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L'arte degenerata




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JAN VAN EYCK - La Pittura Fiamminga, Opere


JAN  VAN  EYCK La Pittura Fiamminga Jan Van
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L'ARTE DEGENERATA



Il 15 novembre 1933 il ministro della Propaganda nazista Joseph Goebbels formò la Camera della Cultura del Reich (Reichskulturkammer), che di fatto stabiliva quali artisti potevano lavorare e cosa si potesse mostrare al pubblico: una ferrea censura costrinse i pochi artisti non allineati rimasti in Germania al silenzio.

Negli anni '20 e '30 la Germania aveva generato scrittori, pittori e storici di ogni tendenza, ma i bersagli principali del regime furono coloro che si occupavano di arti figurative. Questo perché il nazismo aveva subito capito l'importanza e il fascino che esercitavano sulla massa le immagini, tanto da sfruttarle intensamente nella sua propaganda: Hitler voleva che la popolazione fosse circondata da simboli di potere. Allo stesso modo occorreva distruggere le opere che lanciavano messaggi non rispondenti all'ideologia nazionalsocialista. I movimenti dell'arte moderna, senza distinzioni, furono presto definiti 'degenerati' e 'corrotti'. I nazisti volevano dimostrare che i pittori astratti contemporanei e gli espressionisti trasmettevano valori che avrebbero ostacolato il ritorno della Germania alla supremazia in Europa, inquinavano con le loro rivoluzionarie soluzioni e tecniche la presunta bellezza fisica e spirituale del vero tedesco. Secondo Hitler, che si considerava egli stesso un artista, l'uso ardito del colore e di immagini surreali da parte di questi pittori era una distorsione della natura.

Nell'ottobre 1936 la sezione d'arte moderna della Nationalgalerie di Berlino fu chiusa: fu istituito un tribunale che purgasse le gallerie e i musei di tutto il paese. Si calcola in circa 16.000 il numero di tele, disegni, sculture che finirono nella categoria dell''arte degenerata', la maggior parte di espressionisti e di pittori moderni tedeschi, anche se vi furono comprese opere di grandi stranieri come Picasso, Van Gogh, Cézanne. Le migliori furono messe all'asta a Lucerna, mentre diverse migliaia furono bruciate nel cortile della sede del Corpo dei Pompieri di Berlino nel marzo 1939. Alcune opere si salvarono, essendo state requisite dal maresciallo Hermann Göring in persona, desideroso di tappezzare di capolavori le pareti della sua residenza.

Ma distruggere le opere degli artisti non bastava: era necessario mobilitare l'opinione pubblica contro gli artisti stessi. Nell'estate del 1937, a Monaco furono allestite due mostre contemporaneamente. Una esibiva le opere di artisti ben accetti al regime, dove si esaltavano eroismo, dignità ariana, muscoli, fatica ed i valori semplici e sani delle rustiche famiglie lavoratrici dai capelli biondi e gli occhi azzurri e dove soprattutto facevano mostra di sé innumerevoli ritratti del Führer. Quattrocentomila persone visitarono la mostra.

L'altra si svolgeva nella nuovissima Casa dell'Arte Tedesca, terminata quell'anno e progettata da uno dei più importanti architetti nazisti, Paul Ludwig Troost. All'interno c'era una mostra grottesca, intitolata 'Arte degenerata'. Vi erano esposte oltre 650 opere delle avanguardie del XX secolo, con grande concentrazione di quelle espressioniste, senza cornici e nella più totale confusione. I titoli erano stati aggiunti dagli organizzatori: un quadro, raffigurante un gruppo di lavoratori agricoli, era intitolato Contadini tedeschi visti alla maniera yiddish. Un opuscolo fungeva da guida, essenzialmente in senso concettuale: mostrava al visitatore quale fosse il modo 'giusto' di interpretare le opere esposte avvicinandole a prodotti di dilettanti o di malati di mente. Una condanna ulteriore di tali opere derivava dal fatto che, appartenendo a istituzioni pubbliche, erano state acquistate col denaro del 'popolo lavoratore tedesco'. Adolf Ziegler, che tenne il discorso di inaugurazione della mostra, definì i lavori esposti «prodotti della follia, della spudoratezza, dell'incapacità e della degenerazione». Due milioni di visitatori si riversarono nella Casa dell'Arte.



Thomas Mann



Thomas Mann wurde 1875 in Lübeck geboren; er war der Sohn eines Senators, des heißt einer angesehen Persönlichkeit der Stadt. Nach dem Tode des Vaters begab sich Thomas Mann 1893 nach München, wo ein reges Kulturleben herrschte. In den folgenden Jahren stand er in enger Beruhrung mit den Künstlergruppen der Stadt. Er war auch in Italien, ab 1896. 1898 erschien der Novellenband Der kleine Herr Friedemann. Die wichtigsten literarischen und geistigen Einflüsse kamen ihm in dieser Zeit von Heinrich Heine, von Friedrich Nietzsche und von der Musik Richard Wagners.


Die erste Schaffensperiode


Der Roman Buddenbrooks: Verfall einer Familie, 1901, brachte ihm großen Beifall beim Publikum.

1905 heiratete er. Von seiner Frau Katja hatte er sechs Kinder, unter ihnen Erika, Klaus und Golo, die auch Schriftsteller geworden sind. Auch der Bruder von Thomas Mann, Heinrich, ist ein bedeutender Schriftsteller gewesen, der aber der Kunst andere Ziele setzte. Das sieht man besonderes in Thomas Mann Kritik, im Werk Betrachtungen eines Unpolitischen (1918), an dem von Heinrich geforderten politischen Engagement der Künstler.

In die Münchner Vorkriegsjahre gehören die Novellen: Tonio Kröger und Tristan (1903) und Der Tod in Venedig (1912). Besonders die erste und die dritte enthalten verschiedene Autobiographie Züge.


Das Exil


1933 kehrte er von einem Auslandsaufenthalt zurück, aber nicht nach Deutschland. Zuerst wohnte er bei Zürich, dann siedelte er als Gastprofessor   in die USA über. Inzwischen (1936) war ihm die deutsche Staatsburgerschaft aberkannt worden. 1939 erschien in Stockholm der Roman Lotte in Weimar. Zwischen 1933 und 1943 arbeitete Thomas Mann an der Romantetralogie Josef und seine Brüder, die vor biblischem Hintergrund spielt.

Während des Kriegs wandte er sich durch Radiosendungen an die Deutschen.

1947 erschien der Roman Doktor Faustus, der als eine Abrechnung mit dem eigenen Anteil am Irrationalismus der Jahrhundertwende gelten kann. Wie in den Jugendnovellen ist der Titelheld ein Künstler, hier ein Musiker.



Die Thematik der Jugendwerke


Der Roman Buddenbrooks und die drei Novellen Tonio Kröger, Der Tod in Venedig und Tristan weisen im Grunde die gleiche Thematik auf: Kunst und Leben sind zwei Entgegengesetzte Kräfte, die sich gegenseitig ausschließen. Die zwei verschieden Welten  sind auch von einer bestimmten Haltung der einen Welt der anderen gegenüber charakterisiert: der Bürger verurteilt den Künstler, weil er unmoralisch lebt, der Künstler verachtet den Bürger, weil er banal und phantasielos lebt.



Tonio Kröger



Tonio Kröger ist eine Novelle von Thomas Mann. Diese Novelle ist im selben Jahr wie sein Tristan erschienen. In dieser Novelle stellte Mann die Künstler-Dilettanten seiner früheren Prosawerke zum ersten Mal eine Alternative gegenüberstellt.

De wird ein beispielhafter Künstler dargestellt. Dieser Künstler, namens Tonio Kröger, kommt zwar aus der Dekadenz, befreit sich jedoch von ihr. Er wird von zwei "Welten" hin und hergezerrt: die "Tonio" Welt seiner Mutter und die "Kröger" Welt seines Vaters. Die "Tonio" Welt ist eine südländische Welt, in der der Künstler das Leben eines in den bürgerlichen Augen verantwortungslosen, verdächtigen, hochstplerischen  Künstlertums Fürth. Die "Kröger" Welt ist hingegen eine norddeutsche bürgerliche Welt. Der "verirrte Bürger" Tonio Kröger wird einerseits als ein naiv-erkenntnisloser Künstler "von den Ordentlichen und Gewöhnlichen" ausgeschlossen, andererseits arbeitet er mit der artistischen Leidenschaft, einem ästhetizistisch umgestülpten bürgerlichen Leistungsethos. Er arbeitet nicht wie jemand, der arbeitet, um ein bürgerliches Leben zu führen. Das "normale" bürgerliche Leben ist für nichts. Er will nichts als zu arbeiten, "weil er sich als lebendigen Menschen für nichts achtet, nur als Schaffender in Betracht zu kommen wünscht". Für ihn sind das "Künstler-Sein" und "Mensch-Sein" ein unvereinbarer Gegensatz. Zu der Malerin Lisaweta sagt er im viertel Kapitel: "Es ist aus mit dem Künstler, sobald er Mensch wird und zu empfinden beginnt". Man kann nicht ein Künstler sein, und zugleich ein Menschlichen teilnehmen. Oft ist er von diesem Gegensatz der Kunst und Leben "sterbensmüde". Er sehnte danach, eine Synthese zu finden. Schließlich überwidet er die lebensfeindliche Artistik. In seinem Brief an Lisaweta am Ende der Novelle Kommt er zu einem neuen Künstlerideal, Künstlertum mit der "Bürgerlieber zum Menschlichen, Lebendigen und Gewöhnlichen" vereint. Für Tonio Kröger am Ende dieser Novelle ist eine solche Vereinigung von großer Bedeutung, weil nur so kann aus einem "Literaten", der di Kunst als Endzweck betrachtet, ein "Dichter" werden, der sowohl Künstler als auch Bürger ist. Tonio Kröger gelangt zum bürgerlichen Künstlertum.

Man kann ohne weiteres sagen, dass Tonio Kröger ein Versucht Thomas Mann ist, sich zu verständigen. Wie sein zweiter Königliche Hoheit (1909) ist Tonio Kröger sein Experiment mit der Überwindung der Dekadenz. 


L'Esistenzialismo



L'Esistenzialismo è una delle correnti filosofiche più rilevanti del Novecento, che hanno maggiormente inciso, nel periodo fra le due guerre mondiali e negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto bellico, sulla cultura del nostro secolo.

Inteso come situazione esistenziale, l'esistenzialismo risulta definito da un'accentuata sensibilità nei confronti della finitudine umana e dei dati che la caratterizzano, ossia da ciò che Jaspers chiama situazioni limite: la nascita, la lotta, la sofferenza, il passare del tempo, la morte, ecc. Più in particolare, il sostantivo "esistenzialismo" e l'aggettivo "esistenzialista" figurano in tutti quei contesti di discorso in cui si vuole attirare l'attenzione sugli aspetti limitanti o tendenzialmente negativi della condizione umana nel mondo.

Significativo è il caso dell'ermetismo italiano che, parallelamente alla nascita e all'affermarsi delle filosofie esistenzialistiche, insiste, per suo conto, su temi come la solitudine, l'illusione del vivere, la morte, il mistero, l'oblio, l'irrevocabilità del tempo, ecc. Inteso in senso stretto e tecnico, l'esistenzialismo è un insieme di filosofie che, al di là delle loro differenze, risultano oggettivamente caratterizzate da taluni tratti comuni, che denunciano l'appartenenza a un medesimo clima speculativo e che spiegano ad esempio perché Essere e Tempo di Heiddeger o L'Essere e il Nulla di Sartre siano stati ritenuti entrambi, al di là dei diversi esiti, capolavoro "esistenzialisti".

