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Il diritto di asilo: la normativa internazionale ed europea




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IL DIRITTO DI ASILO: LA NORMATIVA INTERNAZIONALE ED EUROPEA





1.1 La normativa internazionale in materia d'asilo: cenni




La trattazione del diritto d'asilo, così come disciplinato nell'ambito dell'Unione Europea, non può assolutamente prescindere dalla definizione che, prima di ogni altra, gli è stata data dal diritto internazionale. Diritto internazionale, rispetto al quale, il diritto d'asilo può assumere un duplice significato. In primo luogo, esso può consistere nel garantire, da parte dello Stato, protezione al rifugiato all'interno del proprio territorio (c.d. asilo territoriale)1, esercitando un "originario potere sovrano"2 (ed è

questa l'ipotesi più rilevante); in secondo luogo, può consistere nell'accoglienza, da parte dello Stato, al di fuori della propria sfera territoriale (c.d. asilo extraterritoriale o diplomatico)3. Il problema dei rifugiati ha assunto una particolare rilevanza politica e giuridica per la Comunità Internazionale soprattutto "a seguito di eventi che hanno destabilizzato l'ordine degli Stati su cui si sono abbattuti, inducendo masse di profughi ad abbandonare la propria comunità statale"4. In questo contesto, si occuparono della situazione dei rifugiati dapprima la Società delle Nazioni5 e successivamente l'ONU. E' sull'ondata di indignazione che seguì alle atrocità commesse durante la seconda guerra mondiale che l'ONU promosse la redazione della Dichiarazione Universale dei diritti umani, firmata nel 1948.6


L'art. 14 della Dichiarazione definisce un generale "diritto all'asilo" stabilendo che "ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite". A questa affermazione di principio è seguita la creazione dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).7 E' comunque con la

Convenzione di Ginevra che si realizza quello "specifico regime convenzionale, pressoché universale, a tutela di una categoria di richiedenti asilo, i rifugiati, il quale prevede del resto solo indirettamente e parzialmente un obbligo di asilo nei confronti di queste persone".8


La Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, entrata in vigore il 22 aprile 1954,9 nasce per risolvere una situazione geograficamente e temporalmente circoscritta; l'obiettivo era quello di affrontare il problema di persone costrette a fuggire da una situazione storica determinata, nel caso specifico la seconda guerra mondiale. Si spiega così, secondo parte della dottrina, il fatto che l'art. 1 della Convenzione originariamente limitasse temporalmente il riconoscimento dello status di rifugiato per eventi anteriori il 1° gennaio 1951 e, per gli Stati che vi avrebbero optato, solo a quelli verificatisi in Europa. Con il Protocollo di New York del 31 gennaio 196710 viene eliminato il limite temporale; rimane quello geografico, ma per un numero sempre più ristretto di Stati.11


1.1.1 In particolare: la Convenzione di Ginevra




Come anticipato in precedenza, è proprio con la Convenzione di Ginevra del 1951 che per la prima volta vengono tracciati i contorni della definizione di rifugiato. Ai sensi dell'art. 1A par. 2 della Convenzione è

da considerarsi rifugiato "chiunque, [.] nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dal suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi".


Il riconoscimento dello status di rifugiato è quindi fondato su una valutazione soggettiva (la presenza del timore di una persecuzione) e una oggettiva (la ragionevolezza di tale timore).12


Controversa è la nozione di persecuzione che, secondo parte della dottrina, "ricomprende indubbiamente la lesione del diritto alla vita, della libertà personale, nonché attentati all'integrità fisica e psichica della persona, quale la tortura. Al di fuori di queste situazioni, che evidentemente corrispondono alle lesioni più gravi dei diritti umani, come ha rilevato l'UNHCR, il confine della nozione è più labile.13 Altro aspetto controverso rispetto alla nozione di persecuzione è il suo carattere individuale che sembrerebbe escludere gli esodi di massa che rappresentano la parte più rilevante dei fenomeni migratori legati al riconoscimento dello status di rifugiato. Il "timore" di essere perseguiti dovrebbe infatti derivare da caratteristiche facenti capo al singolo ma con questo, secondo parte della dottrina, non si deve intendere che il

riconoscimento dello status di rifugiato sia subordinato "ad un accertamento individuale dell'atteggiamento del governo rispetto al singolo cittadino.14


Parte della dottrina ha rilevato che, se la persecuzione è attuata nei confronti di una intera comunità in ragione di razza, lingua o fede religiosa, l'individuo che ne fa parte potrà avere un fondato timore di essere perseguito al di là del fatto che abbia subito direttamente gli effetti di detta persecuzione.15


Sebbene la Convenzione di Ginevra abbia rappresentato un punto di svolta nella definizione della figura di rifugiato, essa tuttavia non tutela direttamente colui il quale sia identificato come tale, essendo la tutela dello status di rifugiato vincolata all'esercizio della sovranità da parte dei singoli Stati. La Convenzione si limita infatti a stabilire il trattamento e il livello di protezione del rifugiato cui sia tenuto lo Stato che abbia deciso di accoglierlo sul proprio territorio ma non vincola lo Stato stesso all'accoglienza. Partendo da questo presupposto, bisogna riferirsi necessariamente a quel tipo di "tutela indiretta" che la Convenzione accorda ai rifugiati. L'art. 33 par. 1 dispone infatti che "nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche". E' questa la prima enunciazione del principio di non-refoulement che rappresenta uno dei nodi centrali della disciplina riguardante la tutela del rifugiato.

Il "divieto di respingimento", sancito dall'art. 33 par. 1, si applica infatti, non solo a coloro che sono già stati riconosciuti rifugiati, ma anche a coloro che hanno diritto al riconoscimento dello status non ancora accertato e che quindi necessitano di una protezione temporanea.16 Il fatto che l'espulsione prevista dall'art. 33 par. 1 possa essere effettuata "in qualsiasi modo" fa ricadere nel divieto di refoulement non solo quel tipo di espulsione "classica" di una persona che si trova già nel territorio statale, ma anche il respingimento alla frontiera di chi possa rientrare nella definizione di rifugiato. Secondo una lettura largamente condivisa, neanche il fatto che questi si sia introdotto irregolarmente nel territorio di uno Stato permette allo stesso Stato di espellerlo.17


Il divieto di refoulement trova la sua ragione non in una persecuzione, come nel caso del riconoscimento dello status di rifugiato18, ma in una "minaccia alla vita o alla libertà"; la dottrina ha evidenziato come questa differenza non sia sostanziale: le circostanze su cui si fonda il riconoscimento dello status di rifugiato impediscono infatti, il respingimento del rifugiato stesso. Bisogna inoltre riconoscere come sia vietato l'allontanamento non solo verso il paese d'origine, ma "verso i confini dei territori"19 (da intendersi come "tutti quei territori") nei quali

il rifugiato ritenga minacciata la propria vita o libertà.

