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Paradosso, assurdo e umorismo nella cultura del ventesimo secolo




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PARADOSSO, ASSURDO E UMORISMO NELLA CULTURA DEL VENTESIMO SECOLO



Queste tre tematiche diventano collegate da una rete fittissima di rapporti nella cultura del ventesimo secolo, grazie anche all'opera di alcuni importanti artisti e scrittori.


L'umorismo è infatti oggetto di numerosi studi, tanto che diventa argomento ricorrente di produzioni artistiche e letterarie: viene messa in luce, in particolare, la nota paradossale assunta da alcuni tipi di umorismo, ben conoscendo il lato umoristico di paradossi e assurdità.


Il tema dell'assurdo gioca un ruolo non secondario nella cultura di inizio secolo, in particolare come articolazione artistica del concetto filosofico di assurdità dell'esistenza, che trova la sua massima forma di espressione nel Teatro dell'Assurdo, caratterizzato dal deliberato abbandono di un costrutto drammaturgico razionale e dal rifiuto del linguaggio logico consequenziale.


Lo studio (e l'impiego) dei paradossi risale invece a tempi molto più antichi, anche se proprio agli inizi del ventesimo secolo torna nuovamente in voga, presentandosi all'interno di discussioni logiche come l'elemento che caratterizza problemi irrisolti e controversie riguardanti la matematica e la fisica.

Il termine deriva dal greco para (che significa contro, oltre), e doxa (che significa opinione); è quindi qualcosa che sfida l'opinione comune, che va contro le aspettative, o secondo la definizione del filosofo inglese Mark Sainsbury, 'una conclusione apparentemente inaccettabile, che deriva da premesse apparentemente accettabili per mezzo di un ragionamento apparentemente accettabile'.

In logica, in particolare, si distingue il concetto di paradosso (una proposizione perfettamente dimostrata, ma lontana dall'intuizione) da quello di antinomia: una vera e propria contraddizione logica a cui si arriva quando due tesi sono in contrasto tra loro ma possono essere entrambe dimostrate o giustificate.



Inizierò presentando una serie di paradossi logici e antinomie  più o meno famosi e più o meno divertenti.

Il più conosciuto è il cosiddetto "Paradosso del mentitore', che in realtà è un'antinomia ed è generalmente attribuito ad Epimenide, risalente quindi al sesto secolo a.C:

"Tutti i cretesi sono bugiardi"

Questa affermazione non sembra particolarmente assurda se non si considera che lo stesso Epimenide era originario dell'isola di Creta; il non-sense nasce dal fatto che se tutti i cretesi mentono, anche l'affermazione di Epimenide è falsa, il che significa che è falso dire che tutti i cretesi sono bugiardi. E così via! Per questo, come per tutti gli altri paradossi che si rispettino, non esiste una soluzione ragionevole, perché si è portati a trarre conclusioni contraddittorie a proposito del valore di verità di ognuna delle affermazioni.

Una versione più semplice, ma logicamente equivalente può essere: "Io sto mentendo", nella quale si nega l'affermazione nel momento stesso in cui la si pronuncia.

L'antinomia del mentitore ha suscitato l'interesse di un'innumerevole varietà di filosofi, scienziati e matematici, dall'antichità fino ad oggi. Venne affrontato, per esempio, da pensatori come Aristotele, Seneca e Cicerone.


Un'altra antinomia risalente alla classicità è il dilemma del coccodrillo, di attribuzione incerta, simile nel percorso logico al paradosso del mentitore, ma espressa sotto forma di storiella: si narra che un giorno un coccodrillo afferrò un bambino imprudente, che giocava sulle rive del Nilo, intenzionato a divorarlo. La madre accorse implorando che le fosse restituito il figlio. Il coccodrillo propose alla madre: 'Dimmi cosa farò del piccolo: se indovinerai te lo restituirò, se sbaglierai lo mangerò.'

La madre rispose senza esitare: 'Tu lo mangerai!'

'In questo caso," osservò il coccodrillo, "se te lo restituisco significa che tu non hai indovinato, e in base a quanto stabilito me lo mangerò.'

Ma l'astuta madre replicò: "Ma se tu mangi il bambino, io avrò indovinato le tue azioni, e in base a quanto stabilito me lo dovrai restituire."

Il problema riguarda non tanto chi sia il vincitore logico della discussione, ma se ci possa essere un vincitore: infatti il coccodrillo non può, qualunque cosa faccia, mantenere la propria promessa, poiché se lo restituisce, la madre ha detto il falso e perciò doveva mangiarlo, se invece lo mangia, allora la madre ha detto il vero e perciò doveva restituirlo.

Non sarebbe sorto alcun paradosso se la madre avesse risposto: "Tu mi ridarai il bambino"; in questo caso infatti, il coccodrillo avrebbe mantenuto la promessa in qualunque caso: se avesse mangiato il bambino, la madre avrebbe sbagliato, se lo avesse restituito la donna avrebbe dato la risposta corretta.


I paradossi hanno affascinato i pensatori e i logici fin dall'antichità e questo ambito è tutt'altro che estinto: numerosi matematici si sono occupati di studiare quelli esistenti e di inventarne di nuovi, anche nell'età contemporanea.

Uno di questi è David Hilbert, che teorizzò il paradosso dell'hotel infinito nel 1920.

Immaginiamo un hotel con un numero infinito di stanze, ciascuna delle quali sia occupata. Supponiamo si presenti un viaggiatore a chiedere una camera e il proprietario risponde: 'Spiacente, siamo al completo, ma posso sicuramente trovarle una sistemazione'.

Per liberare una camera per il nuovo ospite, il proprietario dovrebbe spostare chi occupava la camera 1 nella 2, quello della 2 nella 3, quello della 3 nella 4 e così via.
In tal modo il nuovo ospite potrà alloggiare nella camera 1 che risulterà libera.

Immaginiamo ora che si presentino un numero infinito di ospiti: per trovare loro una sistemazione il proprietario potrebbe utilizzare ripetutamente la strategia attivata precedentemente, tuttavia i vecchi ospiti sarebbero sicuramente scontenti di essere spostati continuamente in una nuova stanza.

La soluzione sta semplicemente nello spostare ogni ospite nella stanza con numero doppio rispetto a quello attuale (dalla 1 alla 2, dalla 2 alla 4,etc.), lasciando ai nuovi ospiti tutte le camere con i numeri dispari, che sono essi stessi infiniti, risolvendo dunque il problema. Gli ospiti sono tutti dunque sistemati, benché l'albergo fosse pieno.

In questo caso non si può parlare di antinomia, perché non si arriva a conclusioni contradditorie (a parte le difficoltà che si otterrebbero tentando di costruire un hotel con un numero infinito di stanze), ma si tratta semplicemente di una teoria logicamente dimostrata, che contrasta con il senso comune.


Una delle antinomie più famose è stata elaborata da Bertrand Russell, matematico e logico inglese vissuto nel ventesimo secolo.

Fu scoperta nel 1901, mentre il suo collega tedesco Frege stava scrivendo un'opera riguardante i principi fondamentali della logica matematica, che dalla nuova antinomia di Russell potevano essere messi in crisi.

In particolare gli studi di Russell mettevano in luce nella teoria tradizionale degli insiemi una contraddizione insolubile, che può essere riassunta così: detto A l'insieme che contiene tutti gli insiemi che non sono membri di sé stesso, è A membro di se stesso?

Questo quesito è insolubile, poiché se A è membro di sé stesso, per definizione non può appartenere all'insieme, mentre se non lo è, soddisfa le condizioni di appartenenza a sé stesso.

