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Anni '50. lo star system hollywoodiano




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ANNI '50. LO STAR SYSTEM HOLLYWOODIANO

E LA MODA ITALIANA


III. 1    Premesse

Tra cinema e moda esiste un rapporto di circolarità: da una parte è vero che l'azione della moda sarebbe molto minore senza la capillare diffusione che il cinema le consente, raggiungendo tra il pubblico ogni donna; dall'altra è vero anche che il cinema coglie molte idee espresse nell'ambito dell'abbigliamento, attraverso un processo al quale contribuiscono influenze culturali e trasformazioni sociali .

Bisogna quindi pensare sia ad un contributo della moda - e anche dell'alta moda - nella creazione di un film, sia ad un contributo del cinema nella divulgazione della moda.

Questo rapporto tra moda e cinema può sicuramente essere


colto ripercorrendo la storia di quella magnifica "fabbrica dei sogni" che fu Hollywood, la quale, forte della sua influenza e del suo prestigio, a cominciare dagli anni Trenta creò immagini ed impose i suoi modelli imparando ad agire sull'inconscio collettivo, ossia sul modo di sognare, non solo dell'America, ma anche di quello del resto del mondo.

Durante gli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta Hollywood attraversa il suo periodo "d'oro". Infatti è in questi decenni che si crea la figura della "diva", ossia dell'attrice che lascia per sempre la sua impronta nella storia del cinema.

Da tali considerazioni nasce l'idea di ripercorrere in questo capitolo la storia del cinema fino agli anni Cinquanta, quando si affermarono il fenomeno del "divismo" e il concetto di "diva" grazie alla creazione di una «Hollywood sul Tevere». Del resto, andare a sviscerare il connubio tra moda e cinema non significa altro che investigare la natura stessa delle dive .


III. 1. 1    Lo Star System. L'origine del "divismo"

La fortuna di Hollywood, e quindi del cinema, comincia per poi consolidarsi sempre di più, nel momento di affermazione del "divismo", cioè del cosiddetto "star system" nei primi anni del Novecento.

Prima di allora e fino all'avvento del sonoro il divismo ha soltanto "balbettato" e stentato ad imporsi. Basta pensare al fatto che le prime star del muto non avevano neanche un nome, ma erano semplicemente indicate con l'espressione «Biograph girl» o «Vitagraph girl». Questo indica che le case cinematografiche anziché puntare sulla popolarità degli interpreti, puntavano direttamente sul marchio della casa produttrice e così pubblicizzavano il film. Le star erano ancora semplici persone, persone comuni: volti anonimi, corpi senza radici e senza passato a cui il pubblico finiva per appassionarsi, attribuendo loro l'immaginario delle storie interpretate sullo schermo .


La data ufficiale che segna storicamente l'inizio dello star-system è il 1910 e la prima diva è Mary Pickford4. E' però a partire dagli anni Trenta, proseguendo nei Quaranta fino ad arrivare ai Cinquanta soprattutto che si può parlare di un vero e proprio "divismo". E' solo allora infatti, che le case cinematografiche escogitano l'idea di utilizzare persone fisiche al fine di renderle oggetto di desiderio o modello a cui riferirsi per identificarsi. Ed è da quel momento che questa funzione di richiamo della star diventa una vera e propria strategia imprenditoriale.

A questo punto l'attore è pronto per diventare un archetipo: un modello esemplare di un qualche modo di essere - ad esempio innocente, tenero, perverso. - che è inciso sulla sua stessa espressività di maschera. Adesso l'attore è pronto per trascendere il film, per proporsi al pubblico fuori dal personaggio, per offrirsi allo spettatore come modello di comportamento o di un modo di essere nella vita. E tutto ciò porta lo spettatore, al di fuori del cinema, nella vita reale all' "imitazione" delle forme fisiche, del trucco, del modo di vestire del divo, dell'idolo prescelto. Un'imitazione che a volte finisce per assumere forme ossessive o maniacali. Celebri restano in proposito due episodi. Il primo vede protagonista Clark Gable che, non indossando la canottiera sotto la camicia nel film "Accadde una notte" (It Happened One Night, 1934), fece diminuire la vendita di quel capo d'abbigliamento in tutti gli Stati Uniti. L'altro episodio è invece legato alla bionda e lunga capigliatura di Veronika Lake che negli anni Quaranta, a seguito di una diffusissima imitazione, tra le giovani spettatrici della sua banda di capelli che copriva l'occhio, spinse le autorità britanniche ad obbligare le operaie di fabbrica a raccogliere i capelli in una cuffia per essere sempre ordinate durante il lavoro e non affascinanti agli occhi degli operai.

