi sentimenti? Un
maschietto avrebbe sofferto meno di quella condizione d'esistenza, in cui fra
poco la mala sorte lo avrebbe messo. Angosciata da questi pensieri, stanca del
lavoro, per distrarsi, prendeva in mano uno di quei libri che l'altra volta
s'era fatti spedire dal fratello, e si metteva a leggere.
Ogni tanto, accennando col capo, domandava alla serva: - Che fa? Gesa si
stringeva nelle spalle, sporgeva il labbro, poi rispondeva: - Uhm! Sta con la
testa sul libro. Dorme? Pensa? Chi sa! Pensava, Gerlando: pensava che, tirate
le somme, non era molto allegra la sua vita. Ecco qua: aveva il podere, ed era
come se non lo avesse; la moglie, e come se non l'avesse; in guerra coi
parenti; arrabbiato con se stesso, che non riusciva a ritener nulla, nulla,
nulla di quanto studiava. E in quell'ozio smanioso, intanto, si sentiva dentro
come un fermento d'acri desiderii; fra gli altri, quello della moglie, perché
gli s'era negata. Non era piú desiderabile, è vero, quella donna. Ma che
patto era quello? Egli era il marito, e doveva dirlo lui, se mai. Si alzava;
usciva dalla stanza; passava innanzi all'uscio della camera di lei; ma subito,
intravedendola, sentiva cadersi ogni proposito di ribellione. Sbuffava e, tanto
per non riconoscere che sul punto gliene mancava l'animo, diceva a se stesso
che non ne valeva la pena. Uno di quei giorni, finalmente tornò dalla città sconfitto,
bocciato, bocciato ancora una volta agli esami di licenza tecnica. E ora basta!
basta davvero! Non voleva piú saperne! Prese libri, quaderni, disegni, squadre,
astucci, matite e li portò giú, innanzi alla villa per farne un falò. Il padre
accorse per impedirglielo; ma Gerlando, imbestialito, si ribellò: - Lasciatemi
fare! Sono il padrone! Sopravvenne la madre; accorsero anche alcuni contadini
che lavoravano nella campagna. Una fumicaja prima rada, poi a mano a mano piú
densa si sprigionò, tra le grida degli astanti, da quel mucchio di carte; poi
un bagliore; poi crepitò la fiamma e si levò. Alle grida, si fecero al balcone
Eleonora e la serva. Gerlando, livido e gonfio come un tacchino, scagliava alle
fiamme, scamiciato, furibondo, gli ultimi libri che teneva sotto il braccio,
gli strumenti della sua lunga inutile tortura.
Eleonora si tenne a stento di ridere, a quello spettacolo, e si ritrasse in
fretta dal balcone. Ma la suocera se ne accorse e disse al figlio: - Ci prova
gusto, sai? la signora; la fai ridere.
- Piangerà! - gridò allora Gerlando, minaccioso, levando il capo verso il
balcone. Eleonora intese la minaccia e impallidí: comprese che la stanca e
mesta quiete, di cui aveva goduto finora, era finita per lei. Nient'altro che
un momento di tregua le aveva concesso la sorte. Ma che poteva voler da lei
quel bruto? Ella era già esausta: un altro colpo, anche lieve, l'avrebbe
atterrata. Poco dopo, si vide innanzi Gerlando, fosco e ansante. - Si cangia
vita da oggi! - le annunziò.
- Mi son seccato. Mi metto a fare il contadino, come mio padre; e dunque tu
smetterai di far la signora costà. Via, via tutta codesta biancheria! Chi
nascerà sarà contadino anche lui, e dunque senza tanti lisci e tante gale.
Licenzia la serva: farai tu da mangiare e baderai alla casa, come fa mia madre.
Inteso? Eleonora si levò, pallida e vibrante di sdegno: - Tua madre è tua
madre, - gli disse, guardandolo fieramente negli occhi. - Io sono io, e non
posso diventare con te, villano, villana.
- Mia moglie sei! - gridò allora Gerlando, appressandosi violento e
afferrandola per un braccio.
- E farai ciò che voglio io; qua comando io, capisci? Poi si volse alla vecchia
serva e le indicò l'uscio: - Via! Voi andate subito via! Non voglio serve per
la casa!
- Vengo con te, Gesa! - gridò Eleonora cercando di svincolare il braccio che
egli le teneva ancora afferrato. Ma Gerlando non glielo lasciò; glielo strinse
piú forte; la costrinse a sedere.
- No! Qua! Tu rimani qua, alla catena, con me! Io per te mi son prese le beffe:
ora basta! Vieni via, esci da codesto tuo covo. Non voglio star piú solo a
piangere la mia pena. Fuori! Fuori! E la spinse fuori della camera.
- E che hai tu pianto finora? - gli disse lei con le lagrime a gli occhi.
- Che ho preteso, io da te? - Che hai preteso? Di non aver molestie, di non
aver contatto con me, quasi che io fossi che non meritassi confidenza da te,
matrona! E m'hai fatto servire a tavola da una salariata, mentre toccava a te a
servirmi, di tutto punto, come fanno le mogli. - Ma che n'hai da fare tu, di
me? - gli domandò, avvilita, Eleonora.
- Ti servirò, se vuoi, con le mie mani, d'ora in poi. Va bene? Ruppe, cosí
dicendo, in singhiozzi, poi sentí mancarsi le gambe e s'abbandonò. Gerlando,
smarrito, confuso, la sostenne insieme con Gesa, e tutt'e due la adagiarono su
una seggiola. Verso sera, improvvisamente, fu presa dalle doglie. Gerlando,
pentito, spaventato, corse a chiamar la madre: un garzone fu spedito in città
per una levatrice; mentre il mezzadro, vedendo già in pericolo il podere, se la
nuora abortiva, bistrattava il figlio: - Bestione, bestione, che hai fatto? E
se ti muore, adesso? Se non hai piú figli? Sei in mezzo a una strada! Che
farai? Hai lasciato la scuola e non sai neppur tenere la zappa in mano. Sei
rovinato!
- Che me ne importa? - gridò Gerlando. - Purché non abbia nulla lei!
Sopravvenne la madre, con le braccia per aria: - Un medico! Ci vuole subito un
medico! La vedo male! - Che ha? - domandò Gerlando, allibito. Ma il padre lo
spinse fuori: - Corri! Corri! Per via, Gerlando, tutto tremante, s'avvilí, si
mise a piangere, sforzandosi tuttavia di correre. A mezza strada s'imbatté
nella levatrice che veniva in vettura col garzone.
- Caccia! caccia! - gridò.
- Vado pel medico, muore! Inciampò, stramazzò; tutto impolverato, riprese a
correre, disperatamente, addentandosi la mano che s'era scorticata. Quando
tornò col medico alla villa, Eleonora stava per morire, dissanguata.
- Assassino! assassino! - nicchiava Gesa, attendendo alla padrona.
- Lui è stato! Ha osato di metterle le mani addosso. Eleonora però negava col
capo. Si sentiva a mano a mano, col sangue, mancar la vita, a mano a mano le
forze raffievolendo scemare; era già fredda Ebbene: non si doleva di morire;
era pur dolce cosí la morte, un gran sollievo, dopo le atroci sofferenze. E,
col volto come di cera, guardando il soffitto, aspettava che gli occhi le si
chiudessero da sé, pian piano, per sempre. Già non distingueva piú nulla. Come
in sogno rivide il vecchio medico che le aveva fatto da testimonio; e gli
sorrise.
V
Gerlando non si
staccò dalla sponda del letto, né giorno né notte, per tutto il tempo che
Eleonora vi giacque tra la vita e la morte. Quando finalmente dal letto poté
esser messa a sedere sul seggiolone, parve un'altra donna: diafana, quasi
esangue. Si vide innanzi Gerlando, che sembrava uscito anch'esso da una mortale
malattia, e premurosi attorno i parenti di lui.
Li guardava coi begli occhi neri ingranditi e dolenti nella pallida
magrezza, e le pareva che ormai nessuna relazione esistesse piú tra essi e lei,
come se ella fosse or ora tornata, nuova e diversa, da un luogo remoto, dove
ogni vincolo fosse stato infranto, non con essi soltanto, ma con tutta la vita
di prima. Respirava con pena; a ogni menomo rumore il cuore le balzava in petto
e le batteva con tumultuosa repenza; una stanchezza greve la opprimeva. Allora,
col capo abbandonato su la spalliera del seggiolone, gli occhi chiusi, si
rammaricava dentro di sé di non esser morta. Che stava piú a farci, lí? perché
ancora quella condanna per gli occhi di veder quei visi attorno e quelle cose,
da cui già si sentiva tanto, tanto lontana? Perché quel ravvicinamento con le
apparenze opprimenti e nauseanti della vita passata, ravvicinamento che
talvolta le pareva diventasse piú brusco, come se qualcuno la spingesse di
dietro, per costringerla a vedere, a sentir la presenza, la realtà viva e
spirante della vita odiosa, che piú non le apparteneva? Credeva fermamente che
non si sarebbe rialzata mai piú da quel seggiolone; credeva che da un momento
all'altro sarebbe morta di crepacuore. E no, invece; dopo alcuni giorni, poté
levarsi in piedi, muovere, sorretta, qualche passo per la camera; poi, col
tempo, anche scendere la scala e recarsi all'aperto, a braccio di Gerlando e
della serva. Prese infine l'abitudine di recarsi sul tramonto fino all'orlo del
ciglione che limitava a mezzogiorno il podere. S'apriva di là la magnifica
vista della piaggia sottostante all'altipiano, fino al mare laggiú. Vi si recò
i primi giorni accompagnata, al solito, da Gerlando e da Gesa; poi, senza
Gerlando; infine, sola. Seduta su un masso, all'ombra d'un olivo centenario,
guardava tutta la riviera lontana che s'incurvava appena, a lievi lunate, a
lievi seni, frastagliandosi sul mare che cangiava secondo lo spirare dei venti;
vedeva il sole ora come un disco di fuoco affogarsi lentamente tra le brume
muffose sedenti sul mare tutto grigio, a ponente, ora calare in trionfo su le
onde infiammate, tra una pompa meravigliosa di nuvole accese; vedeva nell'umido
cielo crepuscolare sgorgar liquida e calma la luce di Giove, avvivarsi appena
la luna diafana e lieve; beveva con gli occhi la mesta dolcezza della sera
imminente, e respirava, beata, sentendosi penetrare fino in fondo all'anima il
fresco, la quiete, come un conforto sovrumano. Intanto, di là, nella casa
colonica, il vecchio mezzadro e la moglie riprendevano a congiurare a danno di
lei, istigando il figliuolo a provvedere a' suoi casi.
- Perché la lasci sola? - badava a dirgli il padre.
- Non t'accorgi che lei, ora, dopo la malattia, t'è grata dell'affezione che le
hai dimostrata? Non la lasciare un momento, cerca d'entrarle sempre piú nel
cuore; e poi e poi ottieni che la serva non si corichi piú nella stessa
camera con lei. Ora lei sta bene e non ne ha piú bisogno, la notte. Gerlando,
irritato, si scrollava tutto, a questi suggerimenti. - Ma neanche per sogno! Ma
se non le passa piú neanche per il capo che io possa Ma che! Mi tratta come
un figliuolo Bisogna sentire che discorsi mi fa! Si sente già vecchia,
passata e finita per questo mondo. Che!
- Vecchia? - interloquiva la madre. - Certo, non è piú una bambina; ma vecchia
neppure; e tu
- Ti levano la terra! - incalzava il padre. - Te l'ho già detto: sei rovinato,
in mezzo a una strada. Senza figli, morta la moglie, la dote torna ai parenti
di lei. E tu avrai fatto questo bel guadagno; avrai perduto la scuola e tutto
questo tempo, cosí, senza nessuna soddisfazione Neanche un pugno di mosche!
Pensaci, pensaci a tempo: già troppo ne hai perduto Che speri? - Con le
buone, - riprendeva, manierosa, la madre. - Tu devi andarci con le buone, e
magari dirglielo: 'Vedi? che n'ho avuto io, di te? t'ho rispettato, come
tu hai voluto; ma ora pensa un po' a me, tu: come resto io? che farò, se tu mi
lasci cosí?'. Alla fin fine, santo Dio, non deve andare alla guerra!
- E puoi soggiungere, - tornava a incalzare il padre, - puoi soggiungere:
'Vuoi far contento tuo fratello che t'ha trattata cosí? farmi cacciar via
di qua come un cane, da lui?'. È la santa verità, questa, bada! Come un cane
sarai cacciato, a pedate, e io e tua madre, poveri vecchi, con te. Gerlando non
rispondeva nulla. Ai consigli della madre provava quasi un sollievo, ma
irritante, come una vellicazione; le previsioni del padre gli movevano la bile,
lo accendevano d'ira. Che fare? Vedeva la difficoltà dell'impresa e ne vedeva
pure la necessità impellente. Bisognava a ogni modo tentare. Eleonora, adesso,
sedeva a tavola con lui.
Una sera, a cena, vedendolo con gli occhi fissi su la tovaglia, pensieroso, gli
domandò: - Non mangi? che hai? Quantunque da alcuni giorni egli s'aspettasse
questa domanda provocata dal suo stesso contegno, non seppe sul punto
rispondere come aveva deliberato, e fece un gesto vago con la mano. - Che hai?
