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L'ordinamento penitenziario nella riforma del 1975




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L'ORDINAMENTO PENITENZIARIO NELLA RIFORMA DEL 1975



1.2.1 L'ideologia del trattamento ed il suo contesto


Nell'ideologia classica la pena ha essenzialmente finalità retributiva ed espiativa , è proporzionata al reato commesso, è fissata esattamente dai codici, e comminata dal giudice in base al principio di uguaglianza, per il quale al medesimo reato deve corrispondere la medesima sanzione per ogni reo, senza tener conto dei fattori ambientali e personali che possono essere intervenuti nella criminogenesi: è correlato al principio di pena certa.

Tale modo di concepire la pena, tuttavia, muterà radicalmente: essa avrà senso solo se correzionale, ovvero se metterà il reo in condizione di risocializzarsi; diverrà quindi utile, in quanto è volta ad eliminare i fattori che hanno portato alla delinquenza. Questo mutamento di pensiero trae linfa da quell'importante mutamento economico, ideologico e sociale, rappresentato, nei primi decenni del secolo, dall'affermarsi del Welfare State, concezione politica che vede lo stato quale garante e promotore del benessere sociale per tutti i cittadini, di cui si parlerà più avanti.

Questi principi di nuova filosofia della pena, si diffonderanno in tutti i paesi occidentali, e si tradurranno in politiche di decarcerizzazione e di interventi trattamentali inframurari.

Sul piano ideologico e giuridico, possiamo rintracciare i germi dell'ideologia del trattamento nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo dell'ONU e nelle rinnovate Costituzioni che in quegli anni, in molti paesi compreso il nostro, si pronunciarono contro la pena di morte e posero i principi di una politica penale e penitenziaria che voleva essere anche un intervento sociale. Tra i Paesi del Patto Atlantico, in quegli anni, si affermavano ideali di democrazia, di diritto alla libertà e all'autodeterminazione, di giustizia sociale, di rivalorizzazione della dignità umana: tutto ciò si andò a riflettere anche sulla percezione della criminalità e si tradurrà in un nuovo programma di politica penale che, per essere compreso, va ricollegato all'ideologia del Welfare State.

La politica sociale del Welfare State - introdotta nel 1932 dall'allora Presidente degli Stati Uniti, Roosevelt - fu in un primo momento di natura economica, e consistette in un piano di interventi statali nella vita economica della nazione che prese il nome di New Deal: per la prima volta lo stato si faceva promotore di iniziative economiche volte a favorire le classi meno abbienti, le quali furono più duramente colpite dalla crisi del '29, e a garantire a tutti i suoi cittadini sicurezza sociale e beni essenziali. D'ora innanzi, tra i compiti dello Stato ci sarà quello di farsi carico non solo delle condizioni di indigenza, della precarietà economica e dei disagi degli appartenenti alle classi più sfavorite, ma anche della conseguente delinquenza; questa venne trattata alla stregua di un male sociale come la disoccupazione: una specie di malattia da curare.

Parallelamente, inoltre, si sviluppano in questo periodo teorie criminologiche[1] che identificano la causa delle delinquenza nei difetti della società, piuttosto che nelle carenze della personalità o nelle predisposizioni individuali: la risocializzazione diviene così un nuovo obbligo dello Stato e un nuovo diritto del delinquente, il quale dovrà essere messo in condizione di reintegrarsi nella comunità sociale attraverso l'utilizzazione di strumenti risocializzativi propugnati dalla criminologia clinica, concepita come "disciplina volta allo studio del singolo delinquente a fini diagnostici, prognostici e terapeutici, cioè di trattamento individualizzato per finalità risocializzative" .

Il paradigma retribuzionistico lascerà quindi il passo a quello risocializzativo, correlato al concetto di pena utile: scopo ultimo della sanzione non sarà tanto punire, quanto piuttosto eliminare i fattori che hanno portato alla delinquenza. La pena perde dunque la funzione retributiva e socialpreventiva, e, poiché incentrata su interventi mirati e calibrati sulle variabili necessità dei singoli delinquenti, diviene flessibile. L'orientamento dottrinale che quagliò questi principi di politica penale, prese il nome di Nuova Difesa Sociale, i cui teorici furono Filippo Gramatica e Marc Ancel, fedeli all'ideologia del Welfare State. In particolare per Gramatica lo scopo della difesa sociale era quello di assicurare il miglioramento della società, più che la protezione dal crimine, quindi lo stato aveva il solo dovere di recuperare l'individuo alla società, ma non quello di punire[3].

Si trattava ovviamente di una dottrina estremistica alla quale reagirono i propugnatori di posizioni comunque riformative del diritto penale - ma di ispirazione moderata e realistica - teorico dei quali fu Marc Ancel, autore dell'opera "Nuova Difesa Sociale"[4] che diede che il nome all'intera corrente di pensiero. Si rivalutarono le nozioni di libero arbitrio e di responsabilità - soprattutto dell'autore del reato - tenendo però conto della concreta realtà umana e sociale in cui egli si trova a vivere, e quindi degli eventuali condizionamenti economici e ambientali a cui ciascuno è esposto, in quanto non si può dissociare il delitto dall'ambiente sociale e dalla personalità del soggetto che lo mette in atto. La Nuova Difesa Sociale tende ad adeguare la reazione anticriminale ai bisogni congiunti dell'individuo e della società, cercando la realizzazione di un equilibrio tra le due realtà, e impone allo stato precisi doveri, tra cui l'obbligo di reintegrare l'individuo che ha commesso il reato in una comunità sociale: essa tradusse i contenuti ideologici del Welfare State in principi di politica penale. La politica penale in Italia e in altri paesi della nostra area culturale sarà profondamente influenzata dalla spinta ideologica della Nuova Difesa Sociale.

