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1892 - Nasce 'Il Mattino' di Napoli - tesina




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Nasce 'Il Mattino' di Napoli










D'Annunzio e Nietzsche

 

D' Annunzio e "L' Innocente"

 

L' impresa di Fiume

 
Oscar Wilde

 

Estetismo

 
Vulcanismo

 

Plinio il Giovane

 

Matilde Serao, "Il Paese di Cuccagna"

 

1892:NASCE "IL MATTINO" DI NAPOLI



 

Primo ministero Giolitti e scandalo bancario

 

Un evento di cronaca dal passato: Apologia per l'uccisione di Eufileto Lisia

 
Per affrontare il colloquio orale ho preferito scegliere una tematica, un punto di partenza, un filo conduttore che mi permettesse di collegare le varie materie affrontate nel corso dell' ultimo anno ( e non solo). Una delle competenze che bisogna dimostrare di aver acquisito è , infatti, la capacità di trovare dei punti di contatto tra le varie discipline e organizzare un discorso. Ho ritenuto opportuno partire da un tematica che rispecchiasse me ed in particolare le mie aspirazioni future ovvero "il giornalismo". Essendo la tematica estremamente ampia ho scelto di approfondirne un aspetto in particolare ovvero la nascita del Mattino di Napoli, in quanto è il quotidiano che sin da bambina ho letto e che rispecchia la realtà in cui sono cresciuta: quella partenopea. Dal 1892 grazie all' ingegno e l'impegno di Matilde Serao ed Edoardo Scarfoglio anche la nostra città ha un giornale che racconta nel bene e nel male delle vicissitudini di quella che da sempre è la più bella città al mondo e della quale la stessa Serao era innamorata, tanto da dedicarle due importanti romanzi il Ventre di Napoli e il Paese di Cuccagna.                      





















Matilde Serao

Nata a Patrasso nel 1856 dall'avvocato Francesco, esule da Napoli, e da Paolina Borely di famiglia greca; venne a Napoli appena la caduta dei Borbone sembrò imminente. Fino ad otto anni non seppe  leggere né scrivere, finché la madre pazientemente non le fece scuola, mandandola poi al Pimentel Fonseca dove si diplomò nel 1874 e subito concorse per un impiego di telegrafista nelle Poste. Qui resta per quattro anni ad ottanta lire al mese battendo i telegrammi sull'apparecchio Morse. Scrive col nome di 'Tuffolina ' (una statuina che aveva visto con questo titolo, una bagnante in atto di tuffarsi, come lei che si accingeva al pelago della letteratura)una novellina nel ' Piccolo ' di De Zerbi : ' Una viola '. Poi sul ' Corriere del Mattino ', e il racconto ' Opale ' che piace. Va a Roma e collabora al 'Capitan Fracassa ' dove conosce Scarfoglio che sposa nel 1885, incinta di una bambina mòrtale in grembo; poi verranno ' i quattro moschettieri ' (Antonio detto Toto, i gemelli Carlo e Paolo e Michele). Una figlia, lasciato Scarfoglio, l'avrà dall'avvocato Natale, che però non sposerà, nemmeno rimasta vedova, e la chiamò Leonora come la sua grande amica Duse. Nessuno la descrisse bella, né fece nulla per abbellirsi, con la sua mole presto dilagata, ornandosi di buffi cappelli, scherzando sulla sua mancanza di femminilità; ma era profondamente femminile e appassionata, gelosa di suo marito, amorosissima e severa al tempo stesso coi figli, madre affettuosa anche della piccola figlia di Scarfoglio e della attrice Bressard, che, dopo aver lasciato sull'uscio della loro casa la bambina, si suicidò. Nei ritratti da giovanissima, molto più magra di come presto diventò, ha una sua bellezza fiera, il bell'ovale, gli occhi grandi e una franchezza d'espressione e di linguaggio, una risata schietta e, subito dopo, parole profonde, acute, amare, che nessuno dimenticò mai. Ogni battaglia, ogni giorno, ogni ora di lavoro ella divise con Scarfoglio, mentre con miracolosa energia trovava tempo per migliaia di pagine, per centinaia di novelle, per i Mosconi quotidiani.
Appena sposatasi fondò, col marito, un giornale  il ' Corriere di Roma ' che si trovò in gravi indebitamenti  l'anno dopo. Il destino fa incontrare loro il banchiere livornese Matteo Schilizzi, uomo di favolosa ricchezza che viveva a Napoli per questioni di clima e che finanziava il ' Corriere del Mattino ' diretto da Martino Cafiero. Il mecenate propose loro di tornare a Napoli per collaborare al suo giornale; così fu, e in pochi mesi Cafiero fu liquidato, le due testate si fusero e il 1 gennaio 1888 usciva il nuovo ' Corriere di Napoli '. Il giornale pubblica a puntate ' L'innocente ' di D'Annunzio che era stato rifiutato dall'editore Treves perché ritenuto scandaloso; ciò fece subito la fortuna del giornale.  Ma l'accordo con Schilizzi durò poco, nel febbraio del 1892 gli Scarfoglio lasciano il giornale con 86.000 lire di liquidazione; due mesi dopo esce ' Il Mattino '.
L'ambiente di Napoli era, in quel finire del secolo, tra i più fervidi, ricchi di cultura e di arte ma anche tra i più turbolenti e socialmente sconquassati, tra la miseria della plebe e il persistente disinteresse delle classi agiate; fossero aristocratici, latifondisti, legittimisti e nostalgici dei Borbone o vicini ai Savoia, ma alieni dal partecipare ai rischi dell'imprenditoria; un magma difficile a spiegarsi e che cercò di sintetizzare la stessa Serao nel ' Paese di cuccagna '.
Nel 1903 la Serao lascia Scarfoglio e ' Il Mattino ' e comincia una nuova vita; ha già conosciuto Natale, che le sarà compagno fedele, con lui ha deciso di fare un giornale che sarà tutto suo. Fonda  nel 1904 ' Il Giorno ', espressione della mentalità e della cultura della borghesia e di piccoli produttori che lo sostengono. Pur tra oscillazioni ideologiche e correzioni di tiro ' Il Giorno ' svolge una funzione di controllo della realtà politica e sociale di Napoli, sulla quale Matilde Serao interviene con la consueta appassionata partecipazione e causticità, esaltando lo spirito di libertà che deve animare la vita di un giornale. In quest'ottica non le è difficile, consumata nel 1921 la scissione di Livorno, appoggiare i socialisti per favorirne l'ingresso al governo centrale e nelle amministrazioni locali. Ed è solo ' Il Giorno ' insieme a ' Il Mondo ' di Amendola a individuare subito dopo la pericolosità del governo fascista e il rischio che ne deriva anche per la libertà di stampa. E' uno degli ultimi atti di libertà del giornale. Serao, mediatrice di se stessa con i piccoli produttori che sovvenzionano il suo quotidiano, deve ammorbidire la polemica con il governo; ma sono ormai gli ultimi anni della sua vita. Morirà nel 1927. Lasciò una quarantina di opere narrative, a cui non è estranea l'influenza dei francesi da Zola a Bourget, raccolte di novelle, articoli e romanzi. Ricordiamo, oltre a ' Il paese di cuccagna ' già citato, ' Addio amore ', ' Il ventre di Napoli ', ' Suor Giovanna della Croce ', ' Piccole anime ', 'Fantasia'
e ' La conquista di Roma '.

Ventre di Napoli       

Fine '800: vi è una duplice immagine del Mezzogiorno, quella ufficiale, riconducibile agli atti parlamentari, secondo cui il Sud si trova in una situazione di arretratezza, ma non così grave da ipotizzare interventi speciali; e quella della stampa nazionale: Corriere della Sera, Il Secolo, La Lombardia imputano l'arretratezza del Mezzogiorno al disinteresse del Governo ed alla negligenza dei meridionali. Ben diverso l'atteggiamento de "L'Italia del popolo" e della "Gazzetta di Venezia", che consideravano il Sud causa di una vessazione tributaria del Governo verso il Nord Italia.

Sosteneva F. Macola, direttore della Gazzetta di Venezia di  non credere alla grande miseria del Sud descritta da altri giornali; inoltre, secondo il direttore, in alcune parti del Mezzogiorno, come in Sicilia, la situazione era grave, ma i problemi non dipendevano dall'efficacia o meno dei provvedimenti governativi. In alcuni casi, continuava Macola, la classe dirigente e i proprietari terrieri meridionali erano indifferenti alle problematiche locali; in altri invece l'amministrazione locale era gestita dai proprietari e dalle "camarille locali", che salvaguardavano unicamente i propri interessi. Dunque le accuse dei deputati meridionali al Governo, secondo Macola, erano infondate, anzi il Governo aveva già fatto troppo per il Sud, mentre "il siciliano non fa nulla", è "ingovernabile" e "barbaro". La Gazzetta di Venezia scrisse che la sua intenzione non era quella di mettere in discussione l'unità, ma quella di ottenere una confederazione, mettendo in evidenza una forte diversità fra le Regioni italiane, ognuna con interessi ed esigenze diverse. Sostenne che era una "questione di equità" : "I prelodati fratelli meridionali" avevano sempre pagato meno tasse rispetto ai settentrionali, pur ricevendo molti più finanziamenti ed esenzioni dal Governo.

Cosa vi ricorda?A difendere il Mezzogiorno si levò la voce di Edoardo Scarfoglio, fondatore de "Il Mattino". Questi pur difendendo il Sud dalle deplorevoli accuse dei giornali settentrionali - Napoli che tanti sacrifizi ha fatto per l'unità, Napoli che nel 1860 si è gettata nelle braccia del Nord [] ha poco per volta subito nella attuazione dell' unità italiana quelle disillusioni []. Ai suoi sacrifizi, alle sue calorose manifestazioni di sentimenti patriottici, alla sua abnegazione completa per 1' ideale patriottico, il governo d' Italia ha risposto con una grandinata di tasse che da trentasette anni non cessa d' incalzare(da Il Mattino 24 novembre 1897) - mise in evidenza sul suo giornale l'arretratezza dei meridionali.Ma soprattutto vi fu tutta una schiera di intellettuali napoletani che cercò di guardare al di là della Napoli da cartolina. Tra questi Matilde Serao che nelle sue opere percorse molteplici viaggi nella realtà napoletana, tra bassifondi, viottoli e "botteghe oscure".

