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L'affermazione del diritto penitenziario




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L'affermazione del diritto penitenziario


Il concetto di carcere moderno si fa risalire intorno alla seconda metà del '700. Nei secoli precedenti, infatti, ebbe solo una funzione secondaria, predominando la pena di morte, le pene corporali e le pene patrimoniali. Esistevano, tuttavia, degli edifici nei quali venivano promiscuamente rinchiusi non solo gli autori di reato ma anche vagabondi, poveri, prostitute e, in genere, tutti quegli individui emarginati perché ritenuti pericolosi o elementi di disturbo dell'ordine pubblico (es. la Bridewell, una workhouse, dal nome del palazzo in cui fu istituita nel 1557 in Inghilterra). Per questo suo carattere secondario e sussidiario, la pena detentiva non fu, per lunghi secoli, oggetto di una vera e propria regolamentazione. Bastava una sola preoccupazione: renderla sempre più dura perché potesse reggere il confronto con le pene corporali, il ricordo delle cui crudeltà era troppo recente per poter loro contrapporre un nuovo istituto con caratteri profondamente diversi. La coscienza pubblica, infatti, non si sarebbe facilmente adattata ad un rivolgimento così profondo.

La pena detentiva, perciò, fu inizialmente accolta solo in vista della evidente inutilità delle pene corporali, che caddero sotto il peso stesso della loro aberrante varietà, ma non si allontanò dalla sostanziale  finalità di quelle pene che si riducevano alla realizzazione della vendetta sociale. Perciò, nella tristezza della prigione si ricercò, in tutte le ore, in tutte le occasioni, in tutte le manifestazioni della vita morale e della vita materiale, la possibilità di colpire atrocemente il condannato; offese all'onore e alla dignità, lavoro a esaurimento senza utilità e senza soddisfazione, soppressione di ogni regola di igiene, privazione della luce e del passeggio,.

La Chiesa fu la prima a portare luce in questa tenebre perché per merito suo si iniziò, nelle leggi e nella pratica, un movimento di idee che si proponeva non solo di far cessare gli abusi offensivi della personalità umana nelle carceri, ma anche di sfruttare lo stato di detenzione per migliorare il detenuto e riadattarlo alla vita sociale.

Il '700 è anche il periodo in cui lo sviluppo industriale è in piena crescita e vede nella manodopera il suo limite: si scopre così il valore potenziale del condannato e la possibilità che egli espii la pena in modo produttivo.

L'idea della religiosità del lavoro si diffonde in tutta Europa; in Germania prende la forma del "Arbeit Macht Frei".

Nel 1628, su questi criteri, viene costruita da William Penn la prigione Great Law, che rappresenta il modello quacchero di sistema penitenziario fondato sul lavoro e l'abolizione delle pene corporali.

Il contenuto religioso porta a formulare, per la prima volta nella storia, il concetto di riformare il colpevole e in un certo modo di redimerlo. Il lavoro rappresenta lo strumento centrale di questo processo poiché, in tale maniera, il colpevole paga il suo debito alla società e, nello stesso tempo, vince l'arroganza, usata attraverso il crimine, nei confronti di Dio.[2]

Iniziò, allora, il tentativo di utilizzare il lavoro quale mezzo di rieducazione. Tale principio si realizzò, in forma più o meno completa, nei lavori forzati pubblici, nel reclusorio, nella condanna alla fortezza per i militari, ma si trattò sempre di tentativi isolati che non si riconnettevano a veri e propri sistemi. Tuttavia bisogna ricordare che l'indirizzo rieducativo della pena detentiva ebbe già notevoli applicazioni nella creazione del reclusorio di Amsterdam (1595), seguito dalla creazione di istituti affini a Brema (1609), Lubecca (1616), Amburgo (1622), Danzica (1629), dall'istituzione della "Casa pia di rifugio per i minorenni" a Firenze (1650-1667), dalla realizzazione, nel 1650, della "Casa del lavoro dei recalcitranti" progettata da Filippo Franci,  dalla costruzione e organizzazione delle "Carceri nuove" a Roma (1655) e dell'Istituto romano di San Michele (1703), la prigione vaticana, ricordata per l'iscrizione dettata da papa Clemente XI: è vano "coercere improbos poena nisi probos efficias disciplina".