L'art. 33 lascia peraltro liberi gli Stati di allontanare il rifugiato verso un "paese di primo asilo" (cioè nel quale abbia già ricevuto protezione) o verso un paese in cui questi sia transitato nel suo percorso di fuga dal paese d'origine.20 D'altro canto, limiti rilevanti all'applicazione del divieto di refoulement sono comunque contenuti nella stesso art. 33 par. 2 laddove si afferma come "la presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese." e all'art. 1F che prevede come "le disposizioni della presente Convenzione non sono applicabili alle persone, di cui vi sia serio motivo di sospettare che: a) hanno commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l'umanità, nel senso degli strumenti internazionali contenenti disposizioni relative a siffatti crimini; b) hanno commesso un crimine grave di diritto comune fuori dei paese ospitante prima di essere ammesse come rifugiati; c) si sono rese colpevoli di atti contrari agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite".21


Comunque, al di là di quello che si è detto finora, la dottrina ha evidenziato come il limite più rilevante della Convenzione di Ginevra del 1951 rimanga quello di "non aver predisposto un meccanismo internazionale di controllo sul rispetto da parte degli Stati dei loro obblighi".


1.1.2 L'evoluzione del principio di non-refoulement nelle convenzioni internazionali




Si è visto come il sistema derivante dalla Convenzione di Ginevra abbia rappresentato un primo passo importantissimo nella protezione del diritto d'asilo ma anche come, allo stesso tempo, sia stata solo un punto di partenza, vista innanzitutto l'esigenza di colmare l'assenza di controlli sull'applicazione della Convenzione (ed in particolar modo del principio di non-refoulement). Grande incidenza sulla Convenzione di Ginevra e sull'evoluzione del divieto di refoulement hanno avuto sicuramente alcune convenzioni regionali ed altre stipulate in ambito ONU. Si pensi innanzitutto alla Convenzione dell'Organizzazione dell'Unità Africana (OUA) del 196922 che, oltre a contenere una definizione di rifugiato, prevede una versione ampliata del principio di non-refoulement;23 ancora, la Convenzione contro la tortura, stipulata nel 198424, nell'ambito della quale il Comitato contro la tortura25 ha codificato il divieto di respingimento alla frontiera.26


L'impulso più significativo all'estensione dell'applicabilità del divieto di refoulement, comunque, è stato dato da organi di controllo istituiti nell'ambito di convenzioni internazionali; in particolare, rilevanza decisiva hanno avuto il Comitato dei diritti umani27 e la Corte europea dei diritti umani. Riferendosi questa trattazione al diritto d'asilo così come è disciplinato nell'ambito dell'Unione europea, una particolare attenzione va posta sulla giurisprudenza che applica la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo del 1950 (CEDU).28


La CEDU non fa alcun riferimento diretto al principio di non- refoulement; essa si riferisce all'espulsione e al respingimento solo in relazione alla legittimazione della privazione della libertà personale di migranti entrati irregolarmente nel territorio di uno Stato.29 Non è però su queste disposizioni che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo si è concentrata per riconoscere prima, ed ampliare poi, un divieto di refoulement in ambito CEDU; rilevanza primaria è da attribuire all'interpretazione, fatta dalla Corte, dell'art. 3 della Convenzione, il quale vieta la tortura oltre a trattamenti inumani e degradanti.30 Quella che ha aperto la strada all'introduzione del principio di "non respingimento" è la sentenza "Soering" c. Regno Unito;31 la Corte, in questo caso, ha affermato come sia contrario all'art. 3 CEDU l'allontanamento (in qualunque modo questo sia posto in essere) di una persona verso uno Stato

in cui essa rischi di subire "tortura o pene inumane e degradanti"; sempre in "Soering" la Corte ha sancito che, in presenza di "flagrante diniego" del diritto a un equo processo garantito dall'art. 6 CEDU, l'allontanamento sarebbe vietato.32 Nel caso Chahal c. Regno Unito,33 la Corte, dimostrando di accogliere una applicazione più vasta del divieto di refoulement di quella prevista dalla Convenzione di Ginevra, ha aggiunto come i comportamenti attribuiti alla persona in questione34 siano irrilevanti e non possano quindi essere considerati nella decisione sull'allontanamento, per quanto pericolosi.


Un'ulteriore evoluzione si è avuta con la sentenza H.L.R. c. Francia;35 in essa la Corte afferma come il trattamento inumano o degradante vietato possa provenire anche da privati qualora lo Stato di provenienza non sia in grado di garantire protezione alla persona.36 Con la sentenza T.I. c. Regno Unito,37 si afferma il principio fondamentale per cui, non solo non si può essere allontanati direttamente verso lo Stato in cui si rischia di subire il trattamento inumano e degradante, ma non si può nemmeno essere allontanati verso uno Stato che presumibilmente, a sua volta, allontanerà verso lo Stato suddetto. Oltre a queste sentenze che hanno

come presupposto la violazione dell'art. 3 CEDU, bisogna tenere in considerazione quelle che si riferiscono alla violazione dell'art. 2 CEDU che tutela il diritto alla vita;38 nella sentenza "Shamayev" e altri c. Georgia e Russia,39 si afferma come l'allontanamento del richiedente asilo sia vietato qualora questo rischi l'arbitraria privazione della vita.40 Peraltro, la dottrina ha rilevato come l'introduzione nella Convenzione del Protocollo N°6, relativo all'abrogazione della pena di morte, potrebbe incidere sull'art. 2 CEDU, così da far ricadere il divieto di allontanamento verso uno Stato in cui il richiedente asilo rischia la pena capitale sotto la protezione accordata non dall'art. 3 CEDU (come è stato fin dalla sentenza Soering), ma dall'art. 2 CEDU.41


Questa valutazione è già stata presa in considerazione dalla Corte di


Strasburgo nella sentenza Ocalan c. Turchia.42 Altro limite all'allontanamento degli stranieri, che non riguarda specificamente i richiedenti asilo ma si può applicare anche a questi, è rappresentato dalla protezione dell'unità familiare da parte dell'art. 8 CEDU:43 protezione che non è assoluta (come quella dalla tortura), ma che trova nel testo numerose deroghe (tra le altre nella sicurezza nazionale, nell'ordine pubblico e nella salute pubblica)44 le quali vanno bilanciate con i diritti sanciti nella CEDU secondo criteri di proporzionalità applicati alla situazione concreta. Sulla base di quanto detto, si può affermare che le convenzioni regionali e, per quello che riguarda l'Europa, più specificamente la CEDU, hanno ampliato la nozione di non-refoulement originariamente elaborata nella Convenzione di Ginevra, di cui peraltro non sono ancora chiari i confini, e ne hanno affermato il carattere consuetudinario a livello internazionale.