Ed è proprio grazie alla giornalista scrittrice che si arriva a superare il luogo comune della Napoli "sole pizza e mandolino"."In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v'è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell'olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio".Una Napoli come  città-organismo. Pare quasi un delirio cyberpunk. Strade che trasudano melma, fonti che trasportano solo luridume come il "Lavinaio, che è il grande ruscello, dove il luridume viene a detergersi superficialmente". Vicoli come viscere di un cadavere sorridente e abbellito dal belletto.Ma la Serao coglie l'occasione per mettere in evidenza che "la gente che abita in questi quattro quartieri popolari, senz'aria, senza luce, senza igiene, diguazzando nei ruscelli neri, scavalcando monti d'immondizie, respirando miasmi e bevendo un'acqua corrotta, non è una gente bestiale, selvaggia, oziosa; non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella sventura".Si tratta non di creature immagine di un mondo immondo: "Abita laggiù, per forza. È la miseria sua, costituzionale, organica, così intensa, così profonda, che cento Opere Pie non arrivano a debellare, che la carità privata, fluidissima, non arriva a vincere; non la miseria dell'ozioso, badate bene, ma la miseria di colui che fatica quattordici ore al giorno".Insomma la Serao ha voluto mettere in evidenza lo stato di abbandono di un popolo per cui nessuno: "ha fatto nulla[.]. Quali ammaestramenti, quali parole, quali esempi, si è pensato di dare a questa gente così espansiva, così facile a conquidere, così naturalmente entusiasta? In verità, dalla miseria profonda della sua vita reale, essa non ha avuto altro conforto che nelle illusioni della propria fantasia: e altro rifugio che in Dio".




Il Paese di Cuccagna

Pubblicato per la prima volta nel 1890 a puntate sul quotidiano «Il Mattino» di Napoli, Il paese di cuccagna di Matilde Serao (1856-1927) apparve un anno dopo in volume presso l'editore Treves di Milano. Il talento di osservatrice appassionata che aveva caratterizzato la potente inchiesta Il ventre di Napoli (1884) viene qui applicato ad un aspetto particolarmente sentito nella realtà partenopea dell'epoca: il gioco del lotto.



Nato a Genova nella seconda metà del Cinquecento e ufficialmente introdotto a Napoli nel 1682, il lotto, si era profondamente radicato in città, suscitando entusiasmo e speranze, specie tra i più poveri. Il miraggio di un facile arricchimento che permettesse di approdare al 'Paese di Cuccagna' superando d'un tratto le pene e le angosce di una vita di stenti era alla base della notorietà di questo gioco, il cui fascino era legato anche alle suggestioni cabalistiche a cui dava adito. Significativa a questo proposito la figura del cosiddetto 'assistito', che non poteva giocare personalmente i numeri che emergevano dai suoi sogni ma poteva comunicarli ad estranei; tale ruolo è rivestito nel romanzo dall'inquietante don Pasqualino, attorniato da «tutti coloro che credevano in lui e nelle sue visioni».




Il romanzo della Serao è una denuncia del gioco del lotto e dei suoi effetti devastanti su tutte le componenti della società napoletana. Già ne Il ventre di Napoli l'autrice aveva scritto : «Ma non credete che il male rimanga nelle classi popolari. No, no, esso ascende, assale le classi medie, s'intromette in tutte le borghesie, in tutti i commerci, arriva fino all'aristocrazia. Dove vi è un vero bisogno tenuto segreto, dove vi è uno spostamento che nulla vale a riequilibrare, dove vi è una rovina finanziaria celata ma imminente ivi il giuoco del lotto prende possesso, domina» E aveva aggiunto : «Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l'acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l'acquavite di Napoli».


Ma Il paese di cuccagna non è solo un romanzo sul lotto, né potrebbe esserlo. Alla tesi della rovina materiale e morale come conseguenza del gioco, esemplificata nei vari casi umani presenti nella narrazione, si affiancano infatti altri temi che emergono grazie a potenti descrizioni dal vero e che rendono il romanzo estremamente interessante anche per il suo carattere di documento: basti pensare al capitolo dedicato al miracolo di San Gennaro e al modo in cui viene vissuto dal popolo napoletano, alla descrizione del Carnevale o a quella della festa di battesimo in casa del pasticciere Fragalà con la minuziosa descrizione dei numerosi dolci tipici offerti agli invitati.


Lo sguardo della Serao, mai superficiale, si sofferma su ambienti, personaggi ed eventi senza scadere nel bozzettismo e nel 'pittoresco', con una barocca abbondanza di particolari a volte sbalorditiva. Ma se l'adesione alla vita reale ci riporta al clima del Naturalismo (e Verga solo due anni prima aveva pubblicato il suo Mastro don Gesualdo), non è possibile parlare però di uno sguardo impersonale: la prorompente personalità dell'autrice si afferma infatti in quella costante, amara ed appassionata volontà di denuncia che aveva già contraddistinto Il ventre di Napoli.


E appare significativo il giudizio espresso da Pietro Pancrazi nella sua introduzione a Serao, volume I in Romanzi e racconti italiani dell'Ottocento (Milano, 1944):


«Tra cent'anni, quando non si sapesse più nulla di Napoli, questo libro basterebbe a resuscitarla».




ILPRIMO GOVERNO GIOLITTI

E LO SCANDALO DELLA BANCA ROMANA

Nel 1892, a causa dei forti contrasti insorti tra i ministri per i tagli da fare ai bilanci dei rispettivi dicasteri, di Rudini fu costretto a lasciare la presidenza che passò al piemontese Giovanni Giolitti. Era un uomo 'nuovo', privo cioè di particolari benemerenze risorgimentali, ma dotato di un profondo senso dello Stato: per Giolitti era un preciso dovere di difendere contro ogni pericolo di sovversione l'ordine costituito che faceva capo alla monarchia, ma allo stesso tempo era doveroso anche comprendere e risolvere per quanto possibile i complessi problemi che agitavano il mondo dei lavoratori e delle masse popolari. Avendo osservato attentamente il fenomeno socialista e i progressi da esso fatti nel Paese, egli ne condannava in blocco le spinte rivoluzionarie, pur avvertendo l'esigenza di combattere senza fare ricorso alla repressione (stile Crispi), mentre apprezzava le 'correnti gradualiste' e sperava addirittura di riuscire ad incanalarle verso soluzioni riformistiche nel quadro di una politica democratica e socialmente avanzata, senza per questo venire meno al dovuto rispetto verso le istituzioni vigenti.

Il primato della mediazione politica, una concezione rigorosa della finanza in cui il principio di pareggio si univa all'esigenza dell'equità, il rifiuto della politica di potenza come essenza dello stato ne facevano un politico realista e insieme aperto alle istanze sociali. In contrapposizione a quella che egli definì 'la politica imperiale', fondata sul rafforzamento dell'esercito e della marina a spese delle maggiori risorse del paese, lo statista piemontese proponeva un modello di 'politica democratica' orientata a rassicurare il benessere al maggior numero di cittadini, a favorire l'istruzione pubblica, l'industria, l'agricoltura, a ridurre al massimo i pubblici pesi e a provvedere alla classe lavoratrice, garantendone la libertà.

Preoccupato anch'egli per le gravi difficoltà economiche nelle quali si trovava allora il Paese, Giolitti già dal suo insediamento non nascose di non volersi impegnare per risolvere la delicata situazione dell'Africa orientale.

D'altra parte i problemi nei quali l'Italia si dibatteva, non erano né pochi né lievi, specie nel Meridione, dove la crisi politico-economica del periodo crispino si era fatta sentire più che altrove e dove un diffuso malcontento aveva finito per assumere qua e là aspetti di grave insofferenza.

In particolare, tra il 1892 e il 1893, nella Sicilia occidentale si ebbero manifestazioni di aperta protesta ad opera soprattutto di contadini, braccianti, piccoli imprenditori e lavoratori dello zolfo, i quali, organizzatisi spontaneamente nei cosiddetti fasci dei lavoratori, esigevano attraverso violente agitazioni condizioni di vita e di lavoro più umane e più giuste.

A differenza di gran parte della classe politica che vedeva nel movimento di massa in atto una vera e propria rivolta ispirata dalle forze di sinistra, Giolitti ne individuò l'origine nel peso insopportabile della miseria: ecco perché egli decise di non intervenire con la forza e quindi di non procedere con una repressione sanguinosa, anche per non pregiudicare la politica di accostamento al Partito Socialista, al quale egli stesso aveva permesso di tenere nel 1892 il suo congresso di fondazione (poi sciolto al ritorno di Crispi).

Lo scontro tra Giolitti e le forze agrarie e conservatrici fu inevitabile. Fortissime a corte, esse esigevano a gran voce lo stato d'assedio e consideravano decisamente negativo l'atteggiamento giolittiano di fronte a manifestazioni da ritenersi illegali. Né di minore entità furono le critiche al progetto ministeriale di una riforma tributaria basata sull'imposta progressiva sul reddito, che avrebbe colpito gli interessi delle classi agiate.

Ce n'era abbastanza per costringere il neo-presidente del Consiglio a dimettersi. A rendere precaria la posizione di Giolitti contribuirono comunque altri due fatti: in primo luogo l'ondata di indignazione che colpì il Paese in seguito all'eccidio compiuto per odi nazionalistici e concorrenza nel lavoro ad Aigues-Mortes in Francia e risoltosi con la morte di più di 30 operai italiani e il ferimento di altri cento; in secondo luogo lo scandalo della Banca Romana, accusata di pesanti irregolarità in quanto riguardava l'emissione di moneta e di interessato favoreggiamento verso alcuni uomini politici.