Le idee propugnate dalla Ancel e, soprattutto, dagli indirizzi di criminologia clinica, confluirono nelle "Regole minime per il trattamento dei detenuti", approvate dall'Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1955. Secondo tali regole, fondamentale importanza assumono i mezzi educativi e morali ai fini dell'attuazione del trattamento individualizzato del delinquente, fondato sull'osservazione della personalità e propedeutico al reinserimento sociale del reo.

Successivamente, tali linee guida furono riprese dalle regole standard adottate dal Consiglio d'Europa[5], regole che influenzarono a loro volta - e in maniera molto incisiva - la riforma penitenziaria italiana del 1975. Successivamente le Regole penitenziarie europee furono revisionate : nella nuova versione particolare attenzione fu prestata alle condizioni di vita nel carcere, che andavano migliorate e rese compatibili con la dignità umana; si cercò inoltre di ridurre al minimo gli effetti negativi della detenzione, tutelando la salute fisica o mentale dei detenuti, e di promuovere il reinserimento sociale del detenuto.

Il testo delle "Regole penitenziarie europee" rappresenta senz'altro il parametro più adatto per valutare il livello di modernità raggiunto dagli ordinamenti penitenziari e la loro adeguatezza rispetto allo standard per il trattamento dei detenuti. Esse rappresentano una base di principi e di direttive e, almeno per alcuni aspetti, la premessa per ulteriori perfezionamenti. Ma, soprattutto, pongono un punto di "non ritorno" sul terreno dei contenuti e dell'impostazione culturale dell'ordinamento penitenziario.



1.2.2 I caratteri del nuovo ordinamento


Le linee della politica penale della risocializzazione e del riduttivismo carcerario hanno trovato eco in Italia in ritardo rispetto ad altri Paesi: la traduzione legislativa di tali linee di tendenza è stata difatti da noi attuata per la prima volta nel 1975 con la legge 26 luglio 1975, n. 354, recante: "Norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà". Si introdusse così un corpus organico di disposizioni fortemente orientato verso la funzione socialpreventiva della pena e verso il rispetto della dignità umana del detenuto, come espresso nella Costituzione[7]. Si deve comunque inquadrare la riforma nel contesto socio-culturale di fine anni sessanta, periodo in cui si diffondeva nella società un acceso dibattito critico contro le istituzioni totali e si perpetrava una diffusa protesta della popolazione detenuta, divenuta più cosciente del proprio status. Nell'ambito specifico della situazione italiana, poi, un ruolo importante nelle scelte del legislatore fu rappresentato dallo stato di degrado edilizio e di sovraffollamento nelle carceri.

La riforma è imperniata, come già detto, dell'ideologia trattamentale, che si incentra sul principio della individualizzazione. Tutto ciò è ben visibile già dall'art.1 dell'ordinamento penitenziario, in cui si specifica che il trattamento penitenziario deve essere conforme a umanità e tale da assicurare il rispetto della dignità della persona[8], oltre a dover poi rispondere ai bisogni di ciascun soggetto .

Bisogna quindi operare una dovuta specificazione del termine trattamento: si distingue infatti il trattamento penitenziario, quale "complesso di regole che disciplinano l'esecuzione della pena detentiva", dal trattamento risocializzativo, inteso come "insieme di interventi rivolti al condannato e all'internato per fini rieducativi". Quest'ultimo tipo di trattamento ha una duplice accezione: sarà inframurale, e consisterà negli interventi esercitati secondo varie modalità da parte degli esperti e degli operatori penitenziari; ed extramurario, quando effettuato attraverso l'impiego di misure premiali, di quelle semidetentive o di quelle alternative alla detenzione previste dalla legge.

La legge di riforma introduce anche nuove figure di operatori, professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica - di cui l'istituzione penitenziaria si può avvalere - che dovrebbero essere i principali artefici della rieducazione[10]. Se l'utilizzazione di tali esperti è facoltativa, una figura importante è quella degli educatori che svolgono la loro attività a tempo pieno in ogni istituto e in costante contatto con i detenuti: essi partecipano all'attività di osservazione e attendono al trattamento rieducativo, ma nella pratica si occupano essenzialmente di organizzare le attività ricreative e culturali e di supportare i detenuti nelle loro richieste e necessità: tutte attività encomiabili, ma che poco hanno a che fare con la risocializzazione.

Le riforme dell'ordinamento penitenziario - che includono peraltro, nonostante il nome, anche importanti innovazioni dei codici penale e di procedura penale - hanno tre differenti contenuti: prevedono disposizioni sull'organizzazione carceraria, stabiliscono interventi per la rieducazione e il trattamento inframurario del reo, e istituiscono un ventaglio di misure alternative alla detenzione. Si analizzeranno ora tali istituti nel dettaglio, riservando al prossimo paragrafo la trattazione di eventuali modifiche ed ampliamenti successivi al 1975.