  1. Nelle filosofie così dette esistenzialistiche assume un rilievo tematico centrale la riflessione circa l'esistenza (foss'anche, come avviene in Heiddeger, per raggiungere altri scopi da quelli di una pura analitica esistenziale).
  2. L'"esistenza" viene intesa dagli esistenzialisti come modo d'essere proprio dell'uomo: un modo specifico, diverso da quello di tutti gli altri enti nel mondo, perché segnato da talune caratteristiche peculiari.
  3. Tale modo d'essere specifico viene descritto innanzitutto come un rapporto (o un insieme di rapporti) con l'essere. Infatti, gli esistenzialisti concepiscono l'esistenza non come un'entità autosufficiente, ma come un'entità costitutivamente aperta a un "oltre". Il rapporto esistenza-essere, cioè la relazione problematica fra l'uomo e l'essere, rappresenta quindi il binomio centrale e decisivo dell'esistenzialismo, quello che permette di distinguerne i diversi indirizzi.

L'esistenzialismo filosofico è un concetto storiografico per indicare tutte quelle forme di pensiero che, nel contesto cronologico e culturale che va dagli anni Venti agli anni Quaranta, si sono trovate a condividere la concezione dell'esistenza come modo d'essere proprio dell'uomo, qualificato da talune prerogative di base, a cominciare dal rapporto con l'essere (l'io, gli altri, il mondo, Dio). Modo d'essere in relazione a cui l'individuo, nella sua singolarità infinita e irripetibile, cioè situata nell'ambito di una determinata condizione storico-temporale, compresa fra la nascita e la morte, è chiamato a decidere, in vista della propria autenticità e realizzazione.



Heiddeger


Cura enim quia prima finxit, teneat quamdiu vixerit

"Poiché infatti fu la Cura che per prima diede forma all'uomo, la Cura lo possieda finché esso viva"


Per molto tempo (dal 1930 al 1945 e oltre) Martin Heiddeger è stato considerato come "la maggior figura dell'esistenzialismo contemporaneo", ovvero come il filosofo che più di tutti avrebbe incarnato lo spirito e le istanze della filosofia esistenziale del Novecento. In seguito, con la pubblicazione degli inediti degli anni Trenta e dei nuovi scritti che lo studioso andava elaborando nello spirito della "svolta", è apparso evidente che il problema centrale di Heiddeger, coerentemente con il programma "ontologico" di Essere e tempo, non era quello dell'"esistenza", bensì quello dell'"essere".

La prima caratteristica dell'esistenza è la possibilità di comprendere l'essere, evidenziata dalla sua capacità di porre il problema dell'essere, ovvero di rapportarsi in qualche modo all'essere (al proprio essere o all'essere in generale). La seconda caratteristica dell'esistenza risiede nel fatto che essa è essenzialmente possibilità d'essere. "L'Esserci, scrive Heiddeger, è sempre la sua possibilità". In altri termini, l'esistenza non è una "realtà" fissa e predeterminata, ma un insieme di possibilità fra cui l'uomo deve scegliere. La scelta, ogni scelta è un problema che si pone di fronte al singolo uomo e che dà luogo a quella che Heiddeger chiama comprensione esistentiva od ontica, la quale concerne l'esistenza concreta di ognuno. La comprensione esistenziale od ontologica è invece quella che si propone di indagare teoreticamente le strutture fondamentali dell'esistenza (i cosiddetti "esistenziali"). Ma poiché l'esistenza è sempre individuata e singola, cioè non è mai l'esistenza di un uomo in generale o della specie uomo, ma sempre la mia, tua, sua esistenza, è evidente che la stessa analitica esistenziale si radica nella condizione esistentiva od ontica dell'uomo.

Nell'analisi di quel poter-essere che è l'uomo, Heiddeger, conformemente ai presupposti fenomenologici dell'"imparzialità", comincia ad esaminare l'uomo in quella che egli chiama "quotidianità" e "medietà", ossia nelle situazioni in cui l'Esserci si trova "innanzitutto o per lo più".

Visto nel suo concreto e quotidiano esistere, l'uomo è in primo luogo un essere nel mondo, ossia un prendersi cura delle cose che gli occorrono: mutarle, manipolarle, ripararle, costruirle.

Poiché per l'Esserci trovarsi nel mondo significa prendersi cura delle cose, l'essere di queste ultime, in relazione all'uomo, coincide dunque con il loro poter essere utilizzate.


L'esistenza inautentica


Come l'esistenza è sempre un essere nel mondo, così è anche un essere tra gli altri; l'esistenza, fin dal principio, è apertura verso il mondo e verso gli altri. Come il rapporto tra l'uomo e le cose è un prendersi cura delle cose, così il rapporto tra l'uomo e gli altri è un aver cura degli altri; l'aver cura costituisce la struttura fondamentale di tutti i possibili rapporti tra gli uomini. Esso può assumere due forme diverse: può significare, in primo luogo, sottrarre agli altri le loro cure; in secondo luogo, aiutarli ad essere liberi di assumersi le proprie cure. Nella prima forma, l'uomo non si cura tanto degli altri quanto delle cose da procurar loro; la seconda forma apre agli altri la possibilità di trovare se stessi e di realizzare il loro proprio essere. Perciò la prima è la forma inautentica della coesistenza, è un puro "essere insieme"; mentre la seconda è la forma autentica, è il vero "coesistere". La trascendenza esistenziale, fondandosi sulle possibilità di essere dell'uomo, è nello stesso tempo un atto di comprensione esistenziale.

La comprensione inautentica è il fondamento dell'esistenza anonima; l'esistenza anonima è quella di tutti e di nessuno (è quella del mann -si impersonale-). Un esistenza così vuota cerca naturalmente di riempirsi e perciò è morbosamente protesa verso il nuovo: la curiosità è quindi l'altro suo carattere dominante; curiosità non per l'essere delle cose ma per la loro appartenenza visibile, che perciò reca con sé l'equivoco. L'equivoco è l'altro contrassegno dell'esistenza anonima che, in preda alle chiacchiere e alla curiosità, finisce per non sapere neppure di che si parla o a che si riferisce il "si dice".


La cura


Queste determinazioni non implicano, nel pensiero di Heidegger, una condanna dell'esistenza anonima, giacché l'analisi esistenziale non pronuncia giudizi di valore. Essa si limita a riconoscere che l'esistenza anonima fa parte della struttura esistenziale dell'uomo ed è un suo costitutivo poter essere. Alla base di questo poter essere c'è quella che Heidegger chiama la deiezione cioè la caduta dell'essere dell'uomo al livello delle cose del mondo. La deiezione non è un peccato originale né un accidente che il progresso dell'umanità possa eliminare; fa parte esistenziale dell'essere dell'uomo. E' un processo interno, per cui quest'essere, nei suoi commerci quotidiani con le cose, scende al livello di un fatto e diventa effettivamente un fatto. Questa condizione diventa evidente o meglio viene vissuta direttamente nella situazione emotiva in cui l'uomo si sente abbandonato ad essere ciò che è di fatto. La situazione emotiva si differenzia dalla comprensione esistenziale in quanto mentre questa è un continuo progettare in avanti, a partire dalle possibilità dell'esistenza, quella è piuttosto orientata all'indietro e fa perno sul fatto che l'uomo c'è ed è un esistente fra gli altri. La totalità di queste determinazioni dell'essere dell'uomo viene compresa nell'unica determinazione della Cura. La cura (nel senso latino del termine) è la struttura fondamentale dell'esistenza. La cura esprime così la condizione fondamentale di essere che, gettato nel mondo, progetta in avanti le sue possibilità; ma queste possibilità lo riconducono incessantemente alla sua situazione di fatto originaria, al suo essere gettato nel mondo. L'esistenza è in primo luogo un essere possibile, cioè un progettarsi in avanti; ma questo progettarsi in avanti non fa che cadere all'indietro, su ciò che già l'esistenza è di fatto. Tale è la struttura circolare e perciò conclusa e compiuta della Cura, in quanto costituisce l'essere stesso dell'uomo; tale essere è un essere nel mondo e decade perciò nell'esistenza anonima quotidiana. A questa esistenza anonima che come tale è inautentica, Heidegger assegna buona parte dell'esistenza umana. Per il filosofo, l'intero campo della normatività e dei valori, non essendo possibile né comprensibile fuori dal rapporto dell'uomo col mondo, appartiene all'esistenza quotidiana anonima e rimane fuori dalla soglia dell'esistenza autentica.


L'esistenza autentica


La morte


"L'estrema possibilità dell'esistenza è la sua rinuncia a se stessa".


Nell'Esserci, osserva Heiddeger, manca sempre ancora qualcosa che esso può essere o sarà. Ora, di questo qualcosa che manca fa parte la stessa "fine". La "fine" dell'Esserci è la morte. La morte, chiarisce Heiddeger, non è per l'uomo un termine finale, non è neppure un fatto perché in quanto tale, non è mai la propria morte. Essa è "come fine dell'Esserci, la possibilità dell'Esserci più propria, incondizionata, certa e, come tale, indeterminata e insuperabile". E' una possibilità incondizionata perché appartiene all'uomo in quanto individualmente isolato. Tutte le altre possibilità pongono l'uomo in mezzo alle cose o fra gli uomini; la possibilità della morte isola l'uomo con se stesso. Soltanto nel riconoscere la possibilità della morte, nell'assumerla su di sé come scelta anticipatrice, l'uomo ritrova il suo essere autentico e comprende veramente se stesso. Ma poiché ad ogni comprensione si accompagna una situazione emotiva che ci pone immediatamente di fronte al nostro essere di fatto, così anche la comprensione di noi stessi alla luce della morte è accompagnata da quella specifica tonalità emotiva che è l'angoscia. L'angoscia, che Heiddeger distingue dalla paura, è quella situazione capace di "tenere aperta la costante e radicale minaccia" che proviene dalla morte, ovvero lo stato emotivo in virtù del quale "l'Esserci si trova di fronte al nulla della possibile impossibilità della propria esistenza". Di conseguenza, l'angoscia colloca l'uomo davanti al nulla, e in virtù di essa la totalità dell'esistenza diventa qualcosa di labile, di accidentale e di sfuggente, in cui il nulla stesso si presenta nella sua potenza di annullamento. Ma così l'angoscia rivela anche il significato autentico della presenza dell'uomo nel mondo, la quale significa tenersi fermi all'interno del nulla.

L'esistenza quotidiana anonima è una fuga di fronte alla morte; quest'ultima non può venire intesa e realizzata che come pura minaccia sospesa sull'uomo. Non è neppure un'attesa, perché anche l'attesa non mira che alla realizzazione, e la realizzazione nega o distrugge la possibilità come tale. Essere per-la-morte significa accettare la possibilità più propria del nostro destino.


La "voce della coscienza"


Ciò che richiama l'uomo alla sua esistenza autentica è quel fenomeno che Heiddeger denomina "voce della coscienza", intendendo per essa, il richiamo dell'esistenza a se stessa che coincide con un sentimento di colpevolezza. Questa "voce" richiama l'uomo a se stesso, a ciò che egli autenticamente è e non può non essere. L'esistenza umana è costituita da possibilità, l'uomo, essendo un progetto-gettato, non risulta il fondamento del proprio fondamento. Da ciò la nullità di base che lo costituisce. L'esistenza autentica è così, secondo Heiddeger, quella che comprende chiaramente e realizza emotivamente (tramite l'angoscia) la radicale nullità dell'esistenza. In altri termini, se l'uomo, in quanto progetto-gettato è costituito da una "nullità essenziale", non rimane che anticipare e progettare questo nulla, sotto forma di una visione anticipatrice della morte, intesa come la possibilità propria ed estrema del nulla di sé. Solo in tal modo, l'Esserci, entra in possesso della proprio finitudine e si trova "in cospetto della nudità del suo destino". Solo in tal modo l'Esserci ratifica quella situazione per la quale egli, nello stesso momento in cui si apre all'essere, si installa e si mantiene fermamente nel nulla (di se stesso).


