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A Mauro,

perché dopo averla letta continua a fare il tifo per Newton e Aristotele.





Sommario



Il fine di questo lavoro è dimostrare come sia improponibile, al giorno d'oggi, la concezione di un universo semplice, unico e necessario. Nei primi due capitoli, dedicati rispettivamente allo sviluppo delle teorie quantistiche e della logica fuzzy (un tipo particolare di logica a più valori di verità), presenterò le cause fisiche e matematiche della distruzione che nel secolo XX ha travolto il buon senso e la comune ragionevolezza. Nei secondi due, si analizzeranno invece gli effetti di una simile distruzione nella pittura e nella letteratura. Nella conclusione sarà infine esplicitato lo scheletro (metaforicamente e letterariamente inteso) che informa l'intera tesi e le conferisce una sua problematica[1] unità.

Il fatto che la maggior parte dei personaggi che nominerò non si siano conosciuti e non siano stati a conoscenza delle reciproche teorie[2] non è un limite, ma un'ulteriore riprova dell'assunto che mi propongo di dimostrare.

Introduzione



Nel IV secolo a.C. Aristotele "inventa" la sostanza, la eleva a caratteristica fondamentale dell'essere e ad essa contrappone il concetto di accidente, un altro dei significati fondamentali dell'essere che designa tutte le qualità che una cosa può indifferentemente avere o non avere. In pratica l'accidente è accidentale (e pertanto negativo), esprime un carattere fortuito e casuale della sostanza, che invece, per definizione, è necessaria (e pertanto positiva), vale a dire non può essere in modo diverso da come è, rappresenta la struttura fissa ed immutabile dell'essere. O così o così, aut aut, dice Aristotele, non ci sono alternative.

Adesso non resta che chiarire il legame tra il titolo enigmatico di questa breve tesi (Duplex, multiplex) e il dualismo aristotelico sostanza-accidente.

Ebbene, è presto detto. Aristotele vedeva nel mondo, nella realtà che ci circonda un qualcosa di necessario, se guidato da Dio o da una qualunque altra forza trascendente o immanente poco importa. Io sostengo il contrario.

Noi viviamo in un mondo privo di certezze e di punti saldi, in cui alle macchine si comanda di procedere per approssimazioni, in cui un sasso gettato dalla Torre Eiffel diventa un'onda, in cui crediamo di essere "uno", ma in realtà siamo "centomila", cioè, a conti fatti, nessuno. Questo mondo, anche se fondato sulla vaghezza e sulla probabilità, ci illude mostrandoci quotidianamente la sua faccia necessaria, quella che si comporta secondo le previsioni del senso comune[3]. Fisici e matematici, pittori e letterati non si sono accontentati di questa necessità apparente. Se non volete prestare fede a me, provate a credere a loro.

I.


La meccanica quantistica è un insieme di teorie formulate nella prima metà del XX secolo che descrivono il comportamento di sistemi atomici e subatomici nei quali vengono a cadere le ipotesi alla base della fisica classica [1].

La breve esposizione che segue non ha la presunzione di essere completa né esauriente, sia per la complessità degli argomenti accennati, sia per la volontà stessa di chi scrive. Come ho avuto cura di esplicitare fin dal primo capoverso, il mio discorso si regge su un'opposizione di base che va ben al di là dei risultati concreti raggiungibili con le singole teorie. La "superata" fisica newtoniana, è bene ricordarlo, continua ad essere accettabile per la stragrande maggioranza dei fenomeni con cui siamo quotidianamente a contatto.

La sua crisi fu dunque, in primo luogo, crisi culturale, poiché significò la radicale messa in discussione di una concezione dell'universo e, dunque, del tempo che nell'universo scorre. È questo l'aspetto che maggiormente mi preme e ad esso ho sacrificato ogni pretesa di metodicità, conscio che in un mondo duplice e probabilistico la sistematicità non può più trovare posto.

Forse aveva ragione Nietzsche[4] quando nel Crepuscolo degli idoli diceva - "Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volontà di sistema è una mancanza di onestà."



Oggi distruggo la fisica classica


Una leggenda, ripresa e resa celebre da Voltaire, racconta di come i neuroni di Newton, riattivati miracolosamente da una provvida mela, si risvegliarono d'un tratto, facendo intuire allo scienziato la natura celeste e insieme terrestre della forza gravitazionale [2].

Prescindendo dalla sua veridicità (peraltro decisamente dubbia), la storiellina non è affatto sciocca come sembra, ma rappresenta in modo immediato l'intrinseca banalità del sistema newtoniano, basato sull'idea di un universo semplice e regolato da un tempo uniforme ed assoluto. Del resto lo stesso Newton parla di un episodio simile, la caduta di una mela dall'albero, proprio per dimostrare la sua grande abilità nel trarre ispirazione dagli eventi quotidiani. Consapevolmente egli creava una fisica del buon senso, cui si può credere anche senza bisogno di conoscerla, tante e tali sono le dimostrazioni sperimentali che la confermano.

La fisica quantistica riesce a spiegare fenomeni diversi, perché parte da basi diverse, direi quasi opposte rispetto a quelle del sistema newtoniano. Nonostante gli immensi progressi scientifici che hanno avuto luogo nell'ultimo secolo, gli atomi, le molecole ed i quanti rimangono per l'uomo comune un qualcosa di fumoso e dal vago sapore di ciarlataneria. Questo è l'inevitabile scotto da pagare se si rovescia il tradizionale rapporto che intercorre tra una teoria scientifica e le verifiche sperimentali: la meccanica di Newton prevede una quantità enorme di fenomeni con un apparato teorico non troppo vasto; la meccanica quantistica con le sue ipotesi incomprensibili ad un pubblico non specializzato riesce a spiegare un numero tutto sommato esiguo di esperienze. "Più la teoria dei quanti ha successo, più mi sembra una sciocchezza" scriveva nel 1912 Einstein ad un amico.

Questa frase, nella sua paradossale acutezza, credo possa dare un'idea del rapporto ambivalente dello scienziato tedesco, svizzero e poi statunitense con l'emergente teoria fisica.


Onde e corpuscoli


Nel 1905 (lo stesso annus mirabilis in cui sviluppò la Relatività ristretta) Einstein riprende l'ipotesi dei quanti di Planck e, portandola fino alle estreme conseguenze, elabora una spiegazione dell'effetto fotoelettrico che risolve le difficoltà dell'elettromagnetismo classico [3].

 
In precedenza l'effetto fotoelettrico era stato studiato da Lenard[5], il cui apparato sperimentale è riprodotto in figura: la radiazione ultravioletta compie il lavoro We necessario per estrarre elettroni dalla lastra L, situata in un tubo a vuoto; gli elettroni liberi sono quindi accelerati (o rallentati) dalla differenza di potenziale variabile ΔV e, se dotati di sufficiente energia cinetica, raggiungono l'elettrodo M, chiudendo il circuito. Il passaggio di corrente è testimoniato dall'amperometro A.


 

 
Come si evince dal grafico a destra, quando ΔV > 0 e piuttosto grande in valore assoluto, la corrente i dipende solamente dall'irradiamento Ee (proporzionalità diretta). Se, invece, ΔV < 0, la corrente diminuisce piuttosto rapidamente, fino a divenire nulla. Il valore ΔV = ΔVA (potenziale di arresto), in corrispondenza del quale i = 0, non dipende dall'irraggiamento, ma decresce in modo lineare al diminuire della frequenza f della radiazione emessa (vedi il grafico che presenta f in funzione di ΔVA). Questo significa che per ogni metallo esiste una frequenza minima fmin al di sotto della quale l'effetto fotoelettrico non avviene, qualunque sia l'irradiamento Ee del fascio luminoso che incide sulla lastra L.

Ebbene, simili risultati sperimentali mal si conciliavano con le teorie di Maxwell[6] relative all'elettromagnetismo, secondo le quali l'irradiamento Ee di un'onda elettromagnetica vale ½ c E (con c, velocità della luce nel vuoto, , costante dielettrica del vuoto e E0, intensità massima del vettore campo elettrico).




