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Dagli stati generali alla costituente




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DAGLI STATI GENERALI ALLA COSTITUENTE



Le prime riforme religiose



Nel maggio 1789, sotto la pressione del deficit finanziario dello Stato e per la difficoltà d'imporre nuove tasse senza consultare l'intera nazione, vennero convocati gli Stati generali, su proposta dell'arcivescovo Loménie de Brienne. Il primo problema da risolvere era quale sistema di votazione da adottare: se per ordine o nominale, come reclamava il Terzo stato, il quale, avendo ottenuto dal ministro Necker un numero doppio di rappresentanti, poteva disporre da solo della metà dei voti. Il regolamento regio per l'elezione dei deputati del clero aveva finito col favorire i parroci (che avrebbero votato personalmente), mentre i conventi e i capitoli erano soltanto rappresentati da delegati. Nell'ambito dell'Assemblea, e di fronte al re, preti e vescovi risultavano giuridicamente paritetici, anzi i primi superavano i secondi di molte unità (208 su 296). Il 13 giugno tre curati decisero di trasferirsi dalla sala del loro ordine a quella del Terzo stato. Le defezioni, col passare dei giorni, si moltiplicarono. Finché, dopo l'autoproclamazione in Assemblea nazionale proposta dal prete Sieyès, il clero, con pochi voti di maggioranza, deliberò di unirsi alla borghesia.


Su questa decisione due cose almeno vanno dette: anzitutto non è vero -come sostiene in genere la storiografia cattolica- ch'essa risultò decisiva ai fini dell'istituzione dell'Assemblea costituente, avendo fatto acquisire alla borghesia la maggioranza. In realtà avvenne proprio il contrario: l'ordine del clero decise di unirsi al Terzo stato solo dopo che questo aveva manifestato la chiara intenzione di opporsi al re e alla nobiltà. Senza la volontà politica della borghesia, il basso clero, che pur apparteneva per origine sociale al Terzo stato, difficilmente sarebbe arrivato alla rottura con i prelati, o forse vi sarebbe arrivato seguendo altre strade (ad es. l'eresia. Qui anzi ci si può chiedere se non sia stata proprio la mancata realizzazione di una riforma protestante francese a impedire il formarsi di una valvola di sfogo per le acutissime comntraddizioni sociali che travagliavano l'intera nazione: forse che tale riforma non si ebbe proprio perchè l'autonomia gallicana la rese per così dire meno urgente?)


In secondo luogo è senza dubbio limitativo sostenere, come vuole ad es. Dansette, che il basso clero si unì al Terzo stato 'per gelosia verso l'alto clero'. Basta leggersi alcuni brani dei famosi 60.000 cahiers de doléances per convincersi di come e quanto i problemi si ponessero più sul terreno sociale e meno su quello personale. 'Di tutti gli abusi che esistono in Francia -viene detto nel cahier del visconte di Mirabeau, militante del Terzo stato- quello che maggiormente affligge il popolo e più fa disperare i poveri è l'immensa ricchezza, l'oziosità, le esenzioni [fiscali], il lusso inaudito dell'alto clero. Queste ricchezze si sono in gran parte formate col sudore dei popoli, sui quali il clero percepisce un'orribile imposta che va sotto il nome di decima; essa assorbe ogni dieci anni a vantaggio di illustri fannulloni la totalità del reddito agricolo [annuale] del regno'. E più avanti: 'Le spese per le chiese, i presbiteri, i cimiteri sono a carico delle comunità, che tuttavia continuano a pagare per battesimi, matrimoni, sepolture, senza che la decima venga diminuita. I poveri non sono più soccorsi e pagano la decima'(vedi il libro di D. Menozzi, Cristianesimo e rivoluzione francese, ed. Queriniana. Ora anche la Cinque lune ha pubblicato qualche brano dei  cahiers). Sotto accusa anche i monaci e il seminario locale, che percepiscono una decima in covoni di grano dalla comunità, mentre in cambio non danno nulla. Il canonico, dal canto suo, si differenzia solo perchè la percepisce in moneta.