Il tempo e la storia


Il senso della Cura è la temporalità; il progetto proietta l'Esserci verso il futuro, l'essere-gettato inchioda l'Esserci al passato, la deiezione radica l'uomo nel presente inautentico del prendersi cura delle cose, cui si contrappone il presente autentico dell'attimo. In altri termini, la temporalità rappresenta il senso unitario della struttura della Cura, in quanto questa è "essere-avanti-a-sé" (progetto), "esser-già-in" (gettatezza) ed "essere-presso" (deiezione). Il tempo non si aggiunge all'esistenza: l'Esserci è tempo.

La storicità viene vista come "ripetizione" e "destino", ossia come assunzione consapevole dell'eredità del passato e come fedeltà al popolo cui si appartiene.

La storicità autentica è la scelta, per l'avvenire, delle possibilità che sono già state, ovvero un tramandarsi di tali possibilità, una loro ripresa decisa, che Heiddeger chiama anche destino (in senso attivo e non passivo).

Nella storicità inautentica, al contrario, l'estensione originaria del destino risulta nascosta.


Luigi Pirandello


La vita di Luigi Pirandello è l' «involontario soggiorno sulla terra» di un «figlio del caos», come egli stesso, scherzando, amava definirsi.

Nasce infatti il 28 giugno 1867 nella villa detta Caos nei pressi di Girgenti (oggi Agrigento). La famiglia, di tradizione garibaldina e antiborbonica, è proprietaria di alcune zolfare. Dopo gli studi liceali compiuti a Palermo, rientra nel 1986 a Girgenti, dove affianca per breve tempo il padre nella conduzione di una miniera di zolfo e si fidanza con una cugina (rompendo in seguito il fidanzamento). Si iscrive prima all'università di Palermo, poi passa alla Facoltà di Lettere dell'università di Roma, ma a causa di un contrasto con il preside, il latinista Onorato Occioni, si trasferisce all'università di Bonn, dove nel 1891 si laurea in Filologia romanza con una tesi dialettologica. Intanto ha già esordito come poeta con Mal giocondo (1889) e con Pasqua di Gea (1891), raccolta che dedica a Jenny Schulz-Lander, di cui a Bonn si è innamorato.

Nel '92, fermamente deciso a dedicarsi alla sua vocazione letteraria, si stabilisce a Roma, dove vive con un assegno mensile del padre. Nell'ambiente letterario della capitale conosce e stringe amicizia con il conterraneo Luigi Capuana, che lo spinge verso il campo della narrativa. Compone così le prime novelle e il suo primo romanzo, uscito nel 1901 con il titolo L'esclusa. Non abbandona tuttavia la poesia: escono nel '95 le Elegie renane, nel 1901 Zampogna, e nel 1912 Fuori di chiave, la sua ultima raccolta poetica. Nel 1894 sposa a Girgenti, con matrimonio combinato tra le famiglie, Maria Antonietta Portulano, figlia di un ricco socio del padre. Si stabilisce definitivamente a Roma, dove nascono i tre figli Stefano (1895), Rosalia (1897) e Fausto (1899).

Pirandello vive sempre con disagio il rapporto con la fragile e inquieta moglie, avvertendo il forte peso delle norme comportamentali risalenti alle radici siciliane. Inizia una fitta collaborazione con diversi giornali e riviste letterarie, sulle quali pubblica una ricca e vasta produzione narrativa che trova consensi presso il pubblico, ma indifferenza da parte della critica. Scrive il romanzo Il turno (edito nel 1902) e lavora ai suoi primi testi teatrali che per allora non riescono a raggiungere le scene. In opposizione all'estetismo e al misticismo dominanti fonda con Ugo Fleres e altri amici un settimanale letterario dal titolo shakespeariano «Ariel». Dal 1897 al 1922 insegna, senza entusiasmo ma con grande dignità, stilistica italiana presso l'Istituto Superiore di Magistero di Roma.

Nel 1903 l'allargamento di una miniera di zolfo causa alla famiglia Pirandello un grave dissesto economico: il padre Stefano perde insieme al proprio capitale anche la dote della nuora. In seguito alla notizia dell'improvviso disastro finanziario, Antonietta, già sofferente di nervi, cade in una gravissima crisi che durerà per tutta la vita sotto forma di grave paranoia. Vani saranno i tentativi di Pirandello di dimostrare che la realtà non è come invece pare alla moglie. Abbandonata la tentazione del suicidio, Pirandello cerca di fronteggiare la disperata situazione, assistendo Antonietta (che verrà internata in una casa di cura solo nel 1919); e per arrotondare il magro stipendio universitario, impartisce lezioni private e intensifica la sua collaborazione a riviste e a giornali.

Nel 1904 Il fu Mattia Pascal , pubblicato a puntate sulla «Nuova Antologia», riscuote un successo tale che uno dei più importanti editori del tempo, Emilio Treves di Milano, decide di occuparsi della pubblicazione delle sue opere. Nel 1908 pubblica due volumi saggistici Arte e scienza e L'Umorismo, grazie ai quali ottiene la nomina a professore universitario di ruolo. Nel 1909 inizia la sua collaborazione, che durerà fino alla morte, al «Corriere della Sera», su cui appaiono via via le sue novelle; e pubblica la prima parte del romanzo I vecchi e i giovani (la seconda esce in volume nel 1913). Nel 1911 esce il romanzo Suo marito. Scrive anche alcuni soggetti cinematografici, mai realizzati; mentre nel 1915 pubblicherà il romanzo Si gira Nel 1915-'16 inizia la sua prodigiosa e intensa attività teatrale, che darà vita a dibattiti e discussioni in Italia e all'estero.

Proprio negli anni della grande guerra, (vissuti drammaticamente anche per la perdita della madre e per la partenza dei figli per il fronte), scrive alcune celebri opere: Pensaci Giacomino!, Liolà (1916), Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà (1917), Ma non è una cosa seria e Il gioco delle parti (1918). Nel 1918 esce il primo volume delle Maschere nude, titolo sotto cui raccoglie i suoi molteplici testi teatrali. Nel 1920 il teatro pirandelliano con Tutto per bene e Come prima, meglio di prima, si afferma pienamente, e a partire dall'anno successivo raggiunge il grande successo internazionale con il capolavoro I sei personaggi in cerca d'autore. Abbandonata la vita sedentaria degli anni precedenti, Pirandello vive e scrive negli alberghi dei più importanti centri teatrali sia europei che americani, curando personalmente l'allestimento e la regia delle sue opere. In questi stessi anni il cinema trae diversi film dai suoi testi teatrali e narrativi, di cui continuano a uscire ristampe e nuove edizioni.

Nel 1922 esce il primo volume della raccolta Novelle per un anno presso l'editore Bemporad. La sua produzione teatrale prosegue con Enrico IV e Vestire gli ignudi (1922), L'uomo dal fiore in bocca (1923), Ciascuno a suo modo (1924), Questa sera si recita a soggetto (1930). Nel 1924 si iscrive formalmente al partito fascista, da cui ottiene appoggi e finanziamenti per la compagnia del Teatro d'Arte di Roma che, sotto la direzione dello stesso Pirandello, porta per tre anni (fino al 1928) il teatro pirandelliano in giro per il mondo. L'interprete per eccellenza delle sue scene è la 'prima attrice' Marta Abba, a cui Pirandello si lega anche sentimentalmente. Nel 1926 esce in volume il romanzo Uno, nessuno e centomila, ultimo romanzo, frutto di una lunga gestazione, (Bemporad, Firenze), intessuto di interrogativi che il protagonista rivolge direttamente al lettore, per coinvolgerlo in una vicenda 'universale', un riepilogo di tutta l'attività, narrativa e teatrale dell'autore. Il dramma La nuova colonia (1928) inaugura l'ultima stagione pirandelliana, quella fondata sui «miti» moderni, che culmina nell'opera incompiuta I giganti della montagna. Nel 1929 è nominato membro dell'Accademia d'Italia, dove nel '31 commemora Verga.

Nel 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. Si ammala di polmonite, mentre segue le riprese a Cinecittà di un film tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa romana il 10 dicembre 1936. Esce postuma l'edizione definitiva delle Novelle per un anno.

Nel 1934 riceve il premio Nobel per la letteratura. Si ammala di polmonite, mentre segue le riprese a Cinecittà di un film tratto da Il fu Mattia Pascal. Muore nella sua casa romana il 10 dicembre 1936. Esce postuma l'edizione definitiva delle Novelle per un anno. L'inquietudine, e in ultima analisi l'amarezza, insospettabili nella vita di un uomo di tanto successo, vengono analizzate nell'articolo

L'inquietudine e una solitudine a tratti disperata, che sono la costante della sua esistenza, insospettabili in un uomo di tale successo, vengono analizzate nell'articolo Il segreto di un Nobel italiano, che prende in esame le pagine di alcuni biografi: fra tutti, Andrea Camilleri, che bene la descrisse nel suo libri Biografia del figlio cambiato




Uno, Nessuno e Centomila


«Come sopportare in me questo estraneo? Questo estraneo che ero io stesso per me? Come non vederlo? Come non conoscerlo? Come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto dalla mia?»

L'ultimo romanzo di Pirandello, in gestazione già dai primi anni Dieci, ma uscito, dapprima in rivista e poi in volume, solo nel 1926 (Bemporad, Firenze), è intessuto di interrogativi e di esclamazioni sulla scia del passo sopra riportato, interrogativi spesso e volentieri rivolti dal protagonista del romanzo direttamente al lettore, con la precisa volontà di coinvolgere quest'ultimo nella vicenda, che si può senza ombra di dubbio definire 'universale'.

Vitangelo Moscarda, chiamato dalla moglie Gengè, partendo dalla scoperta di avere il naso lievemente storto, si avventura in una serie di ricerche speculative che lo porteranno alla rovina. Ma si tratta davvero della rovina? La banalissima constatazione, riguardante l'altrettanto banale difetto fisico, gli provoca la consapevolezza di essere visto e giudicato dagli altri in modi molteplici e differenti, di essere visto in "centomila" prospettive diverse e inconciliabili. Progressivamente, egli è assillato dal bisogno di scoprire un'immagine obiettiva di sé.

Nel tentativo di uscire da questa situazione inizia a commettere azioni impreviste, capovolgendo le convinzioni che gli altri si sono fatti sul suo conto, scopre contraddittoriamente di saper essere crudele o generoso, disinteressato o egoista, fino a comunicare la propria "pazzia" a un'amica della moglie che durante un singolare amplesso lo ferisce con un colpo di pistola. Gengè è nei guai fino al collo, ma anche questa è una "finzione" della società alla quale si oppone. In effetti egli continua le sue ricerche in un ospizio, dove finirà a vivere il resto dei suoi giorni e nel quale scoprirà, amaramente appagato, che l'uomo è immerso in un continuo flusso durante il quale muore e rivive ogni istante; l'unica immagine possibile di sé consiste nelle cose, nella natura, nell'aria che riflettono e rendono eterna la parte veramente viva di ogni creatura.

Una volta giunto a essere ritenuto pazzo, Vitangelo si dichiara soddisfatto di questa conclusione che "non conclude", accetta di rinascere «nuovo e senza ricordi: vivo e intero. in ogni cosa fuori», totalmente escluso dalla vita sociale e dalla visione comune degli uomini. L'alienazione di Moscarda consiste nella totale scomposizione dell'io, nell'impossibilità di calarsi in un qualunque tipo di ruolo, perché la realtà muta incessantemente e nulla può interromperne il flusso.

Si può tranquillamente affermare che in questo romanzo la filosofia pirandelliana trovi totale compimento e si dispieghi al massimo delle sue potenzialità. Il protagonista dell'ultimo romanzo del narratore siciliano assorbe in sé e supera tutti i personaggi presenti nei romanzi e nelle novelle dello scrittore. Non a caso il testo recupera materiali che erano andati via via accumulandosi nel corso degli anni sulla scrivania dello scrittore.

L'opera è considerata un riepilogo di tutta l'attività, narrativa e teatrale di Pirandello, qualcosa di compiuto nella forma e incompiuto nella sostanza. Il romanzo «più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita» (così afferma l'autore in una lettera autobiografica) mette in scena il personaggio più "smontato" e più carico di autoconsapevolezza del mondo pirandelliano, fortemente desideroso di tornare alla freschezza dell'impressione immediata.