Infatti il lavoro di estrazione We, direttamente proporzionale al potenziale di arresto secondo la relazione W = e ΔVA, può essere svolto da una radiazione qualunque, purché l'energia totale ETOT irradiata sia sufficientemente elevata.  In secondo luogo, alla luce dei lavori di Maxwell, appare inspiegabile anche l'indipendenza del potenziale di arresto dall'irradiamento Ee. Tenendo fisso il lavoro di estrazione di un singolo elettrone, all'aumentare dell'energia totale incidente sulla lastra, dovrebbe seguire un aumento proporzionale dell'energia cinetica massima posseduta dagli elettroni e, quindi, del potenziale di arresto (si ricordi che e ΔVA = W = ΔK, differenza di energia cinetica = Kfinale Kiniziale = Kmax, dal momento che, nel caso esaminato, l'energia cinetica finale è considerata nulla, mentre quella iniziale vale Kmax). I dati sperimentali sostengono invece che ad una frequenza fissata corrisponde un unico potenziale di arresto.

Einstein risolve il problema supponendo che la luce stessa sia composta di singoli pacchetti di energia, i quanti del campo elettromagnetico (il nome "fotoni" non è di Einstein, ma frutto di elaborazioni teoriche successive), dotati di massa nulla e capaci di trasportare un'energia E = hf (con h, costante di Planck e f, frequenza dell'onda). Pertanto l'elettrone riesce ad uscire dal metallo solo se l'energia E del fotone che lo colpisce è ≥ al lavoro di estrazione We, cioè solo se hf We e quindi se f We/h.

Eccoci dunque arrivati alla frequenza minima che metteva in difficoltà l'elettromagnetismo classico. Per l'indipendenza del potenziale di arresto (o, che è la stessa cosa, dell'energia cinetica massima posseduta dagli elettroni) dall'irradiamento Ee è sufficiente osservare che, postulata l'esistenza dei fotoni, vale la relazione ΔVA = Kmax = hf We  (per il principio di conservazione dell'energia).

Il modello di Einstein tuttavia non soppianta quello di Maxwell, semmai lo amplia, fornendovi una semplice aggiunta valida in certi situazioni sperimentali tra cui, appunto, l'effetto fotoelettrico. Infatti il numero enorme di fotoni di cui è costituito un fascio di luce ordinario si comporta come un'onda, in perfetto accordo con i lavori del fisico scozzese.

Vale la pena soffermarsi un attimo su questa conclusione, che rappresenta uno dei due aspetti fondamentali della fisica quantistica su cui intendo porre l'accento: la duplicità.

L'universo di Newton era unico, uniforme e prodotto da un demiurgo celeste. Il suo Dio è il Grande Orologiaio. L'universo di Einstein è complesso e duplice. Il suo Dio è il panteistico Deus sive Natura di Spinoza.


  Ben presto, grazie ai contributi di De Broglie[7], simile duplicità fu estesa a tutta la materia in movimento: un sasso gettato in uno stagno, un elicottero, un centometrista. Se la luce può essere, a seconda delle condizioni sperimentali, onda o corpuscolo, perché un analogo dualismo non può esistere anche per la materia? - si domandava il fisico francese, che nel 1923-24 intuì che ad ogni particella materiale con quantità di moto p deve essere associata un'onda di lunghezza λ tale che λ = h/p. Ovviamente nella maggior parte dei casi simile grandezza è talmente piccola da non poter essere rilevata da nessuno strumento di misurazione: ad esempio la lunghezza d'onda di un'automobilina giocattolo di massa m=230 g e velocità v=0.4 m/s risulta 7.2 × 10 m (per avere un termine di riferimento, si pensi che il raggio del nucleo fu ipotizzato da Rutherford dell'ordine di 10 m). Del resto ciò non significa che le ipotesi di De Broglie fossero prive di ogni fondamento, come confermò nel 1927 l'esperimento di Davisson e Germer[8].

I due scienziati inviarono contro un bersaglio metallico un fascio di elettroni la cui lunghezza d'onda (calcolata come rapporto tra la costante di Planck e la quantità di moto) era dello stesso ordine di grandezza del passo reticolare ed osservarono una figura di diffrazione del tutto analoga a quella generata da un treno di raggi X. Il risultato, inspiegabile per la fisica classica, costituisce un'inoppugnabile conferma della duplicità onda-corpuscolo insita nella materia.


Dadi e labirinti


"Le nostre prospettive scientifiche sono ormai agli antipodi fra loro. Tu ritieni che Dio giochi a dadi con il mondo: io credo invece che tutto obbedisca ad una legge, in un mondo di realtà obiettive, che cerco di afferrare per via totalmente speculativa. Lo credo fermamente, ma spero che qualcuno scopra una strada più realistica o meglio un fondamento più tangibile di quanto non abbia saputo fare io. Nemmeno il grande successo iniziale della teoria dei quanti riesce a convincermi che alla base di tutto vi sia la casualità, anche se so bene che i colleghi più giovani considerano questo atteggiamento come un effetto di arteriosclerosi. Un giorno si saprà quale di questi due atteggiamenti istintivi sarà stato quello giusto."

La lettera di Einstein è datata 1928 ed è indirizzata a Bohr[9]. Sono passati più di 20 anni dalla spiegazione dell'effetto fotoelettrico che aveva dato impulso alla teoria quantistica. La parola d'ordine sembra essere diventata probabilismo e Einstein, coerente con la propria concezione del mondo fisico, sente il dovere morale di dissentire, allontanandosi da quelle posizioni che lui stesso aveva contribuito a sviluppare. Il suo Dio non gioca a dadi con l'Universo: Egli è sottile, non malizioso.

Nel 1926 Schrödinger [10], partendo dalla formula che fornisce l'energia totale di un sistema fisico classico, scrisse l'equazione differenziale (che poi da lui prese il nome) le cui soluzioni Ψ (x, y, z, t) forniscono le proprietà fisiche dell'analogo sistema quantistico.
















Occorre qui una precisazione: la probabilità di cui stiamo parlando è ben diversa da tutte quelle che gli scienziati si erano abituati ad incontrare in ambito fisico. Non si tratta più di una probabilità da ignoranza, che, possedendo ipoteticamente un numero maggiore di dati o maggiori capacità di calcolo, sarebbe possibile eliminare, quanto invece di una probabilità sistematica ed ineliminabile, connaturata con lo stesso sistema fisico in esame. Il "non lo so" di Born è un "non lo so e non lo potrò mai sapere". O meglio un "non lo so e non lo potrò mai sapere finché non effettuo una misurazione fisica". L'atto stesso dell'osservazione sperimentale provoca infatti il collasso della funzione d'onda, scegliendo in modo del tutto casuale uno dei possibili stati permessi dall'equazione di Schrödinger. L'interpretazione di Copenhagen, elaborata da Heisenberg e Bohr mentre collaboravano nella capitale danese, rimpiazza il determinismo della fisica classica con la distruzione delle probabilità in eccesso da parte dello sperimentatore. In un certo senso, adesso è lo scienziato che, in virtù della sua capacità di effettuare esperimenti, fa la realtà fisica. Essa infatti, in assenza di un osservatore, si tramuterebbe nello sconfinato insieme di possibilità previsto da Schrödinger.

Nel 1957 Everett, Wheeler e Graham rifiutarono queste conclusioni e idearono forse l'interpretazione più romanzesca della meccanica quantistica: la teoria dei molti mondi.