- insistette Eleonora. - Nulla, - rispose, impacciato, Gerlando.
- Mio padre, al solito
- Daccapo con la scuola? - domandò lei sorridendo, per spingerlo a parlare.
- No: peggio, - diss'egli.
- Mi pone mi pone davanti tante ombre, m'affligge col col pensiero del
mio avvenire, poiché lui è vecchio, dice, e io cosí, senza né arte né parte:
finché ci sei tu, bene; ma poi poi, niente, dice
- Di' a tuo padre, - rispose allora, con gravità, Eleonora, socchiudendo gli
occhi, quasi per non vedere il rossore di lui, - di' a tuo padre che non
se ne dia pensiero. Ho provveduto io a tutto, digli, e che stia dunque
tranquillo. Anzi, giacché siamo a questo discorso, senti: se io venissi a
mancare d'un tratto - siamo della vita e della morte - nel secondo cassetto del
canterano, nella mia camera, troverai in una busta gialla una carta per te.
- Una carta? - ripeté Gerlando, non sapendo che dire, confuso di vergogna.
Eleonora accennò di sí col capo, e soggiunse: - Non te ne curare. Sollevato e
contento, Gerlando, la mattina dopo, riferí ai genitori quanto gli aveva detto
Eleonora; ma quelli, specialmente il padre, non ne furono per nulla
soddisfatti.
- Carta? Imbrogli! Che poteva essere quella carta? Il testamento: la donazione
cioè del podere al marito. E se non era fatta in regola e con tutte le forme?
Il sospetto era facile, atteso che si trattava della scrittura privata d'una
donna, senza l'assistenza d'un notajo. E poi, non si doveva aver da fare col
cognato, domani, uomo di legge, imbroglione?
- Processi, figlio mio? Dio te ne scampi e liberi! La giustizia non è per i
poverelli. E quello là, per la rabbia, sarà capace di farti bianco il nero
e nero il bianco. E inoltre, quella carta, c'era davvero, là, nel
cassetto del canterano? O glie l'aveva detto per non esser molestata?
- Tu l'hai veduta? No. E allora? Ma, ammesso che te la faccia vedere, che ne
capisci tu? che ne capiamo noi? Mentre con un figliuolo là! Non ti lasciare
infinocchiare: da' ascolto a noi! Carne! carne! che carta! Cosí un giorno
Eleonora, mentre se ne stava sotto a quell'olivo sul ciglione, si vide
all'improvviso accanto Gerlando, venuto furtivamente. Era tutta avvolta in un
ampio scialle nero. Sentiva freddo, quantunque il febbrajo fosse cosí
mite, che già pareva primavera. La vasta piaggia, sotto, era tutta verde di
biade; il mare, in fondo, placidissimo, riteneva insieme col cielo una tinta
rosea un po' sbiadita, ma soavissima, e le campagne in ombra parevano smaltate.
Stanca di mirare, nel silenzio, quella meravigliosa armonia di colori, Eleonora
aveva appoggiato il capo al tronco dell'olivo. Dallo scialle nero tirato
sul capo si scopriva soltanto il volto, che pareva anche piú pallido.
- Che fai? - le domandò Gerlando.
- Mi sembri una Madonna Addolorata. - Guardavo gli rispose lei, con un
sospiro, socchiudendo gli occhi. Ma lui riprese: - Se vedessi come come stai
bene cosí, con codesto scialle nero - Bene? - disse Eleonora,
sorridendo mestamente. - Sento freddo! - No, dico, bene di di di figura,
- spiegò egli, balbettando, e sedette per terra accanto al masso. Eleonora, col
capo appoggiato al tronco, richiuse gli occhi, sorrise per non piangere,
assalita dal rimpianto della sua gioventú perduta cosí miseramente.
A diciott'anni, sí, era stata pur bella, tanto! A un tratto, mentre se ne stava
cosí assorta, s'intese scuotere leggermente.
- Dammi una mano, - le chiese egli da terra, guardandola con occhi lustri. Ella
comprese; ma finse di non comprendere. - La mano? Perché? - gli domandò. - Io
non posso tirarti su: non ho piú forza, neanche per me È già sera, andiamo.
E si alzò.
- Non dicevo per tirarmi su, - spiegò di nuovo Gerlando, da terra.
- Restiamo qua, al bujo; è tanto bello Cosí dicendo, fu lesto ad
abbracciarle i ginocchi, sorridendo nervosamente, con le labbra aride.
- No! - gridò lei.
- Sei pazzo? Lasciami! Per non cadere, s'appoggiò con le braccia a gli omeri di
lui e lo respinse indietro. Ma lo scialle, a quell'atto, si svolse, e, com'ella
se ne stava curva su lui sorto in ginocchio, lo avvolse, lo nascose dentro.
- No: ti voglio! ti voglio! - diss'egli, allora, com'ebbro, stringendola
vieppiú con un braccio, mentre con l'altro le cercava, piú su, la vita, avvolto
nell'odore del corpo di lei. Ma ella, con uno sforzo supremo, riuscí a
svincolarsi; corse fino all'orlo del ciglione; si voltò; gridò: - Mi butto! In
quella, se lo vide addosso, violento; si piegò indietro, precipitò giú dal
ciglione. Egli si rattenne a stento, allibito, urlando, con le braccia levate.
Udí un tonfo terribile, giú. Sporse il capo. Un mucchio di vesti nere,
tra il verde della piaggia sottostante. E lo scialle, che s'era aperto al
vento, andava a cadere mollemente, cosí aperto, piú in là. Con le mani tra i
capelli, si voltò a guardare verso la casa campestre; ma fu colpito negli occhi
improvvisamente dall'ampia faccia pallida della Luna sorta appena dal folto
degli olivi lassú; e rimase atterrito a mirarla, come se quella dal cielo
avesse veduto e lo accusasse.
I colori percepiti come sonda di esplorazione della coscienza e specchio della complessità e problematicità dell'Io.
Il tema tipicamente pirandelliano del doppio e delle moltiplicazioni dell'Io è qui svolto interamente attraverso un sistema oppositivo dei due colori che il titolo preannuncia ed evoca immediatamente. All'interno di esso si distribuiscono e si articolano tutti i gesti di un uomo, la sua solitudine monologante, i soliloqui, i viaggi, la decisione finale: dal buio, nero, dell'inizio, al rosso del cielo 'tutto in fiamme' e delle acque del mare 'incendiate', fino al buio, di nuovo sopraggiunto, della fine, con l''enorme, nera, orrida imminenza irreparabile' della morte.
I
I Tra i rami degli
alberi che formavano quasi un portico verde e lieve al viale lunghissimo
attorno alle mura della vecchia città, la luna, comparendo all'improvviso, di
sorpresa, pareva dicesse a un uomo d'altissima statura, che, in un'ora cosí
insolita, s'avventurava solo a quel bujo mal sicuro: - Sí, ma io ti vedo.
E come se veramente si vedesse scoperto, l'uomo si fermava e, spalmando le
manacce sul petto, esclamava con intensa esasperazione: - Io, già! io! Ciunna!
Via via, sul suo capo, tutte le foglie allora, frusciando infinitamente, pareva
si confidassero quel nome: - Ciunna Ciunna. - come se, conoscendolo da tanti
anni, sapessero perché egli, a quell'ora, passeggiava cosí solo per il pauroso
viale. E seguitavano a bisbigliar di lui con mistero e di quel che aveva
fatto ssss. Ciunna! Ciunna! Lui allora si guardava dietro, nel bujo lungo
del viale interrotto qua e là da tante fantasime di luna; chi sa qualcuno
ssss. Si guardava intorno e, imponendo silenzio a se stesso e alle foglie
ssss si rimetteva a passeggiare, con le mani afferrate dietro la schiena.
Zitto zitto, duemila e settecento lire. Duemila e settecento lire sottratte
alla cassa del magazzino generale dei tabacchi. Dunque reo ssss di
peculato. Domani sarebbe arrivato l'Ispettore: - Ciunna, qui mancano duemila e
settecento lire.
- Sissignore. Me le son prese io, signor Ispettore.
- Prese? Come? - Con due dita, signor Ispettore.
- Ah sí? Bravo Ciunna! Prese come un pizzico di rapé? Le mie congratulazioni,
da una parte; dall'altra, se non vi dispiace, favorite in prigione.
- Ah no, ah mi scusi, signor cavaliere. Mi dispiace anzi moltissimo. Tanto che,
se lei permette, guardi: domani Ciunna se ne scenderà in carrozza giú alla
Marina.
Con le due medaglie del Sessanta sul petto e un bel ciondolo di dieci chili
legato al collo come un abitino, si butterà a mare, signor cavaliere. La morte
è brutta; ha le gambe secche; ma Ciunna, dopo sessantadue anni di vita
intemerata, in prigione non ci va. Da quindici giorni, questi strambi
soliloquii dialogati, con accompagnamento di gesti vivacissimi. E, come tra i
rami la luna, facevan capolino in questi soliloquii un po' tutti i suoi
conoscenti, che eran soliti di pigliarselo a godere per la comica stranezza del
carattere e il modo di parlare.
- Per te, Niccolino! - seguitava infatti il Ciunna, rivolgendosi mentalmente al
figliuolo.
- Per te ho rubato! Ma non credere che ne sia pentito. Quattro bambini, signore
Iddio, quattro bambini in mezzo alla strada! E tua moglie, Niccolino, che fa?
Niente, ride: incinta di nuovo. Quattro e uno, cinque. Benedetta! Prolífica,
figliuolo mio, prolífica; pòpola di piccoli Ciunna il paese! Visto che la
miseria non ti concede altra soddisfazione, prolífica, figliuolo! I pesci, che
domani si mangeranno tuo papà, avranno poi l'obbligo di dar da mangiare a te e
alla numerosa tua figliolanza. Paranze della Marina, un carico di pesci ogni giorno
per i miei nipotini! Quest'obbligo dei pesci gli sovveniva adesso; perché, fino
a pochi giorni addietro, s'era invece esortato cosí: - Veleno! veleno! la
meglio morte! Una pilloletta, e buona notte! E s'era procurato, per mezzo
dell'inserviente dell'Istituto chimico, alcuni pezzetti cristallini d'anidride
arseniosa.
Con quei pezzetti in tasca, era anzi andato a confessarsi. - Morire, sta bene;
ma in grazia di Dio. - Col veleno intanto, no! - soggiungeva adesso.
- Troppi spasimi. L'uomo è vile; grida ajuto; e se mi salvano? No no, lí,
meglio: a mare. Le medaglie, sul petto; il ciondolino al collo e patapúmfete.
Poi: tanto di pancia. Signori, un garibaldino galleggiante: cetaceo di nuova
specie! Di' sú, Ciunna, che c'è in mare? Pesciolini, Ciunna, che hanno fame,
come i tuoi nipotini in terra, come gli uccellini in cielo. Avrebbe fissato la
vettura per il domani. Alle sette del mattino, col frescolino, in via;
un'oretta per scendere alla Marina; e, alle otto e mezzo, addio Ciunna!
Intanto, proseguendo per il viale, formulava la lettera da lasciare. A chi
indirizzarla? Alla moglie, povera vecchia, o al figliuolo, o a qualche amico?
No: al largo gli amici! Chi lo aveva ajutato? Per dir la verità, non aveva
chiesto ajuto a nessuno; ma perché sapeva in precedenza che nessuno avrebbe
avuto pietà di lui. E la prova eccola qua: tutto il paese lo vedeva da quindici
giorni andar per via come una mosca senza capo: ebbene, neppure un cane s'era
fermato per domandargli: - Ciunna, che hai?
II
Svegliato, la
mattina dopo, dalla serva alle sette in punto, si stupí d'aver dormito
saporitamente tutta la notte. - C'è già la carrozza?
- Sissignore, è giú che aspetta. * Eccomi pronto! Ma, oh, le scarpe, Rosa!
Aspetta: apro l'uscio. Nello scendere dal letto per prendere le scarpe, altro
stupore: aveva lasciato al solito, la sera avanti, le scarpe fuori dell'uscio,
perché la serva le pulisse.
Come se gli avesse importato d'andarsene all'altro mondo con le scarpe pulite.
Terzo stupore innanzi all'armadio, dal quale si recò per trarne l'abito, che
era solito indossare nelle gite, per risparmiar l'altro, il cittadino, un po'
piú nuovo, o meno vecchio.
- E per chi lo risparmio adesso? Insomma, tutto come se lui stesso in fondo non
credesse ancora che tra poco si sarebbe ucciso. Il sonno le scarpe
l'abito. Ed ecco qua, ora sta a lavarsi la faccia; e ora si fa davanti allo
specchio, al solito, per annodarsi con cura la cravatta. - Ma che scherzo? No.
La lettera. Dove l'aveva messa? Qua, nel cassetto del comodino. Eccola! Lesse l'intestazione:
'Per Niccolino'.
- Dove la metto? Pensò di metterla sul guanciale del letto, proprio nel posto
in cui aveva posato la testa per l'ultima volta. - Qua la vedranno meglio.
Sapeva che la moglie e la serva non entravano mai prima di mezzogiorno a rifar
la camera.
