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L'arte riflette su se stessa come mezzo linguistico e come strumento comunicativo




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L'arte riflette su se stessa come mezzo linguistico e come strumento comunicativo

Considerazioni preliminari


L'

arte è di per sé un linguaggio, separato e connesso al tempo stesso alla comunicazione verbale: questa consapevolezza, perlopiù inconscia dai tempi della venere di Willendorf, subisce una svolta epocale con l'Impressionismo e - più propriamente - con le tendenze post-impressioniste. Da questo movimento infatti si intuisce, senza però avvertirne appieno le potenzialità artistico-filosofiche, la separazione tra il soggetto del quadro e l'arte intesa come rapporto fra segni col quale l'opera viene realizzata. Una separazione che non si identifica unicamente nella sua accezione pratica, ovvero di differenti combinazioni tra segni - o tra segni e soggetto - che danno origine a differenti paradigmi artistici, ma in una diversa impostazione mentale con la quale ci si accosta al soggetto da rappresentare e ci si rapporta alla società in cui si vive.

Nel '900 alcune manifestazioni artistiche intensificano il loro sforzo creativo per approfondire questa tematica nel tentativo - riuscito? - di una comprensione più profonda di ciò che stavano facendo. Artisti come Magritte, Johns, Duchamp, Manzoni costellano il panorama del secolo scorso, inserendo nelle loro opere spunti meditativi - più o meno interessanti - sull'arte come linguaggio, sul valore espressivo del segno, sugli aspetti più contraddittori di un secolo che ha cercato per diverse vie l'illusorio ed anacronistico equilibrio ottocentesco. Si cerca, quindi, una separazione metodologica del sistema dell'arte, anche a costo di causare uno scollamento tra il fare l'arte ed il fare discorso sull'arte per mezzo dell'arte stessa.


In questa sede si tratteranno soltanto alcune manifestazioni, forse le più significative, di questa autoanalisi dell'arte su sé stessa e sulla sua connotazione comunicativa e segnica, cercando di tracciare una linea che abbracci - ammettendo le semplificazioni inevitabili in un processo di sintesi e di scelta soggettiva - l'intero XX secolo con uno sguardo alle manifestazioni artistiche di questi ultimi anni.




René Magritte


L'usage de la parole



Con questi due quadri, costituiti da elementi di per sé semplici - immagini chiare accompagnate da scritte altrettanto esplicative - Magritte analizza il rapporto fra l'oggetto reale, la sua rappresentazione e la sua definizione linguistica.

Questi tre piani, che apparentemente comunicano la medesima cosa, sembra non coincidano mai: l'immagine - della pipa o della mela - non è l'oggetto, e non solo da un complesso - e forse poco immediato - punto di vista metafisico, ma in una più concreta accezione materiale; l'oggetto dipinto infatti non si può fumare mordere spezzare, ma ci si deve arrendere al fatto che è un'insieme di pigmenti colorati modellati da un pennello sulla tela e non un ente tridimensionale al quale ci riferivamo.

Tuttavia immediatamente noi diciamo di quell'immagine: " È una pipa". Ed è proprio questo su cui Magritte ci vuol far riflettere; su come, ad un'indagine più attenta, cambi il punto di vista sul mondo e sulle rappresentazioni del mondo stesso. L'immagine e la corrispondente parola di un oggetto si riferiscono, seppur seguendo strade differenti, al soggetto stesso mediante norme accettate. Chiaro è il riferimento alla struttura compositiva delle due opere, che ricorda le tavole con cui i bambini imparano le lettere dell'alfabeto ed i nomi delle cose. L'artista belga quindi ci indica anche l'inizio di tali convenzioni: già dai piccoli infatti iniziamo ad associare - per mezzo dei nostri sensi o attraverso l'istruzione - gli oggetti a vari tipi di rappresentazione, fra i quali quelli descritti da questi due quadri.

Quella dipinta non è di conseguenza una pipa o una mela, ma solo una rappresentazione di essa a cui involontariamente ci riferiamo. Magritte mette dunque in discussione il valore dell'illusionismo pittorico, che se da un lato è una facile via di comunicazione dall'altro rivela il suo carattere puramente arbitrario.