Non si chiedeva solo la soppressione degli abusi del sistema beneficiario, il miglioramento delle condizioni dei curati a congrua, il divieto di cumulare più benefici, l'obbligo di residenza dei vescovi nella diocesi e la loro elezione da parte del capitolo (contro il Concordato del 1516), e poi il conferimento delle cariche ecclesiastiche in base ai meriti e all'anzianità, la soppressione delle tasse per matrimoni e sepolture e delle annate (quelle pagate al papa), la fine della decima e delle sperequazioni fiscali che dividevano i tre ordini dello Stato, e poi ancora lo scioglimento delle congregazioni religiose, la diffusione di centri d'istruzione per i giovani: non si chiedeva solo tutto questo e altre cose ancora direttamente collegate alle discriminazioni di carattere sociale; si chiedeva anche di modificare alcune tradizioni di vita ecclesiale che ancora oggi permangono immutate nell'ambito del cattolicesimo. Si legge, p.es., nel quaderno di Chalais: 'Che tutti i preti si sposin. La tenerezza delle loro spose risveglierebbe nei loro cuori la sensibilità, la riconoscenza, la pietà -così naturali per l'uomo- che i voti di castità e di solitudine hanno spento in quasi tutti coloro che li hanno pronunciati'.


Proprio queste rimostranze hanno indotto certa storiografia cattolica, meno conservatrice di quella che nella rivoluzione francese (si pensi a Taparelli d'Azeglio o a Del Noce) vede il culmine di una 'disgrazia' cominciata col Rinascimento e la Riforma protestante, una disgrazia dilatatasi a macchia d'olio con la società capitalistica ed esplosa, assumendo un'espressione 'demoniaca' nei paesi comunisti; si diceva, proprio le doglianze dei cahiers hanno indotto storici e intellettuali come Burke e Taine (per l'Italia bisogna pensare a Papi, Cuoco, Botta, Manzoni) a riconoscere l'esigenza di un 'riformismo forte' nell'ambito della chiesa settecentesca. Ma la tesi fondamentale di questa corrente liberal-utopistica fu quella che vedeva nella rivoluzione un serio ostacolo al processo di graduale evoluzione verso il superamento del vecchio regime: processo che - a suo giudizio- era stato inaugurato dai sovrani 'illuminati' e che sicuramente avrebbe reso inutile qualunque rivolgimento traumatico.


Pur di ridimensionare l'importanza della rivoluzione francese, certi storici cattolici (si pensi p.es. a V.Giuntella) sono addirittura propensi a considerare la rivoluzione americana o anche quella inglese del secolo precedente, molto più democratiche nei contenuti e nei metodi (il termine più usato qui è 'non violenza' ovvero 'rivoluzione incruenta'. Vedi anche le tesi dell'ultraconservatore F. Furet). Eppure tutti sanno che la Costituzione americana del 1787, al pari della rivoluzione 'parlamentare' inglese, fu soltanto il frutto di un compromesso fra la borghesia e i latifondisti (negli Usa c'erano i piantatori del sud), cui le masse popolari cercarono di porre rimedio rivendicando l'importante Bill of rights. Se poi si vuole sostenere che i principi democratici della borghesia trovarono una loro prima applicazione nella Dichiarazione americana d'indipendenza del 1776, ebbene allora si deve aggiungere che tale Dichiarazione, per quanto non permettesse politicamente la formazione d'uno Stato unitario dell'America (in questo senso era meno avanzata della Costituzione del 1787), rifletteva le posizioni più progressiste proprio della filosofia francese (specie la linea di Rousseau), per cui l'avversione al regime di privilegio risultava superiore a quella della stessa Dichiarazione francese dei diritti umani (ad es.non si prevedeva la proprietà come diritto 'naturale' ma solo come diritto 'civile' connesso al lavoro). Oltre a ciò bisogna precisare che se nelle colonie americane la rivoluzione non sviluppò una particolare ostilità nei confronti della religione, fu proprio a causa del pluralismo delle confessioni qui largamente rappresentato, frutto della rottura dell'unità cattolica europea.