Le difficoltà furono superate solo grazie ad una nuova, complicata teoria, che fu presentata nei Principia Mathematica, prodotto della collaborazione tra Russell e altri importanti matematici.

Lo stesso concetto può essere espresso, meno formalmente, con questo esempio del tutto equivalente, il cosiddetto "Paradosso del barbiere":

'In un villaggio c'è un unico barbiere. Il barbiere rade tutti (e soli) gli uomini che non si radono da soli. Il barbiere rade se stesso?'.

Si possono fare due ipotesi: se il barbiere rade se stesso, ne segue per conseguenza che deve appartenere all'insieme degli uomini che non si radono da soli, il che è contraddice l'ipotesi; se invece il barbiere non si rade, dovrebbe necessariamente appartenere all'insieme degli uomini che il barbiere rade.

Anche in questo caso si arriva ad una contraddizione.


Colui che nel Novecento ha portato il paradosso nell'ambito grafico e ne ha fatto l'oggetto primo del suo studio e della sua arte è Maurits Cornelis Escher, grafico olandese.

Pur non avendo una preparazione scientifica di base, molte sue opere contengono una forte componente matematica: i suoi disegni hanno spesso a che fare con costruzioni geometriche paradossali, se non completamente impossibili, che ha realizzato utilizzando principalmente la sua fantasia.

Ma chi era esattamente Escher? C'è chi lo ha definito grafico, chi artista, chi matematico: forse è tutte e tre queste cose messe insieme, o forse nessuna delle tre! Di certo, sappiamo che la sua geniale personalità creativa ha dato vita ad interessanti, ingegnosi, paradossali ed illusori esercizi di geometria e psicologia applicata.

Una tra le opere più particolari e conosciute di questo artista non ha a che fare con la matematica, ma è un vero è proprio paradosso grafico.

Mani che disegnano fu realizzato nel 1948 e raffigura due mani, ognuna impegnata a disegnare l'altra, entrambe rappresentate su un foglio di carta, a sua volta fissato con puntine su una tavola da disegno. La litografia presenta diversi elementi paradossali, il più evidente dei quali è il circolo vizioso dell'autoreferenza, dovuto al fatto che ognuna delle mani sta disegnando l'altra.

Inoltre è presente anche un'altra forte contraddizione: il contrasto tra la bidimensionalità di un'opera figurativa e la tridimensionalità di ciò che esso raffigura.

In questa, ed in molte altre opere, Escher rende evidente a chi osserva che ogni disegno è una forma di illusione.

L'inganno prodotto da Escher è sviluppato con tale logica visiva che all'osservatore non possono sfuggire gli effetti contraddittori prodotti. Molte sue opere sono costruite come dei paradossi logici: sembrano basate su premesse vere (le immagini), per mezzo di ragionamenti corretti (la composizione), e tuttavia portano a conclusioni contraddittorie (mondi impossibili).

Una di queste è, per esempio, la litografia Salire e scendere, del 1960, nella quale si può vedere una costruzione architettonica paradossale, nella quale due file opposte di figure incappucciate salgono e scendono contemporaneamente un insieme rettangolare di scale.

A uno sguardo più attento ci si accorge che i personaggi che salgono risultano sempre salire, mentre quelli che scendono risultano sempre scendere. Nonostante la struttura rettangolare della scala sia chiusa, il paradosso visivo permane, per cui si può continuare a salire o scendere senza andare più in alto o più in basso.

La struttura della scala di Salire e scendere si basa, essenzialmente, sulla scala impossibile di PENROSE, che mostra, in pratica, l'illusione detta dello Strange Loop (letteralmente "anello strano"), fenomeno che consiste nel fatto di ritrovarsi inaspettatamente, salendo o scendendo lungo i gradini di qualche sistema gerarchico, al punto di partenza.

In relatività (1953) Escher dà origine ad una raffigurazione unitaria che rappresenta, simultaneamente, tre mondi distinti.

Vengono infatti proposti tre diversi livelli di applicazione dello stesso paradosso: tre mondi paralleli e separati coesistono all'interno di un edificio in cui sulle pareti, sul soffitto e sul pavimento si aprono finestre e porte da cui partono scale. Sedici figure umane si muovono nell'ambiente, suddivise in tre gruppi.

Ciò che per un gruppo è il soffitto, per un altro gruppo è la parete, e ciò che per un gruppo è una finestra per un altro gruppo è un'apertura nel pavimento: diverse realtà condividono un'impossibile convivenza.

Molti critici hanno cercato di trovare un significato profondo nelle creazioni di questo artista, ma probabilmente nella sua opera non c'è niente di tutto questo, come dimostra chiaramente una frase che lo stesso Escher disse:

'Non posso fare a meno di prendermi gioco di tutte le nostre certezze incrollabili. E' molto divertente, per esempio, confondere deliberatamente due e tre dimensioni, il piano e lo spazio e scherzare con la gravità'.



Anche il mondo letterario conosce (sempre nel Novecento) un momento di interesse per il paradosso, o meglio per l'assurdo.

Il teatro dell'assurdo mette in scena nel secondo dopoguerra l'alienazione dell'uomo contemporaneo, la crisi, l'angoscia, la solitudine, la totale impossibilità di ogni comunicazione attraverso situazioni e dialoghi surreali, costituiti da squarci di quotidianità scomposti e rimontati in modo da creare un effetto comico e tragico al tempo stesso. L'azione e, a volte, anche il dialogo sono ridotti al minimo, le vicende sono apparentemente senza senso: in questo modo si scardina ogni convenzione e regola teatrale, si capovolge ogni criterio di verosimiglianza e di realtà.

Proprio queste sono le caratteristiche che contraddistinguono la struttura delle opere teatrali di Samuel Beckett, in particolare il suo capolavoro: Waiting for Godot.

The plot of Waiting for Godot is really simple: the play deals with two tramps, Vladimir and Estragon, who spend the two acts near a sickly looking tree on a bit of wasted ground waiting for a mysterious man, named Godot. They spend their time quarrelling, conversing, mulling over suicide, trying to sleep or eating (some carrots and chews and some chicken bones).

Two additional characters appear (Pozzo and Lucky) and pause for a while conversing with the two tramps: Pozzo is on his way to the market to sell his slave, Lucky, who is forced by his master to perform a bizarre and grotesque show.

After Pozzo and Lucky leave out, a young boy arrives to say that Godot will not come that day, but he would surely come the following one.

Here ends the first act.

The second one is formally identical to the first: the two tramps meet near the tree and start doing the same things they were doing the previous day.

Pozzo and Lucky enter again the scene, but their roles are reverted: Pozzo is now the slave, strictly controlled by Lucky. No one of them remembers their meeting on the day before.

They leave out, and Vladimir and Estragon keep on waiting.

Shortly after, the boy enters and once again tells them that Godot will not be coming; he too doesn't remember having met the tramps the previous day.

Estragon and Vladimir decide to leave, but they don't move as the curtain falls, ending the play.

The simplicity of the play makes it closely adherent to the "rule of the three unities", theorized by the Greek philosopher Aristotle: it consists in considering good a play only if it respected unity of action, time and setting.

The place is a muddy plateau with one tree, a kind of gallows which invites the tramps to consider hanging themselves. This place is indifferently any place or no place: it is perhaps best characterized as being the place where Godot is not.

As the play develops we realize that Godot is not in any place comparable to the setting of the play: he will not come out of one place into another.

The time is two days, but it might be any sequence of days in anyone's life. It's the equivalent to what is announced in the title: the act of waiting.