La dottrina ritiene in proposito che il divieto di respingere verso uno Stato in cui il richiedente asilo rischi la tortura abbia il carattere inderogabile dello "Ius cogens",45 essendo nient'altro che

un'estrinsecazione del divieto cogente di tortura; per cui, neanche gli artt. 1F e 33 par. 2 della Convenzione di Ginevra potrebbero prevalere su questo.46


A maggior ragione non potrebbero derogarvi nemmeno le risoluzioni ONU elaborate per fronteggiare la questione del terrorismo internazionale, quando affermano come non si dovrebbe concedere asilo a terroristi o presunti tali; questo perché tali risoluzioni non possono andare contro lo "Ius cogens" e, di conseguenza, devono essere interpretate nel senso conforme ai diritti umani.47



1.2 Il diritto d'asilo in Europa: nascita ed evoluzione



Dopo un doveroso riferimento agli strumenti di diritto internazionale, quali la Convenzione di Ginevra e la CEDU, si può iniziare a vedere come la questione sia stata affrontata nell'ambito dell'Unione europea. L'idea di un legame più stretto fra i paesi europei è nata subito dopo la fine della seconda guerra mondiale48.

L'attuale Unione Europea trae le proprie origini dalla nota dichiarazione resa il 9 maggio 1950 dall'allora ministro degli esteri francese, Robert Schuman, il quale proponeva di "mettere l'intera produzione del carbone e dell'acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel

quadro di un'organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei"49. La cosiddetta "proposta Schuman" incontrò il favore di Italia, Lussemburgo, Belgio e Paessi Bassi tanto che tali stati, unitamente alla Francia ed alla Germania, giunsero ben presto alla negoziazione del Trattato istituito dalla Comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA), obiettivo raggiunto con la firma del Trattato nel 1951,50 poi con quella dei trattati CEE ed EURATOM nel 1957.51 Il punto fondamentale sarà l'analisi di quel processo evolutivo che ha portato all'inserimento del diritto d'asilo fra le materie di competenza dell'Unione; in questo senso si può affermare come il periodo, che va dall'istituzione delle Comunità Europee (1958) al Trattato di Amsterdam (1999), che analizzeremo nel prossimo paragrafo, sia segnato dalla cooperazione intergovernativa tra gli Stati membri in materia d'asilo.


Con i trattati CEE, CECA ed EURATOM, inizio di quel processo di integrazione europea che ha attirato la disciplina di un numero sempre maggiore di materie dal livello statale a quello sovranazionale, non era stata prevista alcuna competenza dell'allora Comunità europea riguardo al diritto d'asilo o comunque all'ingresso nei paesi comunitari di cittadini provenienti da Stati terzi.52 L'Europa e le sue istituzioni avevano, in origine, uno scopo fondamentalmente economico, cioè quello di creare il "mercato unico europeo"; si spiega così il fatto che si potesse ritenere la

materia dell'asilo estranea alla natura di questi trattati e che le principali misure prese in ambito europeo fino agli anni '70 abbiano riguardato la libera circolazione delle merci.53


D'altra parte, l'attraversamento dei confini nazionali e lo stabilimento in un territorio coinvolgono questioni riguardanti la sovranità statale, per cui è facilmente spiegabile la riluttanza iniziale, da parte degli Stati membri, a devolvere una materia tanto delicata al neonato diritto comunitario e, come ha rilevato la dottrina, "la lentezza con cui la libertà di circolazione dei quattro fattori produttivi, persone, merci, servizi e capitali, già prevista nel trattato istitutivo, ha trovato concreta attuazione".54 L'interesse degli Stati membri nei confronti di questioni riguardanti giustizia e affari interni (quindi coinvolgenti immigrazione e diritto d'asilo) si manifesta, per la prima volta, a metà anni '70 ed è tutta improntata sul metodo intergovernativo; esempio lampante ne è il "gruppo TREVI",55 istituito nel 1976, che riuniva i ministri dell'Interno allo scopo di trovare misure atte a contrastare il terrorismo e coordinare, nella Comunità, la cooperazione di polizia; questo discusse anche di uniformazione della disciplina dei visti e di misure volte ad evitare l'abuso

del diritto d'asilo.


Negli anni '80 si assiste ad un interessamento sempre maggiore, da parte delle istituzioni comunitarie, alla materia dell'immigrazione e dell'asilo.

Un primo riferimento indiretto al diritto d'asilo è contenuta nell'Atto unico europeo56 col quale, per la prima volta, si modifica sostanzialmente il Trattato CEE nel tentativo di creare il mercato unico europeo; tappa fondamentale per l'approdo a questo testo è rappresentata dal Libro Bianco sul mercato interno del 1985.57 Con esso la Commissione, presidente Jaques Delors, individua 279 provvedimenti necessari per realizzare il mercato unico ed afferma l'intenzione di presentare una proposta di direttiva entro il 1988, relativa a rifugiati e richiedenti asilo (proposta mai concretizzatasi).

L'Atto unico parla molto genericamente, nel Preambolo, della necessità da parte degli Stati aderenti di "far valere in particolare i principi della democrazia e il rispetto del diritto e dei diritti dell'uomo, ai quali essi si sentono legati, onde fornire congiuntamente un contributo specifico al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali conformemente all'impegno che hanno assunto nell'ambito della Carta delle Nazioni Unite".58

Inoltre, fra le Dichiarazioni finali, quella "relativa alla libera circolazione delle persone" afferma come, "per promuovere la libera circolazione delle persone gli Stati membri cooperano, senza pregiudizio delle competenze della Comunità, in particolare per quanto riguarda

l'ingresso, la circolazione ed il soggiorno del cittadini di paesi terzi".

Il fatto che nell'Atto unico manchino basi giuridiche per quanto riguarda la materia dell'asilo, secondo parte della dottrina, costituisce il risultato di una precisa scelta, operata dai governi alla conferenza di Lussemburgo, di affrontare la questione dell'immigrazione "uti singuli".59

Anche il Parlamento europeo dimostra, nello stesso periodo, un interesse sempre crescente alla questione dell'asilo; questo viene manifestato attraverso proposte e documenti non vincolanti che hanno un'incidenza limitata, essendo in quel momento ancora lontano a venire il compimento di quel processo di "democratizzazione europea" che non può prescindere da una partecipazione sempre più decisiva del Parlamento, i cui rappresentanti sono eletti dai cittadini europei, all'attività dell'Unione.60 E' del 1983 una risoluzione del Parlamento contenente una richiesta al Consiglio ed alla Commissione di presentare una proposta per l'armonizzazione del regime dei visti, della legislazione sull'immigrazione, sull'asilo e sulla residenza61 ma è del 1986 la prima risoluzione sulla elaborazione di una politica comune europea sui rifugiati, nella quale si propongono una definizione condivisa di rifugiato politico, uniformità delle norme sul trattamento dello stesso e norme sulla

ripartizione dei rifugiati tra Stati membri.62



In seguito alla relazione "Vetter" sul diritto d'asilo,63 presentata dalla Commissione giuridica del Parlamento per i diritti dei cittadini, si giunge alla risoluzione del 1987;64 con essa il Parlamento europeo afferma come il richiedente asilo dovrebbe avere la possibilità di scegliere il paese a cui presentare la domanda d'asilo e, nel dichiarare inadeguata la definizione di rifugiato contenuta nella Convenzione di Ginevra, aggiunge al riguardo che dovrebbe essere presa come riferimento la definizione accolta dalla Convenzione dell'OUA del 1969.65