Supponiamo che un tizio debba fare un colloquio per ottenere un posto di lavoro in un'azienda farmaceutica. La funzione d'onda "lavoro nell'azienda farmaceutica" può assumere due diversi valori: assunzione e non-assunzione. Secondo la visione "ortodossa" della fisica quantistica, dopo aver effettuato un esperimento (il colloquio, appunto) una delle due possibilità si realizza, mentre l'altra svanisce. A questa soppressione di possibilità non-possibili si oppone la teoria dei molti mondi che sostiene, al contrario, l'esistenza di entrambi i valori assunti dalla funzione d'onda, seppure in universi differenti e tra loro inconoscibili. L'equazione di Schrödinger non sviluppa più possibilità, ma rami di realtà distinti: in uno di essi vengo assunto; nell'altro no. I due "me" saranno due perfetti estranei, vivranno esistenze diverse senza conoscersi.

Siamo così giunti agli antipodi delle concezioni di Newton: Everett, Wheeler e Graham hanno smesso di credere in un tempo uniforme, assoluto. Essi nel tempo vedono un immenso labirinto, una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli. Questa trama di tempi che s'accostano, si biforcano, si tagliano o s'ignorano per secoli, comprende tutte le possibilità. Nella maggior parte di questi tempi noi non esistiamo; in alcuni esisti tu che leggi, ma non io che scrivo; in altri io e non tu; in altri, entrambi. In questo tempo che un caso favorevole ci concede, hai tra le mani un foglio scritto al computer; in un altro, l'intero lavoro è stato distrutto da un virus; in un altro ancora, Planck[11] ha sacrificato gli studi fisici all'amore per il pianoforte: in quell'universo la teoria dei quanti non esiste e (forse) non esisterà mai.

II.


Dopo tanta fatica (e circa 20 anni di storia della fisica) siamo finalmente giunti ad una conclusione che può essere schematizzata come segue:

fisica classica (Newton) = determinismo = è possibile studiare un fenomeno e prevederne il comportamento;

fisica quantistica = duplicità e probabilismo = è possibile studiare un fenomeno, ma non sempre siamo in grado di prevederne il comportamento futuro o passato.

O, in termini ancora più semplici:

la fisica classica è in grado di dare una risposta certa alle nostre domande (si/no);

la fisica quantistica è in grado di dare solo risposte incerte che acquistano la loro certezza in virtù dell'osservazione sperimentale.

E, fin qui, poco male: basta infatti eseguire il numero di misurazioni necessario per ottenere le informazioni di cui abbiamo bisogno, rinunciando a prevedere con certezza gli stati fisici futuri assunti dal sistema in esame. Tuttavia chi ci assicura che questi esperimenti siano sempre possibili?

Con il suo principio di indeterminazione, forse l'aspetto più volgarizzato e universalmente noto della teoria dei quanti, Werner Heisenberg risponde che no, non sempre è possibile ottenere le informazioni che si desiderano. Oltre al consueto si/no, in fisica compare per la prima volta anche il forse.

Si immagini una pallina che si muove su un tavolino da biliardo. Per riuscire a stabilirne, ad esempio, la velocità e la posizione nello spazio (supponendo di possedere gli strumenti adeguati ad un simile calcolo), il senso comune ci dice che "bisogna accendere la luce", vale a dire occorre "illuminare" l'oggetto con un'onda elettromagnetica (la luce, nel caso specifico) che ci permetta di portare avanti l'osservazione. Finché ci occupiamo di oggetti macroscopici, non ci sono quindi problemi, ma. per un elettrone? Come faccio a "vedere" un elettrone?

Dal momento che la lunghezza d'onda della radiazione impiegata deve essere ≤ della grandezza dell'oggetto in questione, dobbiamo ricorrere ai raggi gamma che, come noto, hanno λ ≤ 0.1 nm (10 m) e, di conseguenza, frequenze f ≥ 3 × 1018 Hz (detta v, la velocità di propagazione dell'onda, sussiste la relazione λ = v/f). I fotoni che compongono il nostro fascio luminoso sono quindi particolarmente energetici (E = hf) e per effetto Compton interagiscono con l'elettrone, perturbandone in modo imprevedibile il moto: in conclusione non è possibile prevedere contemporaneamente la coppia di grandezze posizione-velocità (o, che è lo stesso, posizione-quantità di moto, poiché la quantità di moto è data dal prodotto della massa della particella, supposta costante, per la sua velocità). Quando infatti si ricerca una maggiore precisione nel calcolo della quantità di moto si ha una maggiore indeterminazione nella posizione e viceversa.

Ovviamente la dimostrazione di Heisenberg fu condotta su argomentazioni rigorosamente fisiche e si basava sullo studio delle funzioni d'onda di una particella libera. In particolare il fisico tedesco riuscì perfino a quantificare l'indeterminazione sulla coppia quantità di moto-posizione, affermando che Δx Δp ≥ h/2π,

detta Δx, l'indeterminazione sul moto della particella, Δp, l'indeterminazione sulla quantità di moto e h, la costante di Planck.

Insomma nell'universo non deterministico di Heisenberg non è più possibile applicare l'aristotelica logica a due valori, secondo la quale, per dirla con Dante[12], "ogne contradizion e falsa e vera". Circa 2500 anni dopo Epimenide ed Eubulide , si torna a parlare di ateniesi bugiardi.


Oltre la fisica


Una leggenda narra di un coccodrillo parlante che rapì un bambino mentre giocava sulla riva del Nilo e, trovandosi davanti la madre del piccolo, le disse - "Se indovini quello che farò, ti restituirò il bambino". La donna, disperata, rispose allora all'animale - "Tu mangerai il mio bambino", sperando che il coccodrillo, oltre che di parola, fosse anche dotato di intelletto. In questo caso infatti sarebbe rimasto impigliato in una contraddizione insanabile, dal momento che, mangiando il bambino, avrebbe dato ragione alla madre (e sarebbe stato, di conseguenza, obbligato a restituirglielo) e non mangiandolo, avrebbe dato torto alla donna (il che significa che sarebbe stato suo diritto papparselo in un sol boccone). La conclusione del racconto tuttavia è lieta: mentre il coccodrillo meditava uno stratagemma per risolvere la questione, la madre prese un bastone e glielo sfasciò in testa, riprendendosi il bimbo conteso. La storia ha una morale (meno sciocca di quanto sembri): mai pensare troppo sulle cose, potrebbe venirvi mal di testa[14].

Partendo da considerazioni non troppo diverse (anche se meno scherzose) nei primi anni sessanta Zadeh[15], direttore del Dipartimento di Ingegneria Elettrica all'Università di Berkeley (California), già allora piuttosto noto per i suoi contributi alla teoria dei sistemi, cominciò ad osservare come le tecniche tradizionali di analisi dei sistemi erano eccessivamente ed inutilmente accurate per molti dei problemi tipici del mondo di tutti i giorni. Nel 1965 pubblicò quindi un articolo dal titolo "Fuzzy sets" che segnava la nascita della cosiddetta "logica sfumata".

La maggior parte della comunità accademica insorse, dal momento che le idee di Zadeh minavano alla base la tradizionale logica aristotelica, rifiutandone i due principi fondamentali (di non-contraddizione e del terzo escluso). Tali teorie godettero invece di maggior successo in ambito extra-europeo (Giappone, innanzi tutto), forse perché, come disse Bart Kosko, uno degli allievi più brillanti di Zadeh, "la logica fuzzy inizia dove finisce la logica occidentale".

Quest'ultima infatti è ancora oggi fortemente influenzata dalla presenza di un grandissimo filosofo, quale fu Aristotele, che per oltre 2 millenni ha rappresentato il simbolo di un modello dogmatico imprescindibile (vuoi per emulazione, o, al contrario, per opposizione). Il sistema aristotelico, ancor più di quello newtoniano, si basa fondamentalmente sul buon senso ed è proprio quest'aderenza alla quotidianità che ne ha favorito il duraturo successo. Nessuna persona sana di mente avrebbe mai osato anche solo tentare una confutazione dei due pilastri logici successivamente abbattuti da Zadeh, questa vera e propria muraglia eretta dal senso comune:

dati due insiemi A e non-A (!A), ogni elemento appartenente all'insieme A non può contemporaneamente appartenere all'insieme !A (principio di non-contraddizione). Grazie tante! Se io ho una macchina rossa, mi sembra ovvio che la macchina non possa essere verde (e dunque non-rossa);

presi gli stessi insiemi A e !A di prima, la loro unione costituisce l'universo del discorso. Se possibile, ancora più evidente! La mia macchina o è rossa, o non lo è. Non vi sono altre alternative.