I) DISPOSIZIONI SULL'ORGANIZZAZIONE CARCERARIA

Prevedono le norme relative al vestiario (i detenuti possono fare uso di corredo di loro proprietà, anche se vengono forniti di vestiario e di effetti d'uso[12]), all'igiene personale (ai detenuti è assicurato l'uso di bagni e docce, oltre che di oggetti relativi alla cura e alla pulizia della persona ), all'alimentazione (ai detenuti è assicurata un'alimentazione sana e sufficiente, somministrata in appositi locali, ma è previsto anche che essi possano acquistare a proprie spese generi alimentari e di conforto ), alle caratteristiche dei locali di soggiorno e pernottamento (che devono essere sufficientemente ampi, illuminati, areati, riscaldati quando necessario, puliti e ben conservati, dotati di servizi igienici riservati ); esse, inoltre, garantiscono il servizio sanitario e l'assistenza psichiatrica . Tali norme rispettano quindi il principio di umanizzazione della pena detentiva, in armonia con le regole minime per il trattamento dei detenuti, sottoscritte nell'ambito delle organizzazioni internazionali .

Inoltre - e ciò verrà illustrato ampiamente più avanti - sanciscono le modalità di colloquio con i congiunti e con altre persone, regolano le modalità di fruizione della corrispondenza e del telefono, prevedono l'attività lavorativa e il pagamento della stessa, garantendo inoltre assicurazioni sociali e assegni familiari a chi lavora. Introducono infine un sistema disciplinare di ricompense - quali l'encomio, le visite premio da parte dei familiari - e sanzioni[18] - quali il richiamo, l'ammonizione, l'esclusione dalle attività ricreative e sportive, dalle attività in comune, l'isolamento durante la permanenza all'aria - .


II)INTERVENTI PER LA RIEDUCAZIONE ED IL TRATTAMENTO INTRAMURARIO[19]


Il legislatore del 1975 ha abbandonato la logica della de-personalizzazione che vigeva nella concezione del regolamento penitenziario del 1931, riflettente una filosofia della pena afflittiva e mortificante, nella quale l'accento cadeva essenzialmente sulla dimensione organizzativa dell'amministrazione penitenziaria e sulle correlative esigenze di disciplina: si cercò, invece, di valorizzare quegli elementi della personalità del detenuto che si riteneva potessero giovare ai fini del suo riadattamento sociale. Nel nuovo ordinamento venne posta in primo piano, quindi, la figura del detenuto, in funzione della quale è impostata, e dovrà realizzarsi, la fase esecutiva: egli assunse un ruolo centrale nell'esecuzione della sua pena, e ciò proprio nella prospettiva della rieducazione[20]. L'intera disciplina del trattamento in istituto fu costruita proprio su queste basi.

Gli elementi del trattamento rieducativo vennero individuati nell'istruzione, nel lavoro, nella religione, nelle attività culturali, ricreative e sportive, nei rapporti con la famiglia e nei contatti con il mondo esterno[21]: si può ravvisare un'influenza della vecchia concezione che era alla base del regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena del 1931, nonché della letteratura specializzata dell'epoca - secondo la quale le cause della criminalità risiedono principalmente nell'ignoranza, nell'ozio e nella mancanza di principi etico-morali della persona da "trattare" - ma, e questa fu una grande novità, la legge riconobbe grande importanza alla società esterna, coinvolta da ora nella finalità rieducativa. D'ora in poi si cercherà di dislocare sempre più l'intervento trattamentale all'esterno dell'istituto, sul territorio, curando le relazioni del detenuto con la comunità esterna. Nella prospettiva di trattamento inframurale, l'ordinamento penitenziario ha previsto in teoria che per ogni detenuto in esecuzione di pena venisse redatto un programma di trattamento, da predisporre all'inizio della carcerazione e proseguito nel corso di essa, mediante l'osservazione scientifica della personalità, al fine di rilevare le carenze fisio-psichiche e le altre cause del disadattamento sociale . L'osservazione, così come il trattamento - sia esso extramurale o intramurale - è disposta solo per i condannati.

Essa è condotta dalla equipe di osservazione e trattamento, composta dal direttore dell'istituto, dall'educatore, dall'assistente sociale, da alcuni esperti in scienze dell'uomo e dal personale della polizia penitenziaria[23], ed è distinta in due fasi:


diagnostica: vi rientrano tutti quegli accertamenti tesi a definire la personalità del reo, evidenziandone i fattori individuali, anomali o morbosi, ed i fattori microsociali, condizionanti la condotta criminale. La fase diagnostica tende, in sostanza, a ricostruire la criminogenesi - la quale fornisce "una spiegazione di come abbiano interagito le caratteristiche psicologiche del soggetto con le sue particolari esperienze di vita, con i fattori sociali e ambientali, con le circostanze situazionali al momento della commissione del delitto, così da derivarne la scelta criminosa"[24] - oltre che la criminodinamica - che ha come obiettivo la comprensione del "come" è stato compiuto il singolo delitto o si è sviluppato l'intero percorso criminale del soggetto, intendendosi con "come" non le modalità materiali della commissione di un atto, bensì l'intrecciarsi delle dinamiche psicologiche e il loro interagire nelle motivazioni ;

prognostica: è il complesso di indagini volte a consentire un giudizio di predizione sul futuro comportamento del reo; è basata sull'esame comportamentale del soggetto all'interno del penitenziario, analizza le dinamiche relazionali con gli operatori penitenziari e con i compagni di detenzione, oltre che l'atteggiamento tenuto nei confronti della disciplina carceraria, l'interesse verso le attività risocializzative, i legami con la famiglia, l'esito di eventuali permessi o licenze, la presenza o meno di infrazioni disciplinari.