Si può quindi affermare che, dopo l'Atto unico europeo, l'interesse verso la materia dell'immigrazione e dell'asilo inizia a manifestarsi in maniera sempre più decisa; questa tendenza si riscontra nelle dichiarazioni programmatiche che chiedono un coinvolgimento attivo dell'Europa, sempre più frequenti in ambito di Consiglio europeo. Momento fondamentale di questa fase, caratterizzata dalla cooperazione intergovernativa, è il Consiglio europeo di Londra del 1986;66 nelle conclusioni, si era affermato come si dovessero prendere delle "misure per giungere ad una politica comune onde porre fine all'abuso del diritto d'asilo"67 e si dovesse, a tal proposito, istituire un gruppo intergovernativo

ad hoc, che si collocasse a fianco del gruppo TREVI, formato dai ministri degli Stati Membri, competenti in materia di immigrazione. In questa fase, tra gli organi di cooperazione intergovernativa, spicca il sottogruppo TREVI '92, avente il compito di preparare le misure necessarie per assicurare la libera circolazione delle persone.68

Il "Palma Document" del settembre 1989,69 presentato al Consiglio


europeo dal Gruppo dei Coordinatori, pone l'accento sulla necessità di elaborare una politica comune europea, in particolare riguardo alla "determinazione dello Stato responsabile ad esaminare la domanda d'asilo".70 Con il Consiglio europeo di Roma (1990) poi, per la prima volta si parla di politica di "armonizzazione del diritto d'asilo".71

Gli avvenimenti storici della fine degli anni '80, specificamente la caduta del muro di Berlino e la fine dei regimi comunisti dell'Est Europa, rappresentano fatti di straordinaria importanza per quello che riguarda la circolazione delle persone; proprio la difficile situazione in cui si trova la

Germania72 fa sì che, nel successivo Consiglio europeo di Lussemburgo (1991), ci si pronunci per la previsione di misure di armonizzazione della normativa in materia di immigrazione e asilo, nella successiva conferenza intergovernativa che si sarebbe tenuta a Maastricht.73

Avendo così presenti le difficoltà dell'Europa ad affermare una politica comune in materia di immigrazione e asilo in tale periodo, bisogna fare un rapido accenno ai principali strumenti di diritto internazionale adottati al riguardo, i quali si individuano nella Convenzione di Schengen e nella Convenzione di Dublino, la quale sarà analizzata approfonditamente nel prossimo paragrafo.

La Convenzione di Schengen, è diretta conseguenza dell'Accordo firmato da alcuni Stati membri nel giugno 1985.74 Si è detto di come gli Stati membri siano stati, fin dalla nascita di quella che sarebbe poi diventata l'Unione Europea, restii a devolvere materie implicanti l'esercizio della sovranità statale ad organi politici sovranazionali (chiaro esempio è offerto dai provvedimenti sull'attraversamento delle frontiere); sulla base di premesse storico-politiche, si fonda la scelta da parte di Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo di concludere un accordo internazionale fra loro al riguardo.75 A tale Accordo segue l'elaborazione, da parte degli Stati facenti parte del "Gruppo Schengen", di quelle forme di cooperazione previste da tale atto, che mirano a rendere

effettiva la libera circolazione delle persone.76 Questo processo ha portato alla firma della Convenzione Schengen applicativa dell'Accordo il 19 giugno 199077 che, come ha rilevato parte della dottrina, ha superato le ambizioni dell'Accordo stesso.

La Convenzione di Schengen, per quello che concerne il diritto d'asilo, dedica gli artt. da 28 a 38 alla determinazione dell'unico Stato responsabile ad esaminare la domanda d'asilo.78

Specificamente, vi si afferma la conformità delle disposizioni della Convenzione agli obblighi di protezione internazionale degli Stati,79 prevedendo la garanzia dell'esame di ogni domanda d'asilo conformemente alle disposizioni statali;80 all'art. 30 si stabiliscono poi i criteri per stabilire quale sia lo Stato competente all'esame della

domanda.81 La richiesta di presa in carico di un richiedente, avanzata da una Parte contraente ad altra che si reputa competente deve essere presentata entro sei mesi82 e, comunque, la Parte che deve esaminare la domanda segue le disposizioni del diritto nazionale.83 Ad ogni modo, la Convenzione di Schengen si occupa del diritto d'asilo comunque solo secondariamente rispetto al suo oggetto principale (identificato nell'eliminazione dei controlli alle frontiere), essendo la questione dell'attraversamento dei confini legata a quella di chi cerca protezione internazionale.

Diverso è lo scopo della Convenzione di Dublino che ha l'obiettivo esclusivo di stabilire quali siano i criteri per l'individuazione dello Stato

competente ad esaminare una domanda d'asilo, avendo quindi un oggetto

che coincide sostanzialmente con gli artt. 28-38 della Convenzione di Schengen. Tra l'altro, le due Convenzioni sono entrate in vigore dopo il Trattato di Maastricht che aveva attribuito strumenti per disciplinare immigrazione e asilo all'Unione europea: la Convenzione di Schengen il

26 marzo 1995, mentre la Convenzione di Dublino tra il '97 e il '98.84 Tra


i motivi principali di questa svolta bisogna considerare il fatto che il flusso di migranti verso i paesi europei, che fino agli anni '80 era stato limitato, era diventato sempre più consistente con la fine dei regimi comunisti; inoltre, la realizzazione del mercato unico non poteva prescindere da misure volte a rendere effettiva la libera circolazione delle persone.85

L'Europa non poteva quindi sottrarsi dal predisporre misure adeguate, appunto a livello sovranazionale, per fronteggiare un fenomeno migratorio che si poneva (e si pone tutt'oggi) come una delle questioni più rilevanti e di più difficile soluzione.