Nella sua essenza lo scandalo consistette in alcune gravi regolarità di gestione compiute dall'autorevole Istituto finanziario. Un accurato controllo da parte di una commissione governativa istituita dallo stesso Giolitti il 30 febbraio 1892 dopo la pubblica denuncia avanzata sul caso dal deputato repubblicano Napoleone Colajanni, rimarcò infatti un forte ammanco di cassa per ben 9 milioni di lire, oltre ad una eccedenza di emissione di moneta rispetto al limite previsto di 60 milioni, nonché la stampa di altri 40 milioni di banconote mascherate dietro una duplicazione dei numeri di serie, e perciò solo virtualmente 'false': tale somma risultò  tuttavia non essere mai stata messa in circolazione per l'opposizione di alcuni impiegati superiori della banca stessa, che li avevano fatti bruciare (ma il numero di serie non fu mai comunicato agli italiani). (E il capo cassiere si suicidò).

La commissione inoltre rilevò un'ingente quantità di 'cambiali in sofferenza' praticamente inesigibili, che bloccavano gran parte delle possibilità dell'istituto di investire denaro nello sviluppo economico del Paese e che erano il risultato di un impiego di consistenti somme in operazioni di interesse privato. Risultò inoltre che erano stati concessi mutui consistenti a imprenditori legati alla speculazione edilizia a Roma e nello stesso tempo accertate chiare responsabilità sulla pessima gestione della banca da parte di alcuni esponenti della politica.
Travolto dallo scandalo, Giolitti fu costretto a dimettersi nel novembre 1893.



Lo scandalo della BANCA ROMANA

Nel 1888 la mancanza di denaro liquido, dovuta a imprudenti speculazioni, portò sull'orlo del collasso gli istituti bancari torinesi, salvati in extremis dall'intervento governativo. Vistose irregolarità e vere e proprie falsificazioni, operate con la duplicazione dei biglietti in circolazione coinvolsero anche le banche di emissione, autorizzate dallo Stato a stampare banconote. Il caso più clamoroso in questo senso fu lo scandalo della Banca romana (ex Banca dello Stato Pontificio), che portò alla caduta del governo Giolitti alla fine del 1893. (vedi sotto)

Nello stesso anno crollò il Credito mobiliare, seguito a breve distanza dalla Banca generale. Conseguenza di questo stato di caos finanziario fu il riordinamento del sistema di emissione, avviato da Giovanni Giolitti con l'istituzione della Banca d'Italia (agosto 1893), alla quale fu assegnata una funzione preminente nell'emissione monetaria (fino al 1926 una limitata facoltà in questo senso fu lasciata anche al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia).

Dal 1894 la Banca d'Italia svolse il servizio di tesoreria dello Stato in tutto il Regno e fra il 1900 e il 1930 assunse i compiti di guida e di controllo del sistema creditizio tipici delle banche centrali dei paesi più progrediti, divenendo un importante elemento di stabilità nell'economia nazionale. Sul modello delle banche 'miste' tedesche, che esercitavano sia il credito commerciale sia quello industriale e svolgevano un'opera di coordinamento tra le industrie e le banche locali, furono inoltre fondati a Milano la Banca commerciale italiana (1894) e il Credito Italiano (1895)

LO SCANDALO

Nel 1892 la Banca Romana, quella che nel passato era la Banca dello Stato Pontificio, era uno dei sei istituti autorizzati ad emettere biglietti a corso legale sui quali era fondato il sistema bancario italiano (altri Istituti di emissione erano: la Banca Nazionale del Regno d'Italia, la Banca Nazionale Toscana, il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia) fu tra le prime ad approfittare dell'ondata di speculazione edilizia che attraversò Roma e altre città d'Italia tra il 1889 e il 1893.

A causa dei crediti eccessivi concessi all'industria edile della capitale la circolazione cartacea prodotta dalla Banca superò di 65 milioni il limite legale. Buona parte della circolazione eccedente (incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia) fu utilizzata per prestiti politici a deputati e ministri, tra i quali Crispi e Giolitti.

La commissione d'inchiesta nominata nel 1889, quando i primi fallimenti bancari di quell'anno lasciarono trapelare l'eccedenza della circolazione, attirò l'attenzione su questa e altre irregolarità (tra le altre fu accertato un ammanco di cassa pari a 9.000.000 di lire, coperto abusivamente mediante l'emissione di biglietti a vuoto). I risultati dell'inchiesta, che Crispi e Giolitti avevano voluto mantenere segreti adducendo la preoccupazione per eventuali gravi contraccolpi nel sistema creditizio, furono resi pubblici nel dicembre del 1892. La successiva inchiesta amministrativa condotta nel gennaio del 1893 portò all'arresto di autorevoli personaggi. Si concluse nel luglio 1894 con la clamorosa assoluzione degli imputati; i giudici per non coinvolgere figure di spicco del mondo politico, tra le quali Crispi, affermarono che nel corso dell'inchiesta erano stati sottratti documenti importanti.



Gabriele D'Annunzio: brevi cenni biografici

Amando definire «inimitabile» la sua vita, Gabriele D'Annunzio costruisce intorno a sé il mito di una vita come un'opera d'arte.


Gabriele D'Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese, che vive grazie alla ricca eredità dello zio Antonio D'Annunzio. Compie gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato, distinguendosi sia per la sua condotta indisciplinata che per il suo accanimento nello studio unito ad una forte smania di primeggiare. Già negli anni di collegio, con la sua prima raccolta poetica Primo vere, pubblicata a spese del padre, ottiene un precoce successo, in seguito al quale inizia a collaborare ai giornali letterari dell'epoca. Nel 1881, iscrittosi alla facoltà di Lettere, si trasferisce a Roma, dove, senza portare a termine gli studi universitari, conduce una vita sontuosa, ricca di amori e avventure. In breve tempo, collaborando a diversi periodici, sfruttando il mercato librario e giornalistico e orchestrando intorno alle sue opere spettacolari iniziative pubblicitarie, il giovane D'Annunzio diviene figura di primo piano della vita culturale e mondana romana.



Dopo il successo di Canto novo e di Terra vergine (1882), nel 1883 hanno grande risonanza la fuga e il matrimonio con la duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nasceranno tre figli, ma che, a causa dei suoi continui tradimenti, durerà solo fino al 1890. Compone i versi l'Intermezzo di rime ('83), la cui «inverecondia» scatena un'accesa polemica; mentre nel 1886 esce la raccolta Isaotta Guttadàuro ed altre poesie, poi divisa in due parti L'Isottèo e La Chimera (1890).


Ricco di risvolti autobiografici è il suo primo romanzo Il piacere (1889), che si colloca al vertice di questa mondana ed estetizzante giovinezza romana. Nel 1891 assediato dai creditori si allontana da Roma e si trasferisce insieme all'amico pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove, collaborando ai giornali locali trascorre due anni di «splendida miseria». La principessa Maria Gravina Cruyllas abbandona il marito e va a vivere con il poeta, dal quale ha una figlia. Alla fine del 1893 D'Annunzio è costretto a lasciare, a causa delle difficoltà economiche, anche Napoli.


Ritorna, con la Gravina e la figlioletta, in Abruzzo, ospite ancora del Michetti. Nel 1894 pubblica, dopo le raccolte poetiche Le elegie romane ('92) e Il poema paradisiaco ('93) e dopo i romanzi Giovanni Episcopo ('91) e L'innocente ('92), il suo nuovo romanzo Il trionfo della morte. I suoi testi inoltre cominciano a circolare anche fuori dall'Italia.


Nel 1895 esce La vergine delle rocce, il romanzo in cui si affaccia la teoria del superuomo e che dominerà tutta la sua produzione successiva. Inizia una relazione con l'attrice Eleonora Duse, descritta successivamente nel romanzo «veneziano» Il Fuoco (1900); e avvia una fitta produzione teatrale: Sogno d'un mattino di primavera ('97), Sogno d'un tramonto d'autunno, La città morta ('98), La Gioconda ('99), Francesca da Rimini (1901), La figlia di Jorio (1903).


Nel '97 viene eletto deputato, ma nel 1900, opponendosi al ministero Pelloux, abbandona la destra e si unisce all'estrema sinistra (in seguito non verrà più rieletto). Nel '98 mette fine al suo legame con la Gravina, da cui ha avuto un altro figlio. Si stabilisce a Settignano, nei pressi di Firenze, nella villa detta La Capponcina, dove vive lussuosamente prima assieme alla Duse, poi con il suo nuovo amore Alessandra di Rudinì. Intanto escono Le novelle della Pescara (1902) e i primi tre libri delle Laudi: Maia, Elettra, Alcyone (1903).


Il 1906 è l'anno dell'amore per la contessa Giuseppina Mancini. Nel 1910 pubblica il romanzo Forse che sì, forse che no, e per sfuggire ai creditori, convinto dalla nuova amante Nathalie de Goloubeff, si rifugia in Francia.


Vive allora tra Parigi e una villa nelle Lande, ad Arcachon, partecipando alla vita mondana della belle époque internazionale. Compone opere in francese; al «Corriere della Sera» fa pervenire le prose Le faville del maglio; scrive la tragedia lirica La Parisina, musicata da Mascagni, e anche sceneggiature cinematografiche, come quella per il film Cabiria (1914).


Nel 1912, a celebrazione della guerra in Libia, esce il quarto libro delle Laudi (Merope. il quinto, Asterope, sarà completato nel 1918 e i restanti due, sebbene annunciati, non usciranno mai). Nel 1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale, torna in Italia. Riacquista un ruolo di primo piano, tenendo accesi discorsi interventistici e, traducendo nella realtà il mito letterario di una vita inimitabile, partecipa a varie e ardite imprese belliche, ampiamente autocelebrate. Durante un incidente aereo viene ferito ad un occhio. A Venezia, costretto a una lunga convalescenza, scrive il Notturno, edito nel 1921.