- A mezzogiorno saran piú di tre ore Non terminò la frase; volse in giro uno
sguardo, come per salutar le cose che lasciava per sempre; scorse al capezzale
il vecchio crocifisso d'avorio ingiallito, si tolse il cappello e piegò le gambe
in atto d'inginocchiarsi. Ma in fondo ancora non si sentiva neanche sveglio del
tutto. Aveva ancora nel naso e sugli occhi, pesante e saporito, il sonno.
- Dio mio Dio mio - disse alla fine, improvvisamente smarrito. E si
strinse forte la fronte con una mano. Ma poi pensò che giú la carrozza
aspettava, e uscí a precipizio.
- Addio, Rosa. Di' che torno prima di sera.
Traversando in carrozza, di trotto, il paese (quella bestia del vetturino aveva
messo le sonagliere ai cavalli come per una festa in campagna), il Ciunna si
sentí, all'aria fresca, risvegliar subito l'estro comico che era proprio della
sua natura, e immaginò che i sonatori della banda municipale, coi pennacchi
svolazzanti degli elmetti, gli corressero dietro, gridando e facendo cenni con
le braccia perché si fermasse o andasse piú piano, ché gli volevano sonare la
marcia funebre. Dietro, cosí a gambe levate, non potevano. 'Grazie tante!
Addio, amici! Ne faccio a meno volentieri! Mi basta questo strepito dei vetri
della carrozza, e quest'allegria qua dei sonaglioli!' Oltrepassate le
ultime case, allargò il petto alla vista della campagna che pareva allagata da
un biondo mare di messi, su cui sornuotavano qua e là mandorli e olivi. Vide
alla sua destra sbucar da un carrubo una contadina con tre ragazzi; contemplò
un tratto il grande albero nano, e pensò: 'È come la chioccia che tien
sotto i suoi pulcini'.
Lo salutò con la mano. Era in vena di salutare ogni cosa, per l'ultima volta,
ma senz'alcuna afflizione; come se, con la gioja che in quel momento provava,
si sentisse compensato di tutto. La carrozza ora scendeva stentatamente per lo
stradone polveroso, piú che mai ripido. Salivano e scendevano lunghe file di
carretti. Non aveva mai fatto caso al caratteristico abbrigliamento dei muli che
tiravano quei carretti. Lo notò adesso, come se quei muli si fossero parati di
tutte quelle nappe e quei fiocchi e festelli variopinti per far festa a lui. A
destra, a sinistra, qua e là su i mucchi di brecciame, stavan seduti a
riposarsi alcuni mendicanti, storpii o ciechi, che dalla borgata marina
salivano alla città sul colle, o da questa scendevano a quella per un soldo o
un tozzo di pane promessi per quel tal giorno. Della vista di costoro
s'afflisse, e subito gli saltò in mente di invitarli tutti a salire in carrozza
con lui: 'Allegri! allegri! Andiamo a buttarci a mare tutti quanti!
Una carrozzata di disperati! Sú, sú, figliuoli! salite salite! La vita è bella
e non dobbiamo affliggerla con la nostra vista'. Si trattenne, per non
svelare al vetturino lo scopo della gita. Sorrise però di nuovo, immaginando
tutti quei mendicanti in carrozza con lui; e, come se veramente li avesse lí,
vedendone qualche altro per via, ripeteva tra sé e sé l'invito: 'Vieni
anche tu, sali! Ti do viaggio gratis!'
III
Nella borgata marina
il Ciunna era noto a tutti.
- Immenso Ciunna! - si sentí infatti chiamare, appena smontato dalla vettura; e
si trovò tra le braccia d'un tal Tino Imbrò, suo giovane amico, che gli scoccò
due sonori baci, battendogli una mano su la spalla.
- Come va? Come va? Che è venuto a far qui, in questo paesettaccio di
piedi-scalzi?
- Un affaruccio - rispose il Ciunna sorridendo imbarazzato.
- Questa vettura è a sua disposizione?
- Sí, l'ho presa a nolo
! - Benone. Dunque: vetturino, va' a staccare! Caro Ciunna, per male che si
senta, occhi pallidi, naso pallido, labbra pallide, io la sequestro. Se ha mal
di capo, glielo faccio passare; e le faccio passare la qualunquissima cosa! -
Grazie, Tino mio, - disse il Ciunna intenerito dalla festosa accoglienza
dell'allegro giovinotto.
- Guarda, ho davvero un affare molto urgente da sbrigare. Poi bisogna che torni
su di fretta. Tra l'altro, non so, forse oggi m'arriva di botto, tra capo e
collo, l'ispettore.
- Di domenica? E poi, come? senza preavviso?
- Ah sí! - replicò il Ciunna.
- Vorresti anche il preavviso? Ti piombano addosso quando meno te l'aspetti.
- Non sento ragione, - protestò l'altro.
- Oggi è festa, e vogliamo ridere. Io la sequestro. Sono di nuovo scapolo, sa?
Mia moglie, poverina, piangeva notte e giorno 'Che hai, carina mia, che
hai?' 'Voglio mammà! voglio papà!' 'O mi piangi per questo?
Sciocchina, va' da mammà, va' da papà, che ti daranno la bobona, le toserelle
belle belle' Lei che è mio maestro, ho fatto bene? Rise anche dalla cassetta
il vetturino.
E allora l'Imbrò: - Scemo, sei ancora lí? Marche! T'ho detto: Va' a staccare!
- Aspetta, - disse allora il Ciunna, cavando dalla tasca in petto il
portafogli. - Pago avanti. Ma l'Imbrò gli trattenne il braccio: - Non sia mai!
Pagare e morire, piú tardi che si può!
- No: avanti, - insisté il Ciunna. - Devo pagare avanti. Se mi trattengo, sia
pure per poco, in questo paese di galantuomini, capirai, c'è pericolo mi rúbino
finanche le suole delle scarpe, appena alzo il piede per camminare.
- Ecco il mio vecchio maestro! Alfin ti riconosco! Paghi, paghi e andiamo via.
Il Ciunna tentennò lievemente il capo, con un sorriso amaro su le labbra; pagò
il vetturino e poi domandò all'Imbrò: - Dove mi porti? Bada, per una mezzoretta
soltanto.
- Lei scherza. La carrozza è pagata: può aspettar fino a sera. Senza no no: ora
concerto io la giornata. Vede? ho con me la borsetta: andavo al bagno. Venga
con me.
- Ma neanche per idea! - negò energicamente il Ciunna.
- Io, il bagno? Altro che bagno, caro mio! Tino Imbrò lo guardò meravigliato.
- Idrofobia?
- No, senti, - replicò il Ciunna, puntando i piedi come un mulo.
- Quando ho detto no, è no. Il bagno, io, se mai, me lo farò piú tardi. - Ma
l'ora è questa! - esclamò l'Imbrò.
- Un buon bagno, e poi, con tanto d'appetito, di corsa al Leon d'oro:
pappatoria e trinchesvàine! Si lasci servire!
- Un festino addirittura. Ma che! Mi fai ridere. Per altro, vedi, sono
sprovvisto di tutto: non ho maglia, non ho accappatojo. Penso ancora alla
decenza, io.
- Eh via! - esclamò quello, trascinando il Ciunna per un braccio.
- Troverà tutto l'occorrente alla rotonda. Il Ciunna si sottomise alla vivace,
affettuosa tirannía del giovanotto.
Chiuso, poco dopo, nel camerino dei Bagni, si lasciò cadere su una seggiola e
appoggiò la testa cascante alla parete di tavole, con tutte le membra
abbandonate e impressa sul volto una sofferenza quasi rabbiosa.
- Un piccolo assaggio dell'elemento, - mormorò.
Sentí picchiare alle tavole del camerino accanto, e la voce dell'Imbrò: - Ci siamo?
Io sono già in maglia. Tinino dalle belle gambe!
Il Ciunna sorse in piedi: - Ecco, mi svesto. Cominciò a svestirsi. Nel trarre
dal taschino del panciotto l'orologio, per nasconderlo prudentemente dentro una
scarpa, volle guardar l'ora. Erano circa le nove e mezzo, e pensò: 'Un'ora
guadagnata!'. Si mise a scendere la scaletta bagnata, tutto in preda alla
sensazione del freddo.
- Giú, giú in acqua! - gli gridò l'Imbrò che già s'era tuffato, e minacciava
con una mano di fargli una spruzzata.
- No, no! - gridò a sua volta il Ciunna, tremante e convulso, con
quell'angoscia che confonde o rattiene davanti alla mobile, vitrea compattezza
dell'acqua marina.
- Bada, me ne risalgo! Non sarebbe uno scherzo non ci resisto Brrr, com'è
fredda! - aggiunse, sfiorando l'acqua con la punta del piede rattratto. Poi,
come colpito improvvisamente da un'idea, si tuffò giú tutto sott'acqua.
- Bravissimo! - gridò l'altro appena il Ciunna si rimise in piedi, grondante
come una fontana.
- Coraggioso, eh? - disse il Ciunna, passandosi le mani sul capo e su la
faccia.
- Sa nuotare?
- No, m'arrabatto.
- Io m'allontano un po'. L'acqua nel recinto era bassa. Il Ciunna s'accoccolò,
tenendosi con un braccio a un palo e battendo leggermente l'acqua con l'altra
mano, come se volesse dirle: sta' bonina! sta' bonina! a piú tardi! Era
veramente un'irrisione atroce, quel bagno: lui, in mutandine, accoccolato e
sostenuto dal palo, che se l'intendeva con l'acqua. Poco dopo però l'Imbrò,
rientrando nel recinto e volgendo in giro lo sguardo, non ve lo ritrovò piú.
Già risalito? E si avviava per accertarsene verso la scaletta del camerino,
quand'ecco a un tratto, se lo vide springar davanti, dall'acqua, paonazzo in
volto, con uno sbruffo strepitoso.
- Ohé! Ma è matto? Che ha fatto? Non sa che cosí le può scoppiare qualche vena
del collo?
- Lascia scoppiare, - fece il Ciunna ansimando, mezz'affogato, con gli occhi
fuori dell'orbita.
- Ha bevuto?
- Un poco.
- Ohé, dico, - fece l'Imbrò e con la mano accennò di nuovo il dubbio che il suo
vecchio amico fosse impazzito.
Lo guardò un po'; gli domandò: - Ha voluto provarsi il fiato o s'è sentito
male?
- Provarmi il fiato, - rispose cupo il Ciunna, passandosi di nuovo le mani su i
capelli zuppi.
- Dieci con lode al ragazzino! - esclamò l'Imbrò.
- Andiamo, via, andiamo a rivestirci! Troppo fredda oggi l'acqua. Tanto,
l'appetito già c'è. Ma dica la verità: si sente proprio male? Il Ciunna s'era
messo ad arcoreggiare come un tacchino.
- No, - disse, quand'ebbe finito. - Benone mi sento! È passato! Andiamo,
andiamo pure a rivestirci! - Spaghetti ai vongoli, e glo glo, glo glo un
vinetto! Lasci fare; ci penso io. Regalo dei parenti di mia moglie, buon'anima.
Me ne resta ancora un barilotto. Sentirà!
IV
Si levarono di
tavola, ch'erano circa le quattro. Il vetturino s'affacciò alla porta della
trattoria: - Debbo attaccare?
- Se non te ne vai! - minacciò l'Imbrò acceso in volto, tirandosi con un
braccio il Ciunna sul petto e ghermendo con l'altra mano un fiasco vuoto. Il
Ciunna, non meno acceso, si lasciò attirare: sorrise, non replicò; beato come
un bambino di quella protezione.
- T'ho detto che prima di sera non si riparte! - riprese l'Imbrò.
- Si sa! Si sa! - approvarono a coro molte voci. Perché la sala da pranzo s'era
riempita d'una ventina d'amici del Ciunna e dell'Imbrò e gli altri avventori
della trattoria si erano messi a desinare insieme, formando cosí una gran
tavolata, allegra prima, poi a mano a mano piú rumorosa: risa, urli, brindisi
per burla, baccano d'inferno. Tino Imbrò saltò su la seggiola. Una proposta!
Tutti quanti a bordo del vapore inglese ancorato nel porto.
- Col capitano siamo peggio che fratelli! È un giovanotto di trent'anni, pieno
di barba e di virtú: con certe bottiglie di Gin che non vi dico! La proposta fu
accolta da un turbine d'applausi. Verso le sei, scioltasi la compagnia dopo la
visita al vapore, il Ciunna disse all'Imbrò: - Caro Tinino, è tempo di far via!
Non so come ringraziarti.
- A questo non ci pensi, - lo interruppe l'Imbrò. - Pensi piuttosto che ha da
attendere ancora all'affaruccio di cui mi parlò stamattina.
- Ah, già, hai ragione, - disse il Ciunna aggrottando le ciglia e cercando con
una mano la spalla dell'amico, come se stesse per cadere.
- Sí, sí, hai ragione. E dire ch'ero sceso per questo. Bisogna infatti che
vada. - Ma se può farne a meno, - gli osservò l'Imbrò.