E' così che si arriva alla stipulazione del Trattato di Maastricht,86

caratterizzato dalla divisione dell'Unione europea in tre pilastri; è proprio nel terzo pilastro, dedicato alla disciplina di "giustizia ed affari interni" (Titolo VI del Trattato sull'Unione europea)87 e caratterizzato dal metodo intergovernativo, che vengono attribuite all'Unione competenze nel

settore di immigrazione e asilo;88 le istituzioni europee possono, da questo momento, adottare posizioni comuni ed azioni comuni in materia di immigrazione e asilo.89

Nella Dichiarazione sull'asilo, allegata al Trattato, si afferma inoltre l'intenzione di voler adottare un'azione comune relativa all'asilo, per armonizzare alcuni aspetti relativi a questa materia.90 Gli strumenti del terzo pilastro hanno però presentato notevoli limiti, proprio perché caratterizzati dal metodo intergovernativo91 e ciò, a maggior ragione, nel momento immediatamente successivo all'entrata in vigore del Trattato di Maastricht. Il Parlamento europeo, tramite una risoluzione del 1994, esprime i suoi dubbi sull'utilizzazione del metodo intergovernativo in materia d'asilo;92 il Consiglio, con posizione comune ex art. K 3,93 prevede l'applicazione armonizzata della definizione di rifugiato contenuta nella

Convenzione di Ginevra.

Seguono poi, una serie di azioni comuni di stampo solidaristico, volte a istituire e distribuire fondi a progetti a favore di richiedenti asilo e rifugiati.94

Durante il periodo della cooperazione intergovernativa, che va dall'istituzione delle Comunità europee all'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, l'Unione è stata quindi assolutamente incapace di porre in essere una politica comune europea e degli strumenti adeguati in materia d'asilo; d'altro canto, l'aver inserito con il Trattato di Maastricht il diritto d'asilo fra le competenze dell'Unione europea, seppur nel terzo pilastro, ha rappresentato un passo importante e necessario del processo di comunitarizzazione del diritto d'asilo.


All'indomani del Trattato di Amsterdam, si viene così a delineare un quadro in cui le disposizioni del Titolo IV TCE si applicano a dodici dei quindici Stati facenti parti dell'Unione europea. Questa situazione avvalora la tesi di quegli autori che parlano di una "Europa a geometria variabile". Al Trattato di Amsterdam viene poi allegato un Protocollo95 che afferma come gli Stati membri siano da considerarsi Stati sicuri, ponendo quindi notevoli limiti alla possibilità di chiedere asilo in uno

Stato membro da parte di un cittadino di altro Stato membro.96

Il Trattato di Amsterdam, se da un lato si è posto come punto d'approdo di quel processo che ha visto gli Stati spogliarsi progressivamente, almeno in parte, della loro sovranità in materia d'immigrazione, dall'altro ha rappresentato un punto di partenza per l'Unione europea nel prendere misure sempre più incisive in materia di immigrazione ed asilo.


Il 1° dicembre 2009 è entrato in vigore il Trattato di Lisbona97 che ha apportato modifiche molto rilevanti per l'Unione europea. Innanzitutto si afferma chiaramente come l'Unione europea debba sviluppare una politica comune in materia d'asilo98 e si codifica il concetto di protezione internazionale già presente nelle direttive in vigore;99 inoltre, si garantisce espressamente il rispetto del principio di non-refoulement, come obbligazione derivante direttamente dal Trattato di Lisbona e non meramente da obblighi degli Stati membri, conseguenza di diritto internazionale derivato o di Ius cogens. E' opportuno precisare come le disposizioni in materia d'asilo riguardino esclusivamente "cittadini di paesi terzi", essendo questa la diretta conseguenza del Protocollo sull'asilo di cittadini di Stati membri che limita questo grandemente la possibilità

per questi di chiedere asilo in altri Stati facenti parte dell'Unione.


Importante è la nuova disposizione riguardante il partenariato e la cooperazione con i paesi terzi, ambito in cui viene attribuita chiaramente la competenza all'Unione Europea.


Le modifiche apportate dal Trattato di Lisbona sembrano così prendere atto delle considerazioni di parte della dottrina che rilevava come non si sarebbe potuto, mantenendo il contesto legale del Trattato di Amsterdam, sviluppare la politica comune in materia d'asilo, aspirazione del programma di Tampere e dell'Aia.100 Ultimo aspetto connesso alle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona è quello che riguarda la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata contestualmente alla firma del Trattato di Nizza nel 2000.101 In merito, il nuovo Trattato attribuisce alla Carta, che fino a quel momento non era vincolante, lo stesso valore giuridico dei trattati.102 La Carta di Nizza è così destinata ad attribuire diritti che i singoli individui potranno invocare davanti alle giurisdizioni nazionali e a quella comunitaria; uno di tali diritti è, appunto,

il diritto d'asilo, tutelato dall'art. 18 della Carta.103

1.2.1 Le Politiche Europee in materia d'asilo




Subito dopo l'entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, con la previsione di competenze comunitarie in materia d'asilo, si era posto il problema di indirizzare le istituzioni comunitarie verso la predisposizione di quegli atti legislativi necessari alla realizzazione di un sistema di asilo europeo. In proposito, importanza decisiva hanno avuto i programmi multi annuali predisposti al fine di costruire lo spazio di libertà. Sicurezza e giustizia con i consigli europei di Tampere (1999) e dell'Aia (2004). Un primo impulso al processo di armonizzazione legislativa a livello comunitario, in materia d'asilo, si è avuto con il Consiglio europeo di Tampere del 1999.104


Esso ha dettato le linee guida da seguire, da parte delle istituzioni comunitarie, in questa prima fase della realizzazione del regime comune europeo in materia d'asilo. Si legge al par. 13 del programma di Tampere che "il Consiglio europeo ribadisce l'importanza che l'Unione e gli Stati membri riconoscono al rispetto assoluto del diritto di chiedere asilo". Esso ha convenuto di lavorare all'istituzione di un regime europeo comune in materia di asilo, basato sull'applicazione della Convenzione di Ginevra in ogni sua componente, garantendo in tal modo che nessuno venga esposto nuovamente alla persecuzione, ossia mantenendo il principio di

non-refoulement.



1.2.2 La determinazione dello Stato competente ad

esaminare la domanda d'asilo




Per quanto concerne la produzione normativa in ambito europeo, riguardante il diritto d'asilo, sembra opportuno partire da una delle questioni che hanno interessato maggiormente gli Stati: la determinazione dello Stato competente ad esaminare la domanda d'asilo. In particolare, esaminerò la Convenzione di Dublino, primo strumento elaborato in tale ambito nel periodo della cooperazione intergovernativa, continuando poi con la comunitarizzazione del sistema di Dublino attraverso l'adozione del regolamento 343/2003.


Dopo le difficoltà incontrate dagli Stati, prima del Trattato di Amsterdam, nell'elaborare una politica comune in materia d'asilo e di come la mancanza totale di competenze, fino al Trattato di Maastricht, abbia fatto sì che gli Stati elaborassero strumenti di diritto internazionale per sopperire a questa mancanza. Il problema dell'approccio unilaterale da parte degli Stati era evidente nell'applicazione di concetti molto incisivi sul diritto d'asilo come quelli di "paese di primo asilo" e di "paese terzo sicuro".105


Fondamentale è la firma della Convenzione di Dublino, primo atto normativo con cui gli Stati si occupano specificamente del diritto d'asilo. Il processo di adozione di questa Convenzione era cominciato dopo il Consiglio europeo di Londra del 1986, in cui il compito di elaborarla era

stato attribuito al "Gruppo ad hoc Immigrazione".

