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Crisi del '29




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Crisi del '29







La situazione internazionale



Fra le nazioni europee, la Gran Bretagna trae dalla prima guerra mondiale i massimi vantaggi. Abbattu­ta e umiliata la pericolosa rivalità germanica, essa ottiene in Africa, grazie all'annessione di buona parte delle colonie ex tedesche, il controllo della via che attraversa il continente nero dal Capo al Cai­ro; domina il Medio Oriente grazie ai mandati sull'Irak, sulla Transgiordania e sulla Palestina; detiene in Estremo Oriente le posizioni strategiche di Singapore e di Hong Kong; amplia com­plessivamente il suo impero di circa 2 milioni di chilometri quadra­ti e di circa 8 milioni di abitanti.

I problemi che l'Inghilterra deve affrontare sono peraltro propor­zionati alla stessa vastità dei suoi domini.


Il nazionalismo irlandese, guidato da De Valera, de­ve finalmente essere soddisfatto col riconoscimento dello Stato libero d'Irlanda (1921), che più tardi scioglierà anche il vincolo personale con la monarchia britannica e si costituirà in re­pubblica indipendente (1938). Nell'Ulster, anglicizzato a forza dal '600 in poi, i protestanti inglesi prevalgono però sulla minoranza indigena cattolica: la regione continua perciò a far parte del Regno Unito, ottenendo solo una limitata autonomia.


L'Egitto freme sotto il protettorato di fatto inglese, che sopravvive alla formale concessione di indipen­denza del 1922. Si hanno momenti di vera e propria insurrezione (1924) che inducono l'Inghilterra a rendere meno rigida la propria egemonia e a sostituirla con un'alleanza (1936), nella quale però l'Egitto rimane nettamente subalterno.


L'India, che ha dovuto costatare come le promesse di autonomia fatte dall'Inghilterra nei momenti più cri­tici del conflitto non siano state mantenute, trova in Gandhi una gui­da di altissima statura morale e politica. Questi predica la non vio­lenza e la resistenza passiva, e riesce a impegnare le masse popolari in vastissime azioni dimostrative - come la campagna per la tessitu­ra a mano, al fine di boicottare i prodotti tessili inglesi (1924-1928) - nelle quali esse prendono coscienza dei propri diritti e maturano le premesse della futura libertà. Nel 1935 gli Inglesi concedono all'In­dia una nuova costituzione, nella speranza di frenare con conces­sioni parziali il nazionalismo indiano; ma in effetti questa non sarà che una tappa verso la ormai inevitabile indipendenza totale.

Il processo verso una sempre più ampia autonomia, già in atto sullo scorcio del sec. XIX, è vivacissimo presso le popolazioni dei dominion[1]. La classe dirigente britannica ne riconosce la necessità e la irreversibilità e, con successive con­cessioni, arriva a sottoscrivere un vero e proprio statuto del Com­monwealth (dicembre 1931), nel quale si dichiara che «la Gran Bre­tagna e i dominion sono, in seno all'impero, delle collettività auto­nome, con eguale statuto; esse non sono in nessun modo subordi­nate le une alle altre ma sono unite da un comune legame alla medesima corona, ed associate liberamente come membri della Co­munità delle Nazioni Britanniche».

Se la moderazione e la mediazione politica permet­tevano di conservare, profondamente modificando­lo, l'immenso edificio dell'impero, nulla poteva invece evitare che l'importanza del Commonwealth diminuisse nei confronti della nuova realtà mondiale, nella quale l'Inghilterra cedeva il primato alla potenza statunitense per ragioni oggettive.


Ciò fu evidente sin dalla conferenza di Washington, riunitasi dal novembre 1921 al febbraio 1922 per trattare della limitazione degli armamenti e di al­tre questioni «sorte nell'area del Pacifico». Vi parteciparono gli Sta­ti Uniti, l'Inghilterra, la Francia, l'Italia e il Giappone (oltre alla Ci­na, al Belgio, all'Olanda e al Portogallo, che vi ebbero una parte se­condaria), e vi si stabilì l'obbligo di rispettare l'indipendenza della Cina, che a sua volta si impegnava alla cosiddetta politica della «porta aperta», ossia a permettere agli stranieri la più ampia libertà di commercio entro i suoi confini; USA, Gran Bretagna, Francia e Giappone si impegnarono al mutuo rispetto dei loro possedimenti nel Pacifico (clausola con la quale glì Americani intendevano ga­rantirsi il dominio sulle Filippine e infrenare l'imperialismo giap­ponese); infine si convenne che il tonnellaggio delle flotte militari dei contraenti avrebbe dovuto conformarsi alle proporzioni espres­se dai coefficienti di 5 (USA e Inghilterra), 3 (Giappone), 1,67 (Italia e Francia).