Ad una simile interpretazione bipolare della realtà sfuggivano tuttavia i paradossi  che, in onore al filosofo stagirita, furono considerati per secoli poco più che ragionamenti oziosi, cavilli da sofisti. In particolare il paradosso del coccodrillo, elaborato da Diogene Laerzio nel II secolo d.C., come del resto tutti gli altri paradossi dell'autoriferimento (sintetizzabili semplicemente in "Questa frase è falsa"), venivano classificati come insolubilia, ovvero pseudoproposizioni che devono essere espulse dal linguaggio.

Osserviamo invece come si comporta la logica fuzzy di fronte ad una frase del tipo "Il cretese Epimenide afferma che il cretese è bugiardo".

Dunque, se quanto afferma Epimenide è vero, allora il cretese Epimenide mente e, quindi, dice il vero. Al contrario, se l'affermazione è falsa, Epimenide non mente, quindi se ne deduce che mente.

Detta V, la frase incriminata e v = 0/1 (no/si), il suo valore di verità binario,

Se  V vera v = 1 !V falsa !v = 0 v !v

Se  V falsa v = 0 !V vera !v = 1 v !v

Inoltre poiché il valore di verità di V coincide con quello della sua negazione !V, cioè, in simboli, v = !v, è possibile scrivere al posto di v = 1 !v, l'elementare equazione di I grado

v v, che dà come unica soluzione v = ½ [4].

Il paradosso in conclusione non è né completamente vero, né completamente falso, ma semplicemente una mezza verità (o una mezza falsità). Il trucco (se trucco lo si può chiamare) che ci permette di giungere a simile soluzione sta nell'utilizzo della contraddizione stessa (v = !v) come condizione del problema. Posta insomma la sostanziale inattuabilità dei due principi aristotelici, la logica fuzzy può nascere e svilupparsi.


Fuzzy!


La parola fuzzy, aprendo un qualunque vocabolario di inglese[16] appare di non facile traduzione italiana. I termini che in questo contesto appaiono meno insensati potrebbero essere due: confuso, sfocato.

In Giapponese il vocabolo fu introdotto invece con enorme successo una ventina d'anni fa (premio per il neologismo dell'anno nel 1990) e significa semplicemente "intelligente". Nei paesi del Sol Levante la logica di Zadeh non ha una cultura millenaria contro cui battersi, ha trovato fin da principio un terreno fertile ed oggi raccoglie i suoi frutti in termini di applicazioni industriali e tecnologiche[17].

Ovviamente la motivazione di questo strepitoso trionfo non può stare nella risoluzione di un semplice paradosso che (come si è sostenuto, a ragione, per secoli) di aderente con la vita reale ha ben poco. Proviamo quindi a farcene una ragione impiegando un sillogismo aristotelico: si è detto che fuzzy, in giapponese, vuol dire intelligente; l'intelligenza è la virtù che contraddistingue gli esseri umani; pertanto la logica fuzzy è "umana". La conclusione concorda perfettamente con i significati (ad un primo sguardo ben poco attinenti alla logica) elencati in precedenza: la mente umana non è rigida, non ragiona a compartimenti stagni, ma è "intelligente" proprio in quanto sa adattarsi con elasticità alle situazioni che le vengono proposte.

È opportuno ricorrere ad un semplice esempio. Si prenda un uomo che sta perdendo i capelli. A che punto si potrà dire che è diventato calvo? La logica a due valori incontra serie difficoltà a rispondere ad una domanda del genere, poiché se considera calve soltanto le persone che hanno un numero di capelli ≤ n e non-calve quelle che ne hanno più di n, giunge all'insostenibile conclusione che la perdita di un solo capello (n+1 > n) provoca la calvizie. La logica fuzzy invece risolve la questione affermando che l'individuo A, dotato di n capelli, è più calvo dell'individuo B, che in testa ha n+1 capelli. In pratica la logica fuzzy rinuncia a stabilire se un individuo sia calvo o meno, ma piuttosto ne determina concretamente il grado di calvizie (che, in definitiva, dipenderà dal numero n dei suoi capelli).

Schematizzando ulteriormente:



Asserzione - Tizio è calvo [5]





Interpretazione insiemistica classica

 

Interpretazione insiemistica fuzzy

 


 

 




























Insomma la differenza tra logica a due valori di verità e logica a più valori di verità è strutturale, dal momento che deriva da una diversa interpretazione iniziale del fatto analizzato. La logica classica va bene per un mondo in bianco e nero; la logica fuzzy è in grado di adattarsi ad una realtà fatta di infinite tonalità di grigio.

III.


La pittura di René-François-Ghislain Magritte è stata spesso tacciata di letterarietà, intellettualismo e cripticità. La parabola umana del pittore si è svolta in massima parte in Belgio, a parecchie centinaia di chilometri da Parigi, il quartier generale delle avanguardie (surrealismo, in primis). Si è parlato di marginalità provinciale e di mediocrità borghese. Lo si è identificato con l'uomo con la bombetta che si sdoppia e si moltiplica nello spazio, sempre uguale, sempre vestito allo stesso modo.

Per contrasto mi viene da pensare alla vita tumultuosa di Max Ernst o di Salvador Dalì: l'internamento in un campo di prigionia e il matrimonio presto naufragato con Peggy Guggenheim, nel primo caso; la provocazione continua, la stravaganza nel comportamento e nel vestire, quella faccia che ti guarda fisso con i baffetti all'insù, nell'altro. E mentre immagino tutte queste cose, mi sorprendo a desiderare l'intimità, il raccoglimento.

Il mio Magritte è un uomo pacato, riservato ed attaccato ai suoi ideali. Egli non alza la voce e non si accontenta di facili consolazioni. Il tanto celebrato enigma non diventa simbolo di un isolamento metafisico, bensì stimolo alla messa in dubbio di ciò che realmente esiste, di un qualcosa di estremamente fisico e tangibile, dunque.

La mistificazione più marcata che ho eseguito a suo danno (e lode) consiste nella scelta della tela alla quale si dichiara più attaccato, nonché nelle riflessioni che il dipinto gli ispira. La scelta e le riflessioni sono, ovviamente, mie, ma, sebbene il discorso sia artefatto (e di questo chiedo venia), mi piace credere che, messo in bocca all'artista, non sarebbe suonato troppo assurdo.



16 Agosto 1967[18]


Ora tutti lì a piangere, ma nella vita me ne hanno dette di tutti i colori.

Mi ricordo una conferenza, Anversa, doveva essere il '38, sala piena zeppa di osservatori attentissimi.

Signori, Signore, Compagni - incominciai. E già un tizio faceva per andarsene. Non ci riuscì: il museo era stracolmo, adesso che ci ripenso quasi mi dispiace di averlo tediato un'altra oretta.

Poi attaccai a parlare di quel mondo, di questo mondo in cui si fabbricano armi per impedire la guerra, in cui la scienza è dedita alla distruzione, all'uccisione e al prolungamento della vita dei moribondi, in cui l'attività più folle si rivolta contro se stessa. Noi viviamo in un mondo dove ci si sposa per denaro e si costruiscono grandi alberghi per lasciarli marcire di fronte al mare. Questo mondo resta ancora bene o male in piedi; ma forse che non si vedono già brillare, nel cielo notturno, i segni della sua futura rovina?

Mi riscoprii intensamente surrealista, surrealisticamente rivoluzionario, dimenticando i motivi che mi avevano distaccato dal gruppo di Breton.