I dati di natura strettamente clinica, cioè quelli biologici, psicologici e sociali, vengono integrati dai dati giudiziari e penitenziari - quale può essere il certificato del casellario giudiziale e le informazioni degli organi di polizia - che concentrano l'attenzione sui comportamenti esteriori dell'individuo. Questa impostazione risente dei principi positivistici circa la possibilità di diagnosticare in ogni soggetto le cause della sua condotta delinquenziale, nell'illusoria prospettiva medicalistica di curarla poi con trattamenti risocializzativi: in realtà invece l'osservazione si riduce frequentemente a un semplice confronto burocratico, anche perché è praticamente impossibile identificare "le carenze fisio-psichiche e le altre cause di disadattamento sociale". Inoltre l'osservazione di personalità è resa difficile dal sovraffollamento nelle carceri, senza contare che spesso le strutture sono vecchie e quindi non ci sono locali per svolgere le attività. Quasi mai, infine, è prevista la psicoterapia, se non per i tossicodipendenti.

Comunque, dopo l'osservazione, l'equipe redigerà il programma di trattamento individualizzato e lo invierà al magistrato di sorveglianza che ha il compito di approvarlo; il programma darà indicazioni al personale di custodia - anche per disporre eventuali regimi di isolamento o di stretta sorveglianza, necessaria per esempio in caso di rischio di violenze o suicidi - e si dovrebbe realizzare mediante interventi all'interno del carcere, ma nella maggior parte dei casi si riduce quasi esclusivamente alle eventuali proposte di misure alternative, semi-alternative e premiali.

Nello specifico, il trattamento inframurale è svolto avvalendosi principalmente dell'istruzione, del lavoro, delle attività culturali, ricreative e sportive, e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia[26]; in realtà tutto ciò si limita, come vedremo, ad interventi certamente significativi per la umanizzazione della pena, ma dalla scarsa valenza risocializzativa .



Questi, infine, gli ambiti sui quali è intervenuto il legislatore:

lavoro : è considerato dal legislatore elemento primario del trattamento rieducativo. È obbligatorio per i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa del lavoro, ma è scevro da qualsiasi connotazione afflittiva: l'ordinamento penitenziario stabilisce infatti che esso sia remunerato in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro. Nel rispetto delle garanzie riconosciute dalla Costituzione ai lavoratori liberi, il detenuto ha diritto anche agli assegni familiari per le persone a carico, alla tutela assicurativa e previdenziale, e al riposo festivo.

Bisogna distinguere tra lavoro intramurario, svolto alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, e lavoro extramurario, svolto alle dipendenze di terzi. Nella tipologia del lavoro svolto all'interno del circuito penitenziario possiamo poi rintracciare due grandi categorie: il lavoro tipico dell'istituto-carcere, o lavoro domestico, consistente in tutte quelle attività che devono essere prestate per la vita quotidiana della comunità, e il lavoro organizzato su base industriale, propria dell'ambiente libero, ma i cui prodotti sono destinati esclusivamente al fabbisogno dell'amministrazione carceraria. Non si tratta, però, di prodotti competitivi sul mercato, e ciò perché la manodopera detenuta, oltre ad essere scarsamente qualificata e caratterizzata da produttività non molto alta, ha un costo elevato; a tutto ciò bisogna poi aggiungere problematiche proprie dell'istituzione penitenziaria, quali le carenze strutturali e logistiche, l'arretratezza tecnologica degli strumenti e la sottrazione del prodotto industriale intramurario alle regole della produzione e della concorrenza. Un simile quadro lasciava trasparire il carattere meramente assistenzialistico dell'istituto, non mostrandosi idoneo a mettere in pratica  le intenzioni, insite nella riforma, di favorire il reinserimento lavorativo del detenuto al momento del suo rientro nella società libera, previa acquisizione di qualificazione professionale attraverso la misura.

È stata proprio tale considerazione a spingere il legislatore ad operare la scelta della "privatizzazione"[29], consentendo ad imprese pubbliche e private di organizzare e gestire le lavorazioni intramurarie, con conseguente instaurazione del rapporto di lavoro del detenuto direttamente con l'imprenditore, anziché con l'amministrazione penitenziaria. Si è data inoltre la possibilità, ad imprese e cooperative sociali, di allestire e gestire direttamente lavorazioni all'interno del carcere, anche mediante utilizzazione, in comodato, dei locali e delle attrezzature esistenti negli istituti penitenziari . Poiché l'elevato costo della forza lavoro della manodopera detenuta ha reso la strada della privatizzazione del lavoro carcerario priva di effetti, si è cercato di realizzarne il rilancio introducendo agevolazioni contributive e fiscali per le imprese e le cooperative sociali che assumano lavoratori detenuti per un periodo non inferiore ai trenta giorni o che svolgano attività formative nei confronti dei detenuti . Inoltre, per evitare che i lavoratori siano licenziati al momento della loro scarcerazione, la legge ha altresì previsto un prolungamento delle agevolazioni fino a sei mesi successivi della detenzione. Tuttavia gli inserimenti lavorativi sono ancora molto pochi e frequente è il caso in cui, esaurito il periodo durante il quale l'azienda gode di sovvenzioni o di sgravi previdenziali, il contratto a termine non venga rinnovato.