Time is really immobility, although a few minor changes take place during the play: Pozzo and Lucky exchange each other they're positions, the tree leave out some sprouts.

The act of waiting is never over, and yet it mysteriously starts up again each day.

The action, in the same way, describes a circle: each day is the return to the beginning, because each day is identical to the previous one and to the following one.

The main theme of the play is obviously that of waiting, shown in all his uselessness and absurdity: it's a non-action which involves not only the characters on the stage, but the audience as well, which is kept waiting for what is going to happen next, while nothing happens at all.

The total absence of events is an important feature of the play, which underlines the strangeness, the meaningless and the insignificance not only of the whole world, but of life itself.

In scene after scene the permanent absurdity is stressed: for example, in the scene between the master and the slave, Lucky is held on a leash by Pozzo, he carries a heavy suitcase without ever thinking of dropping it and he's able to pronounce his long incoherent speech only when he has his hat on and when Pozzo commands him to think.

Many ingenious theories have been advanced to provide satisfactory interpretations for Beckett's play: the religious and the social one are the most valid theories.

In some critics' theories Waiting for Godot could be a satirical interpretation of the society: each character would symbolize a particular social class, because of how they behave in the play.

The tramps would symbolize the middle class, indifferent to everything and just waiting for happiness, who could be represented by Godot.

The relation between Pozzo and Lucky could symbolize the exploitation of the proletariat by the capitalism.

The religious interpretation is even richer and it takes its starting point from Godot' name: it's easy to see that it contains the word God.

Moreover the connection between God and Godot is firmly established, also because of many references to religion put by the author in the play.

For example, in the first act, the tramps discuss about the Bible, in particular about the two thieves surrounding Christ during the crucifixion. Then, when the discussion turns to Godot, Estragon associates their request from Godot with 'A kind of prayer'.

This interpretation considers the two tramps as Everyman and his conscience: Estragon is inconstant, childish, inclined to fall asleep and dream, at one moment even ready to hang himself; on the contrary Vladimir is practical, persistent, intellectual, rational, more hopeful, even in temperament. It consists in the medieval debate between body and soul, between the irrational and the intellectual side present in man.

Pozzo would seem to be the evil master, symbolizing the evil, while Lucky could be a Christ figure.

This interpretation could also be confirmed by the fact that in the second act their roles are inverted: it could represent Christ's triumph over the evil.

The range of possible religious interpretations is virtually endless.

Anyway, as it was for Escher's creations, probably Beckett's play too has not been written with an aim, apart from showing the absurd of everyday life.

The author himself, in a letter written in 1953 to a French radio programme, explains how the play has no meaning: "I know no more about this play than anyone who manages to read it attentively. I do not know in what spirit I wrote it. I know no more about the characters than what they say, what they do, and what happens to them. [.] I do not know who Godot is. I do not even know if he exists. And I do not know if they believe he does or doesn't, those two who are waiting for him".

In fact the meaning of the play is strictly linked with Godot's one, and both are meaningless, at least in Beckett's idea.



Molti critici sostengono che il Teatro dell'Assurdo di Beckett abbia le sue radici nella produzione teatrale di altri drammaturghi precedenti: uno di questi è Luigi Pirandello.

Qualcosa di simile al teatro dell'assurdo viene prodotto infatti, in Italia, da Pirandello, che tuttavia non si occupa soltanto di questo, ma è scrittore completo ed eterogeneo: poeta, narratore e drammaturgo.

Esordisce come verista, con novelle paesane, ma fin dall'inizio il suo stile è caricaturale e grottesco, mirante piuttosto a distruggere la realtà che a rappresentarla con scrupolo naturalistico.

Nel 1910 Pirandello inizia la sua carriera nel teatro: riesce a mettere in scena gli atti unici L'epilogo (scritto nel 1898) e Lumìe di Sicilia (1911).

Inizialmente lo schema del teatro pirandelliano è quello del dramma veristico-borghese tardo ottocentesco, nel quale la dinamica dei rapporti si ispira ai ruoli fissi e spesso assurdi che la forma sociale impone agli individui.

Ma mentre le scene e gli sfondi restano in gran parte quelli della commedia borghese di fine Ottocento, i drammi inscenati dall'autore siciliano assumono un carattere allucinato e paradossale, che sconvolge gli equilibri espressivi, lasciando affiorare una sorta di ininterrotto flusso, apparentemente raziocinante, ma in realtà condizionato dall'insensatezza complessiva della vita.

Già negli anni della Grande Guerra la produzione teatrale di Pirandello si orienta sempre più in direzione grottesca e dissacrante, con le opere Così è (se vi pare) (1917) e Il Giuoco delle parti (1918).

Il suo crescente impegno nella produzione drammatica lo porta presto ad affermarsi come uno degli autori più originali e conosciuti nella produzione internazionale: il suo teatro è completamente innovativo, porta in scena il disagio personale e quello della cultura e della società italiana, sconvolta dalla prima Guerra Mondiale ed in piena trasformazione.

Con il passare del tempo l'impegno politico che era alla base delle commedie grottesche e delle prime produzioni si rivela essere una componente accessoria dei drammi pirandelliani.

Nelle opere teatrali dei primi anni venti è infatti ormai evidente che, sul piano dei contenuti, la critica alla drammaturgia borghese si allontana sempre di più dalla denuncia sociale: il vero scenario dei drammi di questo periodo non è più il concreto e ben determinato contesto storico‑sociale contemporaneo, ma una riflessione sulla condizione umana priva di specifici riferimenti temporali.

Questo è il momento più importante della sua produzione teatrale, quello in cui sperimenta 'il teatro nel teatro', chiamato più precisamente metateatro, il cui significato etimologico è al di là del teatro.

Con questo termine s'intendono quegli spettacoli teatrali che raccontano la messa in scena di un dramma: Pirandello abolisce la finzione scenica come principio costitutivo, facendo sì che il teatro diventi il luogo stesso in cui si svolge il dramma vero, non quello finto, e diventa l'emblema del contrasto finzione-realtà che caratterizza la condizione dell'uomo moderno.
I personaggi si affacciano sulla scena per 'sconvolgere il mondo di convinzioni e di forme' in cui vivono gli stessi spettatori, facendo esplodere le contraddizioni e le assurdità del perbenismo borghese, giocando con spietata chiarezza con quella visione umoristica che conduce all'assurdo attraverso il reale e il verosimile.

I primi esempi di questo nuovo genere teatrale sono l'Enrico IV (1921), Sei personaggi in cerca d'autore (1921), Ciascuno a modo suo (1924).

L'Enrico IV è appunto la messa in scena di una messa in scena: durante una cavalcata in costume il protagonista dell'opera, un giovane travestito da Enrico IV, viene sbalzato da cavallo e cade, sbattendo la testa; quando riprende conoscenza il giovane è convinto di essere il personaggio che stava interpretando, e rimane intrappolato dentro questa identità.

Considerato impazzito da tutti, viene rinchiuso nella sua villa, allestita come la reggia del sovrano, insieme a quattro servitori, che si prestano al gioco nel ruolo di consiglieri segreti: l'uomo porta avanti la bizzarra rappresentazione che, con il tempo, assume i tratti di una normale quotidianità.

Dopo dodici anni il protagonista riprende coscienza e capisce di non essere in realtà l'imperatore Enrico IV, ma evita che altri se ne accorgano, continuando a fingersi pazzo, per poter portare avanti la propria rappresentazione.