Ma procediamo. I chierici collaborarono con entusiasmo all'interno della Costituente: forti delle loro tradizioni gallicane, neppure per un istante si chiesero in che misura Roma avrebbe approvato il loro comportamento. Dall'agosto al novembre del 1789, dopo la presa della Bastiglia, la rivoltà delle città e delle campagne (la cd. 'grande paura'), l'Assemblea prenderà tre decisioni fondamentali: 1) l'abolizione di tutti i privilegi feudali (decime, annate1, franchigie ecclesiastiche in materia d'imposte, diritti signorili, ecc.); 2) la nazionalizzazione delle proprietà immobiliari della chiesa (terre, foreste, beni derivanti da fondazioni, ospedali, scuole ecc.); 3) il sostentamento del clero da parte dello Stato per l'esercizio del ministero. Provvedimenti, questi, assolutamente rivoluzionari rispetto all'epoca in cui vennero adottati.


Il primo incontrò il consenso di tutti i cittadini e di tutti i cattolici non privilegiati, cioè della stragrande maggioranza della nazione. Anche molti vescovi vi acconsentirono: un po' per convinzione, un po' perchè impauriti dall'assalto della Bastiglia. Si noti, in questo senso, come la storiografia cattolica, messa alle strette, si faccia vanto del fatto che 'le teorie che la rivoluzione francese ha cercato di mettere in pratica nei confronti dela chiesa e della religione non sono nate nel cervello di uomini di Stato bensì di uomini di chiesa, di teologi'(cfr L. Rogier e altri, che ovviamente danno un giudizio molto pesante su questi ecclesiastici, nella loro Nuova storia della chiesa, ed. Marietti 1976). Ciò tuttavia non dimostra la superiorità della religione in generale o del cattolicesimo in particolare, quanto semmai la dipendenza dell'ideologia religiosa dalle concrete esigenze degli uomini, morali e materiali, nonché dall'evoluzione dominante del pensiero laico prograssista.


Il secondo provvedimento -resosi necessario a causa della crescente crisi finanziaria, dovuta all'impossibilità di riscuotere le tasse dopo i disordini di luglio- venne naturalmente accettato con molte riserve, ma grazie alla mediazione del vescovo di Autun, Talleyrand -che Dansette, con molta superficialità e pregiudizio, qualifica come 'il più empio, il più corrotto, il più cinico fra tutti quelli dell'antico regime' -si riuscirono ad ottenere 568 voti contro 346. A tale proposito ci pare alquanto riduttivo sostenere che 'l'Assemblea era assillata dallo spettro del fallimento più che dall'ideale della laicizzazione' (vedi l'opera citata dello Jedin). Se gli ideali vengono realizzati dietro la spinta di esigenze concrete, ciò non significa ch'essi siano poco importanti o poco sentiti dagli uomini che li manifestano. Il fatto è che per realizzare determinati ideali rivoluzionari (e questo della confisca era avvertito in Francia ben prima dell'89) occorre la volontà e la partecipazione democratica delle masse. Altrimenti gli ideali sono soltanto, nel migliore dei casi, il frutto della elaborazione teorica di qualche intellettuale progressista, cioè un'utopia. Non è forse significativo che nell'Assemblea la proposta della confisca sia stata avanzata da nobili di idee liberali, e che i vescovi non abbiano fatto alcun obbligo di coscienza ai fedeli di opporvisi, e che persino i semplici sacerdoti si siano sentiti in dovere di rinunciare ai loro diritti casuali o di stola? Se non fosse esistito un forte movimento spontaneo di protesta, protrattosi per anni e anni, avrebbero gli ordini al potere rinunciato con così relativa facilità ai loro privilegi e immunità?