Anche l'andamento stilistico appare involuto e franto, organizzato in un monologo ricco di interrogazioni ed esclamazioni, proprio per affermare l'impossibilità di una conoscenza organica e coerente della persona e del mondo stesso.


Alberto Moravia


«Secondo me i privilegiati sono quelli che sia nel senso creativo, sia nel senso conoscitivo hanno a che fare con l'arte. Dico questo perché, nonostante una lunga vita piena di difficoltà di tutti i generi, alla fine mi considero un privilegiato per il fatto di essere un artista.».

Alberto Moravia (per l'anagrafe Alberto Pincherle: il cognome Moravia è quello della nonna paterna) nasce il 28 novembre 1907 a Roma, in Via Sgambati, da un'agiata famiglia borghese. Il padre, Carlo Pincherle Moravia, architetto e pittore, è di origine veneziana, mentre la madre, Gina de Marsanich è di Ancona. Terzo di quattro figli (Adriana, Elena e Gastone, nato nel 1914), Alberto ha una «prima infanzia normale benché solitaria».

All'età di nove anni si verifica «il fatto più importante della sua vita», quello che l'autore stesso riteneva avesse inciso «sulla sua sensibilità in maniera determinante»: la malattia da cui non guarirà del tutto che verso i diciassette anni, lasciandolo leggermente claudicante. All'età di nove anni, infatti, Alberto si ammala di tubercolosi ossea, malattia dagli atroci dolori che lo costringe a letto per cinque anni: i primi tre a casa, e gli ultimi due nel sanatorio Codivilla di Cortina d'Ampezzo. Durante questo periodo i suoi studi (interrotti alla licenza ginnasiale, suo unico titolo di studio) sono irregolari. Tuttavia, legge innumerevoli libri, soprattutto i classici e i massimi narratori dell'Ottocento e del primo Novecento (Dostoevskij, Joyce, Goldoni, Shakespeare, Molière, Mallarmé, Leopardi e molti altri); scrive versi in francese e in italiano, e studia tedesco.

Dopo aver lasciato il sanatorio nell'autunno del 1925, durante la convalescenza a Bressanone, in provincia di Bolzano, dà inizio alla stesura de Gli indifferenti, che verrà pubblicato con gran successo nel 1929. La sua salute rimane fragile ed è costretto a vivere in alberghi di montagna passando da un luogo all'altro. Nel frattempo, tuttavia, entra in contatto con Corrado Alvaro, Massimo Bontempelli e la rivista «900», su cui pubblica nel '27 la novella Cortigiana stanca.

Grazie al successo del suo primo romanzo, Moravia s'inserisce nell'ambiente letterario e giornalistico, e si intensificano le sue collaborazioni su riviste. Nel 1930 alla Consuma, presso Firenze, dove si stabilisce per due mesi, conosce Berenson e gli fa leggere Gli indifferenti.

Intanto il conflitto con il fascismo, iniziato in seguito all'uscita proprio di quel romanzo, si acuisce. Spinto dall'ansia d'evasione dal clima oppressivo del regime, inizia a viaggiare. Con vari articoli di viaggio, collabora dal 1930 a «La Stampa», allora diretta da Curzio Malaparte. Soggiorna a lungo in Inghilterra, dove conosce E.M. Forster, H.G. Wells, Yeats; e a Parigi, dove nel salotto letterario della principessa di Bassiano (cugina di T.S. Eliot), incontra Fargue, Giono, Valéry e il gruppo che si chiamerà «Art 1926».

Nel 1933 con Pannunzio fonda sia la rivista «Caratteri», di cui escono solo quattro numeri, sia la rivista «Oggi», l'attuale testata omonima. Nel 1935 una cattiva accoglienza è riservata al suo secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate (censurato dal regime). Nello stesso anno passa a collaborare alla «Gazzetta del Popolo»; e si allontana dall'Italia dove la vita gli stava diventando difficile. Tra il '35 e il '36 è negli Stati Uniti, su invito di Giuseppe Prezzolini, che dirige la Casa Italiana della Columbia University di New York; qui tiene tre conferenze sul romanzo italiano, discutendo di Nievo, Manzoni, Verga, Fogazzaro, D'annunzio. Dopo una breve parentesi in Messico, ritorna in Italia, dove in poco tempo scrive L'imbroglio (1937), libro di racconti lunghi con cui inizia la sua collaborazione con la casa editrice Bompiani.

Se si eccettua il viaggio in Cina nel '36, e il breve soggiorno in Grecia nel '38 (dove ad Atene frequenta saltuariamente Montanelli), gli anni tra il 1933 e il 1943 sono per Moravia, che è ebreo per parte paterna, «dal punto di vista della vita pubblica, i peggiori della sua vita».

Per eludere il controllo e la censura del regime, che guarda con sospetto alla sua produzione narrativa, Moravia sceglie la strada dell'allegoria, dell'apologo, della satira e dell'analogia. Ne nascono i racconti surrealistici e satirici, I sogni del pigro (1940) e il romanzo La mascherata (1941). Ma quest'ultimo viene sequestrato alla seconda edizione e Moravia non può più scrivere sui giornali, se non con uno pseudonimo - quello di Pseudo. Sotto questo nome collabora spesso alla rivista di Curzio Malaparte, «Prospettive».

Nel 1941 sposa Elsa Morante, che ha conosciuto nel '36 e con cui vive a lungo a Capri. Qui scrive Agostino, apparso con gran successo nel 1944. Dopo il matrimonio con la Morante, inizia per lo scrittore un periodo di fuga, latitanza e sbandamento: il suo nome è sulle liste della polizia fascista come «sovversivo».

Dopo l'8 settembre del '43, fugge da Roma con la Morante e si rifugia a Fondi, in Ciociaria. «Fu questa la seconda esperienza importante della sua vita, dopo quella della malattia». E da quell'esperienza nascerà il romanzo La ciociara (1957). Nel 1944, durante l'occupazione tedesca, vengono pubblicati i racconti de L'epidemia e il saggio La Speranza, ovvero Cristianesimo e Comunismo. Dopo la liberazione, torna a Roma e riprende una fitta attività letteraria e giornalistica, collaborando a «Il Mondo», «L'Europeo», e al «Corriere della Sera». Su quest'ultimo giornale, tra l'altro, dagli anni Cinquanta fino alla morte, la presenza di Moravia sarà costante: con una fitta serie di réportages, riflessioni e racconti.

Nel dopoguerra inizia la sua fortuna letteraria e cinematografica. Dopo la pubblicazione de La romana, (1947) escono i racconti lunghi La disubbidienza (1948), L'amore coniugale e altri racconti (1949) e il romanzo Il conformista (1951). Non solo, ma iniziano anche le traduzioni dei suoi romanzi all'estero e le realizzazioni di film tratti dai suoi racconti e romanzi: La provinciale (1952) con la regia di Mario Soldati, La romana (1954) di Luigi Zampa, Racconti romani (1955) di Gianni Franciolini, La ciociara (1960) di Vittorio de Sica, Agostino e la perdita dell'innocenza (1962) di Mauro Bolognini, Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard, La noia (1963) di Damiano Damiani, Gli indifferenti (1964) di Francesco Maselli, Il conformista (1970) di Bernardo Bertolucci, Io e lui (1973) di Luciano Salce e così via via fino a L'attenzione di Giovanni Soldati (1985). Vanno ricordate, inoltre, le sceneggiature di Un colpo di pistola (1941) e Zazà (1943) di Renato Castellani, e le collaborazioni, nei primissimi anni del dopoguerra, a Il cielo sulla palude di Augusto Genina e a La freccia nel fianco di Alberto Lattuada.

Nel 1952 - anno in cui gli viene assegnato il Premio Strega per I racconti, appena pubblicati - tutte le sue opere sono messe all'Indice dal Sant'Uffizio.

L'anno successivo fonda a Roma, insieme con Alberto Carocci la rivista «Nuovi argomenti», su cui scriveranno Jean-Paul Sartre, Elio Vittorini, Italo Calvino, Eugenio Montale, Franco Fortini e Palmiro Togliatti. Moravia dirigerà la rivista fino all'ultimo: dal '66 insieme con Carocci e Pasolini, a cui si aggiungeranno Attilio Bertolucci e Enzo Siciliano; mentre a Milano nel 1982, i direttori della terza serie saranno, oltre a lui, Siciliano e Sciascia.

Nel '54 pubblica I racconti romani (cui viene assegnato il Premio Marzotto), il romanzo Il disprezzo e, su «Nuovi argomenti», il saggio L'uomo come fine, scritto fin dal 1946. Negli anni successivi scrive la prefazione al volume del Belli, Cento sonetti, al Paolo il caldo di Vitaliano Brancati e a Passeggiate romane di Stendhal. Nel '57 comincia a collaborare all'«Espresso», su cui curerà una rubrica cinematografica: alcune di quelle recensioni nel 1975 saranno pubblicate nel volume Al cinema.

Negli anni Cinquanta Moravia si accosta anche alla scrittura teatrale e per il teatro scrive La mascherata e Beatrice Cenci. Frutto di un primo viaggio nell'Unione Sovietica, nel '58 esce il saggio Un mese in URSS.

Dopo la pubblicazione nel '59 dei Nuovi racconti romani, nel 1960 l'uscita del romanzo, La noia (vincitore nel '61 del Premio Viareggio), segna nella sua carriera un successo simile a quello ottenuto con Gli indifferenti e La romana. Cresce così la sua fama di sottile indagatore della vita sessuale, di intellettuale impegnato a sinistra, di leader del mondo letterario romano, e la sua figura diviene sempre più bersaglio dei conservatori e dei conformisti. Negli anni successivi, poi, in virtù del suo giudizio sicuro su qualsiasi evento culturale, politico e sociale, Alberto Moravia diverrà una sorta di maitre à penser.

Nell'aprile del '62 si separa da Elsa Morante, lascia l'appartamento romano in Via dell'Oca e va a vivere in Lungotevere della Vittoria con la giovane scrittrice Dacia Maraini. In quello stesso anno escono sia Un'idea dell'India (a seguito del viaggio nel '61 in India, con la Morante e Pasolini), sia L'automa, il primo di tre volumi di racconti sul tema dell'alienazione, già apparsi sulla terza pagina del «Corriere della Sera». Seguiranno gli altri due volumi, Una cosa è una cosa (1967) e Il paradiso (1970). Nel '63 nel volume dal titolo L'uomo come fine e altri saggi raccoglie, invece, svariati saggi scritti a partire dal '41. Dopo la polemica con Il Gruppo 63, nel '65 pubblica L'attenzione, un esperimento di "romanzo nel romanzo".

A partire dal '66 - anno in cui in occasione del festival del Teatro contemporaneo viene rappresentato Il mondo è quello che è - Moravia si occupa sempre più di teatro. Con Dacia Maraini ed Enzo Siciliano fonda la compagnia teatrale «del Porcospino», che ha come sede il teatro di Via Belsiana a Roma. Vi vengono rappresentate L'intervista dello stesso Moravia, La famiglia normale di Dacia Maraini, Tazza di Enzo Siciliano e opere di Carlo Emilio Gadda, Wilcok, Strindberg, Goffredo Parise e Kyd. Per mancanza di fondi l'esperimento si interromperà nel '68. Nel '67 Moravia spiega le sue idee sul teatro moderno in La chiacchiera a teatro, pubblicata su «Nuovi argomenti». Sempre nel '67 insieme a Dacia Maraini, si reca, oltre che in Giappone e in Corea, anche in Cina. Le sue corrispondenze per il «Corriere della Sera» vengono riunite nel volume La rivoluzione culturale in Cina, uscito nel 1968 - anno in cui, tra l'altro, Moravia viene contestato in diverse occasioni dagli studenti.

Dopo Il dio Kurt (1968), nel '69 pubblica La vita è gioco, rappresentato nel 1970 al teatro Valle di Roma con la regia della Maraini. Con un intervento su L'informazione deformata commenta l'attentato dinamitardo alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano.