Egli si è accorto, infatti, di aver perso gli anni migliori della sua vita, gli amici, la donna della quale era innamorato, si è reso conto di aver vissuto per dodici anni come un imperatore dell'XI secolo, ma ha capito che ormai quella è diventata la sua vita, quel castello è la sua casa e che lui, in pratica, è Enrico IV.

Affermerà di aver finto di essere ancora pazzo perché, rinsavito, aveva scoperto amaramente di essere arrivato "con una fame da lupo ad un banchetto già bell'e sparecchiato", riferendosi a quei dodici anni mai esistiti per lui e goduti dagli altri .

La decisione, dunque, di ritornare nella prigione della pazzia è dettata dalla constatazione che nel mondo non c'è più posto per lui .

Nel finale, mostrandosi guarito per un attimo, ma poi tornando a recitare la propria pazzia, si toglie la soddisfazione di uccidere il suo passato rivale in amore, colui che aveva fatto imbizzarrire il suo cavallo ed era poi diventato l'amante della sua innamorata.

Enrico IV sceglie la strada stretta e difficile di vivere in una lucida diversità, in sospensione fra normalità e follia, confine sottilissimo, che supera i limiti del palcoscenico per diventare segno distintivo di un tragico rifiuto di quella parte di umanità che respinge la diversità e l'individualità.

Il personaggio di Enrico è stato visto per lo più come un personaggio positivo, che sceglie di autoemarginarsi, piuttosto che integrarsi in una società conformista, ma non mancano i critici che vedono in Enrico 'la dimensione di rinuncia, di autorepressione, di rifiuto della vita, in una parola di pulsione di morte'.

Il personaggio di Enrico IV ricorda un po' Mattia Pascal, che come lui, una volta uscito dalla sua realtà non riesce più, per quanto si sforzi, a ritornavi e per vivere deve accettare di essere morto.

L'Enrico IV e Il fu Mattia Pascal sono due tra le opere più importanti di Pirandello, infatti entrambe contengono numerosi temi a lui cari, primo tra tutti quello della pazzia.

La presenza di questa è facilmente riconoscibile nell'opera teatrale, è argomento fondamentale e ricorrente: Enrico trasforma la pazzia reale in un paravento contro la vita per cui, col procedere del dramma, i pazzi sembrano essere coloro che, apparentemente normali, assecondano un finto folle che finge di essere un re.

Ne Il fu Mattia Pascal la presenza della pazzia è più velata, ma comunque messa in evidenza da alcuni particolari: il nome del protagonista, Mattia, significa appunto matto, pazzo, come rivela la frase pronunciata dal fratello al protagonista: "Mattia, l'ho sempre detto io, Mattia, matto Matto! matto! matto!".

Altro tema ricorrente nell'opera di Pirandello è l'alienazione dell'uomo, che è causata dal fatto che i suoi personaggi hanno un impellente desiderio di libertà, che tuttavia non riescono a raggiungere.

Per nascondere questa alienazione, per provare almeno a sentirsi liberi e felici, tutti (o quasi) i personaggi pirandelliani indossano una maschera, conforme a ciò che da loro si aspettano gli altri (società e lavoro): per Enrico IV è la pazzia, mentre per Mattia Pascal è un'altra identità, che sia quella di Adriano Meis o quella del nuovo Mattia, che va a deporre i fiori sulla propria tomba.

Il quadro sulla società è quindi sconsolante, fondata sulla finzione (anche involontaria) e sul credere vero ciò che non lo è.

Luigi Pirandello si occupa anche di umorismo, non solo perché tutte le sue opere sono ricchissime di elementi comici e divertenti, ma anche perché scrive un vero e proprio saggio su questo argomento.

L'opera conosce la sua prima edizione integrale nel 1908, dedicata alla "buon'anima di Mattia Pascal bibliotecario".

Ciò non è casuale, poiché proprio ne Il fu Mattia Pascal lo scrittore applica per la prima volta la poetica dell'umorismo, nel senso che egli non si accontenta della semplice narrazione degli avvenimenti, ma sente l'esigenza di riflettere e di produrre meccanismi di riflessione anche nel lettore, i quali sono la manifestazione principale dell'umorismo.

Il saggio è composto da una prima parte erudita e storico-filologica e da una seconda, più importante, di natura più psicologica.

La prima parte si apre con la discussione del significato del termine umorismo: Pirandello ne respinge l'accezione comune (qualcosa che fa ridere) e lo contrappone all'ironia retorica, nella quale la contraddizione è solo verbale e apparente, mentre è essenziale in quello.

L'umorismo è la parziale inibizione del riso di pura superiorità, che si ha nei confronti della vittima del ridicolo, quando ci si immedesima con questa: è un riso non più «schietto e facile» ma amaro, ambivalente, turbato e complicato da un sentimento opposto.

L'umorismo è infatti il 'sentimento del contrario', a differenza del comico, che è solo 'l'avvertimento del contrario'.

L'esempio proviene dallo stesso Pirandello: ' Vedo una vecchia signora coi capelli ritinti., poi tutta imbellettata e parata d'abiti giovanili. Avverto che quella signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere'.

Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Se però subentra la riflessione, si può pensare che la povera donna sia costretta a mascherarsi così nel disperato tentativo di trattenere a se l'amore del marito più giovane di lei; ecco che allora la risata lascia il posto ad un complesso di sentimenti più profondi e più umanamente vicini a quella vistosa maschera. Dall'avvertimento del contrario si è quindi passati al sentimento del contrario, che rompe il riso e fa vedere una realtà più triste, difficile per l'uomo.

Luigi Pirandello nelle sue riflessioni spiega che un comico fa ridere proprio perché all'apparenza mostra al pubblico il contrario di quello che dovrebbe essere mentre l'umorista invece spinge a riflettere sul motivo del contrario, passando così da un sentimento di avversione, che faceva ridere il pubblico, ad un sentimento quasi di compassione e non più una risata divertita, ma un sorriso di comprensione.



Dell'umorismo si è occupato anche Sigmund Freud, il padre della psicanalisi e di tutta la psicologia moderna che, infatti, ne studia soprattutto i rapporti con l'inconscio, nel suo saggio Il motto di spirito (e la sua relazione con l'inconscio), scritto nel 1905.

Molti considerano quest'opera deludente, come è dimostrato dal fatto che pur trattando un tema ricorrente nella cultura contemporanea, essa è passata quasi inosservata ed è tuttora pressoché sconosciuta, a differenza di molte altre opere di Freud (per esempio L'interpretazione dei sogni).

Forse un'opinione del genere deriva dal fatto che tale opera solleva quasi più problemi di quanti ne ha risolti, ma forse sta proprio in questo la sua grandezza.

Per prima cosa Freud analizza molti dei motti di spirito di cui è a conoscenza, separandoli in numerose categorie, in base alla tecnica che li rende spiritosi.

Il primo gruppo analizzato è quello dei motti di spirito per condensazione, termine con il quale l'autore intende un risparmio delle parole utilizzate, che può essere raggiunto indifferentemente unendo più parole per formarne una unica, omettendone alcune per creare un significato nascosto o semplicemente cambiandone la disposizione.

Lo spostamento è il secondo meccanismo di cui si occupa e consiste nella deviazione di un pensiero verso un tema diverso, nel sostituire il significato di una parola con un altro.

Molto simile a questo meccanismo è quello dell'allusione, con il quale si fa intendere qualcosa senza citarlo direttamente, passando per associazioni e deduzioni,  trasmettendone il significato per mezzo di doppi sensi, metafore o equivocità.