Il terzo provvedimento rappresentava la contropartita all'incorporazione coatta delle proprietà ecclesiastiche. Sostenuto dalla stragrande maggioranza del basso clero, che così poteva percepire un reddito di molto superiore a quello pre-rivoluzionario, il compromesso trovava consenzienti anche le frange meno conservatrici dell'alto clero, le quali in ogni caso riuscivano ad ottenere che il cattolicesimo, pur nel riconoscimento giuridico della libertà di religione, sancito dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (votata il 26 agosto), costituisse l'unica religione i cui ministri erano stipendiati dallo Stato. Dal canto suo quest'ultimo s'incaricava di provvedere all'assistenza dei poveri, degli ammalati e all'insegnamento (ivi incluso il sostegno finanziario a quello dei seminari diocesani).


A ben guardare però lo Stato non trasse un vero vantaggio economico da questa nazionalizzazione, a motivo del fatto che l'immissione contemporanea sul mercato di una così grande quantità di terre ne fece rapidamente precipitare il valore. Correlato a questo fatto è l'altro, quello degli 'assegnati': una sorta di 'buoni del tesoro' il cui valore -secondo il governo- doveva essere equivalente a quello delle proprietà ecclesiastiche confiscate. In pratica lo Stato li emise fingendo di aver già incamerato l'importo complessivo delle terre: il che presupponeva, ovviamente, un reciproco rapporto di fiducia tra cittadini e Stato. Tuttavia, essendo una cartamoneta convertibile solo in terre a un tasso del 5%, il suo abuso portò subito a una violenta inflazione, al punto che il prezzo del pane aumentò di mille volte in 4 anni! Nel contempo però l'operazione fece ottenere al governo un vantaggio politico: 'borghesi e contadini, indipendentemente dai loro sentimenti religiosi -come vuole Dansette-, diventarono alleati della rivoluzione: e reagiranno contro tutti i tentativi di ritorno al passato che potessero compromettere i loro interessi'(naturalmente col termine 'contadini' va qui intesa la borghesia rurale). La vendita dei cosiddetti 'beni neri' finirà solo alla vigilia del Concordato del 1801.


Altri decreti molto importanti furono quello emanato il 22 dicembre 1789, col quale si secolarizzò la direzione generale dell'insegnamento, togliendo ai vescovi, per affidarla alle amministrazioni dipartimentali, la sorveglianza dell'educazione pubblica; nonché quello del 24 settembre 1789, col quale si ammisero ai pubblici uffici tutti i protestanti. Due anni dopo quest'ultimo provvedimento venne esteso anche agli ebrei. A favore dell'emancipazione politico-giuridica degli ebrei s'impegnò assiduamente l'abbé Grégoire (cfr. il Saggio sulla rigenerazione fisica, morale e politica degli ebrei, 1788)


Si è detto della Dichiarazione dei diritti. L'art. 10 prevedeva la piena libertà di religione (non però anche quella 'dalla' religione). Il decreto del 13 aprile 1790 che definisce il criterio interpretativo del suddetto art. 10, precisa che l'Assemblea nazionale non poteva riconoscere esplicitamente il cattolicesimo come 'religione della nazione' e il suo culto come 'il solo culto pubblico autorizzato', per quanto -si aggiunge- la devozione dell'Assemblea a tale culto 'non può essere messa in dubbio, dal momento in cui questo culto sta per diventare il più rilevante capitolo della spesa pubblica'. In pratica il legislatore, subito dopo aver messo sullo stesso piano giuridico tutte le religioni, le distingue su quello politico. Questa ambiguità, tipica dell'ideologia borghese, sarà alla fonte di tutte le future contraddizioni nel rapporto fra Stato e chiesa: non solo perchè la rivoluzione troverà sempre grandissima difficoltà ad affermare un proprio carattere laico e aconfessionale, ma anche perchè i cattolici faranno di tutto per non perdere quei pochi privilegi che l'Assemblea aveva loro in un primo momento concesso.