Con ciò l'Inghilterra abbandonava per sempre la 1 tradizionale politica del two powers standard [2], mentre la stessa apparente parità navale con gli USA si traduceva in una reale superiorità di questi, che mediante il Canale di Panama avrebbero potuto rapidamente trasportare le loro flotte dall'Atlanti­co al Pacifico e viceversa. Pertanto l'amicizia con gli Stati Uniti diventava una costante necessità per l'Inghìlterra, che senza il lo­ro aiuto non avrebbe più potuto difendere il proprio impero.

E poi­ché nel Pacifico gli Stati Uniti erano in concorrenza con l'espansio­nismo nipponico, la Gran Bretagna dovette sacrificare ai nuovi vin­coli l'alleanza contratta col Giappone nel 1902 , che scadeva nel 1922 e che effettivamente non fu rinnovata.


Già prima della guerra gli Stati Uniti per l'egemonia che esercitavano sull'intero continente americano e per la loro progressiva penetrazione nel Pacifico, erano da annove­rare fra le massime potenze economico-politiche mondiali, ma, ciò nondimeno, non si erano mai intromessi nelle questioni europee e coloniali. La guerra peraltro mutò radicalmente i rapporti di forza. Creditori dell'Inghìlterra per oltre 20 miliardi di franchi, della Francia per 15 miliardi, dell'Italia per oltre 8 miliardi, gli Stati Uniti realizzarono durante il conflitto un nuovo aumento della propria potenza produttiva e finanziaria. L'aumento di ricchezza statuni­tense, per giunta, già cospicuo in senso assoluto, risultò anche più rilevante in rapporto alle paurose perdite di beni e di capacità pro­duttive che la guerra aveva determinate in tutta Europa.

Né minore era il prestigio statunitense sotto il profi­lo morale e politico: contro le rivendicazioni, spesso grette, dei nazionalismi europei, il presidente Wilson aveva propo­sto i suoi 14 punti, che sonavano come un manifesto di libertà, di democrazia e di autonomia per tutti i popoli, sicché al tavolo della pace egli era apparso l'unico uomo dai vasti orizzonti fra i molti di­plomatici che continuavano le loro anguste manovre.

Ben presto però il liberismo democratico del Wil­son, che implicava l'egemonia mondiale degli Stati Uniti, fu ripudiato dal senato e da gran parte dell'opinione pubblica americana come troppo pericoloso: pericolosa fu conside­rata soprattutto l'adesione alla Società delle Nazioni, che sembrava invischiare gli Stati Uniti in controversie europee del tutto estranee ai loro interessi.

Così non solo Wilson fu sconfessato e prevalsero le correnti isolazionistiche, che volevano una politica di disimpegno in Europa e di impegno esclusivo nell'area del Pacifico secondo prospettive e valutazioni di corto respiro.

Si diffuse, in quegli anni, il pericoloso mito che con­trapponeva la «virtuosa America» alla «immorale Europa» e in esso fermentarono i sentimenti e i risentimenti più contraddittori.


La proibizione delle bevande alcoliche, votata nel 1919, con l'inevitabile seguito delle frodi e l'incremento della delin­quenza, fu una delle manifestazioni del puritanesimo americano che, mescolando spunti idealistici a motivi grettamente utilitari e peggio che utilitari, lottava contro la corruzione pubblica e privata, ma anche contro la libertà degli scambi e in favore del protezioni­smo, contro le minoranze cattoliche o ebree, contro i negri, con­tro i comunisti, contro gli immigrati.

Ricomparve allora la trista setta del Ku Klux Klan, sinistramente famosa per le sue violenze «puritane», spesso culminanti nell'atroce linciaggio di qualche sventurato negro. L'intolleranza, la xenofobia, l'odio di classe si manifestarono in processi come quello che nel 1927 si concluse con la condanna a morte degli italiani Sacco e Vanzetti, benché la loro innocenza fosse chiaramente emersa, o come altri, dall'esito meno drammatico ma ugualmente significativi, contro in­tellettuali colpevoli solo di professare idee non conformistiche.         

II «continente» Stati Uniti non si esauriva, ovvia­mente, nel razzismo e nel fanatismo: continuava a sussistere una ben diversa America, lega­ta alle ipotesi di sviluppo, ricerca e partecipazione democratica.

Alcune caratteristiche dei metodi di produzione e  di distribuzione apparvero negli Stati Uniti con no­tevole anticipo rispetto al resto del mondo. Ci rife­riamo, in primo luogo, alla formazione di holding finanziarie, di trust, di corporation (come la U.S. Steel Corporation, l'American Tobacco, la Standard Oil Company dei Roc­kefeller), sorte in buon numero già intorno al 1900 allo scopo di re­golare o eliminare la concorrenza e di programmare investimenti e ritmi del progresso tecnico in vista della massimizzazione dei profitti.

Negli anni Venti il processo di concentrazione capitalisti­ca continuò e riguardò, in particolare, le aziende locali dei tra­sporti urbani, di distribuzione del gas, dell'acqua e dell'energia elettrica, che si riunirono in più ampi complessi regionali o nazio­nali. Nacquero allora anche grandi catene di distribuzione di gene­ri alimentari e vari (Grandi Magazzini), nonché di teatri e di ci­nema.