Il lavoro quale momento risocializzativo del condannato, è presente anche in una misura di carattere premiale, concessa a prescindere dalla durata della detenzione scontata[32]: nell'ottica di un graduale reinserimento del soggetto all'esterno nel contesto economico e sociale esterno, viene introdotta dal legislatore la possibilità per i detenuti di prestare la propria attività lavorativa all'esterno del carcere - alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria oppure di datori di lavoro, pubblici o privati - e di far rientro in carcere senza scorta . Anche gli imputati possono essere ammessi al lavoro all'esterno, previa autorizzazione della competente autorità giudiziaria;


lavoro all'esterno : l'ordinamento prevede che i condannati e gli internati possano svolgere attività lavorative presso imprese pubbliche o private, senza scorta, salvo che essa sia ritenuta necessaria per motivi di sicurezza. Quando si tratta di imprese private, il lavoro deve svolgersi sotto il diretto controllo della direzione dell'istituto. Non è una misura alternativa, come avviene per la semilibertà, perché il lavoro all'esterno si configura come semplice modalità di trattamento.


rapporti con la famiglia : anche questo è un ambito particolarmente curato dal legislatore, nella presa d'atto che le relazioni affettive del detenuto con la propria famiglia costituiscano per esso un essenziale elemento di sostegno ai fini del superamento della situazione detentiva e del reinserimento post carcerario. Al fine di ricostruire le relazioni familiari interrotte dalla detenzione, il nuovo regolamento di esecuzione ha modificato la disciplina dei colloqui dei detenuti e degli internati con i congiunti e con le persone conviventi[36], aumentandone il numero massimo mensile - sei - e stabilendo che essi debbano avvenire in locali esterni, sprovvisti di mezzi divisori oppure in spazi all'aperto, a meno che non occorrano esigenze sanitarie e di sicurezza. L'unico controllo cui sono sottoposti i colloqui è quello visivo - ma non uditivo - del personale di polizia penitenziaria . Antecedentemente alla riforma, erano previsti quattro colloqui ordinari mensili, concessi solo a seguito di una positiva valutazione della condotta del ristretto, cui se ne potevano aggiungere due premiali; il nuovo regime dei colloqui, invece, tende a favorire un contatto più frequente del detenuto con i propri affetti, nell'ottica che ciò rafforzi le relazioni con la famiglia (o almeno ne contrasti l'indebolimento), che contenga l'effetto dell'isolamento della persona conseguente all'internamento nella struttura detentiva, e che riduca le tensioni dei detenuti e degli internati all'interno degli istituti penitenziari .

I rapporti familiari vengono anche curati attraverso la corrispondenza epistolare e telefonica: detenuti ed internati possono, infatti, inviare e ricevere lettere e messaggi telegrafici, il cui contenuto non è soggetto a controlli[39];


religione e pratiche di culto : direttamente riconducibile all'articolo 19 della Costituzione, che contempla il diritto dei cittadini alla liberà religiosa, si concede ai detenuti ed agli internati la libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto[41]. Nel carcere è inoltre prevista la celebrazione del culto cattolico - che con la riforma diviene una pratica collettiva facoltativa e non più obbligatoria - e garantita la presenza di un cappellano. Gli appartenenti a religione diversa da quella cattolica, infine, possono ricevere, previa richiesta, l'assistenza dei ministri del proprio culto potendo così celebrarne i riti . Precedentemente alla riforma, il fenomeno religioso aveva la funzione di "mantenitore di ordine" all'interno dell'istituto penitenziario, concezione strumentale che lasciò il passo alla finalità di elevazione spirituale delle persone private della libertà;


attività culturali, ricreative e sportive : l'ordinamento penitenziario prevede che negli istituti debbano essere favorite ed organizzate attività culturali, sportive e ricreative ed ogni altra attività volta alla realizzazione della personalità dei detenuti e degli internati[44], L'organizzazione di tali attività è curata da una commissione composta dal direttore del penitenziario, dagli operatori del trattamento e dai rappresentanti della popolazione carceraria, articolando i programmi in modo da favorire la possibilità di espressioni differenziate. Viene affidato un ruolo importante anche alla comunità esterna, la quale può entrare con i suoi esponenti nell'ambito della realtà carceraria. Questo nell'ottica di un costante contatto tra le due realtà che il legislatore cerca di mantenere vivo in vista del reinserimento sociale . Tali attività sono inoltre strumento prezioso per analizzare le dinamiche comportamentali dei detenuti;


ruolo della comunità esterna : come già accennato in precedenza, privati, istituzioni, associazioni pubbliche e private che partecipino all'azione rieducativa, contribuiscono al reinserimento sociale dei condannati e degli internati. Il penitenziario deve, quindi, "promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la comunità libera, avvalendosi del contributo di persone in grado di instaurare con i reclusi buone relazioni umane e di facilitare la realizzazione di quelle condizioni necessarie per motivare i soggetti ad orientarsi verso i modelli di vita promossi dalla comunità sociale"[47]. Viene quindi definita per legge la figura dell'"assistente volontario" , soggetto ammesso a frequentare gli istituti penitenziari con la finalità sostegno e assistenza nelle problematiche socio-familiari; egli coopera inoltre nelle attività culturali, ricreative e sportive intramurali. Viene altresì consentito l'ingresso di soggetti esterni in occasione di manifestazioni organizzate all'interno dell'istituto;