Nonostante la perdita dell'occhio destro, diviene eroe nazionale partecipando a celebri imprese, quali la beffa di Buccari e il volo nel cielo di Vienna. Alla fine della guerra, conducendo una violenta battaglia per l'annessione all'Italia dell'Istria e della Dalmazia, alla testa di un gruppo di legionari nel 1919 marcia su Fiume e occupa la città, instaurandovi una singolare repubblica, la Reggenza italiana del Carnaro, che il governo Giolitti farà cadere nel 1920. Negli anni dell'avvento del Fascismo, nutrendo una certa diffidenza verso Mussolini e il suo partito, si ritira, celebrato come eroe nazionale, presso Gardone, sul lago di Garda, nella villa di Cargnacco, trasformato poi nel museo-mausoleo del Vittoriale degli Italiani. Qui, pressoché in solitudine, nonostante gli onori tributatigli dal regime, raccogliendo le reliquie della sua gloriosa vita, il vecchio esteta trascorre una malinconica vecchiaia sino alla morte avvenuta il primo marzo 1938.



Gabriele D'Annunzio, L'innocente .

Un matrimonio di fine Ottocento, una coppia di ricchi possidenti

terrieri, belli e colti.

Lui, Tullio Hermil, raffinato intellettuale dotato di un temperamento volubile e passionale. Dissoluto e spregiudicato, adducendo semplicistiche ed egoistiche giustificazioni, si macchia di numerose colpe presso la moglie Giuliana (da cui ha avuto due figlie), tradendola ripetutamente con bellissime donne conosciute e frequentate nei salotti romani. Incapace di resistere alle innumerevoli tentazioni carnali che la vita altolocata gli propone, dimentico dell'antica passione che anni prima lo ha legato a Giuliana, Tullio conduce una vita fatta di voluttà incontrollate, con triste e rassegnata consapevolezza della moglie, senza mai nasconderle la verità, credendo così di diminuire la propria colpa.

Lei, Giuliana, donna sensibile e raffinata, intelligente e colta, dissimula la straziante tristezza provocatale dalle continue mancanze del marito, trascorrendo le proprie giornate in compagnia delle due figlie e della madre di Tullio, donna saggia e buona che nutre per lei un affetto quasi materno.

Il divario tra i due personaggi appare al lettore lampante; Tullio incarna ciò che di più sensuale e quasi crudele possa appartenere alla natura umana; è consapevole di nuocere alla moglie e ne trae però quasi un sadico godimento, il suo egoismo lo conduce spesso a giustificare con la propria superiorità intellettuale la libertà dei propri costumi: 'Io credevo che per me potesse tradursi n realtà il sogno di tutti gli uomini intellettuali: essere costantemente infedele ad una donna costantemente fedele'.

Affascinante e deplorevole allo stesso tempo, la sua insensibilità nei confronti della moglie fedele e sofferente suscita un'indignazione mista a biasimo, ma risulta impossibile non rimanere impigliati nell'intrigante rete dei suoi pensieri così contorti, sempre diversi; all'interno della sua mente si alternano personalità sempre nuove, spesso opposte: 'Silenziose onde di sangue e d'idee facevano fiorire sul fondo stabile del suo essere, a gradi o a un tratto, anime nuove. Egli era multanime'.

Giuliana invece, così dignitosa ed equilibrata anche nell'atroce sofferenza, rappresenta la purezza e la genuinità; nonostante le continue umiliazioni inflittele dal marito, non serba nei suoi confronti alcun rancore, ma soltanto un amore inesauribile. Di salute cagionevole, si lascia illudere da un apparente riavvicinamento da parte dell'adorato marito che, in un impeto di passione restaurata, torna tra le sue braccia, sempre fedele e sempre pronta ad accoglierlo. Proprio la delusione derivata dall'ennesima fuga di Tullio in compagnia della conturbante amante Teresa Raffo, causa un ulteriore allontanamento della coppia, già tormentata; Giuliana, 'turris eburnea', donna inattaccabile ed inespugnabile nella sua fedeltà coniugale, cede alle lusinghe del giovane scrittore Filippo Arborio e, dall'unico e fugace convegno amoroso tra i due, rimane incinta ('T'amo, t'ho amato sempre, sono stata sempre tua, sconto con questo inferno un minuto di debolezza, intendi? Un minuto di debolezza').

In Tullio, il sospetto che la moglie abbia potuto cedere alle attenzioni di un altro diviene un tarlo, un tormento; la gelosia carnale e la consapevolezza di poter perdere colei di cui ha sempre data per certa la presenza, lo gettano dapprima nello sconforto più buio, poi lo spingono a quel riavvicinamento un tempo tanto atteso da Giuliana, ma che, ora che lei porta dentro di sé il frutto del tradimento, coincide con un nuovo e più atroce supplizio.

Col tempo i segni della 'cosa tremenda', 'dell'intruso' cominciano a palesarsi nel ventre e nel corpo di Giuliana, provocando il giubilo dei parenti ignari della verità ed entusiasti per la nascita di quello che potrebbe essere il tanto sospirato erede maschio, insieme alla rabbia e al rancore di Tullio. Tra i due sposi è nata una sorta di diabolica complicità; assetati della passione per tanto tempo dimenticata, ansiosi di poter finalmente ricongiungersi nella felicità coniugale di un tempo, la nascita del frutto dell'adulterio di Giuliana costituisce per entrambi un ostacolo insormontabile, un incubo che aumenta con l'ingrossarsi di giorno in giorno del grembo della madre. L'innocente che aspetta di venire alla luce è oggetto d'odio sia da parte di Tullio, che lo considera la prova vivente dell'affronto subito dalla moglie, sia della stessa Giuliana, che, assolutamente priva di qualsiasi affetto materno (e questa è davvero la nota più crudele di tutta la complicata situazione) vive la gravidanza come punizione divina per il cedimento tanto rimpianto.



Passerà un anno intero prima che Tullio si decida a confessare il delitto. Non lo farà però davanti ad un giudice ma riempiendo la pagina bianca con la confessione che diventerà 'L'Innocente'. Il secondo romanzo dannunziano esce nel 1892, a quattro anni di distanza dal fortunato esordio de Il Piacere. L'Innocente fu accolto in Italia con scarso interesse da parte del pubblico e della critica. Al contrario, vasto ed inaspettato, fu il clamore che raccolse in tutta Europa ed in particolare in Francia, dove però l'interesse per L'Intrus sollevò anche parecchie polemiche per le accuse di plagio che accompagnarono il romanzo di d'Annunzio.

L'Innocente segna una svolta importante nella produzione dannunziana. Il distacco dagli schemi che avevano accompagnato la stesura del primo romanzo è evidente. È principalmente l'influenza della narrativa russa ad operare questa svolta. Il cosiddetto romanzo alla slava stava infatti riscuotendo uno straordinario successo in tutta Europa, successo che non poteva sfuggire ad un attento osservatore delle mode e delle tendenze letterarie e non solo come D'Annunzio. Sarà dunque la lettura di Dostoevskij e Tolstoj a guidare la nascita del secondo romanzo dannunziano.

Nell'opera di D'Annunzio si fondono infatti i temi più importanti della narrativa russa, dal bisogno esplicito di riconquistare una perduta fratellanza universale alla spietata analisi psicologica di una personalità instabile. Evidenti risultano dunque i punti di contatto con romanzi come Delitto e castigo o I fratelli Karamàzov. D'Annunzio in questo romanzo, memore anche della lezione dei naturalisti francesi, tenterà, con successo, di conciliare questa tendenza con la volontà di osservare dal vero. Per raggiungere questo obiettivo risulteranno fondamentali gli approfonditi studi svolti dall'autore con l'aiuto di trattati di fisiologia e medicina.

Ancora una volta, come già accaduto nel romanzo d'esordio, ne L'innocente, l'autore fonde la propria esperienza personale con l'intreccio romanzesco. Come già sottolineato a proposito di Tullio e del suo rivale Filippo Arborio, anche nella protagonista femminile, Giuliana, ritroviamo diverse caratteristiche delle donne amate da D'Annunzio negli anni in cui il romanzo vedeva la luce. La moglie, Maria di Gallese, e l'amante dell'epoca, Barbara Leoni, forniranno infatti gli elementi principali per costruire il personaggio di Giuliana.

Tullio Hermil è in tutto e per tutto un "eroe" dannunziano. Esteta cinico e spietato, seppur combattuto interiormente, si compiace della propria potenza, della possibilità di intervenire nel mondo per plasmarlo e modificarlo senza doverne pagare le conseguenze. Le stesse motivazioni che Tullio adduce per giustificare la propria tardiva confessione rientrano in questo quadro. Egli infatti in una perfetta impostazione superomistica si pone al di sopra della legge stessa, che non potrebbe mai giudicarlo correttamente. Già nelle poche righe dell'introduzione si palesano dunque i caratteri di questo antieroe dannunziano. Tullio Hermil si pone come una tappa fondamentale nell'evoluzione dei personaggi di D'Annunzio, da Andrea Sperelli, protagonista de Il piacere, a Giorgio Aurispa e Claudio Cantelmo, "eroi" rispettivamente de Il trionfo della morte e de Le Vergini delle rocce. Tullio, rispetto al protagonista del romanzo d'esordio, è uomo più maturo e, per questo, ancora più freddo e cinico ma anche più riflessivo.