- No, - rispose il Ciunna, torvo; e ripeté: - Bisogna che vada. Ho bevuto, ho
mangiato, e ora Addio, Tinino. Non posso farne a meno. - Vuole che
l'accompagni? - domandò questi. - No! Ah ah, vorresti accompagnarmi? Sarebbe
curiosa. No no, grazie, Tinino mio, grazie. Vado solo, da me. Ho bevuto, ho
mangiato, e ora Addio, eh! - Allora l'aspetto qua, con la carrozza, e ci
saluteremo. Faccia presto! - Prestissimo! prestissimo! Addio, Tinino! E
s'avviò. L'Imbrò fece una smusata e pensò: 'E gli anni! gli anni! Pare
impossibile che Ciunna In fin dei conti, che avrà bevuto?'
Il Ciunna si voltò e, alzando e agitando un dito all'altezza degli occhi che
ammiccavano furbescamente gli disse: - Tu non mi conosci.
Poi si diresse verso il piú lungo braccio del porto, quello di ponente, ancora
senza banchina, tutto di scogli rammontati l'uno su l'altro, fra i quali il
mare si cacciava con cupi tonfi, seguiti da profondi risucchi. Si reggeva male
sulle gambe. Eppure saltava da uno scoglio all'altro, forse con l'intento, non
preciso, di scivolare, di rompersi uno stinco, o di ruzzolare, cosí quasi senza
volerlo, in mare. Ansava, sbuffava, scrollava il capo per levarsi dal naso un
certo fastidio, che non sapeva se gli venisse dal sudore, dalle lacrime o dalla
spruzzaglia delle ondate che si cacciavano tra gli scogli.
Quando fu alla punta della scogliera, cascò a sedere, si levò il cappello,
serrò gli occhi, la bocca, e gonfiò le gote, quasi per prepararsi a buttar via,
con tutto il fiato che aveva in corpo, l'angoscia, la disperazione, la bile che
aveva accumulato. - Auff, vediamo un po', - disse alla fine, dopo lo sbuffo,
riaprendo gli occhi. Il sole tramontava. Il mare, d'un verde vitreo presso la
riva, s'indorava intensamente in tutta la vastità tremula dell'orizzonte. Il
cielo era tutto in fiamme, e limpidissima l'aria, nella viva luce, su tutto
quel tremolío d'acque incendiate.
- Io là? - domandò il Ciunna poco dopo, guardando il mare, oltre gli ultimi
scogli.
- Per duemila e settecento lire? Gli parvero pochissime. Come togliere a quel
mare una botte d'acqua. - Non si ha il diritto di rubare, lo so. Ma è da vedere
se non se ne ha il dovere, perdio, quando quattro bambini ti piangono per il
pane e tu questo schifoso denaro lo hai tra le mani e lo stai contando. La
società non te ne dà il diritto; ma tu, padre, hai il dovere di rubare in
simili casi. E io sono due volte padre per quei quattro innocenti là! E se
muojo io, come faranno? Per la strada a mendicare? Ah no, signor Ispettore; la
farò piangere io, con me. E se lei, signor Ispettore, ha il cuore duro come
questo scoglio qua, ebbene, mi mandi pure davanti ai giudici: voglio vedere se
avranno cuore loro da condannarmi. Perdo il posto? Ne troverò un altro, signor
Ispettore! Non si confonda. Là, io, non mi ci butto! Ecco le paranze! Compro un
chilo di triglie grosse cosí, e ritorno a casa a mangiarmele coi miei nipotini!
Si alzò. Le paranze entravano a tutta vela, virando. Si mosse in fretta per
arrivare in tempo al mercato del pesce. Comprò, tra la ressa e le grida, le
triglie ancora vive, guizzanti. Ma - dove metterle? Un panierino da pochi
soldi: àliga, dentro; e: non dubiti, signor Ciunna, arriveranno ancora vive
vive al paese.
Su la strada, innanzi al Leon d'oro, ritrovò l'Imbrò, che subito gli fece con
le mani un gesto espressivo: - Svaporato? - Che cosa? Ah, il vino Credevi?
Ma che! - fece il Ciunna.
- Vedi, ho comperato le triglie. Un bacio, Tinino mio, e un milione di grazie.
- Di che?
- Un giorno forse te lo dirò. Oh, vetturino, su il mantice: non voglio esser
veduto.
V
Appena fuori della
borgata, cominciò l'erta penosa. I due cavalli tiravano la carrozza chiusa,
accompagnando con un moto della testa china ogni passo allungato a stento, e i
sonagli ciondolanti pareva misurassero la lentezza e la pena. Il vetturino, di
tratto in tratto, esortava le povere magre bestie con una voce lunga e
lamentosa. A mezza via, era già sera chiusa. Il bujo sopravvenuto, il silenzio
quasi in attesa d'un lieve rumore nella solitudine brulla di quei luoghi mal
guardati, richiamarono lo spirito del Ciunna ancora tra annebbiato dai vapori
del vino e abbagliato dallo splendore del tramonto sul mare. A poco a poco, col
crescere dell'ombra, aveva chiuso gli occhi, quasi per lusingar se stesso che
poteva dormire. Ora, invece, si ritrovava con gli occhi sbarrati nel bujo della
vettura, fissi sul vetro dirimpetto, che strepitava continuamente. Gli pareva
che fosse or ora uscito, inavvertitamente, da un sogno. E, intanto, non trovava
la forza di riscuotersi, di muovere un dito. Aveva le membra come di piombo e
una tetra gravezza al capo. Sedeva quasi sulla schiena, abbandonato, col mento
sul petto, le gambe contro il sedile di fronte, e la mano sinistra affondata
nella tasca dei calzoni. Oh che! Era davvero ubriaco?
- Ferma, - borbottò con la lingua grossa. E immaginò, senza scomporsi, che
scendeva dalla vettura e si metteva a errare per i campi, nella notte, senza
direzione. Udí un lontano abbajare, e pensò che quel cane abbajasse a lui
errante laggiú laggiú, per la valle.
- Ferma, - ripeté poco dopo, quasi senza voce, riabbassando su gli occhi le
palpebre lente.
No! - egli doveva, zitto zitto, saltare dalla vettura, senza farla fermare,
senza farsi scorgere dal vetturino; aspettare che la vettura s'allontanasse un
po' per l'erto stradone, e poi cacciarsi nella campagna e correre, correre fino
al mare là in fondo. Intanto non si moveva.
- Plumf! - si provò a fare con la lingua torpida. A un tratto un guizzo nel
cervello lo fece sobbalzare, e con la mano destra convulsa cominciò a grattarsi
celermente la fronte: - La lettera la lettera Aveva lasciato la lettera
per il figliuolo sul guanciale del letto. La vedeva. A quell'ora, in casa lo
piangevano morto. Tutto il paese, a quell'ora, era pieno della notizia del suo
suicidio. E l'Ispettore?
L'Ispettore era certo venuto: 'Gli avranno consegnato le chiavi; si sarà
accorto del vuoto di cassa. La sospensione disonorante, la miseria, il
ridicolo, il carcere'.
E la vettura intanto seguitava ad andare, lentamente, con pena. No, no. In
preda a un tremito angoscioso, il Ciunna avrebbe voluto fermarla. E allora? No,
no. Saltare dalla vettura? Trasse la mano sinistra dalla tasca e col pollice e
l'indice s'afferrò il labbro inferiore, come per riflettere, mentre con l'altre
dita stringeva, stritolava qualcosa. Aprí quella mano, sporgendola dal
finestrino, al chiaro di luna, e si guardò nella palma. Restò. Il veleno. Lí,
in tasca, il veleno dimenticato. Strizzò gli occhi, se lo cacciò in bocca:
inghiottí. Rapidamente ricacciò la mano in tasca, ne trasse altri pezzetti: li
inghiottí. Vuoto. Vertigine. Il petto, il ventre gli s'aprivano, squarciati.
Sentí mancarsi il fiato e sporse il capo dal finestrino. - Ora muojo. L'ampia
vallata sottoposta era allagata da un fresco e lieve chiarore lunare; gli alti
colli di fronte sorgevano neri e si disegnavano nettamente nel cielo
opalino. Allo spettacolo di quella deliziosa quiete lunare una grande calma gli
si fece dentro. Appoggiò la mano allo sportello, piegò il mento sulla mano e
attese, guardando fuori.
Saliva dal basso della valle un limpido assiduo scampanellare di grilli, che
pareva la voce del tremulo riflesso lunare sulle acque correnti d'un placido
fiume invisibile. Alzò gli occhi al cielo, senza levare il mento dalla mano,
poi guardò i colli neri e la valle di nuovo, come per vedere quanto
ormai rimaneva per gli altri, poiché nulla piú era per lui. Tra breve, non
avrebbe veduto, non avrebbe udito piú nulla. S'era forse fermato il tempo? Come
mai non sentiva ancora nessun accenno di dolore? - Non muojo? E subito, come se
il pensiero gli avesse dato la sensazione attesa, si ritrasse, e con una mano
si strinse il ventre.
No: non sentiva ancor nulla. Però Si passò una mano sulla fronte: ah! era
già bagnata d'un sudor gelido! Il terrore della morte, alla sensazione di quel
gelo, lo vinse: tremò tutto sotto l'enorme, nera, orrida imminenza
irreparabile, e si contorse nella vettura, addentando un cuscino per soffocar
l'urlo del primo spasimo tagliente alle viscere. Silenzio. Una voce. Chi
cantava? E quella luna Cantava il vetturino monotonamente, mentre i cavalli
stanchi trascinavano con pena la carrozza nera per lo stradone
polveroso, bianco di luna.
Il colore come simbolo di fede politica ma anche come entità reale per coloro che vi si riconoscono e da esso ricavano la propria identità: di fronte ai segni dello smarrimento e della perdita di conoscenza, un colore può diventare guida e strumento conoscitivo.
Per chi
conosce solo il tuo colore, bandiera rossa,
tu devi realmente esistere, perché lui esista:
chi era coperto di croste è coperto di piaghe,
il bracciante diventa mendicante,
il napoletano calabrese, il calabrese africano,
l'analfabeta una bufala o un cane.
Chi conosce appena il tuo colore, bandiera rossa,
sta per non conoscerti più, neanche coi sensi:
tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie,
ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli.
Le rouge et le noir dans l'univers baudelairien
Le rouge comme idéal de beauté, couleur de l'action et de l'ivresse
Ce ne seront jamais ces
beautés de vignettes,
Produits avariés, nés d'un siècle vaurien,
Ces pieds à brodequins, ces doigts à castagnettes,
Qui sauront satisfaire un cour comme le mien.
Je laisse à Gavarni, poète des
chloroses,
Son troupeau gazouillant de beautés d'hôpital,
Car je ne puis trouver parmi ces pales roses
Une fleur qui ressemble à mon rouge idéal.
Ce qu'il faut à ce cour
profond comme un abime,
C'est vous, Lady Macbeth, ame puissante au crime,
Rêve d'Eschyle éclos au climat des autans;
Ou bien toi, grande Nuit,
fille de Michel-Ange,
Qui tors paisiblement dans une pose étrange
Tes appas façonnés aux bouches des Titans!
Le rouge comme idéal de beauté, couleur de l'action et de l'ivresse
Viens-tu du ciel profond ou sors-tu de
l'abime,
Ô Beauté! ton regard, infernal et divin,
Verse confusément le bienfait et le crime,
Et l'on peut pour cela te comparer au vin.
Tu contiens dans ton oeil le
couchant et l'aurore;
Tu répands des parfums comme un soir orageux;
Tes baisers sont un philtre et ta bouche une amphore
Qui font le héros lache et l'enfant courageux.
Sors-tu du gouffre noir ou
descends-tu des astres?
Le Destin charmé suit tes jupons comme un chien;
Tu sèmes au hasard la joie et les désastres,
Et tu gouvernes tout et ne réponds de rien.
Tu marches sur des morts,
Beauté, dont tu te moques ;
De tes bijoux l'Horreur n'est pas le moins charmant,
Et le Meurtre, parmi tes plus chères breloques,
Sur ton ventre orgueilleux danse amoureusement.
(.)
Le rouge comme idéal de beauté, couleur de l'action et de l'ivresse
Voici venir les temps ou
vibrant sur sa tige
Chaque fleur s'évapore ainsi qu'un encensoir
Les sons et les parfums tournent dans l'air du soir
Valse mélancolique et langoureux vertige
Chaque fleur s'évapore ainsi
qu'un encensoir
Le violon frémit comme un coeur qu'on afflige
Valse mélancolique et langoureux vertige
Le ciel est triste et beau comme un grand reposoir
Le violon frémit comme un
coeur qu'on afflige
Un coeur tendre qui hait le néant vaste et noir
Le ciel est triste et beau comme un grand reposoir
Le soleil s'est noyé dans son sang qui se fige
Un coeur
tendre qui hait le néant vaste et noir
Du passé lumineux recueille tout vestige
Le soleil s'est noyé dans son sang qui se fige
Ton souvenir en moi luit comme un ostensoir
Le noir comme couleur de la mélancolie, de l'étouffement et de l'angoisse
Quand le ciel bas et lourd
pèse comme un couvercle
Sur l'esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l'horizon embrassant tout le cercle
I l nous verse un jour noir plus triste que les nuits;
Quand la terre est changée en
un cachot humide,
Où l'Espérance, comme une chauve-souris,
S'en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;
Quand la pluie étalant ses
immenses trainées
D'une vaste prison imite les barreaux,
Et qu'un peuple muet d'infames araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
Des cloches tout à coup
sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniatrement. -
Et de longs corbillards, sans
tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon ame; l'Espoir,
Vaincu, pleure, et l'Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crane incliné plante son drapeau noir.