Ciò fu confermato dal Consiglio europeo di Madrid del 1989, come conseguenza del "Documento di Palma",106 per giungere infine alla firma della Convenzione, avvenuta a Dublino il 15 agosto 1990, relativa alla determinazione dello Stato responsabile dell'esame di una domanda d'asilo presentata in uno degli Stati membri che è entrata in vigore il 1° settembre

1997.107 Tra le motivazioni alla base della predisposizione del sistema "Dublino" vi era la problematica questione dei "rifugiati in orbita"; situazione in cui gli Stati, adottando la nozione di "paese terzo sicuro", potrebbero trasferire il richiedente asilo in un altro Stato nel quale il richiedente sia transitato, senza esaminare la domanda d'asilo. Ciò potrebbe determinare un effetto a catena che lascerebbe il richiedente asilo in una situazione indefinita in cui nessuno esaminerebbe la sua domanda, pregiudizievole per i sui diritti. A tal riguardo, il Preambolo della Convenzione di Dublino afferma appunto come lo scopo di tale strumento sia quello di garantire un esame rapido della domanda d'asilo da parte di un solo Stato, evitando che gli Stati parte della Convenzione non si

riconoscano competenti all'esame della domanda.108


Pur non rientrando nel sistema comunitario, si afferma inoltre come questa Convenzione tenga conto della necessità, in ambito comunitario, dell'eliminazione dei controlli alle frontiere interne.109 Infine, il Comitato, istituito nell'ambito della Convenzione con il compito di esaminare e risolvere problemi applicativi ed interpretativi della stessa, è strettamente legato alle istituzioni comunitarie.110 È stato notato dalla dottrina che, in questo modo, lo scopo principale della Convenzione sembrerebbe risolversi nella possibilità di dirottare il richiedente asilo al di fuori dell'Unione europea.111


Dall'art. 4 all'8 della Convenzione sono indicati i criteri per l'identificazione dello Stato competente all'esame della domanda; in particolare, si ritengono responsabili rispettivamente lo Stato membro che ha già riconosciuto lo status di rifugiato ad un familiare del richiedente asilo;112 lo Stato membro che ha rilasciato un titolo di soggiorno o visto, o, nel caso il richiedente asilo sia in possesso di più titoli di soggiorno o visti, lo Stato Membro che ha rilasciato il documento dalla validità più lunga;113 lo Stato membro la cui frontiera sia stata varcata irregolarmente

dal richiedente asilo, qualora tale attraversamento irregolare possa essere provato;114 lo Stato membro responsabile del controllo dell'entrata del richiedente asilo nel territorio degli Stati membri, salvo il caso in cui il richiedente non sia soggetto all'obbligo del visto né dello Stato di ingresso né in quello in cui presenta la domanda;115 infine, qualora nessuno dei criteri possa essere applicato, lo Stato membro cui la domanda d'asilo è stata presentata.116 Agli artt. 11-13 viene indicata la procedura da seguire nel caso in cui lo Stato nel quale è stata presentata la domanda ritenga competente altro Stato membro; in particolare, lo Stato interessato, entro sei mesi dalla presentazione della domanda (altrimenti sarà considerato questo lo Stato competente), può chiedere allo Stato che ritiene competente di accettare il richiedente asilo.117 Qualora lo Stato a cui è stata presentata la richiesta non dovesse rispondere entro tre mesi, ciò equivale ad accettazione del richiedente118 e l'eventuale trasferimento dovrebbe

essere eseguito entro un mese dall'accettazione della richiesta.119

Sono state avanzate numerose critiche al sistema elaborato a Dublino. La Commissione ha evidenziato fra i problemi della Convenzione di Dublino l'eccessiva lunghezza della procedura e la difficoltà di reperire prove sufficienti per l'identificazione dello Stato responsabile dell'ingresso irregolare di un richiedente.120 Altre perplessità hanno riguardato la nozione ristretta di familiare contenuta nell'art. 4 (vi rientrano esclusivamente coniuge e figli minorenni o i genitori nel caso in cui il richiedente sia un minore).121


Il Regolamento 343/2003 c.d. "Dublino II"




Dopo aver esaminato la Convenzione di Dublino, si deve ora volgere l'attenzione al regolamento 343/2003 (c.d. "Dublino II")122 che sostituisce la detta Convenzione, inserendosi nel quadro della comunitarizzazione del diritto d'asilo che è seguita al Trattato di Amsterdam.


L'adozione di questo regolamento è conseguenza dell'indirizzo politico delineatosi col programma multi annuale elaborato dal Consiglio Europeo di Tampere in materia d'asilo nel 1999.123 La proposta di regolamento è

stata avanzata dalla Commissione nel luglio 2001, ponendo l'accento, in particolare, sulla necessità di colmare le lacune della Convenzione di Dublino.124 Il regolamento 343/2003 stabilisce i criteri e i meccanismi per determinare lo Stato responsabile ad esaminare la domanda d'asilo fatta da un cittadino di un paese terzo e deve essere letto congiuntamente al regolamento 1560/2003 della Commissione.125 Il Regno Unito e l'Irlanda hanno esercitato la facoltà di "opting-in" al regolamento, mentre la Danimarca ha reso applicabili ad essa le disposizioni del regolamento "Dublino II" in virtù di una decisione del Consiglio del 2006,126 rimanendo fino a quel momento vincolata alla sola Convenzione di Dublino. Il regolamento 343/2003 ricalca sostanzialmente la Convenzione di Dublino nei suoi aspetti essenziali, apportando alcune modifiche.


Con riguardo ai criteri per determinare il paese competente, il primo è quello dell'unità familiare che viene specificato precisando che, se il richiedente asilo è un minore non accompagnato, è competente per l'esame della domanda di asilo lo Stato membro nel quale si trova legalmente un suo familiare, purché ciò sia nel miglior interesse del minore. In mancanza di un familiare, invece, l'esame della domanda

compete allo Stato membro in cui il minore ha presentato la domanda d'asilo.127 Se un familiare del richiedente asilo è titolare dello status di rifugiato, o la sua richiesta d'asilo è ancora in corso di esame, presso uno Stato membro, tale Stato membro è responsabile dell'esame fintantoché gli interessati lo desiderino.128


Infine, qualora la procedura di determinazione dello Stato competente venga svolta contemporaneamente per diversi membri della famiglia, si considera responsabile lo Stato competente per il maggior numero di domande e in caso di parità di domande presentate fra due o più Stati, è competente quello in cui si dovrà esaminare la domanda del componente più anziano.129 È poi riprodotto senza sostanziali modifiche il criterio del possesso da parte del richiedente asilo di uno o più visti o documenti di soggiorno.130 È mantenuta, inoltre, la disposizione per cui si considera responsabile lo Stato in cui si è verificato l'ingresso irregolare del

richiedente asilo per un periodo di 12 mesi dalla data di tale ingresso.