Dopo l'uscita del nuovo romanzo Io e lui e la pubblicazione del saggio Poesia e romanzo (1971), nel '72 intraprende dei lunghi viaggi in Africa, da cui nascerà A quale tribù appartieni? (1972). Seguiranno altri due libri sull'Africa: Lettere dal Sahara (1981), una raccolta di articoli scritti tra il '75 e l'81 come "inviato speciale" del «Corriere della Sera»; e Passeggiate africane (1987).

Nel 1973 esce un nuovo libro di racconti (già apparsi sul «Corriere della Sera»), Un'altra vita, seguito nel '76 da un'altra raccolta Boh. Nel 1978 esce il romanzo tanto atteso, a cui ha lavorato per ben sette anni, La vita interiore.

Quindi, nel 1980, dà alle stampe la raccolta di saggi Impegno controvoglia, mentre il romanzo 1934 e la raccolta di fiabe Storie della Preistoria escono nel 1982, anno in cui fa un viaggio in Giappone, fermandosi ad Hiroshima. A tal riguardo, per l'«Espresso» farà tre inchieste sul problema della bomba atomica. E proprio sull'incubo della bomba atomica e sul dissidio tra la cultura umanistica e quella scientifica è centrato il romanzo edito nell'85, L'uomo che guarda.

Nel 1983 esce la raccolta di racconti La cosa, dedicata a Carmen Llera, la sua nuova compagna, una donna spagnola di quasi quarantasette anni più giovane di lui, che sposerà nel 1986, suscitando grande clamore. Tra il 1984 e il 1989 è deputato al Parlamento europeo, eletto come indipendente nelle liste del Pci.

Sul «Corriere della Sera» nel 1984 inizia una corrispondenza da Strasburgo, il Diario europeo. Nell'86 pubblica in volume, L'angelo dell'informazione e altri scritti teatrali, L'inverno nucleare (a cura di Renzo Paris) e il primo volume delle Opere (1927-1947), a cura di Geno Pampaloni. Il secondo volume delle Opere (1948-1968), a cura di Enzo Siciliano, uscirà nel 1989. Nel 1987 dà alle stampe Il viaggio a Roma, e nel 1990 La villa del venerdì e Vita di Moravia, scritta assieme a Alain Elkann. Il 26 settembre 1990, alle nove del mattino, Alberto Moravia muore nella sua casa di Roma.

Postumi escono, nel 1993, Romildo (a cura di Enzo Siciliano), una prima raccolta di racconti rimasti sepolti nelle pagine dei quotidiani e delle riviste, cui è seguito nel 2000 un secondo volume, Racconti dispersi.

A dieci anni dalla morte, una serie di articoli giornalistici, di incontri ed iniziative, di tipo editoriale e non, ha ricordato Alberto Moravia.

Sulle pagine del «Corriere della Sera», il 6 settembre 2000, Antonio Debenedetti pubblica in prima pagina un articolo dal titolo: Dieci anni dopo. Quegli amici smemorati di Moravia, e accende così nei giorni successivi un'interessante discussione, in cui sono intervenuti molti degli amici dello scrittore romano.

Negli articoli Una specie di porcile con un'anima, e Il ricordo dei Mosillo, la Redazione Virtuale de «La Libreria di Dora» fornisce alcune testimonianze dirette sul soggiorno di Moravia a Fondi insieme alla Morante.

Inoltre, in esclusiva per «La Libreria di Dora», Roberta Simonis, editrice della rivista internazionale «Sahara», rievoca un incontro fortuito con Alberto Moravia, durante uno dei suoi viaggi di studio nello Yemen del Sud, tra il dicembre 1989 e gennaio 1990.




Gli Indifferenti


Ricordando la genesi de Gli indifferenti, il suo primo romanzo, pubblicato nel 1929, Moravia ha più volte affermato che alla base del suo progetto c'era la volontà di recuperare in sede narrativa la compattezza della tragedia, ponendo al centro dell'opera un nodo drammatico che ne occupasse l'orizzonte nella sua totalità (Cfr. A. Moravia, Gli italiani non sono cambiati, «L'Espresso», 2 agosto 1959: «Volevo scrivere un lungo racconto che avesse una struttura teatrale con unità di tempo, di luogo e con pochissimi personaggi. La mia ambizione era di scrivere una tragedia, invece ne venne fuori un romanzo»; Cfr. E. Siciliano, Milano 1971, p. 39: «Se avevo un'idea di cui andavo in cerca al tempo de Gli indifferenti era un'idea o una fissazione stilistica: fare uso della tecnica teatrale nel romanzo»). In effetti, soluzioni e scansioni tipicamente drammaturgiche sono evidenti fin dalle parole d'esordio del primo capitolo («Entrò Carla», come se si fosse appena alzato il sipario), influenzando gli elementi basilari della struttura romanzesca. La vicenda, infatti, si svolge in un arco di tempo quanto mai unitario - quarantotto ore disaminate quasi senza soluzione di continuità - dipanandosi pressoché interamente nell'ambito di tre distinti «interni» borghesi, che di capitolo in capitolo si succedono e ritornano esattamente come le scene di un dramma. La struttura de Gli Indifferenti è interamente basata sulle interrelazioni di cinque soli caratteri drammatici, dei quali fin dal terzo capitolo il lettore è in grado di individuare le psicologie, nonché di ricostruire correttamente i reciproci rapporti.

La prima prova di Moravia, che conserva intatti alcuni schemi narrativi del romanzo tradizionale, non è esente da limiti, quali l'esposizione cronologica dei fatti, la consistenza degli sfondi che fanno da cornice alle vicende, o l'intreccio degli avvenimenti, realisticamente concepiti come sottofondo consequenziale all'analisi psicologica dei personaggi.

Tuttavia ne Gli indifferenti c'è un motivo nuovo che in altri romanzi del tempo o appena precedenti (come Il podere di Tozzi, Rubè di Borgese e la Velia di Cicognani) non era stato delineato con altrettanta efficacia: l'analisi e la rappresentazione acre dell'ambiente borghese, visto nella sua crisi di trapasso da un'epoca all'altra, seguito da Moravia con dovizia di esemplificazioni, fino a trarne una visione esistenzialistica, contraddistinta dalla sua 'indifferenza'. Tale indifferenza si traduce in inerzia morale, incapacità a vivere la vita, superficialità con cui la società borghese si pone di fronte ai problemi dell'esistenza, ai valori più profondi e genuini dell'uomo. I personaggi del primo romanzo moraviano sono dunque colpiti da questa malattia morale, da una sorta di «debolezza della volontà» e versano in una condizione di annientamento, di perdizione, di disfatta, atta a far ritrovare nella distruzione di ogni valore, o nel male - toccato nelle sue pieghe più riposte - il senso acuto dell'esistenza. (Per una prospettiva interessante sulle implicazioni sociali del romanzo, vedi anche l'articolo Il rococò del mondo borghese, di Gabriela Iliuta).

Carla, la giovane figlia di Mariagrazia Ardengo, è insidiata dal libertino Leo Merumeci, amante della madre, il quale mira ad impadronirsi del patrimonio di famiglia. Merumeci è facilitato nel suo proposito dalla particolare situazione in cui si trova la ragazza, desiderosa di uscire da un'esistenza mediocre, contrassegnata da una decadenza e una corruzione insostenibili: tenta l'approccio una prima volta nel salotto della villa, ma ne è impedito dal sopraggiungere della madre di lei, gelosa di ogni gesto e atteggiamento dell'amante, assolutamente ignara della nascente tresca con la propria figlia. Leo, dopo tanti tentativi, invita Carla a casa sua. Lo stupro avviene e, nel suo attuarsi così meccanico e impartecipe, lascia la ragazza in una depressione ancor più tragica e dolente.

Il tradimento di Leo è scoperto da Lisa, amica di famiglia degli Ardengo, innamorata respinta di Michele, fratello di Carla e vecchio amore di Leo, contro la quale si rivolge ogni gelosia di Mariagrazia. Lisa rivela a Michele il nuovo imbroglio amoroso di Leo: il giovane, soggiogato dall'apatia morale, incline a una vita fondata più sui sogni e le fantasticherie, che su un'effettiva partecipazione al corso degli eventi concreti dell'esistenza, tenta di ribellarsi a questa assurda novità, affrontando ripetutamente Leo Merumeci fino a tentare di ucciderlo.

L'attuazione di ogni disegno di Michele viene a naufragare in quella sua impotenza, che si risolve solo in un sogno di autenticità e in un desiderio di purezza, privi di qualsiasi valore sul piano concreto, indicativi - semmai - di un velleitario rifiuto della finzione e della corruzione in cui, al contrario, gli altri personaggi sembrano passivamente affondare. Il romanzo si chiude con l'integrazione di Carla nella vita borghese, culminante nel matrimonio con Leo, con il rifiuto rassegnato di Michele e il pieno successo di Merumeci.

L'esile vicenda, schematicamente tracciata, non è determinante per comprendere appieno gli intenti del primo romanzo moraviano, impostato quasi esclusivamente sul tratteggio psicologico dei cinque personaggi e delle loro reazioni in un mondo che sta scivolando interamente sulla china della più profonda dissoluzione. Proprio seguendo tali reazioni si potrà giungere al centro della crisi, assunta da Moravia come segno di decadenza, come prova di un trapasso da un secolo all'altro, colmo di malessere e di tragica impotenza.

Carla avverte che il vecchio mondo puro e intatto dell'infanzia è ormai sepolto nella sua anima come una cosa lontana e intoccabile. Un nuovo atteggiamento occorre per affrontare l'incerta dimensione del vivere quotidiano, sorretto da valori fittizi, improntato al più abietto conformismo: in questo intermedio e transitorio momento un atto di violenza è necessario a rompere le abitudini meschine di una vita piena di noia e tuttavia le sembra «di recitare una parte falsa e ridicola». La ragazza resiste a Leo e alle sue profferte interessate per un senso di vergogna, combattuta tra il desiderio di «rovinare tutto» - e mettere così fine alla provvisorietà del suo stato di apatia - e un senso di paura per le conseguenze di quella violenza sconosciuta. Nonostante ciò, le sembra che questa «avventura familiare» sia il solo epilogo degno di inaugurare la sua nuova esistenza, una frattura che rompa e laceri per sempre il vecchio mondo, fatto di immobilità, dominato da una meschina fatalità, pieno di atti e di gesti ripetuti fino alla nausea, in cui le stesse parole, i discorsi e le scene di gelosia tra la madre e Leo appaiono consunti e angosciosi, perché già in anticipo previsti, già esperimentati nella loro falsità in mille modi e occasioni diverse.

Nell'identica situazione psicologica - forse con più netta coscienza e volontà di riscattarsi della sorella - si trova Michele, anche lui oscillante tra una vanità subdola e falsa e l'indifferenza, «meschina voragine» in cui sembra al contrario lasciarsi andare, senza combattere, per un gusto fatalistico di soccombere.

Michele reagisce, a volte. Sembra che voglia rompere la crosta della finzione, strappare le maschere a quei volti della sua vita duri, patetici, inespressivi, denudare i propri istinti. La ribellione, però, quando avviene, è tiepida e mite, minata nelle sue più intime intenzioni: la noia, l'indifferenza svuotano ogni azione, anche quella più vera come l'attentato alla vita di Leo, che Michele sente quanto mai necessario per ridare un senso alla propria esistenza. Nell'epilogo della drammatica vicenda, prima di uscire di scena, egli rivela la sua totale abnegazione: la pistola scarica - un atto mancato - mentre Leo, impaurito, sovrasta per l'ultima volta la sua debole volontà.

Michele è vero ai nostri occhi nella misura in cui combatte con una realtà disfatta, quella di Leo, di Mariagrazia e di Lisa, ossia di un mondo che non fa nulla per riscattarsi dalla propria corruzione.