Non solo nel carattere del protagonista e nelle influenze letterarie è evidente l'evoluzione nella poetica dell'autore. Anche lo stile risulta più asciutto, il tono è più dimesso, mentre l'intreccio stesso risulta depurato da alcune inserti descrittivi che avevano impreziosito ma anche appesantito Il Piacere. La stessa parola è più libera ed assume una nuova musicalità. Come già nel romanzo d'esordio, anche ne L'Innocente, l'intreccio non è molto approfondito, anche se affiora la volontà dell'autore di scrivere una storia accattivante.

Nel complesso L'Innocente si rivela un romanzo pienamente inserito nella scena letteraria europea di fine Ottocento, ed ancor' oggi risulta fondamentale per comprendere l'evoluzione di un autore come d'Annunzio che ha tanto influenzato la vita politica, sociale e letteraria italiana nel primo quarto dello scorso secolo.


Beati immaculati


Andare davanti al giudice, dirgli: 'Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l'avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l'ho uccisa. Ho premeditato l'assassinio, nella mia casa. L'ho compiuto con una perfetta lucidità di conscienza, esattamente, nella massima sicurezza. Poi ho seguitato a vivere col mio segreto nella mia casa, un anno intero, fino ad oggi. Oggi è l'anniversario. Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi'. Posso andare davanti al giudice, posso parlargli così?

Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi.

Eppure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi. Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno.

A CHI?



Il primo ricordo è questo.

Era di aprile. Eravamo in provincia, da alcuni giorni, io e Giuliana e le nostre due bambine Maria e Natalia, per le feste di Pasqua, in casa di mia madre, in una grande e vecchia casa di campagna, detta La Badiola. Correva il settimo anno dal matrimonio.

Ed erano già corsi tre anni da un'altra Pasqua che veramente m'era parsa una festa di perdono, di pace e d'amore, in quella villa bianca e solinga come un monasterio, profumata di violacciocche; quando Natalia, la seconda delle mie figliuole, tentava i primi passi, uscita allora allora dalle fasce come un fiore dall'invoglio, e Giuliana si mostrava per me piena d'indulgenza, sebbene con un sorriso un po' malinconico. Io era tornato a lei, pentito e sommesso, dopo la prima grave infedeltà. Mia madre, inconsapevole, con le sue care mani aveva posto un ramoscello d'olivo a capo del nostro letto e aveva riempita la piccola acquasantiera d'argento che pendeva dalla parete.

Ma ora, in tre anni, quante cose mutate! Tra me e Giuliana era avvenuto un distacco definitivo, irreparabile. I miei torti verso di lei s'erano andati accumulando. Io l'aveva offesa nei modi più crudeli, senza riguardo, senza ritegno, trascinato dalla mia avidità di piacere, dalla rapidità delle mie passioni, dalla curiosità del mio spirito corrotto. Ero stato l'amante di due tra le sue amiche intime. Avevo passato alcune settimane a Firenze con Teresa Raffo, imprudentemente. Avevo avuto col falso conte Raffo un duello in cui il mio disgraziato avversario s'era coperto di ridicolo, per talune circostanze bizzarre. E nessuna di queste cose era rimasta ignota a Giuliana. Ed ella aveva sofferto, ma con molta fierezza, quasi in silenzio.


C'erano stati pochissimi dialoghi tra noi, e brevi, in proposito; nei quali io non avevo mai mentito, credendo con la mia sincerità diminuire la mia colpa agli occhi di quella dolce e nobile donna che io sapevo intellettuale.

Anche sapevo che ella riconosceva la superiorità della mia intelligenza e che scusava in parte i disordini della mia vita con le teorie speciose da me esposte più d'una volta in presenza di lei a danno delle dottrine morali professate apparentemente dalla maggioranza degli uomini. La certezza di non essere giudicato da lei come un uomo comune alleggeriva nella mia conscienza il peso dei miei errori. 'Anch'ella dunque - io pensavo - comprende che, essendo io diverso dagli altri ed avendo un diverso concetto della vita, posso giustamente sottrarmi ai doveri che gli altri vorrebbero impormi, posso giustamente disprezzare l'opinione altrui e vivere nella assoluta sincerità della mia natura eletta.'

Io ero convinto di essere non pure uno spirito eletto ma uno spirito raro; e credevo che la rarità delle mie sensazioni e dei miei sentimenti nobilitasse, distinguesse qualunque mio atto. Orgoglioso e curioso di questa mia rarità, io non sapevo concepire un sacrificio, un'abnegazione di me stesso, come non sapevo rinunciare a un'espressione, a una manifestazione del mio desiderio. Ma in fondo a tutte queste mie sottigliezze non c'era se non un terribile egoismo; poiché, trascurando gli obblighi, io accettavo i benefizi del mio stato.

A poco a poco, infatti, di abuso in abuso, io era giunto a riconquistare la mia primitiva libertà col consenso di Giuliana, senza ipocrisie, senza sotterfugi, senza menzogne degradanti. Io mettevo il mio studio nell'esser leale, a qualunque costo, come altri nel fingere. Cercavo di confermare in tutte le occasioni, tra me e Giuliana, il nuovo patto di fraternità, di amicizia pura. Ella doveva essere la mia sorella, la mia migliore amica.

Una mia sorella, l'unica, Costanza, era morta a nove anni lasciandomi in cuore un rimpianto senza fine. Io pensavo spesso, con una profonda malinconia, a quella piccola anima che non aveva potuto offrirmi il tesoro della sua tenerezza, un tesoro da me sognato inesauribile. Fra tutti gli affetti umani, fra tutti gli amori della terra, quello sororale m'era sempre parso il più alto e il più consolante. Io pensavo spesso alla grande consolazione perduta, con un dolore che la irrevocabilità della morte rendeva quasi mistico.