Nell'arte quindi la fiducia nella possibilità dell'omologazione del reale mediante la rappresentazione viene seriamente minata, portando così l'ambito artistico ad una sospensione del concetto di verità e falsità, in quanto elementi simbolici che nella loro essenza sono slegati dalla realtà.






Jasper Johns


Three Flags


Jasper Johns si inserisce nel movimento del New Dada, nato attorno agli anni Cinquanta in America ma con un'analoga manifestazione in Europa coi Nouveaux Réalistes. Questo movimento, che vede in lui e Rauschenberg i principali esponenti, è influenzato dal rinato interesse oltre Atlantico per l'arte Dada e ripropone quindi con forza il carattere antitradizionalista dell'opera d'arte, attuando una rivalutazione degli oggetti d'uso comune elevati al rango di vere e proprie produzioni artistiche. Memore dell'esperienza volta soprattutto all'ambito pittorico dell'Action Painting, il New Dada volge la sua attenzione principalmente al binomio oggetti di massa-opera d'arte, che verrà ripreso massivamente nella Pop-Art.

Three Flags ripropone quest'ultimo concetto, rappresentando attraverso una riproposizione  insistente dell'immagine l'oggetto dell'opera. Il rapporto tra oggetto ed immagine qui è ribaltato:non è più l'oggetto che si specchia parzialmente in un'immagine che lo rappresenta in modo convenzionale, ma, riprendendo una tendenza tipica della Pop-Art, l'artista delega all'immagine stessa la costruzione dell'oggetto, che senza l'aura evocativa data dall'immagine rimane insignificante.

In una società dove l'apparenza conta maggiormente rispetto a ciò che vediamo,l'oggetto acquista identità - e i conseguenza un maggior grado di significanza - solo per mezzo dell'apparenza data dalla sua stessa rappresentazione.

Ispirato da uno degli aspetti contraddittori della società moderna, Johns agisce contemporaneamente su diversi fronti della riflessione dell'arte su sé stessa, lavorando sull'immagine - intesa linguisticamente come enunciato iconico - e sull'oggetto - come corrispettivo reale dell'immagine - riconoscendo alla prima la facoltà di elevare l'oggetto comune a produzione artistica, pur lasciando ad esso la propria riconoscibilità immediata.

L'oggetto quotidiano diventa quindi feticcio, simbolo di qualcosa che non è insito nell'oggetto ma che viene attribuito e riconosciuto da tutti all'oggetto. La riflessione - profondamente legata all'opera, senza però la carica ironica e dissacratoria tipica del Dada - che Johns ha voluto imprimere su questo dipinto è che l'opera d'arte non diventa tale perché esprime contenuti insiti nell'oggetto, ma nel soggettivo valore attribuito dalla società o da un'elite critica destinata a questo compito.



Roy Lichtenstein


Whaam!


Insieme ad Oldenburg, Raushenberg e Warhol, Roy Lichtenstein è considerato uno dei maggiori esponenti della Pop-Art, l'Arte Popolare che, nonostante il nome, popolare non è.

Accanto ad un livello immediato, denotativo, popolare dove l'artista sembra rapportarsi all'immagine - sempre tratta da mass-media o da oggetti di consumo inseriti prepotentemente dalla pubblicità nelle case dei cittadini - in modo scherzoso, distorcendo le proporzioni dell'oggetto stesso per ironizzare sulla sua massiva ed innaturale presenza nella società americana se ne accosta un'altro, più elitario, che di fatto è la vera anima della Pop-Art.

In questo secondo livello, maggiormente impegnativo per le conoscenze utilizzate dagli artisti e le complessità delle riflessioni che esse portano sulle loro opere, la Pop-Art perde il suo carattere trasgressivo e provocatorio per esprimere la banalità degli oggetti - artistici o meno - immortalati nelle loro opere: emerge solo l'oggetto come qualcosa che esiste in quanto fatto e appare sprovvisto di qualsiasi giustificazione.


L'oggetto quindi attraverso la sua riproduzione industriale si autoaliena, ovvero perde i connotati a lui propri per assumere quelli impostigli dall'imponente macchina pubblicitaria alle sue spalle.

Nell'opera presa in considerazione Lichtenstein non affronta empaticamente questo concetto, affannandosi nella ricerca dell'oggetto vero, non sovrastato dalle sovrastrutture che il potere industriale prova ad accollargli: non si sofferma sulla pochezza del mezzo di comunicazione preso in esame, né tantomeno valorizza e nobilita tale mezzo per alludere al valore della narrazione come strumento che collega le varie generazioni per diventare oggetto di confronto con esperienze più attuali.