Se Lisa, l'amante respinta, che sogna con Michele un amore puro e romantico, rappresenta un aspetto della decadenza borghese, Mariagrazia ne incarna il risvolto più triste e patetico. La sua è veramente la «commedia» di una società che sta perdendo progressivamente ogni legame con la realtà autentica della vita e si appunta ai gesti, alle parole, agli atteggiamenti più esteriori e insulsi, per salvarsi dal naufragio. Il suo ruolo è quello di chi si accorge di andare alla deriva, di affondare ogni giorno di più, ma non accenna ad alcuna reazione per impedire il fallimento. Ella sogna, invece, soluzioni impossibili, ricchezze e agi come le sole che permettano di sopravvivere. La paura di Mariagrazia per la povertà è un ribrezzo atavico, la miseria una condizione marginale del mondo, una colpa per chi ci vive in mezzo, un indice di mediocrità che ispira timore. Eccitata da false e ridicole ambizioni, non si accorge del mondo che frana intorno a lei, dell'ira e del disgusto che provoca nei figli con le sue scenate di gelosia, delle intenzioni ambigue di Leo, del suo tradimento con la figlia, delle cadute morali di Michele.

Quello della madre è un personaggio che ritorna con una certa insistenza nella narrativa moraviana ed è esemplare come modello di una figura borghese che ha chiusure vaste e intoccabili relativamente ai pregiudizi di casta. Il carattere di Mariagrazia è indice di una decadenza disfatta e decrepita, quasi volgare nella sua supponenza di prestigio, di superiorità legata a doppio filo con l'idea del possesso materiale e della ricchezza. Per Mariagrazia Leo è il mondo borghese del decoro sociale, della supremazia dei sentimenti superficiali sulle verità più genuine: è Leo che conta sopra ogni cosa.

In questa prospettiva Leo ci si presenta come la figura più negativa del romanzo moraviano, ma che tuttavia ha un suo fascino interno, una sua funzione narrativa ben precisa nell'economia de Gli Indifferenti. Leo Merumeci è il punto focale di un quadro immobile, un personaggio fatalmente soggiogato dalla sensualità, dal gusto sottile della predominanza, che tiene avvinti a sé - nella vicenda familiare - i destini dei «suoi» pupazzi, li fa muovere e agire secondo uno schema preordinato, pronto ad adattarsi a ogni situazione con la furbizia, felice di colpire la propria vittima quando questa gli si inginocchia ai piedi, conquistata dal suo fascino o vinta dalla sua perversità.

Egli insidia Carla nello stesso modo subdolo in cui tenta di impossessarsi della villa Ardengo, con la stessa fatalistica pervicacia con cui mira al nuovo approccio con Lisa, con la stessa sottile perfidia con cui abbandona Mariagrazia per una ben più giovane donna.

Quando cerca di sedurre Carla, Leo è cosciente del dramma intimo della giovane. Ha già subodorato che la ragazza è ormai preda della sua cupidigia: egli la domina come un perfetto stratega, la stupra con sagacia libertina che non lascia respiro. Carla è già nella sua rete. La praticità, l'esperta velocità di esecuzione con cui agisce inquadrano perfettamente la sua sostanza morale.

Leo ha un solo istinto, un solo impulso per volta, e quello segue fino in fondo, pienamente convinto della sua scelta, integrato mirabilmente alla sua vita borghese e ai suoi istituti; sa discriminare razionalmente tra i sentimenti che gli si presentano alla coscienza e asseconda ora l'uno ora l'altro in modo impeccabile, senza interferenze o inibizioni. In Leo si sublimano, quindi, l'ipocrisia, la falsa coscienza e la convenzionalità, aspetto saliente che Carla e Michele tentano appunto di rovesciare, anche se con debole convinzione, ma del quale alla fine restano vittime.

Carla e Michele invidiano Leo, pur disprezzandolo, ma odio e disprezzo si compenetrano in una forma di amore edipico, che ha lontane origini in un padre mancante, sconosciuto: Carla lo desidera inconsciamente, ma solo come illusoria possibilità di riscatto; Michele lo odia e su di lui tenta un'esercitazione e una prova della sua debole volontà. In Leo, infine, il ragazzo cerca un modello comportamentale che lo scuota e lo tiri fuori dalla sua indifferenza.

L'odio di Michele per Leo è tutto fantasticato, trasportato dal piano reale a quello dell'immaginazione: gli atti violenti e il mancato assassinio attestano tutti l'incapacità del giovane a odiarlo realmente. E insieme all'avversione, Michele prova per Leo una segreta ammirazione che si traduce, sul piano dell'azione e della realtà - e rispetto la suo desiderio di un mondo puro e autentico - in un risibile fallimento.

Le conclusioni del romanzo moraviano stanno a indicare proprio la pienezza di questa sconfitta e il trionfo degli individui come Leo, di una società in crisi, ma ancora saldamente legata ai suoi pregiudizi:

«Carla avrebbe sposato Leo. vita in comune, dormire insieme, mangiare insieme, uscire insieme, viaggi, sofferenze, gioie. avrebbero avuto una bella casa, un bell appartamento in un quartiere elegante della città. qualcheduno entra nel salotto arredato con lusso e buon gusto, è una signora sua amica, ella le viene incontro. prendono il tè insieme, poi escono; la sua macchina le aspetta alla porta; salgono; partono. Ella si sarebbe chiamata signora, signora Merumeci!».

Michele è avvolto nel suo dubbio, si dibatte inutilmente tra il desiderio di ribellione e i duri aspetti della vita, le sue più consistenti ragioni pratiche, infime manifestazioni di una realtà che egli non può cambiare e che infine accetterà con disgusto, vinto per sempre. Gli rimane un rimpianto: «. un po' più di fede - dirà - e avrei ucciso Leo. ma ora sarei limpido come una goccia d'acqua».

Mariagrazia, infine, «si era travestita da spagnola» per il ballo in maschera, l'atto finale della «commedia», che vedrà la madre e la figlia - questa nel suo costume da Pierrot bianco - recitare le ultime battute, unite entrambe nella finzione e destinate a riprendere il gioco delle parti, senza fine.


Mario Sironi

(Sassari 1885 - Milano 1961)


Nato nel 1885, Mario Sironi è una delle figure più originali della pittura italiana ed europea del Novecento. Trascorsa la prima giovinezza a Roma, nel 1903 abbandona gli studi di ingegneria per dedicarsi completamente alla pittura.

Frequenta l'accademia di Belle Arti di Roma, iscrivendosi alla Scuola di Nudo, e stringe amicizia con Giacomo Balla, Umberto Boccioni e Gino Severini.

Nel 1905 si trasferisce a Milano per continuare il suo percorso artistico e nel 1908 compie un viaggio con Boccioni a Parigi ed in Germania.

Tornato in Italia, nel 1914, partecipa al movimento Futurista. Le opere di quegli anni denotano già l'originale impostazione della sua pittura, che esprime una tragicità sconosciuta fino ad allora alla pittura del Novecento, quella del dramma dell'uomo contemporaneo: un dramma fatto di tristi solitudini e atmosfere cupe, di città deserte con l'aria desolata delle periferie, una riflessione amara e angosciata sul tema della nuova città urbana e industriale delle officine e delle macchine (il camion, 1914, Paesaggio Urbano, 1921).

Dal 1915 al 1918 collabora a "Gli Avvenimenti" e dal 1922 al "Popolo D'Italia" e alla "Rivista Illustrata del Popolo d'Italia". Nel 1915 si arruola volontario nel battaglione lombardo ciclisti e automobilisti, insieme a Boccioni, Sant'Elia, Marinetti, Russolo, Carlo Erba e Funi. Alla fine della guerra rientra a Milano e si sposa.

Passato attraverso una breve esperienza metafisica, nel primo dopoguerra è uno dei più convinti sostenitori del partito fascista e della tradizione italiana, attraverso un linguaggio arcaizzante caratterizzato dalla riduzione geometrica delle forme e dalla vigorosa costruzione plastica. Il ritorno all'antico propugnato in pittura viene riproposto da Sironi anche tramite il recupero di tecniche classiche, come l'affresco, il mosaico, il bassorilievo monumentale e tra i suoi soggetti preferiti figurano il nudo, il paesaggio alpestre e il ritratto.

Nel 1920 firma con Dudreville, Funi e Russolo il manifesto "Contro tutti i ritorni in pittura" che contiene alcune delle tesi che saranno poi fondamentali per la costruzione del gruppo "Novecento" (2), fondato nel 1922, col quale Sironi partecipa nel 1924 alla XIV Esposizione Internazionale d'arte di Venezia, presentandovi due opere, L'Allieva e L'architetto, che sono diventate delle vere e proprie icone della poetica novecentesca. Successivamente Sironi partecipa anche alle Biennali del 1928, del 1930 e del 1932; in questi anni inizia ad interessarsi anche di scenografia e di architettura; organizza la mostra del decennale della rivoluzione fascista (1932, Roma) e della V Triennale di Milano (1933), in occasione della quale dà vita ad una delle manifestazioni più alte della plastica italiana in un ciclo di affreschi dove figurano composizioni di De Chirico e Severini, ed egli stesso realizza, oltre a bassorilievi in terracotta di notevole valore, una delle sue più importanti pitture rurali celebrative sul tema del lavoro.

Con la collaborazione di architetti dell'ala razionalista, diviene uno dei maggiori protagonisti del tentativo di formulare un'estetica del regime fascista, animato da un principio di volontà e ordine rispecchiante il suo orientamento psicologico e la sua ideologia politica.

Nel dicembre 1933 Sironi pubblica su La Colonna il "Manifesto della pittura murale" (1) e nel 1935 segue l'affresco L'Italia fra le arti e le scienze, destinato all'Aula Magna della Nuova Università di Roma, ideata da Piacentini (1935). Opera anche come progettista di padiglioni industriali (quello FIAT per la fiera di Milano) e come scenografo teatrale.

Nel 1943 ritorna alla pittura da cavalletto, che assume toni sempre più cupi e drammatici. Dalla fine degli anni '40 rare, ma importanti, sono le sue mostre personali.

Muore a Milano il 13 Agosto 1961. L'anno seguente viene allestita un'ampia e rigorosa retrospettiva a Venezia, alla XXXI Biennale.



Manifesto della pittura murale


Il Fascismo è stile di vita: è la vita stessa degli Italiani. Nessuna formula riuscirà mai a esprimerlo compiutamente e tanto meno a contenerlo. Del pari, nessuna formula  riuscirà mai a esprimere e tanto meno a contenere ciò che si intende qui per Arte Fascista, cioè a dire un'arte che è l'espressione plastica dello spirito Fascista. L'Arte fascista si verrà delineando a poco a poco, e come risultato della lunga fatica dei migliori. Quello che fin d'ora si può e si deve fare, è sgombrare il problema che si pone agli artisti dai molti equivoci che sussistono. Nello Stato Fascista l'arte viene ad avere una funzione educatrice. Essa deve produrre l'ètica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L'arte così tornerà a essere quello che fu nei suoi periodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale. La concezione spirituale dell'"arte per l'arte" è superata. Deriva di qui una profonda incompatibilità tra i fini che l'Arte Fascista si propone, e tutte quelle forme d'arte che nascono dall'arbitrio, dalla singolarizzazione, dall'estetica particolare di un gruppo, di un cenacolo, di un'accademia. La grande inquietudine che turba tuttora l'arte europea, è il prodotto di epoche spirituali in decomposizione. La pittura moderna, dopo anni e anni di esercitazioni tecnistiche e di minuziose introspezioni dei fenomeni naturalistici di origine nordica, sente oggi il bisogno di una sintesi spirituale superiore.