Un'altra tecnica è quella della rappresentazione mediante contrario, nel paragonare cioè qualcosa con il suo opposto, ma è più facile spiegare questo concetto tramite un esempio: "Quella donna assomiglia in molti punti alla Venere di Milo: è come lei straordinariamente vecchia, come lei non ha denti e ha delle macchie bianche sulla superficie giallastra del corpo".

Il motto, che risale a H. Heine, è una rappresentazione della bruttezza per mezzo di ciò che è più bello per eccellenza: queste concordanze ovviamente sono caratteristiche secondarie, che non possono essere messe in relazione tra una donna e una statua.

Una caratteristica comune a tutti i meccanismi analizzati è che tutti i motti di spirito sembrano essere tali esclusivamente per la forma, mentre il pensiero sembra ininfluente: ciò che fa ridere non è il significato delle parole, ma il modo in cui esse sono utilizzate.

Ciò stupisce Freud, perché tutte queste tecniche, che sembrano svolgere un ruolo decisivo nel motto di spirito, possono essere usate in maniera non spiritosa: esistono allusioni, condensazioni (cioè frasi ridotte, abbreviate) che non sono affatto spiritose, e ciò vale anche per tutte le altre tecniche.

Terminato questo tipo di analisi, Freud suddivide ulteriormente i motti di spirito in due categorie, separando quelli tendenziosi da quelli che non lo sono.

Con il termine tendenzioso intende quel tipo di motti che vogliono suggerire un'idea, trasmettere un giudizio su qualcos'altro: non sempre questi sono apprezzati, perché a volte urtano la sensibilità di qualcuno.

Per questo i motti non tendenziosi sono anche chiamati innocui: essi sono fini a sé stessi, non hanno un'intenzione particolare.

In generale i motti di spirito hanno il potere di provocare nell'ascoltatore una sensazione di piacere, che nel caso dei motti innocui non può, ovviamente derivare dalla tendenza, ma neanche (come osservato in precedenza) dal contenuto; non resta altro da fare che mettere questa sensazione di piacere in relazione con la tecnica del motto.

Tuttavia Freud nota come il piacere provocato da un motto innocuo sia molto inferiore a quello che deriva da un motto tendenzioso, quindi prosegue analizzando quest'ultimo tipo, per capire se esso dispone di fonti di piacere a cui i motti innocui non hanno accesso.

Quando un motto non è fine a se stesso, può assumere due tendenze: o è ostile, serve cioè ad aggredire, a satireggiare o a offendere l'oggetto del motto, oppure è osceno, cioè serve, con le parole stesse di Freud, a "denudare".

Quest'ultimo è stato molto raramente oggetto d'indagine, quasi per paura che l'argomento trattato si trasferisse alla trattazione stessa.

Freud analizza anche questo genere di motti, mostrando come l'oscenità spesso coincida con la scurrilità, che tuttavia è tollerata e ritenuta accettabile solo in quanto spiritosa.

Il mezzo tecnico di cui essa si serve generalmente è l'allusione, e si osserva che quanto più grande è la sproporzione tra ciò che è direttamente espresso nel discorso osceno e ciò che è soltanto suggerito, tanto più fine e divertente è il motto di spirito.

Diventa evidente ciò che il motto di spirito compie in servizio della tendenza: rende possibile il soddisfacimento di un impulso nonostante un ostacolo che vi si frappone, aggirandolo e attingendo piacere direttamente da una fonte che era resa inaccessibile.

Si può anche rilevare che, per quanto riguarda il motto di spirito tendenzioso, non si è in grado di distinguere quale parte di piacere derivi dalla tecnica e quale dalla tendenza.

Analogamente a quanto mostrato per i motti tendenziosi osceni, vale per i motti ostili, infatti nella società abbiamo dovuto rinunciare all'ostilità diretta e apertamente espressa nei confronti di una persona, per una migliore convivenza, il che costituisce un ostacolo alla soddisfazione dei nostri desideri e quindi al raggiungimento del piacere.

Il motto di spirito ostile ci permette di sfruttare ciò che può essere messo in ridicolo degli altri, ma che non può essere espresso direttamente, aggirando l'ostacolo e riaprendo le fonti di piacere.

Per quanto analizzato finora il piacere ricavato dai motti di spirito ha essenzialmente due fonti: la tecnica e la tendenza.

Nel motto di spirito tendenzioso il piacere deriva dal soddisfacimento di una tendenza che sarebbe altrimenti rimasta insoddisfatta, a causa di ostacoli che le si contrappongono; essi possono essere di natura esterna, se sulla via del soddisfacimento c'è un ostacolo che viene aggirato grazie al motto, oppure interna, quando alla realizzazione della tendenza si oppone una resistenza interna, il cui superamento provoca il raggiungimento del piacere, ricavato dall'aver evitato il processo di rimozione che sarebbe intervenuto al crearsi dell'ostacolo.

I due casi si distinguono tra loro solo per il fatto che nel primo viene aggirata un'inibizione già esistente, mentre nel secondo si evita che ne sorga una nuova.

Poiché un'inibizione psichica richiede un dispendio energetico per essere prodotta e mantenuta, Freud ritiene che il piacere derivato dal motto provenga dal risparmio di energia psichica.

Ciò che dà valore ad un motto di spirito è quindi il risparmio del dispendio energetico richiesto, per esempio, da un'inibizione o da una repressione.

Freud torna ora ad analizzare i motti innocui, per cercare di capire se anch'essi hanno nel risparmio dell'energia psichica una fonte di piacere.

I motti innocui, per la loro natura di essere fini a sé stessi, sono per lo più giochi di parole, controsensi, motti verbali e artifici stilistici, così l'autore si chiede se anche queste tecniche non abbiano in realtà come fine un risparmio energetico.

In effetti la risposta è positiva, e la facilitazione del lavoro psichico consiste nell'anteporre al significato di una parola (o del motto intero) la sua rappresentazione: passare da un ambito di rappresentazione ad un altro, attraverso doppi sensi, assonanze o altre tecniche, procura piacere, perché si applica un risparmio che il "cammino del pensiero" deve fare: tanto più distanti sono i due ambiti messi in relazione, tanto maggiore è il risparmio di energia psichica, con il conseguente piacere provocato.

Tra i motti innocui va riconosciuta particolare importanza a quelli che utilizzano come tecniche controsenso, rappresentazione mediante contrario, errori di ragionamento e simili.

Queste tecniche, riunite sotto il termine comune di "piacere dell'assurdo" sono praticamente censurate dalla nostra mente: la ragion critica e la logica ci proibiscono di produrre pensieri di questo tipo, che costituiscono una vera e propria fuga dalla razionalità.

Il processo psichico che produce piacere in questo tipo di motti è esattamente uguale a quello degli altri motti innocui, ma questi in particolare risultano molto più divertenti proprio perché attingono ad un piacere che ci è particolarmente precluso nella vita seria.

Infatti il solo giocare con i pensieri porta inevitabilmente all'assurdo, mentre il giocare con le parole solo occasionalmente fa quest'impressione e non suscita regolarmente la critica che ad essa si collega: il maggiore piacere ci deriva quindi dall'aver aggirato una repressione molto energica.

In generale, dall'analisi appena effettuata, Freud ricava che il piacere, in un motto di spirito, è ricavato sia dalla forma, sia dal contenuto, e che il meccanismo è l'eliminazione di repressioni e rimozioni.

Terminata l'analisi sui meccanismi che producono un motto di spirito, Freud ne analizza le dinamiche sociali: una caratteristica che incuriosisce Freud è il fatto che nessuno si accontenta di fare un motto per sé solo, ma prova l'urgenza di comunicarlo a più persone possibili.