Qualora sia dimostrato che il richiedente abbia soggiornato per un periodo continuativo di cinque mesi in uno Stato membro, è competente questo Stato e, se ciò si è verificato in più Stati, è competente lo Stato in cui questa situazione si sia verificata l'ultima volta.131


All'art. 11 si attribuisce la responsabilità allo Stato in cui è entrato il richiedente asilo, qualora fosse dispensato dall'obbligo del visto.132 Si stabilisce poi che, quando la domanda è presentata in una zona di traffico internazionale di un aeroporto di uno Stato membro, la responsabilità è di quest'ultimo133 e che, qualora non sia applicabile nessuno di questi criteri, si applicherà la norma residuale, già prevista dalla Convenzione di Dublino, che prevede la responsabilità dello Stato in cui è stata fatta domanda.134 Vengono poi mantenute la clausola umanitaria135 e la

"sovereignity clause", dalla quale è tuttavia eliminato l'obbligo di accettazione da parte del richiedente.136 In merito alla procedura, il nuovo regolamento non apporta modifiche al sistema della Convenzione di Dublino, se non nei termini di presentazione della richiesta di presa in carico del richiedente asilo da parte di uno Stato nei confronti di un altro Stato membro che questo reputi competente (che sono diminuiti rispetto al sistema previgente).137


La modifica più importante riguarda il grado di prova richiesto che non dovrebbe andare oltre il livello richiesto per la corretta applicazione del regolamento138 ma la stessa disposizione prevede che siano sufficienti prove indiziarie.139 Viene allungato il termine per il trasferimento del richiedente asilo (sei mesi prorogabile fino a dodici), essendosi rivelato troppo breve quello previsto dalla Convenzione di Dublino (un mese) ed essendo inoltre prevista una sanzione nel caso di mancato rispetto del

nuovo termine.140

L'art. 3 par. 3 prevede, come già nella Convenzione di Dublino, la possibilità per lo Stato di inviare il richiedente in un "paese terzo sicuro",141 ma questo concetto sarà approfondito parlando della direttiva

2005/85/CE. Per quanto riguarda la valutazione del sistema elaborato con il regolamento "Dublino II", l'art. 28 dello stesso prevedeva che la Commissione avrebbe dovuto elaborare, entro tre anni dall'entrata in vigore del regolamento, una relazione sulla valutazione del sistema previsto a Dublino.142 Nella relazione pubblicata dalla Commissione nel

2007143 vengono sollevate alcune questioni di non poca importanza.


Innanzitutto, si sottolinea come il regolamento non sia applicabile alla protezione sussidiaria prevista in ambito comunitario e come questa sia una mancanza rilevantissima, affermando come sia intenzione della Commissione quella di proporre una modifica del regolamento in tal senso.


In seguito, viene affermato come la mancanza del bisogno di accettazione del richiedente asilo, nel caso in cui uno Stato si avvalga della "sovereignity clause", abbia favorito prassi che hanno impedito il ricongiungimento familiare. È accaduto infatti in passato che alcuni Stati (Germania, Olanda e Belgio) si siano avvalsi di tale clausola, allontanando poi il richiedente verso un paese ritenuto da essi sicuro, ma non dal paese competente ai sensi del regolamento; manca, infatti, una lista comune

europea di "Stati terzi sicuri" e, secondo quanto rilevato da parte della dottrina, una situazione del genere pregiudica sostanzialmente i diritti del richiedente asilo.144


Il sistema elaborato dal regolamento "Dublino II", inserito nel contesto normativo europeo riguardante l'asilo che, per ora, è caratterizzato da un livello di armonizzazione minima delle legislazioni nazionali, può essere considerato uno strumento sufficiente, ma non di certo un punto di arrivo, nell'ottica della completa realizzazione del sistema europeo comune d'asilo, espressamente previsto dal Trattato di Lisbona.


Si è detto del sistema elaborato, prima dalla Convenzione di Dublino e poi dal regolamento comunitario che comunitarizza la materia, riguardo a criteri e procedure per la determinazione dello Stato responsabile all'esame della domanda d'asilo. Ora non si può non fare riferimento al regolamento 2725/2000145 che istituisce EURODAC, in quanto è risultato uno strumento fondamentale nell'applicazione del sistema di Dublino.


Questo regolamento istituisce un sistema di raccolta e di confronto delle impronte digitali dei richiedenti asilo e di altre categorie di persone al fine di facilitare l'applicazione della Convenzione di Dublino (ora del regolamento "Dublino II"). Nel Capo I vengono espressi gli scopi del regolamento e si descrive la struttura di base del sistema EURODAC, facendo riferimento a quell'unità centrale che dovrà gestire la banca dati centrale nella quale verranno raccolti i dati elaborati dalle banche dati dei

singoli Stati membri.146

Il Capo II si occupa delle regole per prendere e trasmettere le impronte digitali dei richiedenti asilo. In particolare si stabilisce come le impronte debbano essere prese ai richiedenti asilo di età superiore a quattordici anni e trasmesse immediatamente alla banca dati centrale per la comparazione con le impronte di tutti gli altri richiedenti asilo, allo scopo di verificare se siano state fatte più domande d'asilo dalla stessa persona.147 In tal caso, il richiedente deve essere trasferito nello Stato membro competente ad esaminare la domanda in accordo con le regole di Dublino.148


Nel processo di armonizzazione delle normative nazionali in materia d'asilo, si inserisce la direttiva 2003/9/CE riguardante gli standard minimi di accoglienza dei richiedenti asilo. La direttiva 2003/9/CE si applica ai cittadini di stati terzi o agli apolidi,149 nonché ai familiari,150 se inclusi nella domanda d'asilo a norma del diritto nazionale, che abbiano fatto domanda d'asilo alla frontiera o nel territorio di uno Stato membro. L'art.