Con quest'ultimo e con Eluard[19] del resto l'avventura è stata breve, ma intensa. Giusto un triennio. Eravamo giovani e insofferenti. Volevamo ribellarci all'effetto stereotipato della pittura tradizionale. Tra il 1927 e il 1930 comparvero quegli spunti che non mi avrebbero più abbandonato. Posso affermare con piena sincerità che, senza il surrealismo, adesso sarei diverso da come sono. Di essere rientrato in Belgio però non mi pento. Almeno alle proprie idee bisogna rimanere coerenti e le differenze che mi separarono dal gruppo parigino erano insanabili.

Breton sosteneva di essere "permeato di Freud". Io non credo all'inconscio e lo ritengo una semplice scusa per raggiungere un'altrimenti impossibile "spiegazione" dell'opera d'arte. La verità è che l'arte, come la poesia, non si può spiegare. La si può guardare, ammirare, ma spiegare no. La deformereste in qualcos'altro.


Quando dipinsi Gli amanti, per ricondurre all'inconscio l'incomunicabile panno bianco che nasconde i visi e costringe ad un amore muto, si è tirata in ballo addirittura mia madre. Quando la ritrovarono, 17 giorni dopo la sua sparizione, in un'ansa della Sambre, aveva il volto coperto dalla camicia da notte. Avevo 13 anni e non riuscii a provare altro sentimento che non fosse d'orgoglio. Orgoglio per essere al centro dell'attenzione, io, figlio di una suicida.

 
 


In aperto contrasto con "l'automatismo psichico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero" ribattevo che le mie opere erano tutt'altro che oniriche. Al contrario. Se dei "sogni" entrano in questo contesto - scrivevo - sono ben diversi da quelli che abbiamo dormendo. Si tratta piuttosto di "sogni" volontari, in cui nulla è vago. Alla stessa memoria, chiamata allucinazione ed eletta a nume tutelare dei surrealisti, ammetto di non credere più di tanto, vuoi per sfiducia, vuoi per viltà. Se, per ipotesi aberrante, esistesse davvero un individuo capace di ricordare ogni singolo particolare dell'universo che lo circonda, con ogni probabilità sarebbe condannato ad un'angosciosa solitudine. Nessuno avrebbe cuore di frequentarlo (io per primo), pensando che ogni singola parola, ogni singolo insulso gesto volontario e involontario sarebbe rimasto per sempre nella sua implacabile memoria. Quando la si fotografa con eccessiva dovizia di particolari, la realtà si mostra per quello che realmente è: un'immensa iterazione di azioni inutili.

Fu così che scelsi una veglia di oggetti familiari, più veri del vero, che con i loro urli solitari e silenziosi incarnassero la mia natura di intimo rivoluzionario. Le crepe che vediamo nelle nostre case e sui nostri volti, le spostai in un cielo privato del pittoresco e diventato quasi finto, quasi fosse di carta. Io credo che il mio quadro più riuscito, quello che ancora oggi riesce a sorprendermi ed incantarmi non sia altro che un fondale teatrale. Un cielo azzurro macchiato di cirri che si staglia sul paesaggio notturno. L'immagine è nascostamente assurda: la maggior parte di quelli che procedono in fretta pensano di aver visto le stelle nel cielo diurno.Costoro potrebbero essere l'assennato signor Blum[1], il sapiente Clemenceau , la lungimirante rappresentanza del proletariato tedesco che lasciò fare quel rompiscatole di Hitler, i politici di sinistra che accusavo (e accuso) di divenire, al momento opportuno, i più accaniti difensori del mondo borghese. Più semplicemente essi sono anche gli impiegati che s'affrettano nella metropolitana per raggiungere l'ufficio, i protagonisti che popolano talmente tante tra le mie tele che adesso li vedo qui di fronte a me.

 



Miriadi di bombette che si moltiplicano, si espandono e, non trovando più posto sulla terra, prendono a colonizzare il cielo. Al prodigio dell'eterea borghesia non seppi dare nome migliore di Golconda.

Nougè[20] forse è stato il primo ad osservare come i titoli dei miei dipinti sono null'altro che un pretesto per la conversazione, un sistema per evitare che i quadri si riducano ad un contesto familiare, quello in cui l'automatico fluire del pensiero li collocherebbe per evitare inquietudini. Così, quando il collegamento tra l'opera ed il suo titolo ci appare chiaro, è perché noi vogliamo che lo sia. Negli altri casi preferiamo semplicemente ignorarlo (in buona o cattiva fede, poco importa), ci prodighiamo con tutte le nostre energie intellettuali ad attribuirlo al capriccio dell'artista, alla follia, o, peggio ancora, all'ostentazione di un sapere riservato a pochi.

 


Golconda era una ricca città indiana, una specie di miracolo. Miracoloso è camminare attraverso il cielo sulla terra, come miracolosa mi pare l'essenza stessa del mio replicante soggetto. Egli, enigmatico e distinto, ha deciso di riprodursi isolato e identico a se stesso e adesso resta fedele alla sua decisione senza stupore, senza patemi d'animo, come facesse la cosa più naturale di questo mondo. Simili portenti ci appaiono in tutta la loro terribile evidenza ogni giorno e ogni giorno scegliamo di ritenerli normali. Abbiamo stabilito di vivere come chi sogna: guardiamo senza vedere, ascoltiamo senza udire, dimentichiamo tutto, o quasi.

Noi siamo gli spettatori di un mondo proteiforme e intollerabilmente impreciso. Tuttavia c'inganniamo e viviamo felici con l'illusione della staticità e dell'unitarietà. Un'alternativa, come in ogni scelta, ci sarebbe, ma è difficile da portare avanti con coerenza. Ci vuole una forza d'animo fuori del comune.

La mattina, quando ci alziamo dal letto, ci viene posta una domanda. I più non l'ascoltano, in pochi vi riflettono, ancora meno reagiscono. La domanda riguarda il mondo che ci circonda e potrebbe essere formulata più o meno in questi termini: "Qual è la realtà vera?" oppure, che è lo stesso, "La realtà è unica?".

Per le figure che si stagliano nello spazio di Golconda, tutte alla medesima incolmabile distanza l'una dall'altra, la realtà è unica e vera, non c'è nemmeno bisogno di chiederlo. La realtà è un qualcosa che si può toccare, che si può amare e si può odiare. È la televisione che troviamo accesa al nostro ritorno a casa, è la sveglia che suona la mattina alle 7 precise, è la porta opprimente dell'ufficio, è lo squillo liberatorio che ci dice che il nostro turno è finito. È il "per oggi basta", le scarpe linde, la giacca e la bombetta rigorosamente nere. È la realtà dell'uomo-consumatore-oggetto-macchina-massa-forzalavoro, che a conti fatti è tutto fuorché uomo.

Il pittore no. Il pittore non s'accontenta di queste risposte banali, non sa credere che la realtà sia vera e unica. Magari lo vorrebbe, ma non ci riesce. Il suo non è necessariamente un pregio. Per l'uomo-consumatore è addirittura il peggiore dei difetti: è il non-senso che si sostituisce al senso, la non-realtà che prende il posto della realtà, l'assurdo, la spazzatura. E mentre pronuncia questa condanna, non s'accorge che per il pittore è la sua realtà ad essere il pattume, lo scarto, la scoria da eliminare.

La verità, anzi la mia verità è che tutto, come nel fiume di Eraclito, è in continuo movimento. Dal momento che l'occhio non concepisce che la stasi, la realtà ne esce stranita, raddoppiata, moltiplicata in milioni di insignificanti frammenti. Il giorno e la notte allora non hanno più significato, se nella moderna società industriale può esistere il lampione che ci dona la luce. Forse la molteplicità stessa non ha significato, se oggi, nel regno dell'omologazione, siamo costretti ad un'esistenza uniforme, uguale per tutti, che soffochi irrimediabilmente i nostri istinti, le nostre doti, in una parola la nostra arte. Alla base dell'Impero delle luci, la tela cui sono più attaccato, vi sono riflessioni di questo genere.