Nella seconda metà del '700 l'influenza decisiva della propaganda di John Howard diede avvio ai sistemi penitenziari la cui diversità non risiede nelle finalità che devono raggiungere ma nella scelta dei metodi più appropriati per la loro realizzazione.

Sull'organizzazione del lavoro e delle celle esistono numerosi modelli; il più noto è il Panopticon di Jeremy Bentham (1748-1832) che ha apportato un essenziale contributo alla riforma del sistema carcerario. L'edificio era adibito a punire i criminali incalliti, sorvegliare i pazzi, riformare i viziosi, isolare i sospetti, impiegare gli oziosi. "Il Panopticon è un luogo privilegiato, per rendere possibile la sperimentazione sugli uomini e per analizzare con tutta certezza le trasformazioni che si possono operare su di loro" [3]. La costruzione carceraria è circolare; al centro si erge una torre che, attraverso larghe finestre, si apre sui segmenti periferici composti di più celle. Ognuna di queste accoglie un detenuto che dalla finestra rivolta alla torre, viene osservato senza essere visto: una metafora del potere come onnipresente controllo. Il sistema è un laboratorio per gli studi comportamentali e al tempo stesso per l'esercizio del potere. Anche il sistema di guardia risulta agevolato, poiché una sola persona tiene sotto controllo un intero piano della costruzione. Inoltre, proprio in quanto il carcerato si sente sempre osservato senza poter vedere il suo controllore, questi potrebbe non essere più necessario. Si è detto che il Panopticon è " il diagramma di un meccanismo di potere ricondotto alla sua forma ideale" . Esso viene esercitato senza la forza, puro comando di un puro spirito, potenza che non ha mai bisogno di intervenire. Il Panopticon non è solo un'architettura della detenzione, ma una filosofia che rispecchia perfettamente il periodo in cui nasce. Lo schema dell'edificio sottolinea l'importanza del controllo da parte di una società razionalmente disciplinare in cui l'assoluta visibilità, o quanto meno la sensazione di essere sotto continua vigilanza, rappresenta la condizione essenziale per l'esecuzione della propria funzione regolativa.

Il Panopticon non era solo un modello architettonico ma anzitutto una metafora della stessa funzione punitiva.

Nel periodo dall'Unificazione italiana al 1865, mentre notevoli passi in avanti vengono fatti in ambito legislativo, nessun tentativo viene messo in atto per uniformare gli ordinamenti penitenziari, nonostante la pena detentiva fosse divenuta la principale tra le sanzioni comminate dal sistema penale.

Alla frequente e intensa diatriba in campo penale, che vede schierate la Scuola Classica da un lato e la Scuola Positiva dall'altro, non corrisponde un'altrettanta vivacità dibattimentale in campo strettamente penitenziario.

Per dare un impulso agli studi nel campo, il direttore generale dell'Amministrazione Penitenziaria dell'epoca, Beltrani Scalia, fonda la "Rivista di discipline penitenziarie" e promuove la riforma del regolamento penitenziario, che si occupa, tra le altre cose, del personale amministrativo e di custodia e del trattamento dei detenuti, dando disposizioni sul regime cui devono essere sottoposti.

Negli stabilimenti carcerari i condannati e gli inquisiti sono condannati al lavoro, che però nei giorni festivi è, di regola, facoltativo.

I condannati di esemplare condotta, che abbiano scontato la metà della pena, possono essere impiegati nei servizi domestici dello stabilimento; i condannati all'ergastolo non possono essere addetti a tali uffici prima di avere scontato venti anni di pena.

Nel 1903, il Regio Decreto n.337 del 2 agosto sopprime l'uso della catena al piede per i condannati ai lavori forzati, e il Regio Decreto del 1903 n. 484 del 14 novembre, abolisce la punizione della camicia di forza, dei ferri e della cella oscura, sostituite dalla cintura di sicurezza da usarsi in modo sia preventivo che punitivo.