Colour and psyche
The black cat and the theme of the double. At first the black cat is a symbol of friendship and affection (but also of death and superstition), then it stands for a superior entity which acts as a means of truth, justice and punishment of the individual, who is doomed because of human innate 'perverseness'.
FOR
the most wild, yet most homely narrative which I am about to pen, I neither
expect nor solicit belief. Mad indeed would I be to expect it, in a case where
my very senses reject their own evidence. Yet, mad am I not - and very surely
do I not dream. But to-morrow I die, and to-day I would unburthen my soul.
My immediate purpose is to place before the world, plainly, succinctly, and
without comment, a series of mere household events. In their consequences,
these events have terrified - have tortured - have destroyed me. Yet I will not
attempt to expound them.
To me, they have presented little but Horror - to many they will seem less
terrible than barroques. Hereafter, perhaps, some intellect may be found which
will reduce my phantasm to the common-place - some intellect more calm, more
logical, and far less excitable than my own, which will perceive, in the
circumstances I detail with awe, nothing more than an ordinary succession of
very natural causes and effects.
From my infancy I was noted for the docility and humanity of my disposition. My
tenderness of heart was even so conspicuous as to make me the jest of my
companions. I was especially fond of animals, and was indulged by my parents
with a great variety of pets. With these I spent most of my time, and never was
so happy as when feeding and caressing them. This peculiarity of character grew
with my growth, and in my manhood, I derived from it one of my principal
sources of pleasure. To those who have cherished an affection for a faithful
and sagacious dog, I need hardly be at the trouble of explaining the nature or
the intensity of the gratification thus derivable. There is something in the
unselfish and self-sacrificing love of a brute, which goes directly to the
heart of him who has had frequent occasion to test the paltry friendship and
gossamer fidelity of mere Man .
I married early, and was happy to find in my wife a disposition not uncongenial
with my own. Observing my partiality for domestic pets, she lost no opportunity
of procuring those of the most agreeable kind. We had birds, gold-fish, a fine
dog, rabbits, a small monkey, and a cat .
This latter was a remarkably large and beautiful animal, entirely black,
and sagacious to an astonishing degree. In speaking of his intelligence, my
wife, who at heart was not a little tinctured with superstition, made frequent
allusion to the ancient popular notion, which regarded all black cats as
witches in disguise. Not that she was ever serious upon this point - and I
mention the matter at all for no better reason than that it happens, just now,
to be remembered. Pluto - this was the cat's name - was my favorite pet and
playmate. I alone fed him, and he attended me wherever I went about the house.
It was even with difficulty that I could prevent him from following me through
the streets. Our friendship lasted, in this manner, for several years, during
which my general temperament and character - through the instrumentality of the
Fiend Intemperance - had (I blush to confess it) experienced a radical
alteration for the worse. I grew, day by day, more moody, more irritable, more
regardless of the feelings of others. I suffered myself to use intemperate
language to my wife. At length, I even offered her personal violence. My pets,
of course, were made to feel the change in my disposition. I not only
neglected, but ill-used them. For Pluto, however, I still retained sufficient
regard to restrain me from maltreating him, as I made no scruple of maltreating
the rabbits, the monkey, or even the dog, when by accident, or through
affection, they came in my way. But my disease grew upon me - for what disease
is like Alcohol! - and at length even Pluto, who was now becoming old, and
consequently somewhat peevish - even Pluto began to experience the effects of
my ill temper. One night, returning home, much intoxicated, from one of my
haunts about town, I fancied that the cat avoided my presence. I seized him;
when, in his fright at my violence, he inflicted a slight wound upon my hand
with his teeth. The fury of a demon instantly possessed me. I knew myself no
longer. My original soul seemed, at once, to take its flight from my body and a
more than fiendish malevolence, gin-nurtured, thrilled every fibre of my frame.
I took from my waistcoat-pocket a pen-knife, opened it, grasped the poor beast
by the throat, and deliberately cut one of its eyes from the socket! I blush, I
burn, I shudder, while I pen the damnable atrocity.
When reason returned with the morning - when I had slept off the fumes of the
night's debauch - I experienced a sentiment half of horror, half of remorse,
for the crime of which I had been guilty; but it was, at best, a feeble and
equivocal feeling, and the soul remained untouched. I again plunged into
excess, and soon drowned in wine all memory of the deed. In the meantime the
cat slowly recovered. The socket of the lost eye presented, it is true, a
frightful appearance, but he no longer appeared to suffer any pain.
He went about the house as usual, but, as might be expected, fled in extreme
terror at my approach. I had so much of my old heart left, as to be at first
grieved by this evident dislike on the part of a creature which had once so
loved me. But this feeling soon gave place to irritation. And then came, as if
to my final and irrevocable overthrow, the spirit of PERVERSENESS. Of this
spirit philosophy takes no account. Yet I am not more sure that my soul lives,
than I am that perverseness is one of the primitive impulses of the human heart
- one of the indivisible primary faculties, or sentiments, which give direction
to the character of Man. Who has not, a hundred times, found himself committing
a vile or a silly action, for no other reason than because he knows he should
not? Have we not a perpetual inclination, in the teeth of our best judgment, to
violate that which is Law , merely because we understand it to be such? This
spirit of perverseness, I say, came to my final overthrow. It was this
unfathomable longing of the soul to vex itself - to offer violence to its own
nature - to do wrong for the wrong's sake only - that urged me to continue and
finally to consummate the injury I had inflicted upon the unoffending brute.
One morning, in cool blood, I slipped a noose about its neck and hung it to the
limb of a tree; - hung it with the tears streaming from my eyes, and with the
bitterest remorse at my heart; - hung it because I knew that it had loved me,
and because I felt it had given me no reason of offence; - hung it because I
knew that in so doing I was committing a sin - a deadly sin that would so
jeopardize my immortal soul as to place it - if such a thing wore possible -
even beyond the reach of the infinite mercy of the Most Merciful and Most
Terrible God. On the night of the day on which this cruel deed was done, I was
aroused from sleep by the cry of fire.
The curtains of my bed were in flames. The whole house was blazing. It was with
great difficulty that my wife, a servant, and myself, made our escape from the
conflagration. The destruction was complete. My entire worldly wealth was
swallowed up, and I resigned myself thenceforward to despair. I am above the
weakness of seeking to establish a sequence of cause and effect, between the
disaster and the atrocity. But I am detailing a chain of facts - and wish not
to leave even a possible link imperfect. On the day succeeding the fire, I
visited the ruins. The walls, with one exception, had fallen in. This exception
was found in a compartment wall, not very thick, which stood about the middle
of the house, and against which had rested the head of my bed. The plastering
had here, in great measure, resisted the action of the fire - a fact which I
attributed to its having been recently spread. About this wall a dense crowd
were collected, and many persons seemed to be examining a particular portion of
it with very minute and eager attention.
The words 'strange!' 'singular!' and other similar
expressions, excited my curiosity. I approached and saw, as if graven in bas
relief upon the white surface, the figure of a gigantic cat. The impression was
given with an accuracy truly marvellous. There was a rope about the animal's
neck. When I first beheld this apparition - for I could scarcely regard it as
less - my wonder and my terror were extreme. But at length reflection came to
my aid. The cat, I remembered, had been hung in a garden adjacent to the house.
Upon the alarm of fire, this garden had been immediately filled by the crowd -
by some one of whom the animal must have been cut from the tree and thrown,
through an open window, into my chamber. This had probably been done with the
view of arousing me from sleep. The falling of other walls had compressed the
victim of my cruelty into the substance of the freshly-spread plaster; the lime
of which, with the flames, and the ammonia from the carcass, had then
accomplished the portraiture as I saw it. Although I thus readily accounted to
my reason, if not altogether to my conscience, for the startling fact just
detailed, it did not the less fail to make a deep impression upon my fancy. For
months I could not rid myself of the phantasm of the cat; and, during this period,
there came back into my spirit a half-sentiment that seemed, but was not,
remorse. I went so far as to regret the loss of the animal, and to look about
me, among the vile haunts which I now habitually frequented, for another pet of
the same species, and of somewhat similar appearance, with which to supply its
place.
One night as I sat, half stupified, in a den of more than infamy, my attention
was suddenly drawn to some black object, reposing upon the head of one
of the immense hogsheads of Gin, or of Rum, which constituted the chief
furniture of the apartment. I had been looking steadily at the top of this
hogshead for some minutes, and what now caused me surprise was the fact that I
had not sooner perceived the object thereupon. I approached it, and touched it
with my hand. It was a black cat - a very large one - fully as large as
Pluto, and closely resembling him in every respect but one. Pluto had not a
white hair upon any portion of his body; but this cat had a large, although
indefinite splotch of white, covering nearly the whole region of the breast.
Upon my touching him, he immediately arose, purred loudly, rubbed against my
hand, and appeared delighted with my notice. This, then, was the very creature
of which I was in search. I at once offered to purchase it of the landlord; but
this person made no claim to it - knew nothing of it - had never seen it
before. I continued my caresses, and, when I prepared to go home, the animal
evinced a disposition to accompany me. I permitted it to do so; occasionally
stooping and patting it as I proceeded. When it reached the house it
domesticated itself at once, and became immediately a great favorite with my
wife. For my own part, I soon found a dislike to it arising within me. This was
just the reverse of what I had anticipated; but - I know not how or why it was
- its evident fondness for myself rather disgusted and annoyed. By slow
degrees, these feelings of disgust and annoyance rose into the bitterness of
hatred. I avoided the creature; a certain sense of shame, and the remembrance
of my former deed of cruelty, preventing me from physically abusing it. I did
not, for some weeks, strike, or otherwise violently ill use it; but gradually -
very gradually - I came to look upon it with unutterable loathing, and to flee
silently from its odious presence, as from the breath of a pestilence.
What added, no doubt, to my hatred of the beast, was the discovery, on the
morning after I brought it home, that, like Pluto, it also had been deprived of
one of its eyes. This circumstance, however, only endeared it to my wife, who,
as I have already said, possessed, in a high degree, that humanity of feeling
which had once been my distinguishing trait, and the source of many of my
simplest and purest pleasures. With my aversion to this cat, however, its
partiality for myself seemed to increase. It followed my footsteps with a
pertinacity which it would be difficult to make the reader comprehend. Whenever
I sat, it would crouch beneath my chair, or spring upon my knees, covering me
with its loathsome caresses. If I arose to walk it would get between my feet
and thus nearly throw me down, or, fastening its long and sharp claws in my
dress, clamber, in this manner, to my breast. At such times, although I longed
to destroy it with a blow, I was yet withheld from so doing, partly by a memory
of my former crime, but chiefly - let me confess it at once - by absolute dread
of the beast. This dread was not exactly a dread of physical evil - and yet I
should be at a loss how otherwise to define it. I am almost ashamed to own -
yes, even in this felon's cell, I am almost ashamed to own - that the terror
and horror with which the animal inspired me, had been heightened by one of the
merest chimaeras it would be possible to conceive. My wife had called my
attention, more than once, to the character of the mark of white hair, of which
I have spoken, and which constituted the sole visible difference between the
strange beast and the one I had destroyed.
The reader will remember that this mark, although large, had been originally
very indefinite; but, by slow degrees - degrees nearly imperceptible, and which
for a long time my Reason struggled to reject as fanciful - it had, at length,
assumed a rigorous distinctness of outline. It was now the representation of an
object that I shudder to name - and for this, above all, I loathed, and
dreaded, and would have rid myself of the monster had I dared - it was now, I
say, the image of a hideous - of a ghastly thing - of the GALLOWS ! - oh,
mournful and terrible engine of Horror and of Crime - of Agony and of Death !
And now was I indeed wretched beyond the wretchedness of mere Humanity. And a
brute beast - whose fellow I had contemptuously destroyed - a brute beast to
work out for me - for me a man, fashioned in the image of the High God - so
much of insufferable wo! Alas! neither by day nor by night knew I the blessing
of Rest any more! During the former the creature left me no moment alone; and,
in the latter, I started, hourly, from dreams of unutterable fear, to find the
hot breath of the thing upon my face, and its vast weight - an incarnate
Night-Mare that I had no power to shake off - incumbent eternally upon my heart
! Beneath the pressure of torments such as these, the feeble remnant of the
good within me succumbed. Evil thoughts became my sole intimates - the darkest
and most evil of thoughts.