Dagli Stati Uniti derivò anche il taylorismo, applica­to per la prima volta da Henry Ford all'industria au­tomobilistica con risultati grandiosi e ideato appunto dall'ingegne­re Frederick Taylor (1859-1915), che studiò una suddivisione e orga­nizzazione del lavoro atta ad aumentarne la produttività.

Alla produzione industriale di massa, che per la sua economicità consentiva e richiedeva la diffusione dei beni ad ampi strati della popolazione, corrispose l'uso massiccio della pubblicità, rivolto a formare una sorta di «compratore di massa», dominato dagli slogan e dalla 'filosofia' dei consumi.

Il sistema era integrato dall'enorme espansione della vendita a rate, necessaria per venire incontro sia alla volontà dei consumatori di godere di determinati beni economici prima d'aver accumulato i risparmi che ne consentissero l'acquisto, sia al biso­gno delle grandi industrie di procurarsi sempre nuovi clienti, ossia di avere a disposizione una domanda di beni commisurata all'enor­me flusso della loro offerta.

Supporto ideologico di questa civiltà «produttivisti­co-consumistica» fu lo sfrenato ottimismo indivi­dualistico dei «ruggenti anni Venti», poggiante sul­la convinzione che si fosse ormai entrati in un'età di costante e au­tomatico aumento della prosperità generale, determinato dai «mira­coli» della libera impresa.





Lettura di approfondimento

Secondo gli economisti classici, una crisi del siste­ma capitalistico determinata dall'eccedenza dell'of­ferta sulla domanda (crisi di sovrapproduzione) doveva considerarsi semplicemente impossibile, perché - come affermò il francese Jean-Baptiste Say in un'opera pubblicata nel 1803 - l'offerta crea una domanda esattamente identica a se stessa. II ragionamento di Say era, nella sua essenza, lineare e convincente: si produce per vendere, si vende per procurarsi danaro, ci si procura danaro per spenderlo in nuovi acquisti; quindi, se per esempio i produttori mettono sul mercato merci per un valore di 1000 unità monetarie qualsiasi (offerta), utilizzano poi le 1000 unità, ricavate dalla vendi­ta delle loro merci, per acquistare altre merci (domanda), e dunque un'eccedenza dell'offerta sulla domanda è impossibile (o tutt'al più si può verificare su un mercato locale e per circostanze contingenti di breve durata).

Senonché, sul piano della realtà, le crisi di sovrap­produzione continuarono a manifestarsi ad interval­li pressoché regolari, resistendo indisturbate agli esorcismi teorici degli economisti classici. Ciò nondimeno, tale era il turbamento che le crisi proiettavano sulle concezioni ottimistiche dello svilup­po capitalistico che, per quanto fossero state precocemente spiega­te dal Marx, esse furono per la prima volta «legittimate» dalla scienza economica borghese solo in tempi recenti, quando l'inglese John Maynard Keynes (1883-1946) - in una serie di saggi pubbli­cati negli anni Venti e nella sua opera fondamentale, Teoria genera­le dell'impiego, dell'interesse e della moneta (1936) - confutò la pre­sunta legge di Say e riscoprì la genesi delle crisi di sovrapprodu­zione.

I redditi (costituiti da salari, stipendi, profitti, rendi­te e interessi) vengono in parte consumati e in parte risparmiati. Ora - osserva il Keynes - se i risparmi venissero completamente reinvestiti, ossia spesi nell'acquisto di mezzi di produzione, allora la legge di Say sarebbe valida. Se invece una parte dei risparmi viene «congelata», ossia non reinvestita, non spesa in alcun modo, allora la domanda risulta inferiore all'of­ferta. Questo secondo caso è non solo possibile ma anzi probabile, soprattutto quando la distribuzione dei redditi fra le varie classi so­ciali è fortemente squilibrata. Infatti, mentre i redditi più bassi (sa­lari e stipendi) vengono spesi necessariamente da coloro che li per­cepiscono perché sono per intero, o quasi per intero, indispensabili alla loro sussistenza, le classi più elevate non sono affatto costret­te a spendere per intero i loro redditi e possono anzi realizzare notevoli risparmi. Tali risparmi, poi, verranno impiegati effettivamente in investimenti, solo se le aspettative saranno favorevo­li, ossia se i risparmiatori saranno animati dalla speranza di ricava­re dagli investimenti dei buoni profitti. In caso contrario gli investi­menti verranno procrastinati, in attesa di occasioni più propizie, e i risparmi rimarranno «congelati» e non alimenteranno la doman­da. Da questa flessione della domanda nasce la crisi di sovrappro­duzione.