4151 si lascia agli Stati la possibilità di mantenere le norme nazionali vigenti in materia di accoglienza, qualora siano più favorevoli e compatibili con la direttiva; ciò dovrebbe permettere agli Stati membri di mantenere un livello più alto di protezione. Gli articoli seguenti si occupano di predisporre garanzie in merito ai diritti del richiedente asilo di essere informato, entro 15 giorni, su diritti e obblighi spettatigli152 e sul rilascio di un documento (entro tre giorni) che attesti lo status di richiedente asilo, salvo alcune eccezioni.153


I richiedenti asilo hanno libertà di movimento nel territorio dello Stato membro o nell'area loro assegnata, ma si specifica che, per ragioni di ordine pubblico, gli Stati possono stabilire un luogo per il trattenimento del richiedente asilo.154 Si deve far presente come l'UNHCR abbia espresso preoccupazione riguardo al restringimento della libertà di

movimento del richiedente asilo e alla possibile detenzione.155

Un recente rapporto di Medici senza frontiere ha evidenziato il mancato rispetto dei diritti fondamentali nei centri di detenzione per migranti e richiedenti asilo,156 mentre parte della dottrina giustifica la detenzione, rilevando però come si debbano stabilire regole più razionali per legittimarla.157 La direttiva sancisce il diritto per i figli minori di richiedenti asilo o per i minori richiedenti asilo all'accesso al sistema scolastico nazionale, eventualmente anche nei centri di detenzione,158 previsione che ha anch'essa sollevato critiche da parte dell'UNHCR, evidenziandone la possibile conseguenza "marginalizzante".159 Il richiedente asilo poi, non ha un diritto istantaneo, dal momento di presentazione della domanda, all'accesso al mercato del lavoro ma eventualmente può accedervi se, dopo un anno dalla presentazione della domanda, non sia stata presa una decisione di primo grado, non per sua colpa.160


Gli Stati devono garantire le condizioni materiali di accoglienza nei confronti dei richiedenti asilo che non siano in grado di provvedere a loro stessi.161 Previsione fondamentale è quella dell'art. 15 che stabilisce come

gli Stati debbano garantire l'assistenza sanitaria necessaria al richiedente asilo, la quale deve comprendere quanto meno operazioni di pronto soccorso ed il trattamento essenziale delle malattie;162 previsione che mostra che l'armonizzazione prevista dalla direttiva è effettivamente di "standard minimi", facendo l'UNHCR notare come si dovrebbe garantire anche assistenza psicologica in diversi ambiti.163


Le misure di accoglienza possono essere revocate o ridotte dagli Stati qualora il richiedente asilo abbandoni il luogo di residenza stabilito senza informare l'autorità, contravvenga all'obbligo di presentarsi alle autorità o alla richiesta di fornire informazioni o di comparire per un colloquio personale concernente la procedura d'asilo durante un periodo di tempo ragionevole stabilito dal diritto nazionale o qualora abbia già presentato domanda d'asilo nello Stato membro;164 lo stesso nel caso in cui abbia occultato risorse finanziarie, beneficiando in tal modo indebitamente delle condizioni materiali di accoglienza.165 E' controversa la previsione per cui gli Stati possono rifiutare condizioni di accoglienza qualora un richiedente asilo non abbia dimostrato di aver presentato domanda non appena ciò fosse ragionevolmente fattibile dal suo arrivo in tale Stato membro;166

previsione che è stata introdotta su espressa richiesta del Regno Unito che aveva una disposizione del genere nel Nationality Immigration and


Asylum Act del 2002.167



A dieci anni dall'entrata in vigore del Regolamento Dublino - che identifica lo Stato europeo competente per la decisione su una domanda d'asilo, il Consiglio italiano per i Rifugiati (CIR)168 Forum Réfugiés-Cosi, ECRE, Hungarian Helsinki Committee, pubblicano uno studio comparativo su come il regolamento viene applicato dai diversi stati.


Esistono ampie divergenze nel modo in cui i paesi membri associati nello 'spazio Dublino' applicano il regolamento e questo va a danno dei richiedenti asilo, che dopo aver cercato la protezione dell'Europa si ritrovano in uno stato di ansia e incertezza che li costringe a vivere per molti mesi una sorta di vita sospesa. Come nel caso di un ceceno separato dal suo bambino appena nato: mentre al bambino era stato riconosciuto lo status di rifugiato in Austria, il padre era stato rispedito in Polonia, in conseguenza dell'applicazione automatica di un sistema che prevede che le persone identificate in un altro paese vengano respinte d'autorità nel primo stato in cui sono entrate in Europa. E' necessario, sottolinea il rapporto, cancellare questa 'lotteria dell'asilo' che impone sofferenze a persone già colpite da guerre e calamità nei paesi da cui provengono.


Il 26 Giugno 2013 è entrato in vigore il vigore il regolamento europeo noto come "Dublino III", che modifica i meccanismi con cui l'UE stabilisce a quale Stato membro competa l'esame di una richiesta d'asilo.

Ma queste procedure sono veramente efficaci?


Riescono i migranti e i richiedenti asilo a ottenere una protezione dignitosa, che garantisca loro di esercitare i propri diritti?


L'adozione del Regolamento Dublino III lascia spazio a consistenti miglioramenti, come il diritto ad un colloquio personale, ma mantiene invariati i principi alla base del sistema. L'applicazione del regolamento richiederà uno stretto monitoraggio da parte della Commissione Europea, al fine di assicurare la sua corretta applicazione da parte di tutti gli stati membri. L'efficacia del regolamento in vigore è discutibile: solo un numero limitato di richieste si traduce in trasferimenti effettivi, e il fatto che alcuni paesi membri scambino frequentemente tra loro quote equivalenti di richiedenti asilo ne conferma la natura incongrua.


In media in Europa, nel 2010 e 2011, solo il 27,75 per cento delle richieste presentate si sono tradotte in trasferimenti effettivi, e tra quelle accettate, solo il 34,86% hanno prodotto trasferimenti. Ogni paese dell'Ue adotta diversi pesi e diverse misure. Talvolta non si tiene conto della presenza di familiari sul territorio europeo, e anche laddove lo si fa i criteri adottati sono restrittivi, in violazione della Convenzione europea sui diritti umani.


Nello stesso anno la Germania ha accolto 2.169 richieste di trasferimento da altri stati membri: solo 25 di queste erano formulate su basi umanitarie. Insufficiente l'informazione fornita ai richiedenti asilo sul regolamento di Dublino, generalmente tramite volantini e/o colloqui, a causa di problemi con la lingua e con la traduzione dei termini tecnici. Nella maggioranza degli stati membri non viene prefigurata la condizione di persona vulnerabile (che in Italia è invece prevista) né esistono procedure per l'identificazione di persone con speciali necessità.

Non sempre i richiedenti asilo vengono sottoposti a visite mediche, e la vulnerabilità in quanto tale non porta in genere all'annullamento del trasferimento, ma solo al suo rinvio.


Nel 2011 le autorità italiane hanno ricevuto 37.350 richieste di asilo, a fronte di un sistema che è in grado di alloggiare solo tremila persone. In aggiunta a queste, 13.715 richieste di trasferimento sono state inviate all'Italia, e 4.645 richiedenti i sono stati trasferiti in base al regolamento di Dublino. L'Italia invece, nello stesso periodo, ha messo in pratica solo

14 trasferimenti in paesi membri.



Quanto alle modalità di accoglienza, i richiedenti asilo sono spesso trattati come persone di serie B, cui si riconoscono ben pochi diritti (Ong e organizzazioni caritatevoli svolgono un ruolo di incalcolabile valore nel colmare le falle del sistema). Ruoli e compiti che saranno approfonditi nei capitoli successivi.


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