D'altronde, se dico che il pittore è dotato di sensibilità superiore, ciò non significa che l'incapacità di sentirsi a proprio agio nella realtà sia caratteristica solamente dei pittori. Io stesso non credo di essere un pittore nel significato che i surrealisti davano al termine. Secondo loro la realtà era dominata da quel tiranno dell'inconscio che ti faceva sentire libero solo nell'incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio. Al dispotico conformismo sostituivano un altrettanto dispotico anticonformismo. Del resto io non penso di essere un pittore neppure nell'accezione più piena del termine. Se, quand'ero giovane, la pittura era un grande piacere, in certi momenti non ero insensibile a un sentimento spontaneo che mi sorprendeva, precisamente quello di esistere senza conoscere la ragione del vivere e del morire. È questo sentimento che mi ha indotto a rompere con interessi (assai poco precisi) d'ordine puramente estetico.

Se sono pittore, lo sono a modo mio. Con lo spaesamento degli oggetti, l'uso di parole associate ad immagini, la trasformazione degli attributi fisici esprimo una realtà che ha perso l'immobile determinismo e le ferree caratteristiche di una volta. Non è infrequente, osservando le mie opere, imbattersi in montagne che volano, bicchieri che sorreggono nuvole, locomotive che fuoriescono dai camini. Tutte queste cose sconosciute che vengono alla luce mi fanno credere che la nostra felicità dipenda anch'essa da un enigma inseparabile dall'uomo e che il nostro unico dovere consista nel tentare di conoscerlo. Così, in un momento storico che della forma ha fatto la sua bandiera, ho voluto parlare di contenuti, presentare problemi, proporre domande. Di alcune ho trovato una (provvisoria) risposta. Sulle altre ci sto ancora lavorando [6].

IV.


Nella storia della messinscena, si è spesso cercato di sottrarre il Così è (se vi pare) a quella che Roberto Alonge definisce "l'ipoteca pesante del pirandellismo", ipoteca contorta e capziosa che millanta la profondità intellettuale sotto una realtà di astratto e programmatico cerebralismo. La caricatura di se stesso, insomma [7].

Il critico menziona quindi l'edizione di Giorgio De Lullo (1972), che privilegia la chiave di lettura sociologica, puntando sul tema dell'oppressione del "diverso": al collo della signora Frola e della signora Ponza spicca una medaglia con la stella di Davide; tutta la compagine di borghesi scioperati e crudelmente tracotanti indossa costumi anni Venti; Laudisi, "coscienza infelice di questo ceto dirigente", porta abiti moderni che simboleggiano la sua estraneità dal coro dei curiosi. Estraneità sottolineata dalla conclusione in cui non c'è più spazio per le risate. Il dissenso prende corpo nell'allontanamento materiale del personaggio dal palcoscenico.

La rappresentazione di Giancarlo Sepe (1982) stupisce invece per l'impianto scenografico ("una grande scala nera stretta tra pareti a strapiombo, con i personaggi che compaiono all'improvviso, da fessure laterali, o scendendo dall'alto, o salendo dal basso, che tendono a braccare le due vittime"). Le musiche "da giallo" cooperano poi a modernizzare l'opera di Pirandello, rendendola meno sofistica e più poliziesca.

Massimo Castri infine (1979) stravolge completamente il testo teatrale originale, rifacendosi piuttosto alla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero in cui risultava assente il personaggio di Laudisi con tutto l'armamentario pseudofilosofico che lo contraddistingue. Il raissoneur infatti, secondo Castri, ha essenzialmente una funzione di occultamento. Il colpo di pistola che lo uccide nell'ultima scena non è altro che una punizione per aver tenuto nascosto il segreto tema che sta alla base dell'opera: l'incesto. Ponza, Frola e l'Ignota (rispettivamente Padre, Madre e Figlia) da oppressi diventano così oppressori o quantomeno "agitatori, coloro che mettono in crisi i Normali, coinvolgendoli in qualche misura nei loro stessi fantasmi tabù".

Più ragionevole, più inetto, più pigro ho preferito (ri)scrivere anziché la commedia tutta, solamente il suo riassunto e, volendo trovare un lato positivo alla mia operazione certo riduttiva e approssimativa, additerei la forma stessa di riassunto, che procede inevitabilmente ora per semplificazioni, ora per interpretazioni. Ora ingigantisce il particolare, ora minimizza un concetto fondamentale. La realtà del testo originale viene gradualmente persa di vista.

Magritte, riferendosi ad un processo analogo, parla della condizione umana e la rappresenta con una finestra aperta su un paesaggio ameno davanti alla quale pone un quadro che raffigura esattamente la parte di paesaggio nascosta. Un modo per affermare che il dipinto coincide in realtà con il suo modello?

Errore.

Se così fosse, il perfido Magritte avrebbe dovuto riportare anche il particolare della tenda occultata dalla tela sul cavalletto. La menzogna in questo caso è piccola, quasi insignificante, ma comunque sufficiente a destare il sospetto di altre mistificazioni più consistenti.

"È così che vediamo il mondo - commenta il pittore belga - lo vediamo come al di fuori di noi anche se è solo d'una rappresentazione mentale di esso che facciamo esperienza dentro di noi."

Pirandellianamente la realtà, la verità sta dietro. Ammesso che dietro ci sia davvero qualcosa.


 




Alla faccia d'Aristotele


Un placido paese della campagna agrigentina, popolato da una classe dirigente oziosa e impermeabile al cambiamento, è messo sottosopra dall'arrivo di un misterioso signor Ponza e dalla follia del cognato del consigliere Agazzi: il coro dei benpensanti decide di riunirsi nel salotto di quest'ultimo per decidere il da farsi.

Il signor Ponza è davvero un tipo strano. - si mormora da un canto - Ha preso in affitto una casa in periferia in cui vive da solo con sua moglie e ha messo la suocera nel bel mezzo della città. La signora Frola, poverina, deve accontentarsi di vedere la figlia dal cortile, non la può incontrare mai, mai abbracciare. Chissà perché questo strazio?

E invece Laudisi vi sembra normale? - si ribatte dall'altra parte - Da quando è tornato dal suo viaggio a Berkeley, non fa altro che ridere, darci sulla voce e parlare per enigmi. L'altro giorno ci lamentavamo del fatto che la signora Frola non ci aveva ricevuti e lui sai come se ne esce? «Soperchierie, soperchierie» diceva «Non sarà dunque permesso alla gente di starsene per casa sua» e poi, di punto in bianco, come colto dall'ispirazione del momento, ha cominciato a prendersela con Aristotele «Maledetto sia Aristotele. Ma te l'abbiamo fatta infine. Ci son voluti quasi 2500 anni, ma te l'abbiamo fatta».

Entra quindi in scena l'affabile vecchina al centro di una buona metà dei pettegolezzi che, invece di prendersela col genero, lo scusa, ne elogia le virtù e fornisce una spiegazione all'enigma: "egli vuole il cuore della moglie tutto per sé", al punto che perfino il legittimo amore materno deve arrivare alla sua donna per mezzo di lui.

No, non è vero niente - ribatte allora Ponza, che sopraggiunge adirato quando sua suocera si ritira - la signora Frola è pazza. Sua figlia morì quattro anni fa, ma lei non si è mai saputa rassegnare e, vedendomi con la mia seconda consorte, l'ha scambiata per la sua ragazza.

Macché, io non sono pazza - replica infine la signora Frola, non appena il genero se n'è andato - è lui che ha creduto che sua moglie fosse morta, quando invece era in una casa di cura. Così, ripresentatagli dopo un anno, non la riconobbe e la riprese solo dopo che simulammo un secondo matrimonio.

Tra lo sbigottimento generale emerge una risata: si conclude il primo atto.