The moodiness of my usual temper increased to hatred of all things and of all
mankind; while, from the sudden, frequent, and ungovernable outbursts of a fury
to which I now blindly abandoned myself, my uncomplaining wife, alas! was the
most usual and the most patient of sufferers. One day she accompanied me, upon
some household errand, into the cellar of the old building which our poverty
compelled us to inhabit. The cat followed me down the steep stairs, and, nearly
throwing me headlong, exasperated me to madness. Uplifting an axe, and
forgetting, in my wrath, the childish dread which had hitherto stayed my hand,
I aimed a blow at the animal which, of course, would have proved instantly
fatal had it descended as I wished. But this blow was arrested by the hand of
my wife. Goaded, by the interference, into a rage more than demoniacal, I
withdrew my arm from her grasp and buried the axe in her brain. She fell dead
upon the spot, without a groan. This hideous murder accomplished, I set myself
forthwith, and with entire deliberation, to the task of concealing the body. I
knew that I could not remove it from the house, either by day or by night,
without the risk of being observed by the neighbors. Many projects entered my
mind. At one period I thought of cutting the corpse into minute fragments, and
destroying them by fire. At another, I resolved to dig a grave for it in the
floor of the cellar.
Again, I deliberated about casting it in the well in the yard - about packing
it in a box, as if merchandize, with the usual arrangements, and so getting a
porter to take it from the house. Finally I hit upon what I considered a far
better expedient than either of these. I determined to wall it up in the cellar
- as the monks of the middle ages are recorded to have walled up their victims.
For a purpose such as this the cellar was well adapted. Its walls were loosely
constructed, and had lately been plastered throughout with a rough plaster,
which the dampness of the atmosphere had prevented from hardening. Moreover, in
one of the walls was a projection, caused by a false chimney, or fireplace,
that had been filled up, and made to resemble the red of the cellar. I
made no doubt that I could readily displace the bricks at this point, insert
the corpse, and wall the whole up as before, so that no eye could detect any
thing suspicious. And in this calculation I was not deceived. By means of a
crow-bar I easily dislodged the bricks, and, having carefully deposited the
body against the inner wall, I propped it in that position, while, with little
trouble, I re-laid the whole structure as it originally stood. Having procured
mortar, sand, and hair, with every possible precaution, I prepared a plaster
which could not be distinguished from the old, and with this I very carefully
went over the new brickwork. When I had finished, I felt satisfied that all was
right. The wall did not present the slightest appearance of having been disturbed.
The rubbish on the floor was picked up with the minutest care. I looked around
triumphantly, and said to myself - 'Here at least, then, my labor has not
been in vain.' My next step was to look for the beast which had been the
cause of so much wretchedness; for I had, at length, firmly resolved to put it
to death. Had I been able to meet with it, at the moment, there could have been
no doubt of its fate; but it appeared that the crafty animal had been alarmed
at the violence of my previous anger, and forebore to present itself in my
present mood. It is impossible to describe, or to imagine, the deep, the
blissful sense of relief which the absence of the detested creature occasioned
in my bosom. It did not make its appearance during the night - and thus for one
night at least, since its introduction into the house, I soundly and tranquilly
slept; aye, slept even with the burden of murder upon my soul! The second and
the third day passed, and still my tormentor came not. Once again I breathed as
a freeman. The monster, in terror, had fled the premises forever! I should
behold it no more! My happiness was supreme! The guilt of my dark deed
disturbed me but little. Some few inquiries had been made, but these had been
readily answered. Even a search had been instituted - but of course nothing was
to be discovered. I looked upon my future felicity as secured. Upon the fourth
day of the assassination, a party of the police came, very unexpectedly, into
the house, and proceeded again to make rigorous investigation of the premises.
Secure, however, in the inscrutability of my place of concealment, I felt no
embarrassment whatever. The officers bade me accompany them in their search.
They left no nook or corner unexplored. At length, for the third or fourth
time, they descended into the cellar. I quivered not in a muscle. My heart beat
calmly as that of one who slumbers in innocence. I walked the cellar from end
to end. I folded my arms upon my bosom, and roamed easily to and fro. The
police were thoroughly satisfied and prepared to depart. The glee at my heart
was too strong to be restrained. I burned to say if but one word, by way of
triumph, and to render doubly sure their assurance of my guiltlessness.
'Gentlemen,' I said at last, as the party ascended the steps, 'I
delight to have allayed your suspicions. I wish you all health, and a little
more courtesy. By the bye, gentlemen, this - this is a very well constructed
house.' [In the rabid desire to say something easily, I scarcely knew what
I uttered at all.] - 'I may say an excellently well constructed house.
These walls are you going, gentlemen? - these walls are solidly put
together;' and here, through the mere phrenzy of bravado, I rapped
heavily, with a cane which I held in my hand, upon that very portion of the brick-work
behind which stood the corpse of the wife of my bosom. But may God shield and
deliver me from the fangs of the Arch-Fiend ! No sooner had the reverberation
of my blows sunk into silence, than I was answered by a voice from within the
tomb! - by a cry, at first muffled and broken, like the sobbing of a child, and
then quickly swelling into one long, loud, and continuous scream, utterly
anomalous and inhuman - a howl - a wailing shriek, half of horror and half of
triumph, such as might have arisen only out of hell, conjointly from the
throats of the dammed in their agony and of the demons that exult in the
damnation.
Of my own thoughts it is folly to speak. Swooning, I staggered to the opposite
wall. For one instant the party upon the stairs remained motionless, through
extremity of terror and of awe. In the next, a dozen stout arms were toiling at
the wall. It fell bodily. The corpse, already greatly decayed and clotted with
gore, stood erect before the eyes of the spectators. Upon its head, with red
extended mouth and solitary eye of fire, sat the hideous beast whose craft had
seduced me into murder, and whose informing voice had consigned me to the
hangman. I had walled the monster up within the tomb!
Colour and existence
The red death as a
symbol of death which comes when it wants despite every human effort to avert
it. Colour red as an emblem of horror of death ('.blood was its
Avatar and its seal -- the redness and the horror of blood.' ).
The black chamber - shrouded in heavy black velvet tapestries,
with a carpet of the same material and colour and scarlet window panes
of 'a deep blood colour' - is a representation of the lack of life
(the hosts at the masked ball which Prince Prospero had in his palace do not
enter it because they are scared). The scarlet window panes represent
the horror which colours the moment of passing away. A gigantic clock of ebony
is an emblem of the relentless passing of time of life towards death.
THE 'Red Death' had long devastated
the country. No pestilence had ever been so fatal, or so hideous. Blood was its
Avatar and its seal -- the redness and the horror of blood. There were
sharp pains, and sudden dizziness, and then profuse bleeding at the pores, with
dissolution. The scarlet stains upon the body and especially upon the face of
the victim, were the pest ban which shut him out from the aid and from the
sympathy of his fellow-men. And the whole seizure, progress and termination of
the disease, were the incidents of half an hour. But the Prince Prospero was
happy and dauntless and sagacious. When his dominions were half depopulated, he
summoned to his presence a thousand hale and light-hearted friends from among
the knights and dames of his court, and with these retired to the deep
seclusion of one of his castellated abbeys. This was an extensive and
magnificent structure, the creation of the prince's own eccentric yet august
taste. A strong and lofty wall girdled it in. This wall had gates of iron.
The courtiers, having entered, brought furnaces and massy hammers and welded
the bolts. They resolved to leave means neither of ingress or egress to the
sudden impulses of despair or of frenzy from within. The abbey was amply
provisioned. With such precautions the courtiers might bid defiance to
contagion. The external world could take care of itself. In the meantime it was
folly to grieve, or to think. The prince had provided all the appliances of
pleasure. There were buffoons, there were improvisatori, there were
ballet-dancers, there were musicians, there was Beauty, there was wine. All
these and security were within. Without was the 'Red Death.'
It was toward the close of the fifth or sixth month of his seclusion, and while
the pestilence raged most furiously abroad, that the Prince Prospero
entertained his thousand friends at a masked ball of the most unusual
magnificence. It was a voluptuous scene, that masquerade. But first let me tell
of the rooms in which it was held. There were seven -- an imperial suite. In
many palaces, however, such suites form a long and straight vista, while the
folding doors slide back nearly to the walls on either hand, so that the view
of the whole extent is scarcely impeded. Here the case was very different; as
might have been expected from the duke's love of the bizarre.
The apartments were so irregularly disposed that the vision embraced but little
more than one at a time. There was a sharp turn at every twenty or thirty
yards, and at each turn a novel effect. To the right and left, in the middle of
each wall, a tall and narrow Gothic window looked out upon a closed corridor
which pursued the windings of the suite. These windows were of stained glass
whose color varied in accordance with the prevailing hue of the decorations of
the chamber into which it opened. That at the eastern extremity was hung, for
example, in blue -- and vividly blue were its windows. The second chamber was
purple in its ornaments and tapestries, and here the panes were purple. The
third was green throughout, and so were the casements. The fourth was furnished
and lighted with orange -- the fifth with white -- the sixth with violet. The
seventh apartment was closely shrouded in black velvet tapestries that
hung all over the ceiling and down the walls, falling in heavy folds upon a
carpet of the same material and hue. But in this chamber only, the color of the
windows failed to correspond with the decorations.
The panes here were scarlet -- a deep blood color. Now in no one of the seven
apartments was there any lamp or candelabrum, amid the profusion of golden
ornaments that lay scattered to and fro or depended from the roof. There was no
light of any kind emanating from lamp or candle within the suite of chambers.
But in the corridors that followed the suite, there stood, opposite to each
window, a heavy tripod, bearing a brazier of fire that protected its rays
through the tinted glass and so glaringly illumined the room. And thus were
produced a multitude of gaudy and fantastic appearances. But in the western or black
chamber the effect of the fire-light that streamed upon the dark hangings
through the blood-tinted panes, was ghastly in the extreme, and produced so
wild a look upon the countenances of those who entered, that there were few of
the company bold enough to set foot within its precincts at all. It was in this
apartment, also, that there stood against the western wall, a gigantic clock of
ebony. Its pendulum swung to and fro with a dull, heavy, monotonous clang; and
when the minute-hand made the circuit of the face, and the hour was to be
stricken, there came from the brazen lungs of the clock a sound which was clear
and loud and deep and exceedingly musical, but of so peculiar a note and
emphasis that, at each lapse of an hour, the musicians of the orchestra were
constrained to pause, momentarily, in their performance, to hearken to the
sound; and thus the waltzers perforce ceased their evolutions; and there was a
brief disconcert of the whole gay company; and, while the chimes of the clock
yet rang, it was observed that the giddiest grew pale, and the more aged and
sedate passed their hands over their brows as if in confused reverie or
meditation. But when the echoes had fully ceased, a light laughter at once
pervaded the assembly; the musicians looked at each other and smiled as if at
their own nervousness and folly, and made whispering vows, each to the other,
that the next chiming of the clock should produce in them no similar emotion;
and then, after the lapse of sixty minutes, (which embrace three thousand and
six hundred seconds of the Time that flies,) there came yet another chiming of
the clock, and then were the same disconcert and tremulousness and meditation
as before. But, in spite of these things, it was a gay and magnificent revel. The
tastes of the duke were peculiar. He had a fine eye for colors and effects. He
disregarded the decora of mere fashion. His plans were bold and fiery, and his
conceptions glowed with barbaric lustre.
There are some who would have thought him mad. His followers felt that he was
not. It was necessary to hear and see and touch him to be sure that he was not.
He had directed, in great part, the moveable embellishments of the seven
chambers, upon occasion of this great fete; and it was his own guiding taste which
had given character to the masqueraders. Be sure they were grotesque. There
were much glare and glitter and piquancy and phantasm -- much of what has been
since seen in 'Hernani.' There were arabesque figures with unsuited
limbs and appointments. There were delirious fancies such as the madman
fashions. There was much of the beautiful, much of the wanton, much of the
bizarre, something of the terrible, and not a little of that which might have
excited disgust. To and fro in the seven chambers there stalked, in fact, a
multitude of dreams. And these -- the dreams -- writhed in and about, taking
hue from the rooms, and causing the wild music of the orchestra to seem as the
echo of their steps. And, anon, there strikes the ebony clock which stands in
the hall of the velvet. And then, for a moment, all is still, and all is silent
save the voice of the clock. The dreams are stiff-frozen as they stand. But the
echoes of the chime die away -- they have endured but an instant -- and a
light, half-subdued laughter floats after them as they depart. And now again
the music swells, and the dreams live, and writhe to and fro more merrily than
ever, taking hue from the many-tinted windows through which stream the rays
from the tripods. But to the chamber which lies most westwardly of the seven,
there are now none of the maskers who venture; for the night is waning away;
and there flows a ruddier light through the blood-colored panes; and the blackness
of the sable drapery appals; and to him whose foot falls upon the sable carpet,
there comes from the near clock of ebony a muffled peal more solemnly emphatic
than any which reaches their ears who indulge in the more remote gaieties of
the other apartments. But these other apartments were densely crowded, and in
them beat feverishly the heart of life. And the revel went whirlingly on, until
at length there commenced the sounding of midnight upon the clock. And then the
music ceased, as I have told; and the evolutions of the waltzers were quieted;
and there was an uneasy cessation of all things as before. But now there were
twelve strokes to be sounded by the bell of the clock; and thus it happened,
perhaps, that more of thought crept, with more of time, into the meditations of
the thoughtful among those who revelled. And thus, too, it happened, perhaps,
that before the last echoes of the last chime had utterly sunk into silence,
there were many individuals in the crowd who had found leisure to become aware
of the presence of a masked figure which had arrested the attention of no
single individual before. And the rumor of this new presence having spread
itself whisperingly around, there arose at length from the whole company a
buzz, or murmur, expressive of disapprobation and surprise -- then, finally, of
terror, of horror, and of disgust. In an assembly of phantasms such as I have
painted, it may well be supposed that no ordinary appearance could have excited
such sensation. In truth the masquerade license of the night was nearly
unlimited; but the figure in question had out-Heroded Herod, and gone beyond
the bounds of even the prince's indefinite decorum. There are chords in the
hearts of the most reckless which cannot be touched without emotion. Even with
the utterly lost, to whom life and death are equally jests, there are matters
of which no jest can be made. The whole company, indeed, seemed now deeply to
feel that in the costume and bearing of the stranger neither wit nor propriety
existed. The figure was tall and gaunt, and shrouded from head to foot in the
habiliments of the grave. The mask which concealed the visage was made so
nearly to resemble the countenance of a stiffened corpse that the closest
scrutiny must have had difficulty in detecting the cheat. And yet all this
might have been endured, if not approved, by the mad revellers around. But the
mummer had gone so far as to assume the type of the Red Death. His
vesture was dabbled in blood -- and his broad brow, with all the features of
the face, was besprinkled with the scarlet horror. When the eyes of Prince
Prospero fell upon this spectral image (which with a slow and solemn movement,
as if more fully to sustain its role, stalked to and fro among the waltzers) he
was seen to be convulsed, in the first moment with a strong shudder either of
terror or distaste; but, in the next, his brow reddened with rage. 'Who
dares?' he demanded hoarsely of the courtiers who stood near him --
'who dares insult us with this blasphemous mockery? Seize him and unmask
him -- that we may know whom we have to hang at sunrise, from the battlements!'