Considera invece le forme di comunicazione di massa - soprattutto il fumetto - per rimodularne gli schemi e le convenzioni attraverso un linguaggio più propriamente artistico - quello pittorico - e giungere così ad una diversa ottica interpretativa di univoci schemi industriali. Lichtenstein si cimenta in tal modo un'operazione metalinguistica, atta a togliere paradossalmente consistenza ad una realtà che dovrebbe rappresentare lo sbocco concreto di ogni espressione comunicativa.

In Whaam! L'artista non si perde in complicati rimandi storici o morali sull'inutilità della guerra, ma punta ad un'astrazione artistica che si concentri sulla produzione sperimentale di una "simulazione espressiva" che, ormai slegata da ogni riferimento alla realtà colta nella sua essenza, si identifica nel linguaggio stesso da lui usato in questa rappresentazione.

Nell'opera, che manifesta l'influenza del sovvertimento del rapporto oggetto-immagine del New Dada, l'oggetto - volutamente scollato da ogni suo aspetto connotativi - perde definitivamente la sua significanza, l'immagine viene riproposta in una sua versione allucinata e deformata, il linguaggio verbale viene presentato solamente nell'immediatezza dell'onomatopea, perdendo ogni suggestione evocativa.


Joseph Kosuth


Art as Idea as Idea-Art


Come reazione alle appariscenti immagini della Pop-Art, attorno alla metà degli anni Sessanta alcuni intellettuali - sia statunitensi che europei - volgono verso l'interno l'ambito della loro speculazione artistica, creando così una serie di tendenze che verranno poi inserite nella comune definizione di Arte Concettuale. Quest'arte si identifica con contenuti formali volutamente freddi ed antiartistici, dal momento che il solo scopo dell'Arte Concettuale è la riflessione e la comunicazione su concetti prettamente meta-artistici e metalinguistici, essenzializzando la produzione artistica, la quale diventa espressione antiartistica di concetti espressi a parole sulla tela, eliminando così ogni elemento - anche se marginale - di abbellimento pittorico.

Il divaricamento tra la pratica artistica e la riflessione sull'arte assume una ampiezza maggiore nell'investigazione concettuale, poiché in quest'arte ci si distacca dalle componenti realizzative della stessa servendosi del linguaggio come di un artificio retorico per risalire dal sensibile al piano dell'astratto, dalla dimensione fisica della cosa - oggetto, immagine, parola - ai processi mentali che presiedono alla formazione dell'arte ed alle sue regole interne.

In Art as Idea as Idea - volendo con questa dicitura alludere al carattere essenzialmente astratto di tutta la produzione artistica - Kosuth ci presenta una profonda riflessione metalinguistica: l'oggetto analizzato - l'Arte, già di per sé difficilmente rappresentabile - non è più visibile ma solo percepibile intellettualmente, dal momento che il riferimento a tutta la produzione artistica è difficilmente rapportabile in modo completo ad oggetti reali. L'artista quindi eleva il concreto oggetto artistico ad un lontano concetto a cui risulta indifferente il valore artistico, partendo dal presupposto della loro equivalenza sul piano della semantica.

L'Arte dunque diventa qualcosa di astratto, che trova la sua più efficace - ma non completa - definizione nella fredda definizione di un vocabolario. Alle parole viene affidato l'impegnativo compito di esprimere ciò che la rappresentazione artistica non riesce a raffigurare, poiché esse si fondano su concetti accettati convenzionalmente: solo le parole riescono ad esprimere idee perché solo le parole - e non le ingenue rappresentazioni artistiche - sono funzioni che collegano l'aspetto semiotico con quello ideale di un concetto.

Sostituendo l'oggetto col corrispettivo nome, prelevato da definizioni di un vocabolario, Kosuth ridefinisce il significato non come perfetta corrispondenza tra il segno e la cosa, ma sulla sostituzione di questa rappresentazione - immediata - con un diverso codice linguistico, più adatto a definire l'oggetto. Attraverso l'Arte Concettuale quindi l'oggetto - tenuto in scarsa considerazione dalla Pop Art - acquista nuovamente una posizione centrale nell'attività artistica. Anche il linguaggio verbale risulta utile per la speculazione artistico-filosofica del movimento, che grazie alle parole acquisisce nuovi elementi comunicativi per esprimere l'oggetto. Ciò che viene svalutata è invece l'arte stessa, ridotta a rappresentazione incompleta e lacunosa di concetti che ormai non vengono più fondati su di essa, ma affidati a fredde definizioni verbali di un qualsivoglia dizionario.