Arriviamo al secondo dopoguerra. Il divismo viene elevato dal cinema americano a sistema, lo star system appunto, un sistema portante del meccanismo produttivo e strumento essenziale della conquista dei mercati mondiali.

Il divismo ora occupa un ruolo centrale e niente affatto secondario nell'assicurare consenso popolare e successo cinematografico.

I palazzi del cinema divengono dei veri e propri templi in cui, nell'oscurità delle sale di proiezione, risplendono le star, le stelle cinematografiche; templi che favoriscono in tutto e per tutto il processo d'identificazione psichica e fisica in atto fra lo spettatore e l'eroe dell'azione che viene narrata.

In proposito Balàzs, un teorico interessato al fenomeno divistico, nel 1949 scrive: «Ci troviamo di fronte ad un ritorno alla prevalenza dell'immagine nella società contemporanea - dopo una parziale eclissi determinata dalla invenzione della stampa - che riporta la bellezza fisica a divenire una significativa esperienza delle masse» . Ma poi aggiunge che la bellezza fisica non è sempre condizione necessaria e sufficiente per il verificarsi del divismo, e conclude: «I divi sono coloro i quali sullo schermo interpretano se stessi, i cui personaggi vengono scritti su misura e la cui personalità


esercita un forte fascino sul pubblico»6.

Addirittura Morin definisce le star "semidei" e dice che sono qualcosa di più che semplici oggetti d'ammirazione: sono anche oggetti di culto .

Da queste considerazioni emergono due compiti fondamentali che una diva deve svolgere. Il primo consiste nel rappresentare sullo schermo tutto quello che di inconfessato c'è nell'uomo e nella donna in fatto di bellezza; il secondo, invece, consiste nel creare lei stessa un bisogno, un modello, un nuovo linguaggio i cui "segni" - col divulgarsi del film - si traducono in massificazione. Infatti fascino e bellezza raggiungono ogni tipo di donna, dall'operaia, alla commessa, alla domestica e tutte finiscono per imitare le "dee": carne opalescente, abiti sontuosi, labbra improvvisamente carnose, sino allo stivaletto e alla scarpina col tacco a spillo8.

Intendere così una star, dal punto di vista della casa cinematografica significava riconoscerle tutte le caratteristiche del

prodotto di serie e, come tale, la sua immagine doveva essere pubblicizzata attraverso non solo il film che interpretava, ma anche attraverso manifesti, giornali, radio e televisione. Per un produttore infatti "fabbricare" una diva significava: innanzitutto ricercare per lei un nome nuovo, facile da ricordare; poi diffondere attraverso quotidiani e riviste storie vere o inventate sulla sua vita; infine trasformare l'aspetto dell'attrice: creare un nuovo look attraverso un attento ed accurato studio professionale delle caratteristiche del volto e delle sue potenzialità.

Ma come in ogni cosa, anche diventare diva poteva dire, a volte, rischiare: l'immagine per un attore era il mezzo per farsi apprezzare e ricordare dal pubblico; il rischio era di rimanere incollato ad un ruolo o ad un personaggio di successo da lui interpretato, come un'etichetta poi difficile da togliersi.

Una puntualizzazione. L'aver parlato fino a questo punto in termini "femminili" e cioè considerando le dive-donne anziché i divi-uomini ha un suo motivo. Secondo alcuni studi condotti sul fenomeno del divismo infatti, è risultato che questo appartenesse proprio alle donne e dato che l'identificazione avveniva con star del proprio sesso, si comprende il perché siano più spesso le attrici a diventare dei miti .