Il superomismo in D'Annunzio e Nietzsche


Nietzsche divenne così il filosofo della crisi, il fondatore d'un modo di pensare nuovo. Profeta insieme della decadenza e della rinascita,materialista o antipositivista, esistenzialista o profeta del nazismo, il filosofo condivide tutte le ambiguità delle avanguardie intellettuali e artistiche borghesi del primo novecento e non a caso diverrà oggetto, in Italia, dell'interpretazione estetizzante di Gabriele D'Annunzio. Quanto alla sua idea del superuomo, inteso come il giusto trionfatore di una massa di deboli o schiavi, va senza dubbio corretta. Nietzsche, ma intese porre le condizioni di sviluppo d'una civiltà e di un'idea dell'uomo radicalmente rinnovate. Nietzsche è uno scrittore asistematico e estremamente originale, la cui produzione si staglia solitaria nel panorama della storia della filosofia moderna e contemporanea. Le opere della maturità, in particolare: lirismo, tono profetico e filosofia si mescolano in maniera inestricabile, rendendo spesso difficile l'interpretazione. Rimane costante nell'opera di Nietzsche un'ambiguità di fondo, un'ambiguità socio-politica che ha dato adito a contrastanti strumentalizzazioni politiche. Il filosofo, infatti, non specifica mai espressamente chi debba essere il soggetto della volontà di potenza: il superuomo. Molti critici hanno identificato il superuomo in una umanità vivente in modo libero e creativo, ma, molti altri lo hanno limitato ad un'élite che esercita la sua volontà di potenza non solo nei riguardi della caoticità del mondo, ma anche verso il prossimo. A ciò bisogna aggiungere il problema degli scritti postumi: la ricostruzione sistematica operata dalla sorella Elisabeth. L'edizione critica di tutti gli scritti di Nietzsche, a cura di due italiani, G. Colli e M. Montinari, ha restituito, però, l'integrità dei frammenti secondo un ordine cronologico e ha dimostrato come 'La volontà di potenza' pubblicata nel 1906 è un'opera profondamente manipolata e addomesticata. Gabriele D'Annunzio, nella sua fase superomistica, è profondamente influenzato dal pensiero di Nietzsche, tuttavia, molto spesso, banalizza le idee del filosofo. Dà molto rilievo al rifiuto del conformismo borghese e dei principi egualitari, all'esaltazione dello spirito 'dionisiaco', rifiuto dell'etica della pietà, dell'altruismo, all'esaltazione dello spirito della lotta e dell'affermazione di sé.Le opere superomistiche di D'Annunzio sono tutte una denuncia dei limiti della realtà borghese del nuovo stato unitario, del trionfo dei princìpi democratici ed egualitari. D'Annunzio arriva quindi a vagheggiare l'affermazione di una nuova aristocrazia che si elevi al di sopra della massa comune attraverso il culto del bello e la vita attiva ed eroica. Per D'Annunzio devono esister alcune élite che hanno il diritto di affermare se stesse. Queste élite al di sopra della massa devono spingere per una nuova politica dello Stato italiano, una politica di dominio sul mondo, verso nuovi destini imperiali, come quelli dell'antica Roma. La figura dannunziana del superuomo è, comunque, uno sviluppo di quella precedente dell'esteta, la ingloba e le conferisce una funzione diversa. Il culto della bellezza è essenziale per l'elevazione della stirpe, ma l'estetismo non è più solo rifiuto sdegnoso della società, si trasforma nello strumento di una volontà di dominio sulla realtà. D'Annunzio applica, in un modo tutto personale, le idee di Nietzsche alla situazione politica italiana. Ne parla per la prima volta in un articolo, La bestia elettiva, del '92, e presenta il filosofo di Zarathustra come il modello del 'rivoluzionario aristocratico', come il maestro di un 'uomo libero, più forte delle cose. Ciò che il D'Annunzio scopre in Nietzsche è una mitologia dell'istinto, un repertorio di gesti e di convinzioni che permettono al dandy di trasformarsi in superuomo e fanno presa immediatamente in un mondo di democrazia fragile e contrastata, i liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare.'). Il primo romanzo in cui si inizia a delineare la figura del superuomo è il Trionfo della morte. Il romanzo ha una debole struttura narrativa ed è articolato in sei parti ('libri'). E' incentrato sul rapporto contradditorio ed ambiguo di Giorgio Aurispa con l'amante Ippolita Sanzio, ma su questo tema di fondo si innestano e si sovrappongono altri motivi e argomenti: il ritorno del protagonista alla sua casa natale in Abruzzo è il pretesto per ampie descrizioni (nella seconda, terza e quarta parte) del paesaggio e del lavoro delle genti d'Abruzzo. Giorgio cerca di trovare l'equlibrio tra superomismo e misticismo, e aspira a realizzare una vita nuova (è il titolo del quarto libro). Per questo vive il rapporto con l'amante come limitazione, come ostacolo: per il suo fascino irresistibile, Ippolita Sanzio è sentita come la 'nemica', primigenia forza della natura che rende schiavo il maschio. Solo con la morte Giorgio si libererà da tale condizione: per questo si uccide con Ippolita, che stringe a sè, precipitandosi da uno scoglio. Giorgio Aurispa, il protagonista, l'eroe, è ancora un esteta simile ad Andrea Sperelli; Ippolita, la donna fatale consuma le sue forze e gli impedisce di attingere a pieno all'ideale superumano a cui aspira, portandolo alla morte. Sulla figura del superuomo si incentra anche Le Vergini delle Rocce. Qui però La complessità metafisica e ideologica del superuomo subisce una sostanziale semplificazione nella direzione di un superomismo a impronta esclusivamente estetica che s'intride di valenze politiche reazionarie. E' qui riscontrabile l'esito di una lunga ricerca sul versante stilistico e formale, che nel momento stesso in cui agganciava le posizioni più innovative del Simbolismo europeo, si reimmetteva nel solco della tradizione trecentesca e rinascimentale, l'onnipresenza di Leonardo da Vinci nelle Vergini ne è il segno tangibile. Il nucleo drammatico del romanzo, fondato sull'aspirazione di Claudio Cantelmo a generare un figlio in cui si distillassero le mirifiche qualità di una illustre progenie e che sarebbe dovuto diventare il futuro re di Roma, appare del tutto gratuito e incapace di sostenere una dinamica narrativa di lungo respiro. In questo senso il romanzo esprime i limiti dell'interpretazione che D'Annunzio diede di Nietzsche. Dopo un decennio di interruzione, in cui scrive per il teatro e sviluppa le Laudi, D'Annunzio ritorna alla forma del romanzo scrivendo Forse che sì forse che no. Qui presenta un nuovo strumento di affermazione superomistica inedito e in linea con i tempi: l'aereo. Il protagonista Paolo Tarsis realizza la sua volontà eroica tramite le sue imprese di volo. Egli è senza dubbio la reincarnazione dei vari superuomini presenti ne IlTtrionfo della Morte o nelle Vergini delle rocce, ma a differenza di questi, non appartiene ad una nobile casata ma è un borghese estraneo agli influssi decadenti e dedito all'azione; affiancata a questo superuomo troviamo Isabella Inghirami, la prima figura femminile capace di contendere il primato all'egotismo del superuomo di turno. Tra i due personaggi c'è un rapporto di amore-passione che talvolta arriva fino alle degenerazioni dell'incesto e del masochismo. Questo romanzo rappresenta la piena adesione del D'Annunzio alla contemporaneità: è possibile infatti ritrovare personaggi che si muovono tra aeroplani, automobili, telefoni. Vi si ritrova un amore, quindi, per la macchina e la velocità. In Italia, nel frattempo, sotto la pressione di molti e potenti interessi l'onda dell'interventismo stava montando, e il D'Annunzio poteva essere l'uomo dell'ora, l'araldo dello sdegno nazionale. I discorsi, o meglio le orazioni, che lo scrittore tenne a Genova tra il 4 e il 7 maggio e poi a Roma dal 12 al 20, mostrarono che il calcolo era giusto, giacchè l'oratoria dannunziana conferiva uno stile alla passione politica di una gioventù borghese insoddisfatta, abbagliata dal grande fuoco rinnovatore della guerra nazionale. Mentre l'Italia scendeva in guerra stava sorgendo anche una nuova oratoria, che non aveva bisogno dei fatti ma dell'immaginazione, e che attraverso la mistica di un capo carismatico comunicava a ciascuno la forza di una coerenza fittizia, la certezza di un rito collettivo. Nell'eloquenza dell'esteta, che si proclamava ora non più 'un grido e un allarme' ma 'un semplice compagno tra compagni', prendeva forma lo stile moderno della propaganda, del discorso politico di massa non più rivolto ad un'élite ma ad una comunità di compagni di cui si condivide il destino nella magia degli slogan e delle parole d'ordine. Il primo ad esserne preso era lo stesso D'Annunzio, a cui questo contatto verbale con la folla rinnovava, ma ad un grado più alto, quel piacere di una pronunzia della parola tutta corporea, ' nella bocca sonante del dicitore', che aveva invocato anni prima il poeta della Canzone di Garibaldi. Anche la parola, insomma, si faceva gesto, ebbrezza d'azione, istante assoluto da consumare in sé stesso, nella forza sensuale di una presenza aggressiva come in uno spettacolo di delirio o di entusiasmo rituali. Nonostante il suo 'viso grinzoso di vecchietto richiamato' la guerra fece del D'Annunzio un eroe di nuovo giovane, per quanto non si possa negare, d'accordo con gli storici d'oggi, che egli rimase sempre un 'avventuriero privilegiato', estraneo agli orrori putridi e comuni della trincea, ma pronto, a sfidare la morte con la logica singolare del giocatore d'azzardo: come risulta chiarissimo dai suoi taccuini di combattente, sia che confessi che ' la vita non ha più pregio poichè non può rischiarla nel più temerario dei giochi' sia che si sorprenda a notare come ' tante immagini di voluttà accompagnino uno stato eroico' o lodi 'l'amore del destino' in una 'carne che domani può essere un pallido sacco d'acqua amara'. Alla fine della guerra il tenente colonnello D'Annunzio lasciava il fronte in un 'misto di gioia e di scontento', col sospetto per giunta che la vittoria potesse venire tradita e la vecchia politica riprendesse il suo corso come se l'evento della guerra non fosse stato il crepuscolo del mondo borghese e l'inizio di una rivoluzione. Lo assillava soprattutto la questione della Dalmazia e dell'Adriatico, per la quale iniziò subito una nuova campagna di stampa contro le trattative diplomatiche in corso, assumendo ancora il ruolo di agitatore delle coscienze, di interprete della febbre nazionalistica nello scontro delle generazioni: nessuno meglio di lui, che era l'eroe della guerra poteva parlare alla massa dei reduci insoddisfatti, dei giovani che avevano combattuto e ora dovevano rassegnarsi al grigiore della vita comune declassati in un contesto sociale incerto e precario. Mentre c'era già chi salutava in lui 'il solo Duce del popolo italiano e intrepido', seguivano gli articoli della Pentecoste d'Italia, de Il comando passa al popolo, dell'Erma bifronte, e infine di Disobbedisco, di nuovo in aperto contrasto con il governo presieduto da Nitti. La situazione di Fiume, comunque, volgeva ormai al peggio a causa dei deliberati della Conferenza di Parigi, fra il tumulto crescente dei nazionalisti e dell'ex socialista Benito Mussolini, il direttore del 'Popolo d'Italia'. Il 12 settembre 1919 il poeta della guerra entrava a Fiume alla testa dei granatieri di Ronchi, che lo avevano voluto loro comandante, e di alcuni reparti dell'esercito regolare subito solidali, per affrettarne l'annessione all'Italia e per dare inizio, così, a un'avventura politica che durò quindici mesi e aprì la via, come riconoscono tutti gli storici, ad altre e più tragiche esperienze nel declino progressivo delle vecchie fedi democratiche. Il maggio radioso e l'avventura fiumana costituirono dei gravi precedenti di sminuimento del sistema democratico sulla cui falsa riga si arrivò in Italia e in Germania all'instaurazione di regimi totalitari, illiberali, reazionari e imperialistici. E ad incarnare perfettamente il superuomo é Ulisse: egli, anche se durato solo un attimo, cambia comunque la vita del poeta: egli non è come i suoi compagni, che pure gli sono cari, ma si sente spinto a confidare solo in se stesso e destinato a realizzare imprese eccezionali, come quell'Ulisse di cui ha meritato il simbolico sguardo. Ulisse diventa quindi non solo il simbolo del 'superuomo' per D'Annunzio, ma anche l'esempio e l'incitamento di tutti gli uomini che, come il poeta, non si accontentano di una vita tranquilla ma vogliono affermare la loro volontà di potenza realizzando la dimensione eroica di se stessi. Dietro alle parole c'è però il vuoto più completo di pensiero, ma soprattutto di sentimento. E' riscontrabile nel poeta il desiderio di imporsi, di agire e ciò sconfina in megalomania già riscontrabile nel poeta adolescente che negli anni maturi risente della nuova filosofia tedesca (superomismo). D'Annunzio, avendo rifiutato di porsi una problematica del vivere, si proiettò in una vita attiva e combattiva. Il suo vitalismo si rivelò in due sensi:




1. Come insofferenza di una vita comune e normale.


2. Come vagheggiamento della 'bella morte eroica'.


Egli perciò insiste sui temi della grandezza, dell'orgoglio, dell'eroismo estetizzante. Determinò la svolta più importante del decadentismo, quella superomistica, a cui aderì dopo la (errata) interpretazione di Nietzsche. In D'Annunzio il superuomo trova la sua perfetta identificazione con l'artista. In lui non è tanto la vita a tenere dietro l'arte, ma l'arte a seguire le eccentricità della vita e questo costò al poeta un'accusa di superficialità. Il Superuomo per D'Annunzio, così come viene presentato nelle due opere Trionfo della Morte e Le Vergini delle Rocce, è un individuo proteso all'affermazione di sé, al di fuori di ogni remora di ordine morale e sociale. D'Annunzio applica concretamente alla realtà la teoria dell'idea pura di Superuomo e facendo ciò, ci permette di individuare alcune caratteristiche peculiari del 'suo' Superuomo. I protagonisti delle opere sopracitate mostrano, infatti, il culto dell'energia dominatrice che si manifesta come forza, violenza, tesa all'affermazione della propria individualità. La loro è una concezione aristocratica del mondo che presuppone un conseguente disprezzo della massa, della plebe e del regime parlamentare che si basa su di essa. Giorgio Aurispa e Claudio Cantelmo ricercano la propria tradizione storica nella civiltà pagana, greco-romana e in quella rinascimentale. La sensualità caratterizza il Superuomo che ha alla base una sorta di furore sadico, di volontà di distruzione, di eccitazione violenta. Nel Superuomo d'annunziano si delinea una sproporzione tra gli obiettivi e le forze per raggiungerli, tra il desiderio e la realtà.