Pertanto, sempre secondo  Keynes, l'illusione che il capitalismo possa salvarsi affidandosi ai puri e sem­plici automatismi del libero mercato deve essere abbandonata, ed è anzi necessario che lo Stato, salvaguardando il principio della pro­prietà e dell'iniziativa privata, intervenga energicamente nelle at­tività economiche e, mediante un'organica strategia fiscale, prelevi una parte dei capitali dalle classi ricche, più inclini a congelarli, e li distribuisca fra le classi meno abbienti, le quali li rimetteranno necessariamente in circolazione. Questo drenaggio di capitali è da attuare tramite la promozione di grandi opere pubbliche (che com­portano ingaggio di mano d'opera, distribuzione di salari, acquisto di macchine, materiali, utensili), tramite la concessione di sussidi ai disoccupati in modo che questi conservino almeno in parte le lo­ro capacità d'acquisto, tramite l'impiego di mano d'opera persino in lavori scarsamente produttivi a bassissima intensità di capitale, o al limite in lavori assurdi (come sarebbe lo scavar buche e poi ri­colmarle); purché, insomma, i redditi vengano distribuiti quanto basta per evitare una flessione della domanda.

Grazie a una politica d'intervento statale come quella sopra esemplificata, il capitalismo, secondo il Keynes, potrà evitare d'es­sere travolto dal comunismo o di degenerare in fascismo, e riuscirà anzi a conciliare il massimo grado di efficienza col massimo grado di libertà e di democrazia.





Gli anni Venti e il "boom" economico



La grande crisi del 1929 ebbe inizio negli Stati Uniti, si diffuse in tutti i paesi capitalisti e, attraverso fasi di diversa intensità, si pro­trasse fino all'inizio della seconda guerra mondiale, concorrendo a determinarla. Essa confermò sia le previsioni diMarx, sia le ipotesi che, con tutt'altra intenzione, Keynes andava elaborando proprio in quegli anni.

Nell'immediato dopoguerra l'economia statunitense, stimolata dalla domanda che veniva dall'Europa per le necessità della ricostruzione, ebbe un forte incremento, cui nel biennio 1920-21 seguì una fase di recessione, determinata soprat­tutto dal fatto che, colmati i più gravi guasti della guerra, la doman­da europea era bruscamente diminuita.

La ripresa fu però rapida e imponente: dal 1922 al 1929 la produzione industriale statuniten­se, già assai elevata in linea di partenza, aumentò del 64%, la pro­duttività del lavoro del 43%, i profitti del 76%, i salari del 30%.

L'enorme differenza fra la crescita dei profitti e del­la produzione, da una parte, e quella dei salari, dall'altra, accentua lo squilibrio nella distribuzione dei redditi: infatti, nel periodo considerato, il 5% della popolazione sta­tunitense percepiva un terzo dell'intero reddito nazionale, e, in par­ticolare, i 500 cittadini più ricchi si dividevano fra di loro una som­ma di redditi equivalenti a ben 600 000 salari degli operai dell'indu­stria automobilistica, che erano fra i meglio retribuiti. Per converso, il 60% della popolazione aveva un reddito annuo medio pro ca­pite appena sufficiente per la sussistenza: per la 'sussistenza', ovviamente, quale era intesa in un paese ad alto sviluppo industriale.


La fortissima divaricazione fra profitti e salari derivava sostanzialmente dall'indebolimento dei sin­dacati, dovuto in parte al taylorismo, che rendendo più che mai ri­petitivo e squalificato il lavoro degli operai sminuiva la loro forza contrattuale, in parte alla prevalenza del Partito repubblicano, strettamente legato agli ambienti del capitale, i cui esponenti tenne­ro costantemente la presidenza della repubblica dal 1921 al 1932. Come risultato di questa serie convergente di cause, in meno di un decennio i sindacati americani perdettero il 40% dei loro aderenti e non poterono contrastare efficacemente la tendenza padronale alla compressione dei salari.

Allo squilibrio nella distribuzione dei redditi fra leclassi sociali si aggiungeva quello fra i diversi settori della produzione, in quanto, rispetto ai redditi globali in via di rapi­da espansione, i redditi agricoli fra il 1919 e il 1929 scendevano dal 23 al 13%.

Da questo primo quadro risulta con evidenza che la capacità d'acquisto della grande maggioranza della popolazione non cre­sceva affatto in misura proporzionale al crescere della produzio­ne. E poiché la produzione si orienta ovviamente in modo da sod­disfare la domanda solvibile, ne seguiva che, mentre la produzione di beni di consumo non durevoli (alimentari e vestiario), nell'acqui­sto dei quali viene spesa una parte rilevante dei salari, cresceva so­lo del 2,8% all'anno, quella invece dei beni di consumo durevoli (mobili, abitazioni, automobili e simili), acquistati per lo più dai ce­ti abbienti, cresceva del 5,9% all'anno, e quella dei beni strumental (macchine e impianti), acquistati in gran parte dalle industrie stes­se, per cui un'eventuale flessione nella domanda di beni di consumo durevoli o di beni strumentali avrebbe avuto, come eb­be effettivamente, conseguenze gravissime.