Citando Shakespeare: "Il successo di uno scherzo sta nell'orecchio/Di chi lo sente e mai nella lingua/Di chi lo fa.".

Queste parole colgono in pieno una caratteristica del motto di spirito: il piacere che procura si vede molto più espressamente in chi lo ascolta piuttosto che nell'autore stesso.

Il riso è un fenomeno di scarico dell'eccitazione psichica, che avviene quando una certa quantità di questa energia diventa inutilizzabile, così da potersi scaricare liberamente.

Nell'autore di un motto di spirito si svolge infatti il lavoro spiritoso, al quale deve corrispondere un certo ammontare di dispendio psichico: egli fornisce in prima persona la forza necessaria a togliere l'inibizione e questa va sottratta al guadagno fruttato dalla soppressione.

È nell'ascoltatore, invece, che tutta l'energia psichica provocata dal motto viene liberata immediatamente, provocando il riso.

La comunicazione di un motto di spirito agli altri potrebbe quindi servire ad un duplice scopo: a dare la certezza all'autore della riuscita del lavoro del proprio spirito e ad aumentare il proprio piacere grazie agli effetti che il riso dell'ascoltatore produce; è infatti evidente come il riso sia una delle manifestazioni più contagiose degli stati psichici.

Nell'analisi del motto di spirito Freud ha individuato quanto importante sia l'inconscio e come esso sia la causa del piacere prodotto nell'ascoltatore.

Prosegue nella sua interpretazione confrontando il motto di spirito con una delle più importanti manifestazioni del lavoro dell'inconscio: il sogno, che aveva analizzato cinque anni prima nell'opera L'interpretazione dei sogni.

Freud riscontra una concordanza tra i meccanismi che caratterizzano lo spirito e quelli presenti nel sogno: condensazione, spostamento e rappresentazione indiretta sono presenti in entrambe le manifestazioni.

Questo suggerisce che il processo di formazione del motto in prima persona possa essere assimilabile con quello del sogno, che Freud già conosce: il residuo diurno (la trama di tutti i pensieri tessuti durante il giorno), per mezzo del lavoro onirico, deve essere trasformato in un desiderio, di solito inconscio, che si trasforma poi in sogno; tuttavia il lavoro onirico sottopone il materiale di pensiero ad una forte elaborazione, facendo prendere una forma allucinatoria al sogno.

Il materiale onirico subisce quindi processi come la condensazione e lo spostamento, esattamente nello stesso modo in cui si manifestano nel motto di spirito.

Anche se entrambi sono manifestazioni del nostro inconscio e entrambi si servono dei medesimi meccanismi, sogno e motto di spirito restano due sfere diverse e separate della mente: il sogno è la manifestazione di un desiderio rimosso, lo spirito è il risparmio di energia psichica.

Infatti, mentre il sogno crea compromessi con l'inibizione, trasformando e utilizzando desideri rimossi, lo spirito la evita, scegliendo i casi in cui, grazie all'ambiguità delle parole, sembra significativo.

La differenza più rilevante sta nel loro atteggiamento sociale: mentre il sogno è un prodotto psichico assolutamente individuale, lo spirito è la più sociale delle manifestazioni della nostra psiche.

Deve quindi vincolarsi alle condizioni della comprensibilità e non può fare ricorso alla deformazione come avviene invece nel sogno.

Si può dire quindi che il sogno serva prevalentemente a far risparmiare dispiacere, il motto di spirito a far guadagnare piacere, ma verso queste due finalità convergono tutte le nostre attività psichiche.



Proprio a partire dalle teorie di Freud sull'inconscio, in particolare sul sogno, si sviluppa il movimento artistico del Surrealismo, del quale è considerato l'ispiratore.

Il Surrealismo afferma l'importanza della dimensione del sogno nella totalità della natura umana, da cui consegue la necessità di liberare nell'uomo le forze oniriche dell'inconscio anche nel suo stato di veglia.

Andrè Breton, poeta francese autore e ideatore del manifesto del Surrealismo, riconosceva l'apporto fondamentale degli studi di psicanalisi, anzi dichiarava apertamente che il metodo psicanalitico era proprio la strada da seguire per raggiungere la libertà dell'immaginazione: lasciarsi guidare dall'inconscio, come accade nei sogni, lasciare che le immagini scorrano nella propria mente liberamente, per rivelare la nostra interiorità, che altrimenti resterebbe ignota anche a noi stessi.

Freud, d'altra parte, aveva subito preso le distanze da questa scomoda 'paternità', accusando i surrealisti di essere dei 'pazzi integrali'.

La sua opinione cambia però di fronte alle opere di Dalì, di cui ammira la notevole padronanza tecnica; inoltre si dichiara profondamente interessato nello scoprire la genesi delle opere dell'artista, rimanendo affascinato, dal punto di vista psicanalitico, dalla complessa personalità del pittore, che tuttavia incontra una sola volta, nel 1938.

In effetti Salvador Dalì è l'artista nel quale il Surrealismo trova la propria espressione più completa ed esasperata.

Il Surrealismo per Dalí era l'occasione per far emergere il suo inconscio, per il principio dell'automatismo psichico teorizzato da Breton, secondo il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente che per iscritto o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero.

Dalí diede anche un nome preciso al proprio automatismo psichico: metodo paranoico-critico, che l'artista delinea in un saggio fondamentale,'La conquista dell'irrazionale'(1935),dove descrive le proprie ricerche.

Per attività paranoico-critica intende un metodo spontaneo di conoscenza irrazionale basato sull'associazione interpretativo-critica di fenomeni deliranti.

Dunque le immagini che l'artista cerca di fissare sulla tela nascono dal torbido agitarsi del suo inconscio (la paranoia) e riescono a prendere forma solo grazie alla razionalizzazione del delirio (momento critico).
Discendono dal metodo paranoico-critico anche quei cassetti che Dalì dissemina nelle sue opere come Lo stipo antropomorfico (1936), Giraffa in fiamme (1936-37), o della sua celebre  Venere di Milo a cassetti (1936).

Egli stesso spiega il significato di quei cassetti, affermando che dopo gli studi di Freud "Il corpo umano [.] è oggi pieno di cassetti segreti che soltanto la psicanalisi è in grado di aprire".

Giraffa in fiamme è appunto una di quelle composizioni che Dalì riempie di cassetti; il dipinto rappresenta principalmente tre figure che emergono da un paesaggio desolato e quasi desertico: in primo piano, posizionata centralmente, c'è una figura antropomorfa femminile, è l'immagine della donna smontabile, priva di volto e di identità esteriore, lungo il corpo della quale si aprono innumerevoli cassetti vuoti.

La posizione di questo corpo femminile appare instabile, per la posizione delle spalle e delle braccia, che sembrano muoversi istintivamente alla ricerca di un nuovo equilibrio; inoltre la donna è sorretta da un sistema di stampelle e impalcature, che si unisce in tre punti alle sue spalle.

Lungo la gamba sinistra della donna si apre una serie di sette cassetti, in ordine crescente verso l'alto, completata da un ottavo stipo all'altezza del petto della donna.

In secondo piano ci sono due figure, emblematiche almeno tanto quanto la prima: sulla destra una donna, vista di profilo, dalla schiena della quale si aprono moltissimi cassetti, molto più vicini rispetto a quelli della prima; dalla sua testa partono dei rami, intesi come fioritura del pensiero superiore e onirico, parte integrante della creatività umana; la figura femminile alza al cielo un drappo rosso, simbolo di violenza.