istruzione : all'interno degli istituti penitenziari devono essere organizzati corsi di scuola dell'obbligo e corsi di addestramento professionale, mentre solo in via facoltativa è prevista l'istituzione di scuole di istruzione di secondo grado. La norma prevede, altresì, che venga agevolato il compimento degli studi dei corsi universitari, ma i corsi che più vengono frequentati sono quelli di scuola elementare o di alfabetizzazione: rilevante è infatti la presenza in carcere di detenuti stranieri per i quali la lingua è un ostacolo di non poco conto nella comunicazione con gli operatori penitenziari e con i compagni di detenzione. Le attività non sono organizzate dall'istituzione penitenziaria, bensì dal Ministero della Pubblica Istruzione, mentre i corsi professionali sono organizzati dalla Regione. In questo modo, inserendo il detenuto in un contesto valoriale diverso dal suo, si cerca di stimolarlo globalmente, oltre che di fornirgli una specifica formazione scolastica o professionale.


III) MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE E BENEFICI

Sul versante extracarcerario la rieducazione ed il reinserimento sociale del condannato vengono perseguiti attraverso l'introduzione di nuovi strumenti sanzionatori penali extramurari, definiti per legge "Misure alternative alla detenzione", e di benefici premiali, sempre teoricamente finalizzati alla risocializzazione; questi ultimi sono ispirati al criterio del massimo contenimento della pena detentiva - il cosiddetto riduttivismo carcerario - e al principio dell'individualizzazione della pena.

Rappresentano la più importante novità della riforma penitenziaria del 1975.

Come tutti gli interventi di trattamento, le misure alternative sono riservate esclusivamente a coloro che sono stati condannati a sentenza definitiva.

Gli organi giudicanti in tema di esecuzione della pena sono due figure previste dall'ordinamento penitenziario:

il magistrato di sorveglianza : è un giudice monocratico, le cui principali funzioni sono - tra le altre - quelle di vigilare sull'organizzazione di istituti di prevenzione e di pena; di assicurarsi che l'esecuzione della custodia degli imputati sia conforme alle leggi; di sovraintendere all'esecuzione delle misure di sicurezza personali; di riesaminare la pericolosità degli internati; di approvare il programma di trattamento; di provvedere sui reclami dei detenuti e internati, sui permessi e sulle licenze;

il tribunale di sorveglianza : è un organo collegiale composto da due magistrati di sorveglianza e due esperti tra psicologi, operatori del servizio sociale, pedagoghi, psichiatri e criminologi. Tra i suoi compiti, vi sono quelli di concedere o revocare le misure alternative; di rinviare l'esecuzione delle pene per i soggetti affetti da HIV o da infermità fisica grave, per le donne incinte o per le madri di bambini di età inferiore ai sei mesi; di concedere e revocare la liberazione condizionale.


Le misure alternative alla detenzione introdotte dalla legge di riforma, invece, nello specifico sono[53]:


affidamento in prova al servizio sociale : la misura alternativa per eccellenza, i cui caratteri essenziali sono mutuati dal probation system dei paesi di common law, che consente al giudice di lasciare il reo in libertà, nel caso in cui egli ritenga la detenzione inadeguata alle esigenze del caso specifico per la prevalenza degli aspetti negativi di stigmatizzazione e di deterioramento, rispetto ai risultati positivi della stessa.

Nella prima versione è una misura strettamente subordinata ai risultati di un certo periodo di osservazione e di trattamento in carcere: il soggetto viene scarcerato su istanza - dopo che l'osservazione della personalità, condotta per almeno un mese, ne stabilisce la non incompatibilità con la misura - , e controllato dal tribunale di sorveglianza, il quale fornisce anche assistenza, per un periodo uguale alla pena residua; se l'esito è positivo la pena si estingue. La valutazione, basata sull'osservazione di personalità in istituto, circa la concedibilità della misura, è tuttavia difficile: si svolge senza l'ausilio di parametri precisi, quindi è carente di scientificità, rivelandosi alla fine una mera registrazione del comportamento carcerario del condannato.

Prioritaria rilevanza assumono le prescrizioni che fanno perno sui contatti con il servizio sociale, gli obblighi di dimora, le limitazioni del movimento, il divieto di frequentazione di taluni ambienti ed il lavoro: si nota in ciò un'intonazione assistenziale e di controllo che si riflettono sulla fisionomia dell'istituto. Infatti sul servizio sociale viene a gravare, sia pure in forma mascherata, un obbligo di informativa circa gli atteggiamenti dell'affidato che possono portare alla perdita del beneficio. La commissione di un altro reato comporta la revoca del beneficio, porgendosi quale indice sicuro della mancata risocializzazione del reo;


semilibertà : concessione al condannato e all'internato, da parte del tribunale di sorveglianza, di trascorrere parte del giorno fuori del penitenziario per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Permane quindi lo stato di detenzione, anche se quotidianamente intervallato da contatti con l'ambiente esterno.

Il tribunale si accerta che il soggetto non frequenti pregiudicati, e della presenza del posto di lavoro o di studio; le attività risocializzanti non devono necessariamente consistere nello svolgimento di un lavoro, ma devono permeare la sfera comportamentale del condannato affinché favoriscano un riadattamento alla normale e corretta vita di relazione. Gli spostamenti vengono comunque limitati.