III. 1. 2    Il concetto di "Diva"

Il corpo della "diva" cinematografica si regge su un prezioso equilibrio ritrovato tra presenza e assenza, ma abbastanza ricco di indizi di realtà da essere creduto reale e presente; una macchina riproduttiva di immaginario, solo a patto di muoversi in una dimensione irreale e su un'altra scena rispetto a quella dello spettatore.

Una volta terminato il film l'attore ridiventa attore, il personaggio resta personaggio, ma dalla loro unione è nato un essere ibrido, che li comprende entrambi: il "divo" .

La Star ci appare come una creatura dotata di una consistenza nuova: la realtà dell'immaginario che si nutre della

forza stessa del dispositivo cinematografico.

Non basta comunque apparire in un film per diventare una star. La diva comincia a prender forma dalla ripetizione e dal persistere di una identità, che entra ed esce con disinvoltura dai film. Fino al momento straordinario e irripetibile in cui il piacere che essa ci procura comincia a sostanziarsi della scoperta "del nuovo nel sempre uguale" .

Il trucco e l'abbigliamento della star non sono solo maschere di bellezza. Ispessendo la grana della pelle e sottolineando le linee del corpo, in un processo che - o per eccesso o per stilizzazione - raggiunge sempre il massimo di astrazione, il maquillage e il travestimento della diva fanno qualcosa di più: spalancano davanti ai nostri occhi i segreti di un'anima .


III. 2    Moda: da Hollywood a Cinecittà

Quando lo star system negli anni Trenta inizia ad affermarsi ad Hollywood, nella cultura filmica italiana si viene a creare un parallelismo con la cultura e i divi americani: Amedeo Nazzari è allora un po' Clark Gable, Alida Valli è la Dietrich. e via dicendo.

Molto presto però questi attori - potremmo dire divi - vengono rapidamente spazzati via dall'importazione degli "originali" che, negli anni Cinquanta, finiscono tutti per atterrare a Roma, trasformando completamente il nostro panorama di produzione e consumo cinematografici. Infatti i produttori americani, in quegli anni, scoprono che girare a Roma costa un quarto rispetto agli Stati Uniti e che le comparse italiane sono largamente disponibili, così come lo sono le attrezzature tecniche. Nascono in questo modo le grandi co-produzioni italo-americane. Il cinema italiano trova nell'industria americana uno stimolo culturale ed un contributo economico .

Roma in particolare, si trasforma tutta intera in un gigantesco set cinematografico, di una bellezza straordinaria e naturale, che accoglie un numero infinito di divinità dello schermo. Ogni giorno


arriva un divo d'oltre oceano: qualcuno in luna di miele o in viaggio di piacere; i più per lavorare come protagonisti o come ospiti d'onore in film finanziati con i proventi che le case hollywoodiane hanno da impiegare in Italia. E tutti vanno a Cinecittà.

Sono gli anni del tutto esaurito negli alberghi di Via Veneto, delle festose incursioni in Trastevere, dei baci proibiti, delle colossali ubriacature notturne con bagno, magari, nella Fontana di Trevi. Sono i tempi, insomma, della Dolce Vita, che dureranno ancora oltre il giro di boa del '60 . Protagonisti delle "vacanze romane" sono ad esempio: Anthony Quinn, la coppia non ancora in crisi composta da Audrey Hepburn e Mel Ferrer, quella di Tyrone Power e Linda Christian, Gregory Peck, Richard Burton, e Elisabeth Taylor ed Anita Ekberg, che al club Rugantino, balla scalza, facendo ondeggiare il suo seno dentro un abito a sirena nero. avvenimento che servirà più tardi a Federico Fellini per il suo straordinario film La dolce vita .

III. 2. 1    Cinema: anticipatore della moda

Ogni giorno per le strade, nei salotti e nei ritrovi serali, milioni di donne ripetono la pettinatura, la veste, il cappello, la borsetta portati da quelle star americane16.