Va detto tuttavia, con A. Soboul, che i costituenti, quali rappresentanti della nazione, si ritenevano autorizzati a riformare in modo democratico la chiesa e non pensavano a costruire un regime di separazione vero e proprio, che in quel momento sarebbe apparso come un'idea blasfema e anticristiana. Tanto è vero che nella commissione per redigere la Costituzione e la Dichiarazione dei diritti erano presenti non pochi prelati: dagli abati Sieyès e Grégoire ai vescovi Talleyrand, de Lubersac, de la Luzerne, ecc. Resta comumque significativo che, nonostante una semplice allusione all'Essere supremo, non si faccia alcun riferimento, nel preambolo della Dichiarazione, ai 'diritti di dio'. Lo storico Mathiez l'ha giustamente sottolineato dicendo: 'I principi del 1789 si presentano come un corpo di dottrina autosufficiente, che trae il proprio valore dall'evidenza razionale e non dalla rivelazione. Così l'umanità pone se stessa come suo proprio dio'.


Il desiderio di 'riformare' il cristianesimo spiega anche la decisione di sospendere l'emissione dei voti (giudicati contrari ai diritti umani) in tutti i monasteri, nonché quella del 13 febbraio 1790 di sopprimere tutti gli ordini che pronunciavano voti solenni. Sin dall'inizio la rivoluzione si caratterizzerà per un marcato accento 'confessionale', che si presumeva alternativo all'ideologia cattolica ufficiale. Non voleva certo essere una rivoluzione anticristiana o antireligiosa, ma anticlericale sì. Una cosa infatti è l'esproprio dei beni del clero, secolare e regolare, un'altra è la soppressione d'ufficio dei voti e degli stessi ordini: qui l'ingerenza è netta. Evidentemente il governo, forte dell'ostilità cui i regolari erano oggetto da parte del laicato cattolico, ritenne opportuno colpire questa categoria di agiati ecclesiastici sul piano sia economico che politico, impedendo il formarsi di trame e collegamenti nazionali ed europei di tipo eversivo (gli ordini regolari facilmente si prestavano a questo utilizzo; forte peraltro era il loro legame con la curia romana). Ciò non toglie tuttavia la particolare drasticità del provvedimento, sebbene sulle prime venissero risparmiati gli ordini femminili e gli istituti maschili esercitanti attività ospedaliera e/o scolastica.


In altre parole, si sarebbe dovuto puntare su una lenta e graduale estinzione degli ordini, prescindendo da pressioni amministrative, che spesso rischiano di sortire l'effetto contrario, oppure di costituire un pericoloso precedente per Sulteriori vessazioni. Né serve, a titolo di giustificazione del provvedimento, sottolineare il fatto che la fine del valore legale dei voti non comportò praticamente alcuna resistenza, determinando anzi il subitaneo spopolamento della maggior parte dei monasteri (a Parigi ad es. i religiosi favorevoli alla secolarizzazione raggiungevano il 48%). Qui ha ragione il Dansette, quando afferma che l'Assemblea impediva ai monaci di restare nei conventi 'così come il re ne sbarrava le porte impedendo loro d'uscirne'. Va poi detto, in definitiva, che l'Assemblea, con tale provvedimento, non potè vantare alcuna particolare coerenza. Essa infatti volle assicurare a quegli ex-monaci ricondotti allo stato civile, che avevano rifiutato di continuare la vita monastica in conventi appositamente adibiti, una sorta di pensione statale, come indennizzo per l'esproprio causato. Col che, in pratica, si permetteva loro di continuare a fare quello che avevano sempre fatto, cioè i rentiers.



(1) La soppressione delle annate fu proposta dall'abate Grégoire.

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