Il paesello sulla Marsica da dove proveniva il signor Ponza è stato colpito da un terremoto: municipio e archivio sono distrutti, di superstiti non si hanno notizie, impossibile rintracciare una qualunque prova.

LAUDISI              E d'altra parte, anche se non ci fosse stato il terremoto.

SIRELLI                 Cosa, Laudisi? Cosa sarebbe successo?

LAUDISI                 Anzitutto non mi chiamo più Laudisi.

AGAZZI                 Ah, già. Un'altra delle sue prese in giro. Suvvia, ci rammenti quel nome fittizio.

LAUDISI                 Lotfi. Lotfi Zadeh.

AGAZZI                 Ebbene, signor Zadeh, se avessimo a disposizione una maggiore quantità di dati, saremmo indubbiamente in grado di sciogliere l'enigma. Del resto, i casi sono due: o la signora Frola dice il vero e il pazzo è lui, oppure dice il falso e la pazza è lei. Logica. Nient'altro che logica.

LAUDISI                 Semmai logica a due valori, del tutto obsoleta e inefficiente al giorno d'oggi, in cui si vuole conoscere la quantità di moto e la posizione degli elettroni. Seguitemi per cortesia, provate per un attimo a seguire il mio ragionamento. Se prendete una sorgente luminosa capace di emettere fotoni ed uno schermo scuro.

SIRELLI                 Fotoni? Schermi? Di oscuro non c'è che il vostro fumoso ragionamento.

LAUDISI                 Va bene, proverò a mettervi il concetto in altri termini. Vi racconterò un caso addirittura burlesco. Si rinchiuda un gatto in una scatola ermetica d'acciaio insieme con la seguente macchina infernale, posta in un luogo irraggiungibile al gatto: in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un'ora forse uno dei suoi atomi si disintegra, ma anche in modo parimenti verisimile nessuno; se ciò succede, allora il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro [8]. Non potendo aprire la gabbia, come si risponde alla domanda «il gatto è vivo?»

AGAZZI                 Non lo so.

SIRELLI                 Non lo so.

IL PREFETTO     Non lo so.

LAUDISI                 E qui sta l'errore, signori miei.

TUTTI                     (agitati e confusi) E perché mai?

LAUDISI                 La risposta corretta è «né vero, né falso, ma indefinito.»

Sulla risata di Laudisi-Lotfi cala il sipario.


La situazione nel frattempo è precipitata. La borghese classe scioperata s'è divisa in due fazioni contrapposte: le donne danno credito alla signora Frola; gli uomini al signor Ponza. Agazzi in un tentativo disperato di dimostrare a se stesso e ai suoi ospiti (che sembrano essersi stanziati nel suo salotto) di essere nel giusto mette faccia a faccia i due pazzi potenziali. Ecco allora che Ponza s'adira, Frola ammicca, lo asseconda, poi scoppia a piangere. Suocera e genero quindi escono di scena, Ponza rientra, dice d'aver fatto la commedia per mantenere Frola nell'illusione, esce di nuovo di scena.

LAUDISI              Ottima idea quella di convocarli assieme.

AGAZZI                 Per cortesia, ci risparmi almeno la sua ironia, Laudisi.

LAUDISI                 E dàlli con questo Laudisi.

SIRELLI                 (innervosito) Sì, perché, che lei lo voglia o no, il suo nome è Laudisi.

IL PREFETTO     Chissà perché le è saltato in testa di cambiarlo. Cosa ha Laudisi che non le piace?

LAUDISI                 Niente, niente, contro Laudisi non ho niente. Il fatto è che. come dire. mi sembra riduttivo. (cercando il termine adatto) insufficiente. (con l'aria di chi l'ha trovato) ecco, incompleto.

CENTURI               (indicando Laudisi) Come al solito, si burla di noi!

LAUDISI                 Ma quali burle! È un po' come il quadro che ho appeso in camera mia.

SIGNORA SIRELLI Anche quello una celia. per non dire di peggio.

LAUDISI                 Invece a me pare serissimo. Terribile forse, ma geniale. Va bene per il giorno come per la notte. Perché alla fin fine il giorno e la notte non è che siano poi tanto diver. (come colto da folgorazione) e se li riunissimo?

AGAZZI                 Chi?

LAUDISI                 Il giorno e la notte, la moglie del signor Ponza e la figlia della signora Frola: ci sarà da divertirsi!

SIRELLI                 Far parlare la moglie? Eh già! Eh già! Sapremo infine chi ha ragione!"

Gli astanti convengono dunque di mandare a chiamare la donna, ma l'Ignota li anticipa, comparendo sulla scena "con una lunga veste gialla, luminosa come una giornata di sole, e col volto nascosto da un fitto velo nero, impenetrabile".

AGAZZI                 Ci perdoni. (in soggezione) ci perdoni il disturbo che abbiamo causato ai suoi congiunti, ma. ma c'è un dubbio che non ci fa dormire.

IL PREFETTO     Vorremmo che lei ci dicesse.

SIGNORA PONZA                  (con un parlare lento e spiccato) Che cosa? La verità? È solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola.

TUTTI                     (con un sospiro di sollievo) ah!

SIGNORA PONZA                  (subito c.s.) E la seconda moglie del signor Ponza.

TUTTI                     (delusi, sommessamente) Oh! E come?

SIGNORA PONZA                  (subito c.s.) Come il cretese che afferma «Tutti i cretesi sono bugiardi».


Guarderà attraverso il velo, tutti, per un istante; e si ritirerà. Silenzio.


"LAUDISI            Ed ecco, o signori, come parla la verità.


Volgerà attorno uno sguardo di sfida derisoria.


Tertium non datur.


Scoppierà a ridere.


Ah! ah! ah! ah!"

Conclusione


Nella sua raccolta di racconti dal titolo quanto mai azzeccato di Finzioni (1944), Borges[21] recensisce libri inesistenti, mescola filosofia, letteratura e teologia fino a rasentare la bestemmia, stupisce e stordisce il lettore attraverso la continua indistinguibile sovrapposizione di mistificazione e verità.

In Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, anziché accontentarsi di creare un paese, racconta addirittura l'invenzione di un intero pianeta. Tra sette segrete, società benevole e un milionario ateo e nichilista[22] ciò che è fantastico (il pianeta Tlön) finisce per diventare reale.

In una cassa contenente vasellame "palpitava misteriosamente una bussola [.]. L'ago turchino anelava al nord magnetico; la cassa di metallo era concava; le lettere del quadrante erano d'uno degli alfabeti di Tlön". Alla Cuchilla Negra, nel bazar di un brasiliano un ragazzo viene trovato cadavere nel corridoio. Dalle sue tasche era caduta qualche moneta e un cono di un metallo lucente ed alieno, del diametro di appena un dado, incomprensibilmente pesante. Simili coni "sono l'immagine della divinità in certe religioni di Tlön".

"Il contatto con Tlön, l'assuefazione ad esso, hanno disintegrato questo mondo. Incantata dal suo rigore, l'umanità dimentica che si tratta d'un rigore di scacchisti, non di angeli. È già penetrato nelle scuole l'«idioma primitivo» di Tlön; e l'insegnamento della sua storia armoniosa (e piena di episodi commoventi) ha già obliterato quella che presiedette alla mia infanzia: già, nelle memorie, un passato fittizio occupa il luogo dell'altro, di cui nulla sapevamo con certezza. neppure se fosse falso. Sono state riformate la numismatica, la farmacologia e l'archeologia. [.] Se le nostre previsioni non errano tra un centinaio d'anni qualcuno scoprirà i cento volumi della seconda Encyclopaedia di Tlön. Allora spariranno dal pianeta l'inglese e il francese e lo spagnolo. Il mondo sarà Tlön."

Al di là della contrapposizione molto pirandelliana apparenza-realtà, il racconto mi interessa essenzialmente per due ragioni:

esplicita il mio debito nei confronti dello scrittore argentino;

mostra come l'ambizione alla simmetria sia caratteristica dell'animo umano.