John De Andrea


Diane


In questa scultura John De Andrea, uno dei maggiori artisti dell'Iperrealismo, inserisce particolari ragionamenti sul concetto di arte come linguaggio mimetico, che consegna al soggetto un'immagine con la quale ci si può identificare.

Riprendendo uno dei capisaldi della pratica artistica - l'arte come mimesis, come imitazione del reale - che dalla Grecia del V secolo a.C. ai Salon ottocenteschi era considerato anche la più consona via per produrre oggetti artistici, l'Iperrealismo estremizza questa tendenza, in contrasto con la propensione - prevalente per quasi tutto il XX secolo - di una sperimentazione volta ad abolire ogni ingenuo figurativismo, ricollegabile alla tradizione accademica, appartenente alla società capitalista che aveva fatto nascere le due guerre mondiali e la guerra fredda.


Questa nuova corrente artistica, resa possibile dal progresso delle resine sintetiche e da una gamma di colori applicabili a questi moderni materiali sempre più vasta, si incentra quindi sull'obiettivo di portare l'arte ad un livello di realismo massimo, definito iperrealistico: la rappresentazione, nella quale era sempre contenuto uno scarto col reale, arriva così ad identificarsi con l'oggetto rappresentato, assottigliando così il divario arte-vita. Tale scopo però non è supportato da un realismo dogmatico, nel quale l'ingenua possibilità di un'identità tra l'oggetto e la sua rappresentazione è contemplata, ma da una volontà di mostrare la definitiva caduta dell'identificazione tra oggetto e la sua - più o meno artistica - riproduzione.

La giovane donna - Diane - è presentata nuda davanti ad i nostri occhi, in posizione fetale, e sembra del tutto simile da una persona reale. Una verosimiglianza, ottenuta grazie a numerosi calchi dell'artista su modelle reali per meglio plasmare il corpo, che però non è veridicità: ci si aspetta che da un momento all'altro la figura si alzi, si muova, viva ma questo ad un'analisi più attenta diventa una illusione, dal momento che la coincidenza tra le forme limita necessariamente alle stesse, non comprendendo gli attributi vitalistici dell'uomo quali il movimento o il pensiero.

In quest'opera - ed in tutto l'Iperrealismo in generale - la raffigurazione artistica mostra i suoi limiti, arrivando ad una perfetta somiglianza con la forma dell'oggetto reale senza però coglierne l'essenza. Il linguaggio artistico perde quindi definitivamente la possibilità di identificarsi pienamente con l'oggetto, contribuendo in questo modo ad alimentare la crisi d'identità che caratterizza l'uomo moderno.




Gilbert & George


Bombs- da The Six Bomb Pictures


Gilbert & George, uno dei binomi artistici più in evidenza della seconda metà del XX secolo, realizza nel 2006 l'allestimento The Six Bomb Pictures, loro reazione artistica agli attentati terroristici avvenuti durante tale anno nella capitale inglese. È stata poi presentata in occasione della mostra monotematica che la Tate Modern di Londra dedica ai due artisti nel quarantesimo anniversario della loro attività.

Il titolo è quello complessivo di una grande opera assai articolata, che comprende un nucleo costituito dal trittico di quattordici metri, Bomb, al quale fanno da contorno altre cinque composizioni che insistono sul messaggio di morte, intitolate rispettivamente Bombs, Bomber, Bombing e Terror.

Per i due artisti l'obiettivo della loro arte è espresso dal loro slogan "Art for all": la loro produzione artistica si sforza programmaticamente di stabilire un forte impatto comunicativo con chiunque - dal critico all'operaio metallurgico - le osservi, nel tentativo di comunicare qualcosa sul valore della vita umana e sulla condizione spaesata dell'uomo contemporaneo.