A questi squilibri s'aggiungeva un fattore di preca­rietà d'origine psicologica: la convinzione cioè, lar­gamente avallata dalla propaganda, che si aprissero per tutti pro­spettive di rapido arricchimento. E «rapido arricchimento» non si­gnifica, ovviamente, arricchimento legato al lavoro e alla produzio­ne ma arricchimento che viene da fortunate e «audaci» attività spe­culative.

L'andamento della borsa di New York esemplifica con particolare eloquenza le conseguenze pratiche di questo mito. Gli indici riportati in quegli anni dal New York Times (fondati sulle quotazioni di 25 titoli industriali particolarmente significativi) non hanno bisogno di commento: fine maggio 1924, punti 106; fine di­cembre 1924, punti 134; fine dicembre 1925, punti 181; fine dicem­bre 1927 - dopo una lieve flessione nel corso del 1926 - punti 245; fine dicembre 1928, punti 331; 3 settembre 1929 - giorno nel quale l'indice raggiunse il limite massimo - punti 452.

In termini corpo­si, ciò significa che chi avesse acquistato 1000 dollari di titoli alla fine del maggio 1924 e li avesse rivenduti il 3 settembre del 1929 avrebbe realizzato in media un aumento lordo di capitale di 3265 dollari in poco più di cinque anni, senza svolgere altro lavoro che quello di ordinare agli agenti di borsa di acquistare e di vendere.

Per quanto produzione, produttività e profitti cre­scessero a ritmo sostenutissimo, risulta chiaro da questi dati che gli indici di borsa si erano del tutto sganciati dall'andamento dell'economia reale.

Rovesciando una famosa massima del Galilei, diremo che chi comprava e vendeva ti­toli aveva a che fare con «un mondo di carta e non con un mondo di cose»: non si rappresentava cioè le fabbriche, gli impianti, i can­tieri cui i titoli si riferivano, ma solo le serie di numeri che appari­vano nei bollettini di borsa.

. Tanto più che, per acquistare titoli, non era necessario coprire per intero il loro valore, ma bastava versare in contanti circa la metà del loro prezzo, lasciando í titoli stessi in garanzia del debito che cosi si contraeva. Per queste e per altre ragioni analoghe, il sistema era dunque costruito in modo tale da accentuare ed esasperare le tendenze del mercato, sia che esse volgessero all'acquisto, sia che esse, come avverrà più tardi, precipitassero verso la vendita.

È però evidente che lo scavalcamento dell'economia reale (ossia dell'insieme delle attività produttive che creano vera ricchezza e non pezzi di carta) non poteva durare al­l'infinito e anzi sarebbe bruscamente cessato quando i più avveduti fra i possessori di titoli, avuto sentore che alla crescita degli indici di borsa corrispondeva in realtà il ristagno o il calo della produzio­ne, avrebbero cominciato a tirare i remi in barca ossia, fuori di me­tafora, a vendere.

E fu appunto ciò che accadde nell'ottobre del 1929.



















La crisi del '29 e il crollo di Wall Street



L'insufficienza della domanda statunitense interna, dovuta alla squilibrata distribuzione dei redditi, fu per qualche anno compensata dalla domanda dall'estero, ossia dal­le esportazioni. Senonché, per i forti crediti concessi dagli USA agli Alleati europei durante la guerra, al termine delle ostilità l'Eu­ropa si trovò costretta a pagare contemporaneamente sia l'ecceden­za delle importazioni, sia i debiti contratti e i relativi interessi. Fino a un certo punto il problema poteva essere rinviato grazie al dre­naggio di riserve auree dall'Europa agli Stati Uniti e grazie a nuovi prestiti, ad alto tasso di interesse, contratti dai paesi europei nei confronti di banche private statunitensi. Ma il rimedio temporaneo era destinato ad accrescere il disavanzo europeo. Né era possibile ristabilire realmente l'equilibrio aumentando le esportazioni euro­pee verso l'America, perché a ciò si opponevano le dogane protetti­ve votate dal Congresso statunitense. Era pertanto inevitabile, alla distanza, che l'Europa non pagasse i debiti e riducesse le importa­zioni dagli Stati Uniti, con conseguenze disastrose specie per l'agri­coltura statunitense, che si reggeva in larga misura sulle esporta­zioni di cotone, di tabacco e soprattutto di grano.

A partire dal giugno del 1929, mancato ogni com­penso all'insufficienza della domanda interna ameri­cana, la crisi di sovrapproduzione comincia a col­pire le industrie chiave, specie siderurgiche, e anche più grave­mente le attività agricole.

Durante la guerra la produzione europea di cereali si era molto ridotta, e l'Europa aveva importato grandi quantità di grano ameri­cano. Negli anni successivi, però, l'agricoltura europea aveva recu­perato e superato i livelli produttivi prebellici, e le importazioni dall'America erano quindi diminuite.

Nel 1929 il raccolto fu parti­colarmente abbondante sia in America sia in Europa, e perciò i prezzi dei cereali precipitarono, mettendo nelle più gravi diffi­coltà gli agricoltori statunitensi.