Plinio il Giovane


Gaio Cecilio Plinio, secondo esponente di spicco dell'oratoria e dell'epistolografia nell'età di Traiano, nacque nel 62 d.C. a Como. Figlio di una sorella di Plinio il Vecchio, rimasto orfano di padre fu adottato dallo zio che morì durante l'eruzione del 79, lasciando erede di possedimenti in Etruria e in Campania. Studiò a Roma, fu allievo di Quintiniano, il più illustre retore dell'epoca. Fece una brillante carriera politica giungendo al consolato e divenendo amico personale dell' imperatore Traiano. Oratore molto rinomato pubblicò discorsi giudiziari ed epidittici che non ci pervenuti. Scrisse inoltre elegie ed epigrammi, inserendosi nella tradizione della poesia come "lusus"(passatempo).

L'unica orazione di Plinio che ci è pervenuta è il discorso di ringraziamento che fu pronunciato in Senato il giorno che assunse la carica di console, il 1° settembre dell' anno 100. Si tratta in realtà di un vero e proprio panegirico dell'imperatore e con questo titolo fu conosciuto nei secoli successevi ed assunto ad emblema della poesia encomiastica. Traiano viene presentato come un dono fatto dagli dei ai Romani, per le sue qualità simili a quelle di una divinità (la modestia, il rispetto delle istituzioni, il rifiuto degli onori divini) vengono poi rievocate le vicende che portarono alla sua elezione all'impero. Plinio elogia il metodo della successione per adozione che consente di scegliere il migliore fra i cittadini. Sono quindi esaltate le qualità di Traiano come comandate militare, la sue generosità, la sua modestia che lo portarono ad essere definito optimum princeps. Mentre Domiziano (sotto il quale Plinio avevo aveva fatto gran parte della sua carriera politica ma da qui prende le distanze) odiava coloro che erano stimati dal Senato, sotto Traiano "l'imperatore e il sanato approvano e disapprovano le stesse cose". Per quanto riguarda lo stile del panegirico, esso vuole essere sublime ma a tratti è ridondante, magniloquente ed enfatico. Nel complesso costituisce un documento storico importantissimo e un saggio di stile elevato ed ornato anche se non mancano tendenze di letteratura cortigina.

L' Epistolario
L'opera più importante di Plinio è una raccolta di epistole in dieci libri: i primi nove contengono lettere agli amici (tra i più illustri Tacito e Svetonio); il Libro X contiene un carteggio ufficiale tra Plinio e l'imperatore, una raccolta di lettere ufficiali che vertono su questioni amministrative. Per quanto riguarda l'ordine in cui le lettere sono disposte all'interno dei libri esso non è del tutto causale ma sembra piuttosto ispirato al criterio della varietas (cioè l'alternanza di temi , argomenti e situazioni). Plinio si propone, infatti, di tracciare, sulle orme di Cicerone, un quadro ampio dell' attività pubbliche e private e del periodo storico e dell' ambiente sociale cui appartiene. Emerge dalle lettere e assume grande risalto la personalità di Plinio, con le sue innumerevoli qualità positive: l'onestà la cultura, il buon gusto, l' humanitas. La sua generosità e il suo attaccamento alla terra natia si manifestano nella donazioni agli abitanti di Como di una biblioteca pubblica e dell' apertura di una scuola superiore in modo che giovani non fossero più costretti a trasferirsi a Milano per studiare. Plinio esercita, inoltre, il mecenatismo: emblematico l'episodio in cui prestò il denaro a Marziale per il suo ritorno in Spagna. L' Epistolario ha in ogni caso un notevolissimo valore dal punto di vista non soltanto storico-culturale ma anche stilistico: è scritto in modo limpido e conciso, con voluta semplicità ma anche con largo uso di figure retoriche. Molto diverso dai primi nove è l'ultimo libro. Il carteggio di Triano, infatti, offre un prezioso quadro delle mansioni del governatore provinciale.



Importante dal punto di vista storico ed anche scientifico è Epistulae VI,16. In essa è descritta l'eruzione del Vesuvio, durante la quale suo zio Plinio il Vecchio perse la vita.  

Il 24 agosto del 79 d.C, nel primo anno del regno di Tito, il Vesuvio iniziò una terribile eruzione; in pochi giorni i centri abitati nei dintorni, come Ercolano e Pompei, furono distrutti e la popolazione inerme sterminata. Tra le numerose vittime è ricordato Plinio il Vecchio che comandava la flotta romana dislocata a Misero. Stando al contenuto dell' Epistulae VI, 16 scritta da suo nipote Plinio il Giovane (testimone oculare dell' evento), egli dapprima fu indotto ad osservare il fenomeno spinto dalla curiosità dell' uomo di scienza quale era, poi, resosi conto del disastro che colpiva la zona cercò di portare soccorso alla popolazione con le navi. Morì soffocato dai gas emanati durante l'eruzione stessa. La lettera citata fu inviata da suo nipote all'amico storico Tacito, circa 27 anni l'avvenimento. Plinio il Giovane giudica l'eruzione vesuviana come un segno del destino, affinché suo zio possa essere, attraverso i suoi racconti, ricordato per sempre dai posteri. La lettera sarà infatti riportata nella monumentale opera storiografica di Tacito.


Epistulae VI,16


Erat Miseni classemque imperio praesens regebat. Nonum Kal. Septembres hora fere septima


mater mea indicat ei apparere nubem inusitata et magnitudine et specie. Usus [.] poscia


soleas, ascendit locum ex quo maxime miraculum illud conspici poterat. Nubes - incertum procul


intuentibus ex quo monte; Vesuvium fuisse postea cognitum est - oriebatur, cuius similitudinem et


formam non alia magis arbor quam pinus expresserit. Nam longissimo velut trunco elata in altum


quibusdam ramis diffundebatur, credo quia recenti spiritu evecta, dein senescente eo destituta aut


etiam pondere suo victa in latitudinem vanescebat, candida interdum, interdum sordida et maculosa


prout terram cineremve sustulerat [.]


Iam navibus cinis incidebat, quo propius accederent, calidior et densior; iam pumices etiam


nigrique et ambusti et fracti igne lapides; iam vadum subitum ruinaque montis litora obstantia.


Cunctatus paulum an retro flecteret, mox gubernatori ut ita faceret monenti 'Fortes' inquit 'fortuna


iuvat: Pomponianum pete.' . [.] Interim e Vesuvio monte pluribus locis


latissimae flammae altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris noctis


excitabatur. [.] In commune consultant, intra tecta subsistant an in aperto vagentur. Nam crebris


vastisque tremoribus tecta nutabant, et quasi emota sedibus suis nunc huc nunc illuc abire aut referri


videbantur.  Sub dio rursus quamquam levium exesorumque pumicum casus metuebatur, quod


tamen periculorum collatio elegit; et apud illum quidem ratio rationem, apud alios timorem timor


vicit. Cervicalia capitibus imposita linteis constringunt; id munimentum adversus incidentia fuit.


Iam dies alibi, illic nox omnibus noctibus nigrior densiorque; quam tamen faces multae variaque


lumina solvebant. Placuit egredi in litus, et ex proximo adspicere, ecquid iam mare admitteret; quod


adhuc vastum et adversum permanebat.


Ibi super abiectum linteum recubans semel atque iterum frigidam aquam poposcit hausitque.


Deinde flammae flammarumque praenuntius odor sulpuris alios in fugam vertunt, excitant illum.


Innitens servolis duobus assurrexit et statim concidit, ut ego colligo, crassiore caligine spiritu


obstructo, clausoque stomacho qui illi natura invalidus et angustus et frequenter aestuans erat.


Ubi dies redditus - is ab eo quem novissime viderat tertius -, corpus inventum integrum


illaesum opertumque ut fuerat indutus: habitus corporis quiescenti quam defuncto similior.




Le eruzioni vulcaniche e il Vesuvio


L'eruzione del Vesuvio più conosciuta è quella del 79 d.C. che fu descritta da Plinio il Giovane  nel suo epistolario (epistulae VI,16). Tra le numerose vittime si ricorda lo zio dell' autore, Plinio il Vecchio. Il fenomeno fu così violento e disastroso da dare il nome a un tipo di eruzione : viene detta infatti "vesuviana" un 'attività vulcanica caratterizzata dall'estrema violenza dell'esplosione iniziale che svuota gran parte del condotto superiore, il magma può allora risalire con grande velocità da zone profonde, fino a espandersi in maniera esplosiva uscendo dal cratere. Quando tali esplosioni raggiungono il loro aspetto più violento vengono definite "eruzioni di tipo pliniano", proprio dalla descrizione di Plino il Giovane dell'eruzione del 79 d.C. Da tale scritto gli studiosi hanno saputo che l'eruzione cominciò con l'emissione di un' altissima colonna di cenere e pomici che ricaddero poi a terra anche con meccanismi di flusso piroclastico, quando i gas, a tratti, cessarono di trascinare verso l'alto l'immensa nuvola. Le pomici caddero su Pompei e invasero Ercolano raggiungendo spessori anche di qualche metro. Seguì una fase di calma, durante la quale molti abitanti , fuggiti all'inizio dell'eruzione, tornarono in città, segnando la loro morte. Le fasi iniziali dell'eruzione avevano svuotato infatti la camera magmatica e le acque di falda penetrarono in essa, trasformandosi in vapore ad altissima pressione e provocando una spaventosa esplosione che coprì tutta l'area con una gigantesca nuvola. Flussi piroclastici scesero rapidamente le pendici del vulcano distruggendo ogni cosa e seppellendo Pompei, Oplonti e Stabia. Ercolano fu invece sepolta da almeno tre colate piroclastiche ricche di pomici e sature d' acqua. L'eruzione provocò il collasso della parte sommitale del vecchio cono vulcanico, con formazione di una caldera , all'interno della quale si è innalzato in seguito un nuovo cono, il Vesuvio, ancora oggi attivo.