Questo sforzo comunicativo si estrinseca in una scelta di un linguaggio immediato e deciso: riallacciandosi alla tematica Pop della riproduzione seriale, come moderni Warhol utilizzano appieno le possibilità espressive della fotografia digitale e della rielaborazione grafica computerizzata per ottenere grandi pannelli - si pensi alle dimensioni della serie qui analizzata - dove i volti sdoppiati  ed impassibili circondati da pochi colori di forte impatto emotivo non possono non turbare l'apparente impassibilità della società contemporanea.

La parte dell'opera presa in esame si costruisce sui titoli di strilli - ovvero i poster che reclamizzano l'edizione del giorno - dei vari quotidiani inglesi che presentano, tutti, queste parole nei titoli che comunicavano gli avvenuti attentati alla metropolitana di Londra; queste brevi frasi ad effetto circondano le figure dei due artisti che, tramite vari collage grafici, si presentano all'osservatore deformati e sdoppiati, circondati da un'aura che sembra separarli dalla realtà di morte che li circonda.

Non solo in quest'opera, ma in tutta la produzione artistica la presenza dei due artisti è costante e voluta almeno quanto la scelta del sistema comunicativo con il quale eseguire le loro opere: coerentemente al loro tentativo di avvicinare vita ed arte, l'artista stesso si fa oggetto dell'opera ed anzi diventa l'oggetto privilegiato dal quale trarre spunti per la riflessione artistica, assieme a temi come sesso religione razza ed, in questo caso, terrorismo internazionale.

Con la riproposizione costante e monolitica delle loro immagini, accompagnata da un uso del colore totalizzante che smaterializza ogni figura inserita, Gilbert & George affidano a questo paradigma segnico - influenzato da una società che in maniera costante ed indifferente al tipo di messaggio ci bombarda di immagini - il compito di stabilire un contatto tra l'opera e il pubblico.

In particolare nell'opera analizzata quest'esagerazione visiva, questa parossistica ricerca comunicativa dovrebbe portare ad un processo catartico, dove la concentrazione comunicativa stessa dovrebbe liberare le paure - di morte, del terrorismo, di insicurezza - dell'osservatore ridestate dall'attacco terroristico.

Questo sforzo comunicativo però non verte su un messaggio ben definito ed invariabile: comprendono - slegando il concetto di bello da quello di arte - che col corso degli anni cambierà il significato della loro opera, perché cambieranno le persone che ad essa si accosteranno. tale riflessione può essere generalizzata per tutte le manifestazioni artistiche: cambiando il sostrato culturale, politico, economico varia la percezione che noi abbiamo dell'opera d'arte.

In quest'ottica l'intera produzione artistica si relativizza, conquistando una dimensione universale che la eleva a costante elemento di riflessione sulla società e su se stessa; una riflessione che, ormai accettata la distinzione metafisica tra rappresentazione e oggetto e parola - accomunate solo da una convenzione comunicativa - è in costante avanzamento.


Considerazioni finali


Alla fine di questa breve analisi possiamo osservare che durante tutto il Novecento si assiste ad un processo di analisi - mosso nella prima parte del secolo da esigenze belliche, negli ultimi anni dalla necessità di un inserimento discreto ed equilibrato nel sistema-Terra - che investe tutte le manifestazioni del pensiero, compresa la riflessione sul linguaggio, facendo così emergere tematiche profondamente destabilizzanti.

Pur essendo già presenti almeno dalla seconda parte dell'Ottocento con, ad esempio, la scoperta delle geometrie non euclidee o coi primi afflati esistenzialisti di Kierkegaard e Munch, questi scossoni culturali vengono coperti dall'esigenza della società stessa a mantenere uno stato di ordine - apparente - garantendo maggior visibilità alle certezze positivistiche.

Nella prima parte del Novecento, spinta soprattutto dai motivi sopra citati, la ricerca - in tutti i campi - esplode, portando in questo modo contributi nuovi alla società. Ma alcune teorie - come la relatività di Einstein o le innovazioni in campo psicologico di Freud - ed alcune scoperte - per esempio la duplice natura della luce - giungono a risultati sconvolgenti: nulla di ciò che vediamo, percepiamo, conosciamo è universale ed immutabile, ma particolare e contingente.