Con ciò il legislatore ha dimostrato di non volersi più accontentare, nella concessione della misura, di una semplice prognosi di attitudine, bensì di esigere un accertamento circa la sussistenza delle condizioni idonee a rendere realistico il reinserimento sociale del reo. Questo si rifletterà sugli atteggiamenti penitenziari del condannato, incentivandolo verso una adesione al trattamento non generica e passiva, limitata all'osservanza delle regole vigenti all'interno del penitenziario e nella società, ma occorre che la semilibertà costituisca per lui una progressiva evoluzione della sua personalità in vista di un reinserimento nella comunità libera.

Se ci sono progressi il condannato potrà richiedere, in presenza dei requisiti di legge, la misura dell'affidamento in prova. In questo modo la concessione della semilibertà sembra assumere di fatto una funzione in qualche modo preparatoria;


liberazione condizionale : la più vecchia misura alternativa del codice penale, già contemplata dal codice Zanardelli del 1889. Consiste nella scarcerazione del condannato e nell'assoggettamento del medesimo alla misura di sicurezza della libertà vigilata, con l'assistenza del servizio sociale, per una durata uguale alla pena ancora da espiare.

Viene applicata al soggetto che fa ritenere il suo sicuro ravvedimento; si valuta quindi il comportamento esteriore - che deve essere conforme alle regole penitenziarie - ma viene valutato anche, da parte dell'equipe, il percorso di revisione critica delle precorse scelte criminali: ciò attraverso un esame più profondo, penetrante ed articolato della personalità del condannato, e attraverso l'analisi di comportamenti positivi e sintomatici della partecipata accettazione dell'offerta del trattamento riabilitativo, quali l'impegno nello svolgimento del lavoro, nei corsi scolastici o di addestramento professionale; la disponibilità e la sensibilità nei rapporti con i familiari, con i compagni di detenzione e con gli operatori penitenziari; l'attiva collaborazione nelle attività culturali, ricreative e sportive;


permessi : prima dell'entrata in vigore dell'ordinamento penitenziario del 1975, non esisteva alcuna previsione normativa che consentisse al detenuto di uscire temporaneamente dall'istituto carcerario. Eccezionalmente, ad iniziativa dell'amministrazione penitenziaria, veniva concesso qualche permesso per gravi ragioni familiari. Il legislatore del 1975 operò una prima apertura in questa direzione: al detenuto - condannato, imputato o internato - veniva infatti concesso il permesso di recarsi a visitare un familiare o un convivente in imminente pericolo di vita, e per gravi ed accertati motivi. In questo modo veniva conferito alla magistratura di sorveglianza un ampio potere di apprezzamento circa le situazioni meritevoli di giustificare l'uscita dall'istituto, ma una certa larghezza nella concessione dei permessi e qualche grave episodio avvenuto ad opera dei beneficiari della concessione seminarono nell'opinione pubblica un certo allarme. In effetti, già a due anni dalla riforma, l'intero sistema penitenziario era entrato in crisi: si era innalzato il livello di pericolosità di molti detenuti - soprattutto con l'emergere di fenomeni del terrorismo e dell'eversione - , non si erano predisposte strutture idonee a reggere l'urto con le nuove esigenze indotte dall'attuazione della riforma penitenziaria, il fenomeno delle evasioni raggiunse punte altissime. Tutto questo non fece altro che far pronunciare sbrigativi giudizi di condanna dell'intera riforma penitenziaria. Venne accreditandosi l'idea che solo attraverso interventi di controspinta, o almeno di contenimento, rispetto all'applicazione della riforma, potessero evitarsi danni ulteriori. Nella prima metà del 1977 si cercarono dei correttivi alla situazione. Si stabilì allora che i permessi non potessero più essere concessi per gravi ed accertati motivi, ma solo "eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità"[58]. La magistratura di sorveglianza non era più nelle facoltà, quindi, di utilizzare i permessi come strumenti del trattamento; ciò accese però delle polemiche, perché si attribuì alla revisione dell'art. 30 una concezione volta all'isolamento del carcere dal mondo degli altri.

Quanto alla finalità di elevazione del livello di sicurezza delle carceri, venne creato nel nostro ordinamento un circuito di "istituti di massima sicurezza"[59];



Una menzione, infine, meritano le sanzioni sostitutive delle pene brevi. Sono misure di decarcerizzazione, ma non rientrano nell'ambito delle misure alternative alla detenzione: esse appartengono al ventaglio delle pene, e sono disposte - in maniera discrezionale - al momento della sentenza dal giudice ordinario, esclusivamente per i condannati a pene inferiori a un anno. Non necessitano di interventi rieducativi e supervisione. Vi rientrano la semi-detenzione, istituto simile a quello della semi-libertà; la libertà controllata[60], disposta solo per pene inferiori ai sei mesi; la sostituzione del carcere con pena pecuniaria, disponibile solo per condanne inferiori ai tre mesi.




Sull'argomento cfr. G. PONTI, Compendio di criminologia, Milano, 1999.

Ibidem.

F. GRAMATICA, Principi di difesa sociale, Padova, 1961.

M. ANCEL, La nuova difesa sociale, Milano, 1966.

Con la risoluzione (73)5 del 1973.

Ad opera del Consiglio d'Europa, con la Raccomandazione R(87)3 del 12 febbraio 1987.

Art. 27 Cost.

Art 1 della legge 26 luglio 1975, n. 354.

Art. 13 della l. 354/1975.

Art. 80 della l. 354/1975.

Art. 5 ss. della l. 354/75.

Art. 7 della l. 354/1975.

Art. 8 della l. 354/1975.

