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Analisi storico-ricostruttiva: a) dall'Unità d'Italia alla seconda metà del XX secolo




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Analisi storico-ricostruttiva: a) dall'Unità d'Italia alla seconda metà del XX secolo


La materia penitenziaria, intesa come trattamento del condannato, trova la sua prima disciplina unitaria, con il "Regolamento Generale per le Case di Pena del Regno", emanato con R.D. 13 giugno 1862, n. 413. Nell'impostazione dell'epoca il carcere era considerato quale luogo impermeabile ed isolato dalla società civile[2]. I reclusi, separati tra loro di notte e "riuniti di giorno per attendere al lavoro comune" (art. 3), erano posti in un contesto di totale emarginazione, ben oltre le necessarie misure di salvaguardia della sicurezza. All'interno delle carceri, il lavoro era inteso come obbligatorio e solo una parte della remunerazione poteva essere assegnata al detenuto, a titolo di gratificazione. I rapporti tra i detenuti ed i custodi erano disciplinati in modo tale da appesantire la condizione afflittiva nella quale i primi si trovavano: occorreva, infatti, rispettare il silenzio (art. 5), per cui, anche se espressamente interrogati, i condannati potevano rispondere solo a bassa voce. Le condizioni di pura barbarie in cui custodi e custoditi erano costretti a convivere contribuirono al sorgere di una profonda e radicata ostilità tra le due categorie. La tensione, poi, era alimentata dalle regole di governo delle istituzioni penitenziarie che imponevano obblighi ed infliggevano rigide sanzioni disciplinari a carico non solo dei reclusi, bensì anche del personale di custodia (art. 103) . Con R.D. 1922, n. 393, furono introdotte nuove ed importanti modifiche che riguardarono, in particolare, il lavoro, i colloqui, la corrispondenza e la disciplina delle case di rigore.

Il 1° febbraio 1891, fu emanato, con R.D. n. 260, un nuovo "Regolamento Generale degli Stabilimenti Carcerari e dei Riformatori Giudiziari": ancora una volta l'intento era di dividere per meglio governare e di governare con violenza. A tal proposito, la Relazione ministeriale, commentando la norma che poneva a carico degli agenti l'obbligo di far uso delle armi per sedare ribellioni, o impedire la fuga dei detenuti precisava che "se un agente indietreggia di fronte al pericolo o alla minaccia, se egli è sopraffatto o vilipeso, non è l'individuo ma l'autorità della legge che, in lui, viene offesa".

A nulla, quindi, serve la scelta abolizionista né lo spirito di mitezza nel prevedere massimi e minimi di pena meno elevati, adottati dal codice penale Zanardelli, entrato in vigore il 1° gennaio del 1890[4].

Sulla scia dell'emanato codice Rocco, il legislatore fascista trovò lo spunto per approvare, con R.D. 18 giugno 1931, n. 787, il nuovo "Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena"[5]. Neanche questo testo riuscì, tuttavia, a mitigare il clima austero e l'emarginazione in cui vivevano i reclusi negli istituti penitenziari, dal momento che le principali concessioni previste erano rappresentate dalla possibilità per alcuni, di essere chiamati per nome - invece che appellati con il mero numero di matricola - o dal rilievo che, in alcuni casi, sì dava allo studio della personalità .

Già nel 1951, l'allora Ministro di Grazia e Giustizia, Zoli, ebbe ad affermare, nella circolare n. 4041/2473[7], che <<il Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena in vigore dal 1931, contiene disposizioni non più rispondenti alle moderne esigenze penitenziarie>>: la cupa visione del mondo penitenziario, finalmente tende ad attenuarsi, per effetto dell'introduzione, nel sistema, di piccole innovazioni. Ad esempio, s'implementa, per certi versi, il sistema dei colloqui, si consente di tenere in cella l'occorrente per scrivere, si abolisce il taglio di capelli e l'obbligo dell'uniforme per i condannati a pena breve; inoltre, si riconosce un maggiore rispetto alle salme dei detenuti, deceduti in carcere, autorizzando la consegna del corpo alla famiglia e non direttamente alle Università per scopi scientifici. Ciò, è ovvio, dall'introduzione, nel sistema, per effetto all'art. 27 Cost., dei principi della non contrarietà dei trattamenti punitivi al senso d'umanità e del recupero sociale del condannato. Una successiva circolare del 1954 , tuttavia, prontamente ribadì, (denunciando indizi di rilassatezza all'interno delle carceri, in netto contrasto con l'austerità e il rigore che istituzionalmente devono connotare gli istituti) che la pena deve inevitabilmente arrecare sofferenza .





<<Gli aspetti positivi, i limiti e le contraddizioni della disciplina che emerge>> dal diritto penitenziario <<non potrebbero essere apprezzati nel loro spessore e nella loro complessità se non si tenesse conto che le problematiche oggi dibattute hanno alle spalle più di un secolo di storia penitenziaria, dall'Unità sino alla metà degli anni Settanta, caratterizzato da una sostanziale continuità d'indirizzi legislativi e di prassi operative>>. MODONA, Ordinamento penitenziario, in Dig. Disc. Pen., Vol. IX, pag. 43 e ss.

Le Case di pena, erano considerati luoghi in cui relegare i delinquenti al fine di proteggere la società dal fenomeno della criminalità e in cui si dava luogo all'esecuzione della pena inflitta dall'autorità giudiziaria. Esse dovevano, fondamentalmente, assicurare la disciplina all'interno del perimetro carcerario e garantire la custodia del ristretto, in modo da neutralizzarne la valenza negativa per la società. TARTAGLIONE, Istituti di prevenzione e di pena, in Nov. Dig. It., vol. IX, pag. 230.


Cfr MODONA, Ordinamento penitenziario, in Dig. Disc. Pen., Vol. IX, pag. 44 e ss.

Nel 1921, il cosiddetto "progetto Ferri", ossia il "Progetto preliminare di codice penale italiano" - commissionato dal Guardasigilli dell'epoca - accogliendo i presupposti filosofici e politico-criminali dell'indirizzo positivistico, previde alcune disposizioni come la completa esclusione di qualsiasi differenza fra delinquenti imputabili e non imputabili e la segregazione a tempo assolutamente o relativamente indeterminato. Successivamente, tale progetto, fu superato dalle nuove tendenze politico-istituzionali, prodotte in Italia nel periodo compreso tra il 1910 e il 1930 - anno in cui è stato emanato il codice penale Rocco, dal nome del suo ispiratore e massimo artefice. A tal proposito FIORE, Diritto penale, Vol. I, Torino, 1997, pag. 41 e ss.

Gli istituti penitenziari introdotti dal regolamento Rocco, si basavano su tre canoni fondamentali ed interdipendenti. Il primo consisteva nella classificazione degli istituti sulla base di disposizioni normative e tenendo conto della distinzione tra detenuti ed internati; il secondo era rappresentato dall'accertamento dei presupposti per l'assegnazione o per il trasferimento; il terzo equivaleva alla rigidità della struttura organizzativa e funzionale di ogni istituto. In tal senso PADOVANI, Istituti penitenziari, in Nov. Dig. It., vol IV, pag. 462 e ss.

DI RONZA, Manuale di diritto dell'esecuzione penale, Padova, 2000, pag. 10 e ss.

In Reg. per gli Istituti di prevenzione e di pena, Roma 1970, pag. 174 e ss.

Cir. n. 314 del 24/2/1954, in Reg. per gli Istituti di prevenzione e di pena, Roma 1970, pag. 192 e ss.

In tal senso MODONA, Ordinamento penitenziario, in Dig. Disc. Pen., Vol. IX, pag. 45.

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