Sulla sinistra c'è, invece, la figura che dà il titolo all'intera opera, una giraffa infuocata; essa è la materializzazione della guerra civile, scoppiata proprio in quel momento in Spagna, rappresenta quindi la violenza della guerra, ed è un presagio di morte.

Una delle opere più conosciute di Dalì, oltre ad essere una delle più caratteristiche, è La persistenza della memoria, creata nel 1931.

Con questo dipinto, precedente alla serie di opere caratterizzate dalla presenza di cassetti, l'artista mette in pratica al massimo il metodo paranoico-critico, facendo emergere l'inconscio.

Il paesaggio è inquadrato dall'altro e l'uso della luce è particolare, infatti nonostante il paesaggio sia nel complesso molto luminoso e non ci siano sorgenti naturali, si possono riconoscere ombre ben distinte sul terreno e vicino agli oggetti; tuttavia non si può distinguere un'unica posizione della sorgente luminosa, poiché interpretando alcuni particolari (l'albero e l'orologio molle sul tavolo) essa dovrebbe trovarsi alla destra dell'osservatore, mentre l'ombra proiettata sul terreno sembra indicare che la luce proviene da dietro l'osservatore.

L'opera è ambientata in un paesaggio naturalistico, apparentemente una spiaggia deserta: si può vedere un promontorio in lontananza, e il mare che lambisce la costa; l'orizzonte non è distinguibile, perché mare e cielo si mescolano in una macchia di colore chiara e luminosa.

In primo piano, sulla sinistra c'è un tavolo, dal quale spunta uno spoglio alberello mentre al centro del dipinto c'è una strana forma bianca, che ha in parte le fattezze di una testa umana ed è stata interpretata come un autoritratto del pittore.

Ma la caratteristica fondamentale dell'opera sono i cosiddetti orologi molli: ne sono presenti tre (oltre ad uno perfettamente normale, in basso a sinistra).

I tre orologi sono tutti poggiati su altri oggetti: uno pende dall'unico ramo dell'albero spoglio, uno è posto al centro della strana figura bianca posta al centro e l'altro è come se "gocciolasse" giù dal tavolo, sulla sinistra.

Gli orologi, pur avendo forme e posizioni diverse, sono stilisticamente identici: sono rappresentati con linee morbide e sinuose, che esprimono a perfezione la visione onirica della realtà: sembra che si stiano sciogliendo per effetto di un calore incredibile, trasformandosi in forme allungate ed elastiche che non hanno nulla di reale.

Dalì stesso collegò tale soggetto alla propria ossessione per tutto ciò che era molle, e affermò che l'idea gli era venuta mangiando del Camembert stagionato, un formaggio particolarmente molle.

Per l'autore la deformazione delle immagini è uno strumento per mettere in dubbio le facoltà razionali, che vedono gli oggetti sempre con una forma definita e che ci hanno abituato ad una realtà ripetitiva ed esteriormente sempre uguale a se stessa.

Infatti l'orologio è lo strumento che per eccellenza ricorda la razionalità e la logicità, poichè permette di misurare il tempo e di dividerlo in modo da piegarlo alle esigenze pratiche e quotidiane. L'opera nel suo complesso, e gli orologi in particolare, esprimono un messaggio di tipo esortativo perché invitano l'osservatore a riconsiderare le dimensioni del tempo, della memoria, del sogno e del desiderio, non sottoposte alle regole apparentemente logiche, ma dove il prima e il dopo si mescolano e lo scorrere delle ore dei giorni accelera e rallenta a seconda della percezione soggettiva.

Gli orologi deformati rappresentano la perdita di certezza del tempo, che era tradizionalmente un concetto assoluto: proprio l'abbandono del concetto di tempo assoluto rappresenta uno dei punti più rilevanti della teoria della relatività di Einstein.



La teoria della relatività ristretta (o speciale) fu pubblicata da Albert Einstein nel 1905, in un articolo che rappresenta una delle pietre miliari della fisica moderna. In esso egli espose ed ordinò tutte le idee riguardanti spazio, tempo, luce, onde elettromagnetiche, organizzando insomma tutta la fisica tradizionale, i cui padri erano Newton e Galileo, in una teoria completa e dalle implicazioni assolutamente innovative e persino paradossali per il senso comune.

Galileo aveva già proposto un principio di relatività, secondo il quale le leggi della meccanica valide per un dato sistema di riferimento, lo sono ugualmente per qualunque altro sistema inerziale.

Quindi la posizione e la velocità di ogni corpo nei due sistemi di riferimento possono essere determinate mediante semplici leggi di trasformazione che tengono conto della posizione e della velocità relative dei due sistemi.

Anche di questa teoria si serve Einstein, per formulare la "sua" relatività, che è in realtà molto più complessa e strutturata: la sua intuizione è stata quella di voler estendere il principio di relatività anche alle leggi dell'elettromagnetismo, ovvero renderlo valido per tutte le leggi della fisica allora conosciute.

La straordinaria genialità ed originalità della teoria di Einstein è dovuta anche al fatto che a partire da intuizione di base semplici è stato in grado di risolvere le contraddizioni della fisica classica in parte riorganizzando risultati già ottenuti da altri (trasformazioni di Lorentz, esperimento di Michelson e Morley) ed in parte rivoluzionando coraggiosamente la definizione di concetti, quali lo spazio ed il tempo, oggetto di alcuni millenni di riflessione filosofica e scientifica.

La fisica newtoniana aveva maturato al suo interno una serie di contraddizioni che erano state risolte solo attraverso artifici teorici o altre scappatoie che all'inizio del XX secolo sembravano datate e poco veritiere.

Si era convinti, per esempio, che le onde elettromagnetiche si comportassero come le onde meccaniche: per propagarsi avevano bisogno di un mezzo, più o meno tangibile, capace di entrare in vibrazione e trasmettere l'onda nello spazio.

Per spiegare come la luce (un'onda elettromagnetica) potesse propagarsi nello spazio interstellare, si teorizzò che l'intero universo fosse composto da un ipotetico materiale, chiamato etere e, in quiete rispetto ad esso, fu ipotizzata l'esistenza di un sistema di riferimento inerziale assoluto, privilegiato.

Per il principio di relatività galileiana, la luce avrebbe dovuto muoversi in ogni sistema di riferimento inerziale con una velocità relativa al sistema privilegiato, quindi pari alla composizione vettoriale tra c e la velocità del sistema di riferimento.

Furono fatti diversi esperimenti per rilevare queste (teoriche) differenze di velocità della luce, il più famoso dei quali fu condotto da Michelson e Morley nel 1881 (e ripetuto nel 1887), ma nessuno riuscì nell'intento.

A questa e a molte altre controversie pose fine la teoria della relatività ristretta, basata su due postulati:

Le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali.

La velocità della luce nel vuoto è costante (circa c=3,00*108 m/s) in tutti i sistemi di riferimento inerziali, indipendentemente dal moto della sorgente o dell'osservatore.

Il primo di essi rappresenta un'estensione, a tutti gli eventi (di particolare importanza è l'estensione ai fenomeni elettromagnetici), del principio di relatività galileiana, che non risulta così annullato, bensì integrato.

Il secondo postulato pone di fatto un limite invalicabile alla velocità in natura: se in qualsiasi sistema di riferimento inerziale un segnale luminoso ha la stessa velocità, sarà impossibile superare tale limite.

Ciò esclude che il moto della terra o quello  di qualunque altro sistema di riferimento possano influenzare la velocità della luce, che diventa in pratica una costante universale.