L'Arte Fascista rinnega le ricerche, gli esperimenti, gli assaggi di cui tanto prolifico è stato il secolo scorso. Rinnega soprattutto i "postumi" di essi esperimenti, che malauguratamente si sono prolungati fino al nostro tempo. Benché vari in apparenza e spesso divergenti, questi esperimenti derivano tutti da quella comune materialistica concezione della vita che fu la caratteristica del secolo passato, e che fu profondamente odiosa. La pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull'immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura, e più direttamente ispira le arti minori. L'attuale rifiorire della pittura murale, e soprattutto dell'affresco, facilita l'impostazione del problema dell'Arte Fascista. Infatti: sia la pratica destinazione della pittura murale (edifici pubblici, luoghi comunque che hanno una civica funzione), siano le leggi che la governano, sia il prevalere in essa dell'elemento stilistico su quello emozionale, sia la sua intima associazione con l'architettura, vietano all'artista di cedere all'improvvisazione e ai facili virtuosismi. Lo costringono invece a temprarsi in quella esecuzione decisa e virile, che la tecnica stessa della pittura murale richiede: lo costringono a maturare la propria invenzione e a organizzarla compiutamente. Nessuna forma di pittura nella quale non predomini l'ordinamento e il rigore della composizione, nessuna forma di pittura "di genere" resistono alla prova delle grandi dimensioni e della tecnica murale. Dalla pittura murale sorgerà lo "Stile Fascista", nel quale la nuova civiltà si potrà identificare. La funzione educatrice della pittura è soprattutto una questione di stile. Più che mediante il soggetto (concezione comunista), è mediante la suggestione dell'ambiente, mediante lo stile che l'arte riuscirà a dare un'impronta nuova all'anima popolare.


Le questioni di "soggetto" sono di troppo facile soluzione per essere essenziali. La sola ortodossia politica del "soggetto" non basta: comodo ripiego dei falsi "contenutisti". Per essere consono allo spirito della Rivoluzione, lo stile della Pittura Fascista dovrà essere antico e a un tempo nuovissimo: dovrà risolutamente respingere la tendenza tuttora predominante di un'arte piccinamente abitudinaria, che poggia sopra un preteso e fondamentale falso "buon senso", e che rispecchia una mentalità né "moderna" né "tradizionale"; dovrà combattere quegli pseudo "ritorni", che sono estetismo dozzinale e un palese oltraggio al vero sentimento di tradizione.


A ogni singolo artista poi, s'impone un problema di ordine morale.


L'artista deve rinunciare a quell'egocentrismo che, ormai, non potrebbe che isterilire il suo spirito, e diventare un artista "militante", cioè a dire un artista che serve un'idea morale, e subordina la propria individualità all'opera collettiva.


Non si vuole propugnare con ciò un anonimato effettivo, che ripugna al temperamento italiano, ma un intimo senso di dedizione all'opera collettiva. Noi crediamo fermamente che l'artista deve ritornare a essere uomo tra gli uomini, come fu nelle epoche della nostra più alta civiltà.

Non si vuole propugnare tanto meno un ipotetico accordo sopra un'unica formula d'arte - il che praticamente risulterebbe impossibile - ma una precisa ed espressa volontà dell'artista di liberare l'arte sua dagli elementi soggettivi e arbitrari, e da quella speciosa originalità che è voluta e rinutrita dalla sola vanità.


Noi crediamo che l'imposizione volontaria di una disciplina di mestiere, è utile a temperare i veri e autentici talenti. Le nostre grandi tradizioni di caratteri prevalentemente decorativo, murale e stilistico, favoriscono potentemente la nascita di uno Stile Fascista. Tuttavia le affinità elettive con le grandi epoche del nostro passato, non possono essere sentite se non da chi ha una profonda comprensione del tempo nostro. La spiritualità del Rinascimento ci è più vicina del fasto dei grandi Veneziani. L'arte di Roma pagana e cristiana ci è più vicina di quella greca. Si è arrivati nuovamente alla pittura murale, in virtù dei principi estetici che sono maturati nello spirito italiano dalla guerra in qua. Non a caso ma per divinazione dei tempi, le più audaci ricerche dei pittori italiani si concentrano già da anni sulla tecnica murale e sui problemi di stile. La vita è segnata per il proseguimento di questi sforzi, fino al raggiungimento della necessaria unità.


Il salotto di Margherita Sarfatti

Novecento: ripristino dei legami di continuità con la tradizione classica, ritorno all'ordine e all'armonia compositiva rinascimentale per reazione allo sconvolgimento operato dalle avanguardie europee.                              

Il Novecento è un movimento degli anni '20 che esordisce a Milano grazie all'attività del "Gruppo dei Sette", Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussing, Ubaldo Oppi, Mario Sironi, organizzati da Margherita Sarfatti, critica d'arte, animatrice di uno dei salotti intellettuali più esclusivi della città, teorica del movimento ed organizzatrice della prima mostra ufficiale, nel 1926, al Palazzo della Permanente (presenti anche i futuristi Balla, Depero, Prampolini e Russo), cui fanno seguito, l'anno dopo a Roma, la mostra "Dieci artisti del novecento italiano" e poi, tra il 1926 e il '32, varie mostre in tutta Europa.

L'intento di Novecento fu quello di ripristinare legami di continuità con il classicismo della tradizione europea, in chiave moderna, anche con la riproposizione di temi classici, quali il ritratto, la natura morta ed il paesaggio, un ritorno all'ordine che aspirava a recuperare quegli ideali di armonia e compostezza formale che i più trasgressivi movimenti avanguardisti avevano spazzato via senza sostituirli con alternative valide e costruttive. In particolare, come racconta la stessa Sarfatti in un suo libro "Storia della pittura moderna", gli artisti del Novecento sono affascinati dal ". carattere inconfondibile (come oggi si dice) dell'arte plastica italiana nei secoli: nel Quattrocento, nel Cinquecento, nel Seicento.".

Sulla base di un progetto che ambiva a ristabilire il "primato" dell'arte italiana, accompagnato dal miraggio o dall'illusione di un'Italia nuova, la poetica di Novecento si lega al Rinascimento ed alla precedente, composta pittura di Giotto, cercando di darsi un'identità attraverso il legame con le radici culturali nostrane, nel nome di un'italianità che il regime fascista strumentalizzerà da lì a poco a fini propagandistici determinando attorno al movimento implicazioni ideologiche che in seguito lo penalizzeranno ingiustamente, legandolo ad un concetto di nazionalismo deteriore.

Nel nome dei ricorsi storici che punteggiano l'avanzare della modernità, il concetto di classicismo come sinonimo di armonia compositiva ed equilibrio formale, di linguaggio colto e raffinato, un po' celebrale ed intellettualistico, era già stato teorizzato dalla rivista Valorei Plastici, edita a Roma nel 1918, con la collaborazione di De Chirico, del fratello Savinio, di Carrà, Ardengo Soffici e Giorgio Morandi gettando le basi della pittura metafisica. Nella sostanziale incertezza teorica con qualche risvolto revisionista, in polemica con le avanguardie europee, questi movimenti, tutti animati da una sorta di tensione visionaria, si riallacciano alla cultura figurativa del Trecento e del Quattrocento italiano, considerata da un punto di vista esclusivamente e talvolta vuotamente formale.

Sia per divergenze interne sia per ripetuti attacchi del regime fascista attraverso la persona di Farinacci nei confronti della Sarfatti, ebrea, che dovette poi riparare in Argentina per sottrarsi alle leggi antisemite, il gruppo di Novecento finì per sciogliersi e parecchi dei suoi componenti furono costretti ad una lunga emarginazione (Sironi è stato rivalutato solo recentemente), nella delusione più profonda e nella dolorosa lacerazione tra passato e presente, tra ideali eroici e crisi esistenziale.


Architettura fascista

 La soppressione delle libertà democratiche, non riuscì a spegnere quel fuoco che in taluni movimenti lo stesso regime attizzò, come l'architettura. Il livello qualitativo, professionale, espresso nell'architettura, è tale che, a confronto con quello che avveniva nel resto dell'Europa, l'Italia non sfigura. La storia dell'architettura moderna italiana è la storia dei suoi difficili rapporti con il sistema fascista. Questa storia ha due tempi: il primo è di compromesso, il secondo di lotta. Nel 1926 si forma il Gruppo 7 (Libera-Pollini-Terracini e altri) che poi si qualifica e si amplia nel M.I.A.R.(movimento italiano per l'architettura razionale) del quale Libera fu l'anima. Dapprima il regime non fu decisamente ostile. Marcello Piacentini (architetto ufficiale del regime fascista nato a Roma nel 1881 e morto nel 1960) adotta una politica di compromesso: non sconfessa la tendenza moderna perché il regime, a parole, è per lo svecchiamento della cultura; in sostanza appoggia però il tradizionalismo dei mestieranti. Il trionfo del compromesso Piacentiniano è la città universitaria di Roma (1936): vi sono edifici in stile monumentale ed edifici in stile moderno. Ma questo non è grave. Il grave è la falsa impostazione urbanistica che non tiene conto del fatto che l'Università è un organismo sociale, un luogo di incontro dei giovani, il modello culturale di una grande città e non un recinto per segregarvi i giovani e scoraggiare ogni loro velleità di iniziativa. Se non ci si poteva aspettare dal fascismo un'interpretazione democratica della funzione della scuola, meno che mai ci si poteva aspettare un'interpretazione democratica della funzione della città. Furono prese anche troppe iniziative come la riforma di vecchie città e la fondazione di nuove. Per gli architetti ufficiali, l'intervento moderno sulla città antica, consisteva generalmente nella 'sventramento' e nel cosiddetto 'risanamento' dei centri storici, nell'allontanamento dei ceti poveri dai centri delle città per relegarli nello squallore delle borgate e delle infette baracche della periferia. Il 'volto monumentale' o 'imperiale' era poco più che un pretesto. Snidare la povera gente dal centro urbano significava in realtà rendere più disponibili, per la speculazione, i terreni più pregiati. In non poche città italiane fu parzialmente distrutto il centro storico, come a Brescia, a Roma furono sventrati il quartiere detto del Rinascimento e quello dei Borghi Vaticani. La fase di lotta ha come protagonista un critico, Persico, e un architetto, Pagano, fondatori della rivista 'Casabella'. Persico aveva idee chiare anche in politica: sapeva che l'architettura moderna europea muoveva da promesse ideologiche irrinunciabili, che al di fuori di esse e della conseguente problematica urbanistica, non sarebbe stata né razionale né democratica, né internazionale. Pagano era un polemista coraggioso, illuso all'inizio di poter persuadere il regime ad una politica urbanistica più aperta; poi deluso passò alla Resistenza e morì in un campo di sterminio tedesco. La rivista 'Casabella' mantenne vivo il dibattito sui grandi problemi dell'architettura mondiale. Intorno ad essa si raccolsero, specialmente a Milano, giovani architetti di tendenze avanzate: studiarono fra l'altro, un piano urbanistico per Milano (Milano Verde) che naturalmente non aveva nessuna possibilità di essere preso in considerazione dalle autorità del momento, ma che dimostrava come nonostante le direttive del regime, i migliori architetti italiani fossero coscienti dell'impossibilità di porre il problema dell'architettura al di fuori di una più vasta programmazione urbanistica. Alcuni di quei giovani come Albini, Gardella, Rogers, divennero poi protagonisti della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale.

Historia de España de los años 30:


La segunda Repùblica


Cuando fue proclamada la Repùblica el 14 de abril de 1931 el entusiamo popular fue unánime. Muy pronto este espíritu de concordia y de entusiasmo desapareció. Los grupos políticos y sociales mantuvieron sus posiciones sin ceder ante el bienestar de la comunidad. Las actitudes se radicalizaron, crecieron los egoísmos y la violencia. Finalmente el experimento republicano fue un fracaso y llevó al país a una guerra civil.


Los problemas del gobierno provisional


El gobierno provisional que tomó el poder en 1931 intentó un programa de equilibrio y moderación. Pero hubo de enfrentarse muy pronto a extremismos y violencias. Los principales problemas fueron el separatismo catalán y vasco, la violencia anticlerical y la agitación social.