La crisi dell'economia reale nel giro di pochi mesi si ripercuote sull'andamento della borsa. Coll'inizio di settembre, infatti, la corsa al rialzo cessa, e inizia un periodo di fluttuazioni prevalentemente orientate verso il ribasso.

La gente che ha investito in titoli comincia a sospettare che sia giunto il mo­mento di venderli «prima che sia troppo tardi». E anche la tenden­za a vendere avvalora se stessa, in quanto determina il decrescere delle quotazioni.

Infine, dopo alcune settimane di oscillazioni e di incertezze, si diffonde il panico che scatena la corsa alle vendite: il 24 ottobre 1929 (giovedi nero) quasi tredici milioni di azioni ven­gono contrattate a New York a prezzi che ovviamente precipita­no. L'intervento organizzato di alcuni finanzieri, che per dare prova concreta del loro professato ottimismo e per sostenere la borsa acquistano titoli, consente temporanei recuperi o battute d'arresto, ma non basta a rovesciare la corsa alle vendite. Il proces­so è ormai incontrollabile: salvo brevi mo­menti di ripresa, il ribasso continua fino all'8 luglio del 1932, quando tocca il fondo. In concreto ciò significa che chi avesse acquistato titoli il 3 settembre 1929 e li avesse rivenduti l'8 luglio 1932, avrebbe perso mediamente più dell'87% del suo danaro: di cento dollari gliene sa­rebbero rimasti meno di tredici.

Il crollo della borsa, se non fu la causa della crisi, concorse certa­mente a inasprirla, in quanto portò alla rovina parecchie centinaia di migliaia di Americani e privò di capacità d'acquisto e d'investi­mento anche una parte significativa delle classi abbienti. La fiducia dell'opinione pubblica nella saggezza, nella previdenza e nell'one­stà degli uomini d'affari e dei finanzieri, funzionale al sistema, ne uscì distrutta.      

Nell'economia reale, perciò, la situazione, già com­promessa, divenne anche più disastrosa. Fra il 1929 e il 1932-33 la produzione complessiva statuniten­se si ridusse di circa un terzo; i di­soccupati salirono progressivamente, sino a raggiungere nel 1933 la cifra massima di oltre 13 milioni (corrispondente all'incirca a un lavoratore su quattro), e soltanto nel 1937, grazie alla ripresa di cui parleremo più avanti, scesero al di sotto degli 8 milioni (saliti di nuovo oltre i 10 milioni nel 1938).



Poiché gli Stati Uniti erano diventati il centro di gra­vità del sistema economico mondiale (fatta eccezio­ne per la Russia Sovietica), la crisi si diffuse rapidamente in tutti i paesi capitalisti

Nel precedente periodo di espansione l'eccedenza di capitali statunitensi aveva trovato sfogo in prestiti e in investi­menti all'estero, sicché ora bastò il ritiro di questi capitali per espandere la depressione su scala internazionale: particolarmente colpite furono la Germania e l'Austria, dove i prestiti privati ameri­cani erano stati più ingenti.


La sovrapproduzione fece sentire i suoi peggiori ef­fetti nel settore primario (agricoltura) che produce generi esposti alle più brusche oscillazioni di prezzo.

Gli agricoltori americani furono infatti rovinati dal pre­cipitare dei prezzi, e a uguale rovina furono esposti quei paesi che fondavano la loro economia sull'esportazione di derrate derivanti dall'agricoltura e dall'allevamento (come l'Argentina, l'Uruguay e l'Australia), che non ebbero più alcuna possibilità di pareggiare la loro bilancia commerciale con l'estero e videro le loro monete gra­vemente svalutate.

Ma anche l'Inghilterra, malgrado lo sviluppo delle sue industrie, non fu più in grado di compensare le importazioni con le esportazioni e dovette intaccare le proprie ri­serve auree. Fu pertanto costretta ad abbandonare la base aurea e a svalutare la sterlina (1931) per rilanciare le esportazioni. Poiché pe­rò gli altri paesi (compresi gli Stati Uniti che pure avevano le più abbondanti riserve auree del mondo) seguirono l'esempio inglese, si ritornò pressappoco alle condizioni di partenza, e la semplice manovra monetaria risultò sostanzialmente inefficace.

I governi ricorsero allora ampiamente a dogane pro­tettive, o stabilirono semplicemente la quota massi­ma dei vari generi importabili, o ricorsero a scambi bilaterali di merci contro merci, che evocavano il baratto altomedievale: cosi per esempio la Germania scambiò con la Iugoslavia macchine foto­grafiche contro maiali.

In tal modo, sia per la crisi sia per le misure stesse adottate per contrastarla, l'unità economica mondiale del primo Novecento fu completamente perduta, e venne sostituita da un mosaico di singo­le economie nazionalistiche in dura lotta fra di loro, mentre gli scambi internazionali cadevano a un terzo del loro volume prece­dente.