It was in the eastern or blue chamber in which stood the Prince Prospero as he
uttered these words. They rang throughout the seven rooms loudly and clearly --
for the prince was a bold and robust man, and the music had become hushed at
the waving of his hand. It was in the blue room where stood the prince, with a
group of pale courtiers by his side. At first, as he spoke, there was a slight
rushing movement of this group in the direction of the intruder, who at the
moment was also near at hand, and now, with deliberate and stately step, made
closer approach to the speaker. But from a certain nameless awe with which the
mad assumptions of the mummer had inspired the whole party, there were found
none who put forth hand to seize him; so that, unimpeded, he passed within a
yard of the prince's person; and, while the vast assembly, as if with one
impulse, shrank from the centres of the rooms to the walls, he made his way
uninterruptedly, but with the same solemn and measured step which had
distinguished him from the first, through the blue chamber to the purple --
through the purple to the green -- through the green to the orange -- through
this again to the white -- and even thence to the violet, ere a decided
movement had been made to arrest him. It was then, however, that the Prince
Prospero, maddening with rage and the shame of his own momentary cowardice,
rushed hurriedly through the six chambers, while none followed him on account
of a deadly terror that had seized upon all.
He bore aloft a drawn dagger, and had approached, in rapid impetuosity, to
within three or four feet of the retreating figure, when the latter, having
attained the extremity of the velvet apartment, turned suddenly and confronted
his pursuer. There was a sharp cry -- and the dagger dropped gleaming upon the
sable carpet, upon which, instantly afterwards, fell prostrate in death the
Prince Prospero. Then, summoning the wild courage of despair, a throng of the
revellers at once threw themselves into the black apartment, and, seizing
the mummer, whose tall figure stood erect and motionless within the shadow of
the ebony clock, gasped in unutterable horror at finding the grave-cerements
and corpse-like mask which they handled with so violent a rudeness, untenanted
by any tangible form. And now was acknowledged the presence of the Red
Death. He had come like a thief in the night. And one by one dropped the
revellers in the blood-bedewed halls of their revel, and died each in the
despairing posture of his fall. And the life of the ebony clock went out with
that of the last of the gay. And the flames of the tripods expired. And
Darkness and Decay and the Red Death held illimitable dominion over all.
Farbe und Existenz Bedeutung der Literatur
Das Thema der Farbe wie handgreiflicher Zeichen des Menschlichen Existenz und distinktive Merkmale des Individuums.
Hohe Herren von der Akademie!
Sie erweisen mir die Ehre, mich aufzufordern, der Akademie einen Bericht über
mein äffisches Vorleben einzureichen. In diesem Sinne kann ich leider der
Aufforderung nicht nachkommen. Nahezu fünf Jahre trennen mich vom Affentum,
eine Zeit, kurz vielleicht am Kalender gemessen, unendlich lang aber
durchzugaloppieren, so wie ich es getan habe, streckenweise begleitet von
vortrefflichen Menschen, Ratschlägen, Beifall und Orchestralmusik, aber im
Grunde allein, denn alle Begleitung hielt sich, um im Bilde zu bleiben, weit
von der barrière.
Diese Leistung wäre unmöglich gewesen, wenn ich eigensinnig hätte an meinem
Ursprung, an den Erinnerungen der Jugend festhalten wollen. Gerade Verzicht auf
jeden Eigensinn war das oberste Gebot, das ich mir auferlegt hatte; ich, freier
Affe, fügte mich diesem Joch.
Dadürch verschlossen sich mir aber ihrerseits die Erinnerungen immer mehr. War
mir zuerst die Rückkehr, wenn die Menschen gewollt hätten, freigestellt durch
das ganze Tor, das der Himmel über der Erde bildet, wurde es gleichzeitig mit
meiner vorwärtsgepeitschten Entwicklung immer niedriger und enger; wohler und
eingeschlossener fühlte ich mich in der Menschenwelt; der Sturm, der mir aus
meiner Vergangenheit nachblies, sänftigte sich; heute ist es nur ein Luftzug,
der mir die Fersen kühlt; und das Loch in der Ferne, durch das er kommt und
durch das ich einstmals kam, ist so klein geworden, daß ich, wenn überhaupt die
Kräfte und der Wille hinreichen würden, um bis dorthin zurückzulaufen, das Fell
vom Leib mir schinden müßte, um durchzukommen.
Offen gesprochen, so gerne ich auch Bilder wähle für diese Dinge, offen
gesprochen: Ihr Affentum, meine Herren, sofern Sie etwas Derartiges hinter sich
haben, kann Ihnen nicht ferner sein als mir das meine. An der Ferse aber
kitzelt es jeden, der hier auf Erden geht: den kleinen Schimpansen wie den
großen Achilles. In eingeschränktestem Sinn aber kann ich doch vielleicht Ihre
Anfrage beantworten und ich tue es sogar mit größer Freude. Das erste, was ich
lernte, war: den Handschlag geben; Handschlag bezeigt Offenheit; mag nun heute,
wo ich auf dem Hdhepunkte meiner Laufbahn stehe, zu jenem ersten Handschlag
auch das offene Wort hinzukommen.
Es wird für die Akademie nichts wesentlich Neues beibringen und weit hinter dem
zurückbleiben, was man von mir verlangt hat und was ich beim besten Willen
nicht sagen kann -immerhin, es soll die Richtlinie zeigen, auf welcher ein
gewesener Affe in die Menschenwelt eingedrungen ist und sich dört festgesetzt
hat. Doch dürfte ich selbst das Geringfügige, was folgt, gewiß nicht sagen,
wenn ich meiner nicht vdllig sicher wäre und meine Stellung auf allen großen
Varietébühnen der zivilisierten Welt sich nicht bis zur Unerschütterlichkeit
gefestigt hätte. Ich stamme von der Goldküste. Darüber, wie ich eingefangen
wurde, bin ich auf fremde Berichte angewiesen.
Eine Jagdexpedition der Firma Hagenbeck -mit dem Führer habe ich übrigens
seither schon manche gute Flasche Rotwein geleert-lag im Ufergebüsch auf
dem Anstand, als ich am Abend inmitten eines Rudels zur Trdnke lief. Man schoB;
ich warder einzige, der getroffen wurde; ich bekam zwei Schüsse. Einen in die
Wange; der war leicht; hinterlieB aber eine groBe ausrasierte rote
Narbe, die mir den widerlichen, ganz und gar unzutreffenden, förmlich von einem
Affen erfundenen Namen Rotpeter eingetragen hat, so als unterschiede ich
mich von dem unlängst krepierten, hie und da bekannten, dressierten Affentier
Peter nur durch den roten Fleck auf der Wange. Dies nebenbei.
Der zweite Schuß traf mich unterhalb der Hüfte. Er war schwer, er hat es
verschuldet, daß ich noch heute ein wenig hinke. [] Nach jenen Schüssen
erwachte ich -und hier beginnt allmählich meine eigene Erinnerung - in einem
Käfig im Zwischendeck des Hagenbeckschen Dampfers. Es war kein vierwandiger
Gitterkäfig; vielmehr waren nur drei Wände an einer Kiste festgemacht; die
Kiste also bildete die vierte Wand. Das Ganze war zu niedrig zum Aufrechtstehen
und zu schmal zum Niedersitzen. Ich hockte deshalb mit eingebogenen, ewig
zitternden Knien, und zwar, da ich zunächst wahrscheinlich niemanden sehen und
immer nur im Dunkel sein wollte, zur Kiste gewendet, während sich mir hinten
die Gitterstäbe ins Fleisch einschnitten. Man hält eine solche Verwahrung
wilder Tiere in-der allerersten Zeit für vorteilhaft, und ich kann heute nach
meiner Erfahrung nicht leugnen, daB dies im menschlichen Sinn -tatsächlich der
Fall ist. Daran dachte ich aber damals nicht. Ich war zum erstenmal in meinem
Leben ohne Ausweg; zumindest geradeaus ging es nicht; geradeaus vor mir war die
Kiste, Brett fest an Brett gefügt. Zwar war zwischen den Brettern cine durchlaufende
Lücke, die ich, als ich sie zuerst entdeckte, mit dem glückseligen Heulen des
Unverstandes begrüßte, aber diese Lücke reichte bei weitem nicht einmal zum
Durchstecken des Schwanzes aus und war mit aller Affenkraft nicht zu
verbreitern. []
Ich hatte doch so viele Auswege bisher gehabt und nun keinen mehr. Ich war
festgerannt. Hätte man mich angenagelt, meine Freizügigkeit wäre dadurch nicht
kleiner geworden. Warum das? Kratz dir das Fleisch zwischen den Fußzehen auf,
du wirst den Grund nicht finden. Drück dich hinten gegen die Gitterstange, bis
sie dichIast zweiteilt, du wirst den Grund nicht finden. Ich hatte keinen
Ausweg, mußte mir ihn aber verschaffen, denn ohne ihn konnte ich nicht leben.
Immer an dieser Kistenwand-ich wäre unweigerlich verreckt. Aber Affen gehören
bei Hagenbeck an die Kistenwand - nun, so hörte ich auf, Affe zu sein. Ein
klarer, schdner Gedankengang, den ich irgendwie mit dem Bauch ausgeheckt haben
muß, denn Affen denken mit dem Bauch. Ich habe Angst, daß man nicht genau versteht,
was ich unter Ausweg verstehe. Ich gebrauche das Wort in seinem gewöhnlichsten
und vollsten Sinn. Ich sage absichtlich nicht Freiheit.
Ich meine nicht dieses große Gefühl der Freiheit nach allen Seiten. Als Affe
kannte ich es vielleicht, und ich habe Menschen kennengelernt, die sich danach
sehnen. Was mich aber anlangt, verlangte ich Freiheit weder damals noch heute.
Nebenbei: mit Freiheit betri.igt man sich unter Menschen allzuoft. Und so wie
die Freiheit zu den erhabensten Gefühlen zählt, so auch die entsprechende
Täuschung zu den erhabensten. Oft habe ich in den Varietés vor meinem Auftreten
irgendein Künstlerpaar oben an der Decke an Trapezen hantieren sehen. Sie
schwangen sich, sie schaukelten, sie sprangen, sie schwebten einander in die
Arme, einer trug den anderen an den Haaren mit dem Gebiß. 'Auch das ist
Menschenfreiheit', dachte ich, 'selbstherrliche Bewegung'. Du
Verspottung der heiligen Natur! Kein Bau würde standhalten vor dem Gelächter
des Affentums bei diesem Anblick. Nein, Freiheit wollte ich nicht. Nur einen
Ausweg; rechfs, links, wohin immer; ich stellte keine anderen Forderungen;
sollte der Ausweg auch nur cine Täuschung sein; die Forderung war klein, die
Täuschung würde nicht größer sein.
Weiterkommen, weiterkommen! Nur nicht mit aufgehobenen Armen stillestehn,
angedrückt an eine Kistenwand. Heute sehe ich klar: ohne größte innere Ruhe
hätte ich nie entkommen k8nnen. Und tatsächlich verdanke ich vielleicht alles,
was ich geworden bin, der Ruhe, die mich nach den ersten Tagen dort im Schiff
überkam. Die Ruhe wiederum aber verdankte ich wohl den Leuten vom Schiff. Es
sind gute Menschen, trotz allem. Gerne erinnere ich mich noch heute an den
Klang ihrer schweren Schritte, der damals in meinem Halbschlaf widerhallte. Sie
hatten die Gewohnheit, alles äußerst langsam in Angriff zu nehmen. Wollte sich
einer die Augen reiben, so hob er die Hand wie ein Hängegewicht. Ihre Scherze
waren grob, aberherzlich. Ihr Lachen war immer mit einem gefährlich klingenden
aber nichts bedeutenden Husten gemischt. Immer hatten sie im Mund etwas zum
ausspeien und wohin sie ausspien war ihnen gleichgültig. Immer klagten sie, daß
meine Fldhe auf sie überspringen; aber doch waren sie mir deshalb niemals
ernstlich böse; sie wußten eben, daß in meinem Fell Flöhe gedeihen und daß
Flöhe Springer sind; damit fanden sie sich ab.