Questo significa che la moda si è spostata ed insediata ad Hollywood - e di conseguenza poi a Cinecittà - che, quindi, oltre ad essere la "Fabbrica dei Sogni" è anche la "Mecca della Moda". A sua volta, ciò vuol dire che il cinema è "anticipatore della moda". Perché sia tale è allora necessario che ogni figurino, che poi trionferà sullo schermo, porti in sé il carattere di ultra-attualità.

Cerchiamo di comprendere il problema. Pensiamo innanzitutto ai tempi del cinema. La lavorazione, intanto, porta via qualche mese: quanto basta per fare invecchiare dei figurini che fossero troppo legati al momento in cui essa è stata impostata. Secondo motivo di ritardo è la distribuzione, anch'essa di alcuni mesi. Adesso pensiamo ai tempi della moda: la lavorazione e la

produzione sono veloci, data la natura frenetica della moda stessa.

Di qui la necessità di «predire» la linea di moda e di precorrere la sua evoluzione così rapida, affinché le vesti indossate dalle attrici non risultino superate, togliendo in tal caso prestigio al film e alla bellezza femminile che lo interpreta.

Ed ecco allora svilupparsi negli ateliers romani l'arte del costume cinematografico. Bisogna creare degli abiti che suggeriscono costantemente l'idea di stella, di diva della donna-attrice che li indossa. Ma bisogna anche creare abiti che suggeriscano la strada dell'identificazione: tra spettatore e personaggio attraverso il divo dello schermo .

Tra le diverse Case di Moda romane alto spicca il nome delle "Sorelle Fontana", le quali hanno capito una cosa fondamentale: la sorte dell'Alta Moda Italiana si lega alla fortuna delle dive. Di qui, non solo la preparazione degli abiti di scena, ma anche la tendenza ad imporsi - accade in modo spontaneo da entrambe le parti - come stiliste per la linea personale delle dive stesse. Per cui tra costume di scena ed abito di gala ogni tipo di separazione esistente in precedenza, adesso si attenua e diventa sempre più esile.

L'intuizione delle Fontana, a questo punto del percorso d'analisi del rapporto moda-cinema, non fa altro che darci conferma della circolarità di quel rapporto, che abbiamo affermato esistere sin da subito.




Beltrami A. e Carmignani M., La fabbrica delle illusioni, Museo Salvatore Ferragamo, Milano, 1990, p. 42

Silvera M., Somarè M., Moda di celluloide: il cinema la donna la sua immagine, Idealibri, Milano, 1988, p. 8

Bordwell D. e Thompson K., Storia del cinema e dei film, Editore Il Castoro, Milano, 1998, Vol. I, cfr. p. 80-81

Di Giammatteo F., Cinema e Costume, Eri Edizioni Rai, Torino, 1960, p. 21

Balàzs B., Il film. Evoluzione ed essenza di un'arte nuova, Einaudi, Torino, 1952, p. 331

Ibidem, p. 331

Morin E., I divi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1963, cfr. p. 71 e p. 102

Silvera M. e Somarè M., Moda di celluloide, il cinema, la donna, la sua immagine, Idealibri, Milano, 1988, p. 2

Ibidem, p. 4

Georges A., Vestendo le Dive, Bocca, Roma, 1955, introduzione

Ibidem, p. 20-21

Silvera M. e Somarè M., Moda di celluloide: il cinema, la donna, la sua immagine, Idealibri, Milano, 1988, p. 15

Bordwell D. & Thompson K., Storia del cinema e dei film, Editrice Il Castoro, Milano, 1998, Vol. I, p. 85-86

Kaufman H. & Lerner G., Hollywood sul Tevere, Sperling & Kupfer, Milano, 1969, prologo

Ibidem, p. 1

Silvera M. e Somarè M., Moda di celluloide: il cinema, la donna, la sua immagine, Idealibri, Milano, 1988, cfr. p. 8-9

Ibidem, p. 61

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