Per tutte queste ragioni la produzione industriale eu­ropea subì un calo non meno rilevante di quella sta­tunitense, e il numero di disoccupati sali a oltre 6 milioni in Ger­mania, a 3 milioni in Inghilterra, a oltre 1 milione in Italia, a quasi mezzo milione nella stessa Austria, che pure i trattati di pa­ce avevano ridotta a una popolazione di soli 6 milioni di abitanti.

Il nazionalismo economico e l'avvento del nazismo in Germania, grandemente facilitato dalla crisi, concorreranno in misura deter­minante alla deflagrazione della seconda guerra mondiale.









Il New Deal negli USA



Il crack di borsa e la crisi economica squalificarono di fronte all'opinione pubblica americana quegli stessi ambienti capitalistici e finanziari che negli anni del boom erano stati considerati esemplari per competenza, onestà, spirito di iniziativa; e l'ondata di sfiducia si abbatté anche sul Partito repubblicano che di quegli ambienti era il più diretto rappresentante. Pertanto, nelle elezioni del 1932 il candidato re­pubblicano riusci nettamente sconfitto dal candidato democratico Franklin Delano Roosevelt, sostenuto da un ampio schieramento di forze nel quale i lavoratori erano largamente rappresentati.

Il New Deal (Nuovo Patto) che il Roosevelt propone­va agli Americani non si ispirava a una precisa dot­trina economico-politica. Punti fermi del programma erano la deci­sione di affrontare la crisi mediante un massiccio intervento del­la mano pubblica e l'impegno a dirigere le attività economiche e a mediare i contrasti di classe in modo tale da dimostrare la perfet­ta compatibilità fra sistema capitalistico e regime democratico.

Ma per le soluzioni concrete si sarebbe fatto ricorso all'empirismo del caso per caso, animato peraltro da una forte volontà etico-politica

Coll'aiuto di un trust di cervelli (Brain Trust), ossia di un gruppo di collaboratori competenti e progressi­sti, nei primi mesi della sua presidenza il Roosevelt assoggettò il paese alla terapia intensiva di una serie di provvedimenti, ispirati genericamente alle idee di Keynes piuttosto che alla tradizione liberista ortodossa.

Per ridurre la disoccupazione, il governo, sia diretta­mente sia mediante prestiti concessi ai singoli Stati dell'Unione, promosse una vasta massa di lavori pubblici (costruzione di case, strade, ponti eccetera). Fondò un Corpo Civile per la Conservazione della natura (Civilian Conserva­tion Corps), che impiegò circa 3 milioni di giovani in opere di rim­boschimento e simili. Fondò altresi l'assai più importante Tennes­see Valley Authority, che in una ventina d'anni portò a termine i colossali lavori per la sistemazione appunto della valle del Tennes­see, costruendo dighe, centrali, canali eccetera allo scopo di fornire grandi quantitativi di energia elettrica a costi più bassi di quelli praticati dalle industrie private.

Sussidi vennero concessi agli agricoltori perché di­minuissero la produzione o addirittura perché di­struggessero una parte dei raccolti, in modo da evitare la caduta dei prezzi: questi ultimi provvedimenti, in assoluto mostruosamen­te irrazionali, erano però coerenti col sistema e, uniti ad altre misu­re in favore dell'agricoltura, determinarono un rapido e notevole incremento dei redditi agricoli, facilitando anche la ripresa dell'in­dustria che ritrovò nelle campagne un più vivace mercato d'assor­bimento dei suoi prodotti.

All'Ente nazionale per la ripresa industriale (National Industrial Recovery Administration) fu affidato il compito di stimolare il rilan­cio delle industrie e di spingerle alla formulazione di un «codice di concorrenza leale» che consentisse di mantenere i prezzi ad un livello remunerativo: come contropartita di questo «calmiere rove­sciato», le aziende dovevano impegnarsi a corrispondere ai lavora­tori un minimo salariale e a non pretendere da loro più di un nu­mero pattuito di ore lavorative alla settimana.

Per reperire i fondi necessari alla realizzazione della nuova politica, quasi per intero fondata sull'espan­sione massiccia della spesa statale, si ricorse all'aumento del debi­to pubblico, che infatti fra il 1932 e il 1940 risultò più che raddop­piato; si accettò il deficit del bilancio statale, superando il pregiudi­zio del pareggio ad ogni costo; si stamparono infine più dollari di quanti le riserve auree avrebbero consentito, ossia si abbandonò la base aurea e si provocò un'inflazione controllata che, comportando una svalutazione del dollaro, aveva fra l'altro lo scopo di facilitare le esportazioni, specie di derrate agricole.

Tamponate le falle più pericolose della crisi, dal 1935 fu varato un programma di riforme mirante a consolidare il sistema in modo più organico e durevole. Una Legge sulla sicurezza sociale (Social Security Act) fissò consistenti inden­nità per la disoccupazione, per l'invalidità e per la vecchiaia. Una riforma fiscale, ribattezzata dagli oppositori «legge per tartassare i ricchi», rese fortemente progressive le imposte sui redditi e provvi­de a turare i pertugi che facilitavano le evasioni fiscali. Una Legge sui rapporti di lavoro (National Labor Relations Act) concedette il riconoscimento giuridico ai sindacati, vietò alle aziende di interfe­rire nelle organizzazioni dei lavoratori e le obbligò ad accettare la contrattazione collettiva.