Tuttavia, poiché le trasformazioni della meccanica classica sono in contrasto con questi due postulati, in particolare con la costanza della velocità della luce, e non garantiscono l'invarianza delle equazioni che regolano i fenomeni elettromagnetici, elaborate da Maxwell nel 1873, Einstein non esita ad abbandonarle sostituendole con le trasformazioni proposte da Lorentz l'anno precedente.

Inoltre il concetto di tempo universale, valido in tutti i sistemi di riferimento, e quindi anche quello di simultaneità, due pilastri della fisica pre-relativistica, sono in contrasto con il fatto che la velocità della luce sia finita e costante.

Un evento può essere registrato solo nell'istante in cui è visto, cioè quando il segnale (supponiamo luminoso) che parte dal luogo e nell'istante in cui accade l'evento, arriva nel punto di osservazione.

Se la velocità della luce fosse infinita, l'avvenimento e la sua registrazione si verificherebbero sempre nello stesso istante, indipendentemente dal fatto che l'osservatore si trovi vicino o lontano da ciò che guarda.

Poiché, invece, la velocità assume sempre il valore c, la percezione di ogni evento che avviene a una certa distanza dall'osservatore è sempre caratterizzata da un ritardo temporale.

Consideriamo un treno che viaggi ad una velocità costante v; un osservatore  si pone al centro di un vagone, con due torce elettriche in mano e le punta verso le due estremità del vagone, una nella direzione del moto del treno e l'altra in direzione contraria, accendendole simultaneamente.

Per il primo postulato della teoria della relatività, la velocità della luce è costante e uguale in tutti i sistemi di riferimento inerziali perciò l'osservatore a bordo del treno, rispetto al quale il vagone è immobile, vede la luce delle due torce percorrere lo spazio fino alle due estremità del vagone, e arrivare simultaneamente.

Ma per un osservatore situato a terra, che vede il vagone in movimento, l'estremità posteriore si avvicina al fronte d'onda con la stessa velocità con la quale se ne allontana la parte anteriore: l'osservatore vede il raggio di luce diretto verso la coda del treno raggiungere l'estremità prima del raggio diretto verso la testa del vagone. In questo sistema di riferimento i due eventi non sono simultanei.

Due eventi possono quindi risultare simultanei in un sistema di riferimento e successivi in un altro: non è più possibile quindi assumere l'esistenza di un tempo universalmente valido, ma ogni sistema di riferimento ha un proprio tempo. Tanto che il tempo entra a far parte integrante del sistema di riferimento e si parla quindi di sistema spazio-temporale a quattro coordinate (x,y,z,t).

La considerazione che la velocità della luce è assoluta sia rispetto al tempo, sia allo spazio, apre una serie di stupefacenti e paradossali implicazioni, che riguardano  la dilatazione del tempo e la contrazione delle lunghezze, significative in sistemi in movimento a velocità prossime a quelle della luce.

La dilatazione del tempo e la contrazione delle lunghezze, possono essere ricavate da una attenta applicazione delle trasformazioni di Lorentz, ma più semplicemente, possono essere messe in evidenza con una serie di esperimenti mentali, teoricamente svolti in condizioni ideali.

La durata di un fenomeno dipende dal sistema di riferimento dal quale è misurata.

Si consideri un'astronave che viaggia nello spazio ad una velocità v, al cui interno si trovi un osservatore; una sorgente (sull'astronave) emette periodicamente un lampo di luce che, dopo essere stato riflesso da uno specchio, viene assorbito da un rilevatore, posto in prossimità della sorgente.

L'osservatore sull'astronave può misurare, allora, il tempo impiegato dalla luce per arrivare allo specchio e tornare indietro. Questo tempo viene indicato come Δt0.

Consideriamo ora un osservatore posto sulla terra, che misurasse la durata dello stesso fenomeno: poiché vede l'astronave in movimento, per lui il tragitto che deve percorrere la luce è più lungo.

Di conseguenza, poiché la velocità del segnale è c in ogni sistema, l'intervallo di tempo da lui misurato (indicato con Δt)deve essere maggiore.

Si ricava matematicamente la relazione tra intervalli di tempo misurati da osservatori in moto relativo:

 

Poiché il valore v non può mai superare il valore c, il denominatore non potrà mai essere maggiore dell'unità, quindi l'intervallo di tempo Δt0 sarà sempre minore di Δt.

La dilatazione del tempo deriva dal fatto che la velocità della luce è la stessa in tutti i sistemi, mentre la distanza percorsa da un raggio di luce varia da un sistema all'altro.

Un altro esperimento ideale venne proposto per verificare la contrazione delle lunghezze.

Si immagini un'astronave, che si muove dalla terra ad un altro pianeta con velocità costante v; se L è la distanza tra i pianeti e Δt il tempo impiegato, entrambi misurati da un osservatore terrestre, risulta: L=v* Δt.

Secondo il punto di vista dell'osservatore a bordo, l'astronave è a riposo, mentre i due pianeti sono in movimento rispetto all'astronave con velocità di modulo v.

Il tempo Δt0 è minore dell'intervallo Δt per la relazione studiata in precedenza.

Poiché la velocità con cui si muove l'astronave (o i pianeti, a seconda dell'osservatore) è costante, ma i due osservatori ottengono valori diversi dell'intervallo di tempo, anche i valori delle lunghezze saranno diversi: L0=v*Δt0.

Utilizzando la formula che lega intervalli di tempo misurati da osservatori in moto relativo si ricava:

Ciò significa che la lunghezza di un corpo risulta minore quando il corpo è visto in movimento, rispetto a quando è visto a riposo.

Il fenomeno della contrazione delle lunghezze si verifica solo nella direzione del moto, e non riguarda le dimensioni trasversali dell'oggetto.

L'opera di unificazione delle teorie fisiche di Einstein proseguì con la formulazione nel 1915 della teoria della relatività generale, con la quale si formulavano leggi fisiche valide per tutti i sistemi di riferimento, anche non inerziali, indipendentemente dal moto relativo.

Una diretta conseguenza della teoria sulla dilatazione del tempo è rappresentata dal paradosso dei gemelli: un esperimento mentale ideato da Einstein.

Consideriamo due gemelli, inizialmente nello stesso posto e dotati di due orologi uguali, sincronizzati. Uno dei due gemelli rimane a Terra, mentre l'altro parte per un viaggio interstellare a bordo di un'astronave, la cui velocità, molto elevata, è prossima a quella della luce.

Poiché nel veicolo spaziale, in movimento ad altissima velocità, tutti i fenomeni scorrono più lentamente, nell'ipotesi che gli orologi biologici (ad esempio, le pulsazioni ritmiche del cuore, i battiti del polso) si comportino come gli ordinari segnatempo, anche l'invecchiamento avverrà con un ritmo più lento, a causa della dilatazione del tempo.

In altri termini, dopo avere fatto questo viaggio a velocità elevatissime, ritornando sulla Terra, l'astronauta ritroverà il fratello gemello (e tutto il mondo circostante) molto più invecchiato di quanto non lo sia lui stesso.

Teoricamente, dunque, la Relatività favorisce l'esplorazione cosmica, in quanto nell'arco della propria vita un astronauta potrebbe intraprendere un viaggio verso una stella lontana per poi ritornare sulla Terra e scoprire che sono trascorsi alcuni secoli dalla sua partenza, mentre al viaggiatore sembrerà siano passati solo pochi anni.
Un argomento quanto mai affascinante, non solo per gli scrittori di fantascienza




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