Si assiste così alla relativizzazione di tutto il sapere umano, e questo processo di deconsolidamento ha inevitabilmente inglobato il linguaggio:  ogni sistema di comunicazione si rivela inadatto ad esprimere ciò che pensiamo, dal momento che esiste uno scarto ontologico ineliminabile. I limiti del nostro linguaggio diven­tano i limiti della nostra possibilità di penetrare all'interno del mondo: a questa conclusione non immediata, ci portano intellettuali come Wittgenstein, Kosuth, Eliot, Pirandello che in questo modo cancellano definitivamente la possibilità di una forma di conoscenza assoluta e più concretamente la possibilità di una com­pleta comprensione reciproca.

La comunicazione infatti, in quanto momento di condivisione di informazioni, ri­sulta l'unica via attraverso la quale l'uomo può mostrarsi all'altro. Quindi l'essenza - o più semplicemente attributi come il carattere, le emozioni, la propria identità - passando attraverso l'inevitabile scoglio espressivo del linguaggio non può che consegnarsi a chi ci ascolta - ed a noi che proviamo a comunicarla - sotto forma di parole, immagini, lettere; questi strumenti non si sovrappongono completa­mente alle strutture ideali che noi pensiamo, causando spesso incomprensioni o fraintendimenti.

Di conseguenza il linguaggio diventa uno strumento più potente e complesso di quanto non si potesse immaginare: manipolando i più diffusi codici comunicativi, si potrà - in virtù delle considerazioni precedentemente espresse - aumentare o ridurre particolari settori del pensiero. Orwell in 1984 declina questa possibilità in funzione di un maggiore controllo della popolazione mondiale da parte dei grandi complessi politico-economici, denunciando così l'uso più pericoloso e sottile che il linguaggio può offrire.

Perfino le immagini, elementi comunicativi per eccellenza della società contemporanea, non si rivelano strumento interamente efficace per divulgare il pensiero; spesso più dirette e facili nella comprensione - nel suo lato denotativo - rivelano nella sua completezza solo la forma dell'oggetto rappresentato, mai l'essenza dell'oggetto stesso o un concetto che non sia già stato convertito - tramite un processo di convenzione arbitraria che associa un'idea ad un oggetto, erigendolo a simbolo - in icona.

Accettando le limitazioni poste dalla natura stessa di ogni codice, acquisiamo un nuovo punto di vista - maggiormente ampio ed animato da un intento critico - nel quale il linguaggio non si presenta più come funzione univoca dove la comprensione reciproca non è che un mero raffronto tra la cosa ed il suo corrispondente segnico, ma una complessa ed elastica struttura che cerca di sagomarsi sulle idee dell'uomo, non riuscendo però a sostenere linguisticamente le ansie metafisiche che da sempre accompagnano il pensiero umano.


In conclusione, il linguaggio rimane una struttura fondamentale per la comunicazione, sempre impegnata in una continua autoanalisi e in un processo di ricerca di ciò che non è ancora stato detto - e quindi pensato - che è strettamente legato alla parola poetica, intesa nel suo significato etimologico.

Un processo che difficilmente avrà termine e che tocca le nostre esistenze quando attraverso frasi, parole, gesti sveliamo inconsciamente parte degli ingranaggi che compongono il linguaggio; attraverso una - anche breve - analisi di questi meccanismi possiamo scoprire la ricchezza espressiva che il linguaggio contiene ed i suoi limiti intrinseci.

Osserveremo  quindi che il linguaggio non è poi un processo così immediato ed efficace come sembra.













Il linguaggio è una forma della ragione umana,
con una sua logica interna della quale gli uomini non conoscono nulla

Claude Lévi Strauss

















Bibliografia essenziale


Luigi Pirandello; Sei personaggi in cerca d'autore, Oscar Mondadori, Torino 2004

Delaney, Ward, Rho Fiorina; Fields of vision, vol. 2, Longman, Torino 2002

George Orwell; 1984, Oscar Mondadori, Milano 2004

N.Abbagnano G. Fornero; Itinerari di Filosofia, Paravia, Milano 2005

Cioffi, Luppi, Vigorelli; Diàlogos, Bruno Mondadori, Torino 2000

Cricco, Di Teodoro; Itinerario nell'arte, vol.3, Zanichelli, Bologna 1996

Filiberto Menna; La linea analitica dell'arte moderna, Einaudi, Torino 2001

Wikipedia, the free encyclopedia; www.en.wikipedia.org[1] (sito internet)




Data ultima consultazione: 1/6/2007

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