El gobierno republicano-socialista de Azaña


En las elecciones generales de junio de 1931 triunfaron los republicanos de izquierda y los socialistas. Esta coalición republicano-socialista elaboró un proyecto de constitución, que fue aprobado en diciembre. El gobierno, bajo la presidencia del republicano Manuel Azaña, intentó cumplir un programa de transformación política y social de España. Entre los temas más importantes estaba la reforma del ejército, el problema religioso, la reforma agraria y el estatuto de autonomía para Cataluña. La constitución de 1931 contenía artículos abiertamente anticlericales: separación de Iglesia y estado, libertad religiosa, expulsión de las comunidades religiosas extranjeras, leyes de divorcio y matrimonio civil, entre otras; una gran parte de la población española era católica y se sintió disgustada. Estos errores causaron un profundo malestar en los sectores tradicionales y católicos del país. El problema de la autonomía de Cataluña fue resuelto con el llamado Estatuto Catalán. La Generalitat, la institución de gobierno para Cataluña, se hizo cargo de la administración, justicia, cultura y obras públicas de la región, con un parlamento y gobierno proprios. El estado siguió controlando las relaciones exteriores, el ejército y el orden público. La reforma agraria intentaba acabar con las grandes propiedades; las tierras recuperadas debían ser entregadas a jornaleros y colonos, después de pagar indemnizaciones a sus antiguos dueños. Pero los proyectos de reforma agraria y Estatuto Catalán provocaron una fuerte reacción contraria en todo el país, sobre todo, de los sectores burgueses y de los grupos dominantes. El gobierno no supo hacer una política flexible y contribuyó a que creciera la tensión del país.


El golpe de estado de Sanjurjo


En esta situación de creciente oposición al gobierno de Azaña, el general Sanjurjo se pronució en Sevilla (10 de agosto de 1932). Pero el golpe de estado fracasó en Madrid y el general fue encarcelado.


Los nuevos grupos polìticos


Las fuerzas políticas formaron nuevos grupos. Fue sobretodo muy importante la agrupación de las derechas españolas en un bloque parlamentario unido y compacto, la Confederación Española de Derechas Autónomas (CEDA), bajo la dirección de Gil Robles. La CEDA concentró a diversos grupos de derecha, católicos, que deseaban una transformación del régimen. En muy poco tiempo, sus afiliados aumentaron enormemente, pero también crecieron grupos opuestos al sistema parlamentario, bajo la influencia del fascismo italiano y del nacionalismo alemán. José Antonio Primo de Rivera, hijo del dictador de 1923, fundó la Falange Española en 1933, que se unió pronto con las llamadas Juntas de Ofensiva Nacional-Sindacalistas (JONS) para formar un partido nacionalista y antimarxista que pretendía superar la lucha de clases mediante la implantación de la justicia social y despreciaba el régimen democrático. En la izquierda crecía el Partido Comunista de España (PCE), con pocos afiliados, pero con una gran capacidad de organización.


El Partido Radical en el poder


En noviembre de 1933 tuvieron lugar las segundas elecciones generales de la república. El centro (partido radical) y la derecha (CEDA) lograron la mayoría parlamentaria frente a los socialistas y republicanos de izquierda. Se formió un gobierno sólo con membros del Partido Radical, sin partecipación de la CEDA, pero con su apoyo. Este gobierno intentó realizar un programa de retificazión de algunas reformas del anterior gobierno. Pero esta política no contentó a la derecha, ni a las izquierdas. Los empresarios y terratenientes comenzaron persecuciones y represalias contra obreros y campesinos. Los socialistas, intransigentes, contribuyeron poderosamente el fracaso del régimen.

La revolución de octubre de 1934


Cuando entraron en el gobierno radical tres ministros de la CEDA (octubre de 1934) tuvo lugar la revolución preparada por los socialistas en Cataluña Y Asturias. En Barcelona se proclamó un Estado Catalán indipendiente, apoyado por los socialistas, comunistas y partidos regionalistas de izquierdas. La guarnición militar consiguió dominar fácilmente la insurrección. Sin embargo, en Asturias triunfó la revolución. Fue necesario emprender una campaña bélica, con tropas del ejército y de la Legión de Marruecos. La revolución fue sofocada después de duros combates.


El fracaso de las derechas


El gobierno intentó una labor social, necesaria y urgente. Con una mayoría de miembros de la CEDA practicó una política reaccionaria que intentóacabar con la reforma agraria: los campesinos fueron expulsados de las tierras concedidas por el gobierno y los Grandes de España fueron indemnizados. Los salarios bajaron y aumentó el paro. Esta situación acabó con la república de derecha.


La victoria del Frente Popular


En enero de 1936 las Cortes fueron disueltas y se convocaron nuevas elecciones generales. Las derechas estaban desmoralizadas y desunidas. En cambio, las izquierdas acudieron a las urnas unidas en una coalición, el llamado Frente Popular (republicanos de izquierdas, socialistas, comunistas y partidos regionalistas), apoyados por los sindacatos anarquistas, cada vez más poderosos (CNT y FAI). El Frente Popular triunfó en las elecciones y se formó un gobierno con republicanos de izquierdas, presidido por Azaña, que inntentó realizar un programa semejante al de 1931. Pero los socialistas se negaron a colaborar con el gobierno, dispuestos sólo a preparar la revolución social.


La impotencia del gobierno


El país sufrió una ola de violencia. Extremistas de derecha y de izquierda imponían el terror en las calles con múltiples antenados y asesinatos. El presidente de la república, Alcalá Zamora, fue destiduido y Azaña ocupó su puesto. El nuevo jefe de gobierno, Casares Quiroga, era impotente para frenar la acción revolucionaria de los sindacatos proletarios, las provocaciones de la extrema derecha y los preparativos del ejército para conspirar contra la república. La anarquía del país preocupaban a un sector del ejército, que, desde marzo de 1936, comenzó los preparativos de un golpe de estado. El asesinato del líder nacionalista, Calvo Sotelo, por fuerzas del orden público el 13 de julio precipitó el alzamiento.


El alzamiento militar y la guerra civil


La rebelión comenzóen el protectorado español de Marruecos el día 17 de julio y el día 18 en la península. Pero el golpe de estado no triunfó en todas las provincias. Fracasó en Madrid y Barcelona, donde las autoridades entregaron armas a los sindacatos obreros. En otras capitales, los jefes militares fueron fieles a la república y mantuvieron el control del ejercito. Los sublevados consiguieron el poder en Galicia, Castilla la Vieja, León, parte de Aragón, algunos puntos aislados de Andalucía (Sevilla, Córdoba y Granada), Baleares, Canarias y el protectorato de Marruecos.

El golpe, por tanto, no triunfó totalmente, pero el gobierno tampoco era dueño de la situaciòn en todo el país. Ello significaba la guerra civil. También parteciparon activamente grandes masas de población civil.


Nacionalistas y republicanos


Los sublevados controlaban un territorio menor que el gobierno, sin centros industriales importantes pero su ejército era muy superior. Este ejército se amplió con tropas procedentes de las organizaciones políticas (FE y de las JONS, monárquicos y tradicionalistas) y recibió muy pronto la ayuda militar y técnica de la Alemania de Hitler y de la Italia de Mussolini, así como el apoyo del Portugal. En octubre, Francisco Franco recibió el mando único, político y militar. En la zona republicana las masas obreras armadas (milicianos) se unieron al ejército.


Desarollo de la guerra


Los sublevados pensaban atacar Madrid desde el sur y desde el norte. Franco, jefe del ejército del sur, transladó a la península el ejército de Marruecos. Amplió la zona controlada por los nacionalistas en Andalucía y avanzó por Extremadura y el valle del Tajo hacia Madrid. Pero la capital estaba preparada para resistir. El gobierno de la república pidió ayuda exterior. Compró a la Unión Soviética, con el oro depositado en el Banco de España, material de guerra. La URSS organizó también grupos armados de voluntarios de diversos países, las llamadas Brigadas Internacionales. Su llegada a Madrid estabilizó el frente. La guerra civil española tuvo así un alcance internacional, preludio de la segunda guerra mundial. Las democracias occidentales dejaron sola a la república, mientras los rebeldes recibían la poderosa ayuda de Italia y Alemania.

Ante lla imposibilidad de ocupar Madrid, Franco decidió intensificar las operaciones en el norte. En octubre de 1937 todo el norte fue conquistado. A continuación, las tropas nacionalistas avanzaron hacia el Mediterráneo, para aislar a Cataluña (junio de 1938) y separar a Madrid del mar. El ejército republicano intentó evitar este avance con una gran ofensiva en el río Ebro. La batalla del Ebro, la más sangrienta de la guerra, duró tres meses y terminó con la victoria de Franco. El ejército republicano fue destruido casi completamente. Poco después las tropas nacionales conquistaban Cataluña y el Sureste. Madrid se rindió el 29 de marzo de 1939. El 1 de abril Franco anunció oficialmente que la guerra había terminado.


La zona republicana durante la guerra


En la zona republicana, el gobierno, formado por republicanos de izquierda, no pudo impedir la revolución terrorista de las masas obreras y campesinas. Estas masas armadas desataron sus viejos odios contra propietarios y clero. Los sindacatos y partidos obreros tuvieron que totelar esta explosión anárquica, sin fuerza para frenarla.

La marcha de la guerra, desfavorable para la república, obligó a formar un gobierno de concentración en septiembre de 1936, presidido por el socialista Largo Caballero, con socialistas, comunistas, republicanos de izquierda y anarquistas. Pero Largo no consiguió el apoyo de los comunistas y tuvo que abandonar el poder.

Lo sustituyó Juan Negrín, que intentó frenar la revolución, atraerse a la pequeña burguesía industrial y campesina y estrechó las relaciones con Moscú. Pero este intento de unificación económica y de centralización, bajo inspiración comunista, no pudo frenar el caos económico, producido por el anarquismo libertario. El gobierno, instalado en Valencia, huyó el extranjero en los últimos días de la guerra.


La zona nacional durante la guerra


En la zona nacionalista se produjo por el contrario un proceso de concentración y fortalecimiento del mando político y militar. El general Franco fue nombrado jefe de gobierno del nuevo Estado Nacional y Generalísimo de los ejércitos. Poco después, en 1937, todas las milicias formadas por los partidos políticos fueron unificadas en un solo partido, el llamado movimiento. Su jefe fue también Franco. El poder político ilimitado del general quedó expresado en el título de Caudillo.


El nuevo Estado Nacional


Los rebeldes no se sublevaron para restaurar el orden republicano, sino para crear un nuevo estado. Este Estado Nacional formó un primer gobierno militar-civil en enero de 1938. Imediatamente realizó una política de restauración contrarrevolucionaria: se devolvió la tierra a los antiguos propietarios, se abolió la legislación anticlerical de la república, como la ley del divorcio, y se decidió una política de estrecha colaboración con la Iglesia Católica. La legislación social del régimen nuevo abolía la lucha de clases, los partidos políticos y los sindacatos obreros.

El llamado Fuero del Trabajo, documento publicado en 1938, contenía el pensamiento social del régimen.

También la zona nacionalista desató una violenta represión, que continuó mucho tiempo después de acabar la guerra, con numerosas condenas a muerte y encarceramientos masivos.


El régimen autoritario del general Franco


Cuando terminó la guerra, Franco continuó siendo jefe del estado y del gobierno. Generalisímo de los ejércitos y jefe del movimiento, el partido único creado en 1937. Esta concentración de poderes permitió a Franco imponer su voluntad de gobierno. Las Cortes, durante el régimen del general, no fueron elegidas por sufragio universal, sino por un sistema que garantizaba la lealtad al régimen de sus miembros. Continuó la política de estrecha colaboración con la Iglesia Católica, que aprobó la legitimidad del nuevo estado y recibió, a cambio, muchos privilegios, hasta el punto de producirse una identificación del régimen con el catolicismo, el llamado nacionalcatolicismo.

Este régimen autoritario mantuvo sus principios ideológicos durante toda su extistencia (1939-1975). Las relaciones internacionales y la evolución económica marcan las etapas del régimen de Franco hasta su muerte en 1975.



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