Una colonna ascendente di magma scalda e frattura le rocce in vicinanza di una falla acquifera. Il Vapore acqueo che si produce si accumula in ogni cavità, finche la sua pressione divine sufficiente a fare saltare la copertura di rocce ed aprire un varco fino in superficie. Le rocce preesistenti vengono frantumate dall'esplosione e lanciate all' esterno. Dalla base della colonna, espulsa verso l'alto, si allarga ad altissima velocità una specie di densa nube anulare formata da vapore e materiali solidi (base-surge). Il fenomeno vulcanico descritto in quanto esplosivo e localizzato lungo gli archi insulari vulcanici o lungo il margine dei continenti che fronteggiano le fosse abissali. Tale vulcanesimo è collegato al processo di subduzione nel corso della quale la placca che sprofondo viene progressivamente fusa, la presenza di notevoli spessori di sedimenti marini tutti imbividi di acqua fa si che il magma prodotto dalla fusione sia ricco di silice (quindi viscoso) e con abbondanti fluidi (anidride carbonica e vapore acqueo). Di conseguenza il vulcanismo da' origine a manifestazioni altamente esplosive mentre le lave sono in gran parte da intermedie ad acide ma non mancano lave basattiche, per la fusione parziale della fusione del mantello che si trova al di sopra della placca che sprofonda. La risalita di tali fluidi ad alta temperatura favorisce inoltre quel processo di intensa traformazione e fusione della crosta continentale che porta la formazione di batoliti messe in luce dall'erosione in molte catene montuose.


Lisia e l'orazione Per Eufileto


La vita


Lisia nasce ad Atene intorno al 445 a.C., da un ricco fabbricante d'armi siracusano, e riceve un'istruzione retorica da Tisia e altri τεχνόλογοι.

A causa della sua condizione di meteco Lisia è sin da principio escluso dalla vita pubblica; successivamente l'avvento del governo dei Trenta, nel 404 a.C., provoca la rovina di Lisia, inviso agli oligarchi a causa della sua ricchezza e delle simpatie manifeste democratiche; così accade anche a suo fratello Polemarco, poi costretto al suicidio.

Lisia fugge a Megara, per finanziare da lì la lotta armata dei democratici di Trasibulo, e torna ad Atene solo dopo la restaurazione della democrazia.

Ormai ridotto in povertà e privato dei beni familiari, intraprende con fortuna la carriera di logografo.

Notizie sulle vicende personali di Lisia sono reperibili nelle sue stesse opere, molte delle quali sono legate agli eventi contemporanei all'autore.

Muore intorno al 380 a.C.


Le opere


Di Lisia ci sono giunte 34 orazioni e alcuni frammenti, benchè si creda che avesse redatto più di 300 opere; molti testi tramandati potrebbero non essere autentici, perchè il successo di Lisia induceva molti a emularne lo stile e a produrre imitazioni.

L'unica orazione attribuibile con certezza è la XII, "Contro Eratostene", pronunciata personalmente da Lisia negli anni 403-401 a.C. come atto di accusa contro uno dei Trenta, Eratostene: costui aveva sottratto a Lisia le ricchezze e gli aveva ucciso il fratello Polemarco.

Lisia, in qualità di logografo, mette a disposizione del cliente la propria abilità anche in cause che non condivide. Così, oltre alla "Per Eufileto', massima opera del corpus lisiano, ricordiamo:


Contro Simone: autodifesa di un anziano ateniese, contro un rivale in amore, per un ragazzo, che lo accusa di averlo malmenato senza motivo.

Sull'olivo sacro: difesa di un cittadino accusato di aver abbattuto un olivo che cresceva in terreno consacrato.

Per l'invalido: difesa di un cittadino invalido dall'accusa di non aver diritto alla pensione statale.

Contro Agorato: accusa a un agente dei Trenta, che aveva eliminato, con le sue delazioni, i politici ostili alla pace-capestro imposta da Lisandro ad Atene dopo la guerra del Peloponneso.

Per Mantiteo: difesa di un ateniese che sostiene di non aver servito nella cavalleria dei Trenta.


Olimpico: questa orazione sarebbe databile al 388 o al 384. Il discorso, tramandato in riassunto ed in un ampio brano da Dionigi di Alicarnasso, è un'esortazione a cacciare i delegati di Dionigi di Siracusa e ad abbatterne la tirannide rivolta ai greci, riuniti alle Olimpiadi.

Epitafio in onore dei caduti della guerra corinzia: di dubbia attribuzione, risale al 395 a.C. circa.

Da Dionigi Di Alicarnasso sappiamo poi che Lisia scrisse anche demegorie, docimasie, panegirici, discorsi a tema erotico.


Lo stile


Lisia è considerato maestro dell'ηθοποιϊα, cioè la capacità di rappresentare i caratteri.

Egli adatta infatti i testi al livello sociale e culturale dei clienti che li dovranno pronunciare, ricercando un effetto di naturalezza e sincerità che induca i giudici a guardare con favore i committenti del testo.

Il ritratto che Lisia fornisce dei propri clienti è sempre verosimile e realistico, perchè egli mira a rendere la colorita rappresentazione dei caratteri più rilevante del caso giuridico in sè; per fare ciò, il logografo si serve di numerosi artifici retorici e di tecniche persuasive.

Abile nell'arte di infamare (διαβολή) Lisia presenta sempre l'avversario come moralmente inaffidabile, incline alla menzogna, al vizio, all'inganno e alla violazione della legge; il cliente è invece tratteggiato positivamente, con una particolare cura nella descrizione della sua vita trascorsa (παρεληλυθώς βιός), precedente la colpa.

Lo stile è tuttavia sempre lineare, elegante ed efficace, pieno di χάρις.






Per Eufileto: analisi dell'opera


La trama della vicenda narrata da Eufileto, attraverso l'orazione di Lisia, è semplice. Eufileto, un onesto uomo comune, scopre che sua moglie ha un amante, Eratostene; costui ha sedotto la donna durante un funerale, e usa incontrarla segretamente di notte, nella casa di Eufileto, grazie alla complicità della servitù. Scoperta la tresca grazie a una delazione, Eufileto coglie in flagrante il seduttore e lo uccide; è proprio questo omicidio, considerato dai parenti della vittima non solo volontario, ma anche premeditato, a portare Eufileto davanti ai giudici.


Per comprendere la natura del processo è però necessario premettere alcune informazioni sul sistema giuridico ateniese.

In Atene, infatti, ci sono 4 tribunali:


1. Areopago, preposto al giudizio dei delitti volontari (φόνος εκουσίος)

2. Palladio, preposto al giudizio dei delitti involontari (φόνος ακουσίος) ma anche degli omicidi di meteci e schiavi

3. Delfinio, preposto al giudizio dei delitti legittimi (φόνος δίκαιος)

4. Freatto, preposto al giudizio dei delitti compiuti da chi è già stato esiliato per omicidio involontario


Il caso di Eufileto viene discusso presso il Delfinio, perchè la tesi principale su cui si basa la difesa lisiana è quella del φόνος δίκαιος, delitto legittimo: è infatti prevista dalla tradizione giuridica greca la legittimità dell'uccisione di chi si macchi di adulterio, corrompendo non solo la famiglia coinvolta, ma anche la città intera.


La struttura dell'orazione consta di 50 paragrafi, divisi come segue:


1-3 esordio (captatio benevolentiae, informazioni essenziali sull'oltraggio)

4-5 proposizione (descrizione dell'entità dell'offesa)

6-26 narrazione (resoconto degli eventi, descrizione dei caratteri)

27-36 argomentazione (esposizione delle tesi a favore dell'imputato)

37-46 confutazione (risposta alle accuse)

47-50 perorazione ed epilogo (conclusione)


Nell'orazione per Eufileto si notano alcune scelte espressive molto caratteristiche dello stile di Lisia.


1. Paratassi → uso di frasi brevi coordinate, periodare ritmato che dà vivacità alla narratio; Lisia rinuncia alla paratassi e fa uso di artifici retorici per arricchire il testo solo nelle parti argomentative del testo o nei passaggi di maggior rilievo (incipit).

2. Breviloquentia → concisione espressiva

3. Simmetria → Lisia dispone simmetricamente gli elementi all'interno di un periodo composto di più proposizioni, ripetendo le stesse strutture; fa così apparire il racconto ordinato, preciso e circostanziato.

4. Ripetizioni → gli stessi termini ricorrono spesso nel testi quando l'oratore fa riferimento a concetti già espressi in precedenza; si tratta di una scelta mimetica, tesa al realismo nell'imitazione della padronanza espressiva dell'imputato. Questa formularità espressiva contribuisce ad imprimere meglio i concetti nella memoria dei giudici.

5. Mutamento di soggetto → questo cambiamento riproduce la vivacità della lingua parlata

6. Amplificazione → trattasi di un processo per cui il dato reale viene parzialmente esagerato per supportare la tesi

7. Enfasi del pronome di prima persona → è un tratto emotivo della lingua che serve a manifestare il coinvolgimento del soggetto che parla e ne sottolinea la posizione nella vicenda.


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