Per convincersi del primo aspetto, basta mettere in rapporto il titolo della raccolta borgesiana di cui si è parlato poco fa con i capitoli III e IV di questa tesi. Essi infatti non sono altro che due brevi finzioni in cui immagino di prendere il posto rispettivamente di Magritte e di Pirandello, facendo scrivere al primo una breve autobiografia[23] e al secondo una variante del Così è (se vi pare). Le analogie tuttavia vanno ancora oltre. In ciascun capitolo è infatti contenuta una citazione (dissimulata in modo più o meno abile) proveniente da Finzioni :

nel primo capitolo il riferimento è al Giardino dei sentieri che si biforcano, in cui Stephen Albert attribuisce allo scrittore cinese T'sui Pên una concezione ramificata del tempo che trova un'incredibile conferma nelle teorie di Everett, Wheeler e Graham;

nel terzo capitolo si crea un nascosto parallelo tra la prodigiosa memoria di Funes[25] e quella dell'appena defunto pittore belga;

nel quarto capitolo la finzione è ancora più ardita. "Più ragionevole, più inetto, più pigro" è lo stesso Borges che nell'introduzione alla prima parte (edita separatamente già nel 1941) si scaglia contro i compilatori di grossi libri, i dispiegatori "in 500 pagine d'un concetto la cui perfetta esposizione orale si capirebbe in pochi minuti";

per questo capitolo conclusivo ho scelto infine un passo dell'Esame dell'opera di Herbert Quain - "Rivendico per quest'opera i tratti essenziali di ogni gioco: la simmetria, le leggi arbitrarie, il tedio".

Così facendo, è possibile creare una rete di relazioni inaspettate che contribuisce a rinsaldare l'unitarietà di una tesi che si propone proprio di demolire l'idea stessa di unitarietà.

Simile contraddizione è da accostare al secondo motivo per cui ho fatto riferimento a Tlön, Uqbar, Orbis Tertius: se la realtà è caotica, l'uomo deve crearsi un mondo capace di consolarlo con il suo ordine perfetto. Che questa realtà alternativa sia un universo fittizio (Tlön), o l'insieme di simmetrie e leggi arbitrarie che informano un qualunque testo scritto, non ha alcuna importanza [9].

Bibliografia e sitografia



  1. Meccanica quantistica. https://it.wikipedia.org/wiki/Fisica_quantistica. 15 giugno 2007.
  2. Isaac Newton. https://it.wikipedia.org/wiki/Isaac_Newton. 13 giugno 2007.
  3. Amaldi U. La teoria quantistica. In: Amaldi U. La fisica per i licei scientifici. Zanichelli. 2005: pp. 326-337.
  4. Logica fuzzy. https://it.wikipedia.org/wiki/Fuzzy. 16 giugno 2007.
  5. La logica fuzzy. https://marco.chiuppesi.googlepages.com/3-Logica_Fuzzy.pdf. 14 giugno 2007.
  6. Magritte R. La linea della vita. In: Magritte. Rizzoli. 1998: pp. 44-48.
  7. Pirandello L. Liolà Così è (se vi pare). Oscar Mondatori.
  8. Paradosso del gatto di Schödinger. https://it.wikipedia.org/wiki/Paradosso_del_gatto_di_Schr%c3%b6dinger. 15 giugno 2007.
  9. Borges J. L. Finzioni. Oscar Mondatori. 1980: pp. 5-23, 54-59, 69-80, 85-92.







Si parla di unità problematica dal momento che lo scopo del lavoro è proprio la dimostrazione dell'assenza di unità e coerenza che grava sulla realtà.

Trovo improbabile, oltre che privo di qualunque fondamento oggettivo, che Lofti Zadeh, il padre della logica fuzzy, avesse letto le opere di Pirandello o, tanto meno che Borges si dilettasse nello studio della fisica quantistica.

Si tratta delle stesse previsioni che ritengono impossibile che si possa avere, ad esempio, la contemporanea percezione del giorno e della notte, oppure che una locomotiva fuoriesca dal caminetto del nostro soggiorno.

Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), scrittore tedesco e filosofo asistematico per eccellenza.

Philippe Lenard (1862-1947), fisico tedesco e Premio Nobel nel 1905 per le sue ricerche sui raggi catodici.

James Clerk Maxwell (1831-1879), fisico scozzese, celebre per i suoi studi sull'elettromagnetismo.

Louise De Broglie (1892-1987) matematico e fisico francese. Vinse nel 1929 il Premio Nobel per la scoperta delle proprietà ondulatorie della materia.

Clinton Joseph Davisson (1881-1958) e Lester Halbert Germer (1896-1971), fisici americani.

Niels Bohr (1885-1962), fisico e matematico danese.

Erwin Schrödinger (1887-1961), fisico e matematico austriaco. Vinse nel 1933 il Premio Nobel per i suoi contributi alla meccanica quantistica.

Max Planck (1858-1947), fisico tedesco e ideatore della teoria dei quanti. Fu anche ottimo pianista.

Paradiso, VI, v. 21

Epimenide di Creta e Eubulide di Mileto: la critica è concorde nell'attribuire il paradosso del mentitore all'uno o all'altro.

Diogene Laerzio nel II secolo d.C. inventò una storia piuttosto simile (ovviamente priva della conclusione spiritosa).

Lofti Asker Zadeh (1921-          ), noto soprattutto per i suoi lavori che segnano la nascita della teoria degli insiemi e della logica sfocati.

Fuzzy, ag. 1. coperto di lanugine, peluria 2. coperto di polvere 3. increspato 4. confuso, indistinto 5. sfocato

Nel 1987 viene realizzato un sistema operativo basato su parametri fuzzy per il controllo dei treni metropolitani della città di Sendai. Sistemi fuzzy sono stati in seguito impiegati per i fini e nei campi più disparati: dal trattamento delle acque di scarico alla costruzione di elettrodomestici "intelligenti", dall'area finanziaria a quella informatica.

Il 15 agosto 1967 Magritte muore nella sua casa di Bruxelles per un cancro al pancreas.

Paul Èluard, pseudonimo di Eugène Grindel (1895-1952), poeta francese tra i maggiori esponenti del movimento surrealista.

Paul Nougé (1895-1967), poeta francese.

Narratore, poeta e saggista argentino (1899-1986), da molti ritenuto una delle voci più influenti del XX secolo.

In America è assurdo inventare un paese. Il milionario Ezra Buckley propone dunque l'invenzione di un pianeta, Tlön. "A questa idea gigantesca se ne aggiunge un'altra, figlia del suo nichilismo: quella di mantenere il silenzio sull'enorme impresa. Circolavano allora i venti volumi della prima Encyclopaedia Britannica; Buckley suggerisce un'enciclopedia metodica del pianeta illusorio. Lascerà al pianeta i suoi filoni auriferi, i suoi fiumi navigabili, le sue praterie solcate dal toro e dal bisonte, i suoi negri, i suoi postriboli e i suoi dollari, ma a una condizione: «L'opera non patteggerà con l'impostore Gesù Cristo». Buckley nega Dio, ma vuole dimostrare al Dio inesistente che gli uomini mortali sono capaci di concepire un mondo".

Ogni finzione che si rispetti deve conservare almeno qualche traccia della verità effettiva: nel capitolo III si possono rintracciare tutta una serie di citazioni da conferenze, interviste e commenti rilasciati dallo stesso Magritte nel corso della sua carriera. In particolare si fa costante riferimento al discorso tenuto ad Anversa nel 1938 (che tra l'altro ricordo quasi subito) e noto come La linea della vita.

La traduzione cui mi riferisco è quella di Franco Lucentini, I edizione Oscar Mondadori, gennaio 1980.

Il titolo del racconto è Funes, o della memoria.

Di ogni legge esiste poi una parziale trasgressione: il capitolo II, contrariamente alle aspettative, non contiene alcuna citazione.

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