Art. 9 della l. 354/1975.

Art. 6 della l. 354/1975.

Art. 11 della l. 354/1975.

Per ulteriori considerazioni, cfr. V. GREVI, Diritti dei detenuti e trattamento penitenziario, Bologna, 1981.

Esse possono però essere comminate solo per infrazioni tassativamente previste dal regolamento penitenziario.

Art. 13 ss. della l. 354/1975.

V. GREVI, op. cit., 1981.

Art. 15 della legge 354/1975.

Art. 13 della l. 354/1975.

Per una dettagliata trattazione di tali figure professionali, si rimanda a F. S. FORTUNA (a cura di), Operatori penitenziari e leggi di riforma. I protagonisti dell'ideologia penitenziaria, Milano, 1985.

G. PONTI, op. cit., 1999.

ibidem.

Art. 15 della l. 354/1975.

G. PONTI, op. cit., 1999. Le critiche al trattamento risocializzativo ed all'ideologia sottostante saranno affrontate nei parr. 1.3, 1.4 e nelle conclusioni.

Art. 20 ss. della l. 354/1975.

Legge 12 agosto 1993, n. 296.

Art. 47 reg. esec.

Legge 22 giugno 2000, n. 193, c.d. legge Smuraglia.

Tranne che per ergastolani, ai quali il lavoro esterno può essere concesso solo dopo dieci anni di pena espiata, e per i condannati per uno dei delitti di cui all'art. 4-bis della legge di riforma, che possono fruire del beneficio solo dopo l'espiazione di almeno un terzo della pena.

Art. 21della l. 354/1975.

Art. 21 della l. 354/1975. Per i condannati per uno dei delitti indicati nell'art. 4-bis della legge di riforma, la pena espiata deve essere almeno di un terzo, e comunque di non oltre cinque anni. Gli ergastolani possono accedere al beneficio dopo aver espiato almeno dieci anni di pena.

Art. 28 della l. 354/1975.

Contemplati dall'art. 18 della l. 354/1975.

La l. 95/2004, tuttavia, inserisce nell'ordinamento penitenziario l'art. 18-ter, recante "Limitazioni e controlli della corrispondenza", il quale dispone che per esigenze di indagini, investigative, di prevenzione dei reati o di ordine pubblico, la corrispondenza epistolare e telegrafica possa essere limitata, e che il contenuto delle buste che contengano le missive la possa essere sottoposto a visto di controllo. Il tutto deve avvenire alla presenza del detenuto o dell'internato, e la corrispondenza non viene comunque letta. Ciò viene disposto per contrastare l'utilizzo della facoltà di interloquire con la società libera per finalità contrastanti con l'esigenza di prevenire la commissione di reati, e di tutelare l'ordine interno delle carceri.

Degli effetti derivanti dall'indebolimento delle relazioni familiari si parlerà nel par. 3.3.

Il controllo sui contenuti viene però esercitato quando si sospetta che essi contengano elementi di reato, o che possano arrecare compromettere la sicurezza e l'ordine dell'istituto penitenziario, mentre per le telefonate c'è l'obbligo della registrazione nel caso di detenuti ed internati per i reati di cui all'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario.

Art. 26 della l. 354/1975.

Art. 26 della l. 354/1975.

L'art. 55 comma 6° reg. esec. prevede la disponibilità di locali idonei alle attività.

Art. 27 della l. 354/1975.

Art. 27 della l. 354/1975.

Cfr. oltre.

Art. 17 della l. 354/1075.

A. MORRONE, Il trattamento penitenziario e le alternative alla detenzione, Padova, 2003.

Art. 78 della l. 354/1975.

Art. 19 della l. 354/1975.

Art. 47 ss. della l. 354/1975.

Art. 69 della l. 354/1975.

Art. 70 della l. 354/1975.

Per le modifiche alle misure alternative e ai benefici cfr. par. 1.3.

Art. 47 della l. 354/1975. La condanna inflitta deve essere inferiore ai tre anni, anche residuo di pena, ma il soggetto non deve essere socialmente pericoloso.

Art. 50 della l. 354/1975. Per usufruire del beneficio la pena scontata deve essere nella misura della metà, ma dei due terzi per i condannati per i reati di cui all'art. 416-bis c.p., e di venti anni per gli ergastolani. Viene però concessa immediatamente in caso di arresto o per condanna alla reclusione inferiore ai sei mesi, se il condannato non è affidato in prova al servizio sociale: in questi casi è una forma di libertà non riconducibile ad alcuna logica trattamentale, quanto piuttosto orientata ad evitare al condannato qualunque contatto carcerario, e i connessi effetti desocializzanti. Nella stessa ottica la possibilità di applicazione anticipata, cioè prima dell'inizio dell'esecuzione.

Art. 176 c.p. Per fruire della misura bisogna aver espiato almeno trenta mesi o metà della condanna, mentre l'ergastolano deve aver scontato almeno ventisei anni; comunque la pena residua deve essere inferiore ai cinque anni. Come si vede è una misura applicabile solamente a persone condannate a pene di media e lunga durata.

Art. 30 della l. 354/1975.

Legge 20 luglio 1977, n. 450.

d.m. 4 maggio 1977. L'argomento verrà trattato dettagliatamente nel par. 1.3.

Il condannato ha l'obbligo di non allontanarsi dal comune di residenza e di presentarsi una volta al giorno presso la polizia giudiziaria.

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