Wenn sie dienstfrei waren, setzten sich manchmal einige im Halbkreis um mich
nieder; sprachen kaum, sondern gurrten einander nur zu; rauchten, auf Kisten
ausgestreckt, die Pfeife; schlugen sich aufs Knie, sobald ich die geringste
Bewégung machte; und hie und da nahm einer einen Stecken und kitzelte mich
dort, wo es mir angenehm war. Sollte ich heute eingeladen werden, eine Fahrt
auf diesem Schiffe mitzumachen, ich würde die Einladung gewiß ablehnen, aber
ebenso gewiß ist, daß es nicht nur häßliche Erinnerungen sind, denen ich dort
im Zwischendeck nachhängen könnte. Die Ruhe, die ich mir im Kreise dieser Leute
erwarb, hielt mich vor allem von jedem Fluchtversuch ab. Von heute aus gesehen
scheint es mir, als hätte ich zumindest geahnt, daß ich einen Ausweg finden
müsse, wenn 'rch leben wolle, daß dieser Ausweg aber nicht durch Flucht zu
erreichen sei. Ich weiß nicht mehr, ob Flucht möglich war, aber ich glaube es;
einem Affen sollte Flucht immer möglich sein. Mit meinen heutigen Zähnen muß
ich schon beim gewöhnlichen Nüsseknacken vorsichtig sein, damals aber hätte es
mir wohl im Lauf der Zeit gelingen müssen, das Türschloß durchzubeißen. Ich tat
es nicht. Was wäre damit auch gewonnen gewesen? Man hätte mich, kaum war der
Kopf hinausgesteckt, wieder eingefangen und in einen noch schlimmeren Käfig
gesperrt; oder ich hätte mich unbemerkt zu anderen Tieren, etwa zu den
Riesenschlangen mir gegenüber flnchten können und mich in ihren Umarmungen
ausgehaucht; oder es wäre mir gar gelungen, mich bis aufs Deck zu stehlen und
über Bord zu springen, dann hätte ich ein Weilchen auf dem Weltmeer geschaukelt
und wäre ersoffen. Verzweiflungstaten. Ich rechnete nicht so menschlich, aber
unter dem Einfluß meiner Umgebung verhielt ich mich so, wie wenn ich gerechnet
hätte. Ich rechnete nicht, wohl aber beobachtete ich in aller Ruhe. Ich sah
diese Menschen auf und ab gehen, immer die gleichen Gesichter, die gleichen
Bewegungen, oft schien es mir, als wäre es nur einer. Dieser Mensch oder diese
Menschen gingen also unbehelligt. Ein hohes Ziel dämmerte mir auf. Niemand
versprach mir, daß, wenn ich su wie sie werden würde, das Gitter aufgezogen
werde. Solche Versprechungen für scheinbar unmögliche Erfüllungen werden nicht
gegeben. Lbst man aber die Erfüllungen ein, erscheinen nachträglich auch die
Versprechungen genau dort, wo man sie früher vergeblich gesucht hat.
Nun war an diesen Menschen an sich nichts, was mich sehr verlockte. Wäre ich
ein Anhänger jener erwähnten Freiheit, ich hätte gewiß das Weltmeer dem Ausweg
vorgezogen, der sich mir im trüben Blick dieser Menschen zeigte. Jedenfalls
aber beobachtete ich sie schon lange vorher, che ich an solche Dinge dachte, ja
die angehßuften Beobachtungen drängten mich erst in die bestimmte Richtung. Es
war so leicht, die Leute nachzuahmen. Spucken konnte ich schon in den ersten
Tagen. Wir spuckten einander dann gegenseitig ins Gesicht; der Unterschied war
nur, daß ich mein Gesicht nachher reinleckte, sie ihres nicht. Die Pfeife
rauchte ich bald wie ein Alter; drückte ich dann auch noch den Daumen in den
Pfeifenkopf, jauchzte das ganze Zwischendeck; nur den Unterschied zwischen der
leeren und der gestopften Pfeife verstand ich lange nicht. Die meiste Mühe
machte mir die Schnapsflasche. Der Geruch peinigte mich; ich zwang mich mit
allen Kräften; aber es vergingen Wochen, che ich mich überwand. Diese inneren
Kämpfe nahmen die Leute merkwürdigerweise ernster als irgend etwas sonst an
mir. Ich unterscheide die Leute auch in meiner Erinnerung nicht, aber da war
einer, der kam immer wieder, allein oder mit Kameraden, bei Tag, bei Nacht, zu
den verschiedensten Stunden; stellte sich mit der Flasche vor mich hin und gab
mir Unterricht. Er begriff mich nicht, er wollte das Rätsel meines Seins lösen.
Er entkorkte langsam die Flasche und blickte mich dann an, um zu prüfen, ob ich
verstanden habe; ich gestehe, ich sah ihm immer mit wilder, mit überstürzter
Aufmerksamkeit zu; einen solchen Menschenschüler findet kein Menschenlehrer auf
dem ganzen Erdenrund; nachdem die Flasche entkorkt war, hob er sie zum Mund;
ich mit meinen Blicken ihm nach bis in die Gurgel; er nickt, zufrieden mit mir,
und setzt die Flasche an die Lippen; ich, entzückt von allmählicher Erkenntnis,
kratze mich quietschend der Länge und Breite nach, wo es sich trifft; er freut
sich, setzt die Flasche an und macht einen Schluck; ich, ungeduldig und
verzweifelt, ihm nachzueifern, verunreinige mich in meinem Käfig, was wieder
ihm große Genugtuung macht; und nun weit die Flasche von sich streckend und im
Schwung sie wieder hinaufführend, trinkt er sie, übertrieben lehrhaft
zurückgebeugt, mit einem Zuge leer. Ich, ermattet von allzu großem Verlangen,
kann nicht mehr folgen und hänge schwach am Gitter, während er den
theoretischen Unterricht damit beendet, daß er sich den Bauch streicht und
grinst. Nun erst beginnt die praktische übung.
Bin ich nicht schon allzu erschöpft durch das Theoretische? Wohl, allzu
erschöpft. Das gehört zu meinem Schicksal. Trotzdem greife ich, so gut ich
kann, nach der hingereichten Flasche; entkorke sie zitternd; mit dem Gelingen
stellen sich allmählich neue Kräfte ein; ich hebe die Flasche, vom Original
schon kaum zu unterscheiden; setze sie an und-und werfe sie mit Abscheu, mit
Abscheu, trotzdem sie leer ist und nur noch der Geruch sie füllt, werfe sie mit
Abscheu auf den Boden. Zur Trauer meines Lehrers, zur größeren Trauer meiner
selbst; weder ihn noch mich versöhne ich dadurch, daß ich auch nach dem
Wegwerfen der Flasche nicht vergesse, ausgezeichnet meinen Bauch zu streichen
und dabei zu grinsen. Allzuoft nur verlief so der Unterricht. Und zur Ehre
meines Lehrers: er war mir nicht böse; wohl hielt er mir manchmal die brennende
Pfeife ans Fell, bis es irgendwo, wo ich nur schwer hinreichte, zu glimmen
anfing, aber dann löschte er es selbst wieder mit seiner riesigen guten Hand;
er war mir nicht böse, er sah ein, daß wir auf der gleichen Seite gegen die
Affennatur kämpften und daß ich den schwereren Teil hatte. Was für ein Sieg
dann allerdings für ihn wie für mich, als ich eines Abends vor großem
Zuschauerkreis - vielleicht war ein Fest, ein Grammophon spielte, ein Offizier
erging sich zwischen den Leuten - als ich an diesem Abend, gerade unbeachtet,
eine vor meinem Käfig versehentlich stehengelassene Schnapsflasche ergriff,
unter steigender Aufmerksamkeit der Gesellschaft sie schulgerecht entkorkte, an
den Mund setzte und ohne Zögern, ohne Mundverziehen, als Trinker vom Fach, mit
rund gewälzten Augen, schwappender Kehle, wirklich und wahrhaftig leer trank;
nicht mehr als Verzweifelter, sondern als Künstler die Flasche hinwarf; zwar
vergaß den Bauch zu streichen; dafür aber, weil ich nicht anders konnte, weil
es mich drängte, weil mir die Sinne rauschten kurz und gut 'Hallo!'
ausrief, in Menschenlaut ausbrach, mit diesem Ruf in die Menschengemeinschaft
sprang und ihr Echo: 'Hört nur, er spricht!' wie einen Kuß auf meinem
ganzen schweißtriefenden Körper fühlte. Ich wiederhole: es verlockte mich
nicht, die Menschen nachzuahmen; ich ahmte nach, weil ich einen Ausweg suchte,
aus keinem anderen Grund. Auch war mit jenem Sieg noch wenig getan. Die Stimme
versagte mir sofort wieder; stellte sich erst nach Monaten ein; der Widerwille
gegen die Schnapsflasche kam sogar noch verstärkter.
Aber meine Richtung allerdings war mir ein für allemal gegeben. Als ich in
Hamburg dem ersten Dresseur übergeben wurde, erkannte ich bald die zwei
Möglichkeiten, die mir offenstanden: Zoologischer Garten oder Varieté. Ich
zögerte nicht. Ich sagte mir: setze alle Kraft an, um ins Varieté zu kommen; das
ist der Ausweg; Zoologischer Garten ist nur ein neuer Gitterkäfig; kommst du in
ihn, bist du verloren. Und ich lernte, meine Herren. Ach, man lernt, wenn man
muß; man lernt, wenn man einen Ausweg will; man lernt rücksichtslos. Man
beaufsichtigt sich selbst mit der Peitsche; man zerfleischt sich beim
geringsten Widerstand. Die Affennatur raste, sich überkugelnd, aus mir hinaus
und weg, so daß mein erster Lehrer selbst davon fast äffisch wurde, bald den
Unterricht aufgeben und in cine Heilanstalt gebracht werden mußte.
Glücklicherweise kam er bald wieder hervor.
Aber ich verbrauchte viele Lehrer, ja sogar einige Lehrer gleichzeitig. Als ich
meiner Fähigkeiten schon sicherer geworden war, die Offentlichkeit meinen
Fortschritten folgte, meine Zukunft zu leuchten begann, nahm ich selbst Lehrer
auf, ließ sie in fünf aufeinanderfolgenden Zimmern niedersetzen und lernte bei
allen zugleich, indem ich ununterbrochen aus einem Zimmer ins andere sprang.
Diese Fortschritte! Dieses Eindringen der Wissensstrahlen von allen Seiten ins
erwachende Hirn! Ich leugne nicht: es beglückte mich. Ich gestehe aber auch
ein: ich überschätzte es nicht, schon damals nicht, wieviel weniger heute.
Durch cine Anstrengung, die sich bisher auf der Erde nicht wiederholt hat, habe
ich die Durchschnittsbildung eines Europäers erreicht.
Das wäre an sich vielleicht gar nichts, ist aber insofern doch etwas, als es
mir aus dem Käfig half und mir diesen besonderen Ausweg, diesen Menschenausweg
verschaffte. Es gibt eine ausgezeichnete deutsche Redensart: sich in die Büsche
schlagen; das habe ich getan, ich habe mich in die Büsche geschlagen. Ich hatte
keinen anderen Weg, immer vorausgesetzt, daß nicht die Freiheit zu wählen war.
Uberblicke ich meine Entwicklung und ihr bisheriges Ziel, so klage ich weder,
noch bin ich zufrieden.
Die Hände in den Hosentaschen, die Weinflasche auf dem Tisch, liege ich halb,
halb sitze ich im Schaukelstuhl und schaue aus dem Fenster. Kommt Besuch,
empfange ich ihn, wie es sich gebührt. Mein Impresario sitzt im Vorzimmer; läute
ich, kommt er und hört, was ich zu sagen habe. Am Abend ist fast immer
Vorstellung, und ich habe wohl kaum mehr zu steigernde Erfolge. Komme ich spät
nachts von Banketten, aus wissenschaftlichen Gesellschaften, aus gemütlichem
Beisammensein nach Hause, erwartet mich eine kleine halbdressierte Schimpansin
und ich lasse es mir nach Affenart bei ihr wohlgehen. Bei Tag will ich sie
nicht sehen; sie hat nämlich den Irrsinn des verwirrten dressierten Tieres im
Blick; das erkenne nur ich, und ich kann es nicht ertragen. Im ganzen habe ich
jedenfalls erreicht, was ich erreichen wollte. Man sage nicht, es wäre der Mühe
nicht wert gewesen. Im nbrigen will ich keines Menschen Urteil, ich will nur
Kenntnisse verbreiten, ich berichte nur, auch Ihnen, hohe Herren von der
Akademie, habe ich nur berichtet.
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