I sindacati, che complessivamente nel 1929 contavano solo 3­4 milioni di aderenti, nel 1940 erano saliti a 9-10 milioni ed era­no certamente in grado di tutelare quella capacità d'acquisto dei lavoratori che la crisi aveva dimostrato necessaria, entro certi limiti, alla sopravvivenza e alla solidità dello stesso sistema capitalistico.

Alcuni provvedimenti del governo furono giudicati incostituzionali dalla Corte Suprema, ma Roose­velt aggirò l'ostacolo riproponendoli in forma lievemente modifica­ta senza peraltro intaccarne la sostanza. D'altra parte, se inizial­mente il New Deal era stato accettato da tutti come terapia d'emer­genza, le riforme successive al 1935 incontrarono la crescente op­posizione degli ambienti capitalistici, che per la salvaguardia dei propri interessi accusavano il presidente di autoritarismo e di con­cessioni al collettivismo. Queste campagne propagandistiche non impedirono però a Roosevelt di essere rieletto alla presidenza nel 1936 con uno scarto di voti anche maggiore di quello del 1932.

Nel 1937, comunque, mentre il governo restringeva la spesa pubblica per non aumentare soverchiamen­te il deficit del bilancio, l'ostilità dei capitalisti si manifestò in un cosiddetto «sciopero bianco del capitale», che consistette in un forte decremento degli investimenti: ne segui una recessione in conseguenza della quale il numero dei disoccupati, che nel 1937 era sceso sotto gli 8 milioni, tornò l'anno dopo a superare i 10 mi­lioni. Fu pertanto necessario ricorrere nuovamente all'espansione della spesa pubblica.


Col 1938 la politica specificamente ispirata ai princi­pi del New Deal poté considerarsi conclusa: infatti le minacce che il nazismo addensava sull'Europa e che l'imperiali­smo nipponico, concorrente pericoloso degli Stati Uniti, faceva gravare sull'Estremo Oriente, indussero il governo a moltiplicare le spese per gli armamenti, e queste furono di tale entità da bastare da sole a far superare la crisi: tant'è vero che la disoccupazione spari rapidamente. Nella nuova situazione il Roosevelt fu rieletto alla presidenza una terza volta nel 1940 e una quarta volta nel 1944, sia pure con margini di maggioranza decrescenti, cosicché egli tenne la presidenza degli Stati Uniti sin quasi al termine della seconda guerra mondiale: mori infatti il 12 aprile del 1945, alla vigilia della vittoria sul nazismo.


Il giudizio sul New Deal e sull'opera politica del Roosevelt è tutto­ra oggetto di vivace discussione fra gli storici. Noi ci limiteremo a indicare le conclusioni che ci sembrano meno controvertibili.

Il New Deal seppelli per sempre le tesi del liberismo puro e introdusse irreversibilmente la pratica dello Stato assistenziale (Welfare State) non solo in America, ma anche, in misura diversa, in tutti gli altri paesi capitalisti.

La ripresa economica, che era fra gli obiettivi fonda­mentali del Presidente, fu in buona parte attuata

Il pieno impiego della manodopera non fu però raggiunto se non col riarmo, che non apparteneva alla logica propria del progetto rooseveltiano.

La ridistribuzione dei redditi, che era nei program­mi di Roosevelt, fu effettivamente conseguita in misura notevole.

Il New Deal, infine, allargò e tutelò le libertà sinda­cali e consolidò le libertà politiche, tanto che gliStati Uniti divennero il rifugio di molti intellettuali scacciati dalle loro patrie dalla persecuzione nazista e fascista: cite­remo, fra i grandissimi, Albert Einstein, Thomas Mann, Sigmund Freud, Enrico Fermi. Quest'ultimo diede contributi decisivi agli stu­di di fisica atomica, nei quali gli Stati Uniti erano all'avanguardia.








Le colonie inglesi popolate da bian­chi o dominate da forti minoranze bianche ottennero progressivamente la condizione di dominion, cioè di Stati autonomi, con governi propri, uniti fra di loro solo in quanto tutti soggetti alla Corona inglese. Periodi­che riunioni cui partecipavano il pri­mo ministro inglese e i primi ministri dei dominion dovevano elaborare una linea politica tendenzialmente unita­ria. Nell'ordine, conseguirono la con­dizione di dominion il Canada (1867), l'Unione australiana (1900), la Nuova Zelanda (1907), l'Unione sudafricana (1910).

Alla lettera: «livello di due poten­ze». Con questa espressione gli Ingle­si indícavano la loro volontà di man­tenere una flotta da guerra superiore alle flotte delle due massime potenze navali straniere riunite.

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