Anche se, lentamente, qualcosa stava cambiando nel panorama penitenziario, la revisione politica limitava le sue attenzioni alla generica e pietistica denuncia delle disumane condizioni in cui versavano i detenuti, senza, tuttavia, riuscire a varare modifiche complessive nel sistema.

Rendere le prigioni luoghi in cui è assolutamente sgradevole vivere, aiuta, probabilmente a scoraggiare i potenziali trasgressori, ma rende estremamente difficile raggiungere lo scopo riabilitativo del carcere.

L'approvazione del Codice Rocco pone le basi di un sistema penale che pur improntato a estremi rigore e severità, apre, tuttavia, al principio della rieducazione, anche attraverso l'introduzione del c.d. sistema del doppio binario.

L'esecuzione penale era disciplinata dagli artt. 141-149, che costituivano la base del Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena (R.D. n.787/31). L'emenda del condannato viene considerata tra i principali capisaldi della riforma; infatti, la concezione della pena pur conservando il carattere di castigo, evidenzia la necessità che il regime carcerario serva al recupero del condannato, nell'interesse dell'individuo e della società. La segregazione cellulare viene abolita, in quanto si ritiene che la solitudine, anziché essere fonte di raccoglimento, serve a rafforzare le tendenze asociali del condannato. Viene espresso in modo chiaro il carattere dell'esecuzione penale, che deve perseguire le finalità di espiazione, di prevenzione e di emenda attraverso il lavoro, l'istruzione e le pratiche religiose, che sono mezzi di rieducazione universalmente riconosciuti validi e di indiscutibile efficacia. Il lavoro, quindi, è posto quale cardine su cui si basa il buon esito dell'esecuzione penale. Tuttavia non si realizza un reale cambiamento della realtà penitenziaria.

Il 18° secolo vede l'avvio di studi significativi sulla pena e fra questi si segnala il lavoro di Foucault (1926-1984), per il quale l'istituzione carceraria non era altro che una pena corporale i cui segni erano saggiamente celati agli occhi.

Gli scritti di Foucault ci ricordano che il significato della pena, che ha quasi preceduto la pena stessa, è stato la forza motrice del controllo comportamentale, morale e sociale dei carcerati: si trattava di disciplinare i loro corpi, codificare il loro comportamento continuo, mantenerli in una vivibilità senza lacune, costruire attorno a loro tutto un apparato di osservazioni, fare di loro un sapere che si accumula e si accentra.

Questi valori, adesso, hanno una veste ben diversa: sorvegliare non serve più (esclusivamente) ad esercitare un controllo comportamentale globalizzante sull'individuo, bensì a controllarne i movimenti all'interno del carcere, nell'intento di prevenire disordini, adunate, traffici vari, suicidi e ridurre le evasioni.

Per Foucault la galera è una pena corporale; il passaggio dai supplizi alla prigione viene letto come il passaggio da un'arte di punire ad un'altra, non meno sapiente della prima.

Il carcere è davvero una concentrazione delle sofferenze del mondo, un luogo dove si massacrano i corpi e le menti, costretti a soggiacere alla mancanza di libertà, ad una quotidianità che nega la dignità e persino il tempo, irrimediabilmente perduto e sottratto alla vita.

La Costituzione, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, dedica particolare attenzione al problema della pena e dell'esecuzione penale; infatti, l'art. 27, oltre all'abolizione della pena di morte, stabilisce, al 3 comma, che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

Il nuovo Ordinamento Penitenziario (L. 354/75 modificata con L. n.1/77, n.450/77, n.663/86) ed il relativo Regolamento di esecuzione (D.P.R. n.431/76), recependo la più moderna impostazione di una legislazione autonoma e organica, hanno profondamente innovato la normativa in materia, abrogando espressamente gli artt. 142, 143, 144, 149 e creando nuovi istituti, ritenuti meglio corrispondenti alla individualizzazione e umanizzazione del trattamento del condannato, secondo le direttive dettate dalla Costituzione.

Per la prima volta viene regolata con legge la materia che attiene agli aspetti applicativi delle misure penali, privative e limitative della libertà, e alla condizione dei soggetti sottoposti a tale esecuzione.

La legge di riforma, nata nel fervore intellettuale e garantista dei primi anni '70, ha incontrato gravi difficoltà di concreta attuazione causate, da un lato, dall'inadeguatezza delle strutture e cioè dalla carenza di disponibilità edilizie, di attrezzature tecniche, di apparati organizzativi e di qualificazione del personale (specialmente degli agenti di custodia) e dall'altro, dalla recrudescenza della criminalità e soprattutto del terrorismo, che ha provocato una legislazione di emergenza caratterizzata da uno spirito esattamente contrario alle aspirazioni della riforma.

Le spinte cosiddette "controriformistiche" si concretarono da un lato nella modifica di alcune disposizioni legislative e regolamentari che più delle altre erano parse adeguate alla gravità della situazione (L. 12 gennaio 1977, n.1; D.P.R. 24 maggio 1977, n. 339, e L. 20 luglio 1977, n.450, concernenti, fra l'altro, modifiche all'applicazione delle misure alternative e soprattutto al regime dei permessi) e, dall'altro, nella predisposizione degli istituti di massima sicurezza (istituiti con d.m. 4 maggio 1977) nei quali i contenuti della riforma venivano in buona parte sacrificati alle esigenze dell'ordine e della disciplina, che ha finito per incidere negativamente sull'attuazione della riforma anche negli istituti  non sottoposti a particolare regime di sicurezza.

Verso la metà degli anni '80, cessato, almeno apparentemente, l'allarme destato dall'eversione terroristica, soprattutto grazie alla legislazione c.d. "premiale", il legislatore ha voluto ovviare alle contraddizioni che si erano di fatto verificate nel sistema penitenziario, riportando sul piano della legalità il fenomeno delle carceri speciali; a tale scopo è ispirata la L. 663/1986 che ha finito poi per modificare molti istituti dell'ordinamento previgente.

Da un lato, infatti, si è cercato di ridare vita ai principi della riforma del '75, accentuando il carattere giurisdizionale dell'esecuzione ed incentivando ulteriormente uno dei più importanti elementi del trattamento, il lavoro; dall'altro, però, si è forse ecceduto nell'ampliamento della portata delle misure alternative alla detenzione e, in fase di pratica applicazione della legge, nella concessione dei permessi-premio, che talvolta hanno dato luogo ad episodi di clamorose evasioni che hanno turbato l'opinione pubblica.

La novella dell'86 rappresenta un passo decisivo nella prima attuazione del principio consacrato nell'art. 27, co. 3, Cost., facendo del condannato il soggetto attivo della propria sorte durante l'esecuzione della pena, direttamente responsabilizzato in ordine agli esiti del trattamento e, quindi, in ordine alla progressiva realizzazione del proprio recupero sociale.

La nuova disciplina penitenziaria è stata completata con le consequenziali modifiche apportate al regolamento di esecuzione con il D.P.R. 18 maggio 1989, n. 248.

Il 24 ottobre dello stesso anno è entrato in vigore il nuovo Codice di Procedura Penale approvato con D.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, il quale si ispira al modello cosiddetto accusatorio.

La nuova disciplina del processo penale è destinata a comportare indubbiamente notevoli riflessi sul sistema penitenziario, ed in particolare sulla composizione della popolazione penitenziaria.

Principale conseguenza a livello penitenziario dell'entrata in vigore del nuovo c.p.p. dovrebbe essere una contrazione del fenomeno della custodia cautelare, con conseguente modifica del rapporto tra detenuti imputati e detenuti in espiazione della pena.

Altri riferimenti normativi sono dati dalla Legge Simeoni-Saraceni (l. n. 165 del 1998), ancorata alla logica premiale e dal D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 con cui è stato riformato il regolamento recante le norme sull'O.P. e sulle misure privative e limitative della libertà personale.





Testo di riferimento: MARCHESE-MANCINI-GRECO-ASSINI, Stato e società, La Nuova Italia, 1991, pag.53-56.

V. ANDREOLI, La violenza, Bur, 2003, pag. 171-173.

FOUCAULT, Sorvegliare e punire,Einaudi, 1976, cit. pag. 222.

FOUCAULT, Sorvegliare e punire,. cit., pag. 224.

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