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Cesare beccaria




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CESARE BECCARIA


Dal    "Dei delitti e delle pene" ( 1764 )


DELLA   TORTURA


Una crudeltà consacrata dall'uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre so forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contraddizioni nelle quali in­corre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d'infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato.

Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso che egli abbia violati I patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il de­litto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono I tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e' non devesi tormentare un inno­cente, perché tale è secondo le leggi un uomo I di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch'egli è un voler confondere tutti rapporti l'esigere che un uomo sia nello stesso tempo accu­satore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere I robusti scellerati e di condannare I deboli innocenti. Ecco I fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale, che I Romani, barbari anch'essi per più d'un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtù.

Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private carneficine, che la tirannia dell'uso esercita su i rei e sugl'innocenti? Egli è importante che ogni delitto palese non sia impunito, ma è inutile che si accerti chi abbia commesso un delitto, che sta sepolto nelle tenebre. Un male già fatto, ed a cui non v'è rimedio, non può esser punito dalla società politica che quando influisce sugli altri colla lusinga dell'impunità. S'egli è vero che sia maggiore il numero degli uomini che o per timore, o per virtù, rispettano le leggi di quelli che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente deve valutarsi tanto di più, quanto è mag­giore la probabilità che un uomo a dati uguali le abbia piuttosto rispettate che disprezzate.

Un altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione dell'infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest'abuso non dovrebbe essere tollerato nel decimottavo secolo. Si crede che il dolore, che è una sensazione, pur­ghi l'infamia, che è un mero rapporto morale. È egli forse un crociuolo? E l'infamia è forse un corpo misto impuro? Non è difficile il rimontare all'origine di questa ridicola legge, perché gli as­surdi stessi che sono da una nazione intera adottati hanno sempre qualche relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla nazione medesima. Sembra quest'uso preso dalle idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza su I pensieri degli uomini, sulle nazioni e su I secoli. Un dogma infallibile ci assicura che la macchie contratte dall'umana debolezza e che non hanno meritata l'ira eterna del grand'Essere, debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate; ora l'infamia è una macchia ci­vile, e come il dolore ed il fuoco tolgono le macchie spirituali ed incorporee, perché gli spasmi della tortura non toglieranno la macchia civile che è l'infamia? Io credo che la confessione del reo, che in alcuni tribunali si esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non dissimile, perché nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei peccati è parte essenziale del sagramento.


Ecco come gli uomini abusano dei lumi più sicuri della rivelazione; e siccome questi sono I soli che sussistono nei tempi d'ignoranza, così ad essi ricorre la docile umanità in tutte le occasioni e ne fa le più assurde e lontane applicazioni. Ma l'infamia è un sentimento non soggetto né alle leggi, né alla ragione, ma alla opinione comune. La tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l'infamia damdo l'infamia.

Il terzo motivo è la tortura che si dà ai supposti rei quando nel loro esame cadono in contradizione, quasi che il timore della pena, l'incertezza del giudizio, l'apparato e la maestà del giudice, l'gnoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e agl'innocenti, non debbano probabilmente far cadere e l'innocente che teme e il reo che cerca di coprirsi; quasi che le contradizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, non debbano moltiplicarsi nella turbazione dell'animo tutto assorbito nel pensiero di salvarsi dall'imminente pericolo.

Questo infame crociuolo della verità è un monumento ancora esistente dell'antica e selvaggia legi­slazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell'acqua bollente e l'incerta sorte dell'armi, quasi che gli anelli dell'eterna catena, che è nel seno della prima Cagione, doves­sero ad ogni momento essere disordinati e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La sola diffe­renza che passa fra la tortura e le prove del fuoco e dell'acqua bollente, è che l'esito della prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle seconde da un fatto puramente frivolo ed estrinseco: ma questa differenza è solo apparente e non reale. È così poco libero il dire la verità fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era allora l'impedire senza frode gli effetti del fuoco e dell'acqua bollente. Ogni atto della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della impressione sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni uomo è limitata. Dunque l'impressione del dolore può crescere a segno che, occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato che di scegliere la strada più corta per il momento presente, onde sottrarsi alla pena. Allora la risposta del reo è così necessaria come le impressioni del fuoco o dell'acqua. Allora l'innocente sensibile si chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento.

Ogni differenza fra essi sparisce per quel mezzo medesimo, che si pretende impiegato per ritrovarla

È' superfluo do raddoppiare il lume citando gl'innumerabili esempi d'innocenti che rei si confessa­rono per gli spasimi della tortura: non vi è nazione, non vi è era che non citi i suoi, ma né gli uomini si cangiano, né cavano conseguenze. Non vi è uomo che abbia spinto le sue idee di là dei bisogni della vita, che qualche volta non corra verso natura, che con segrete e confuse voci a sé lo chiama; l'uso, il tiranno delle menti, lo respinge e lo spaventa. L'esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe megli di un giudice que­sto problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre d'un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessar reo di un dato delitto.

L'esame di un reo è fatto per conoscere la verità, ma se questa verità difficilmente scuopresi all'aria, al gesto, alla fisionomia d'un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo in cui le convulsioni del dolore alterano tutti I segni, per I quali dal volto della maggior parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le mi­nime differenze degli oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso.

Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori, presso I quali non trovasi usata alcuna tortura che su I soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità; queste dall'Inghilterra, nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità del commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli esempi di virtù e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi. La tortura è stata abo­lita nella Svezia, abolita da uno de' più saggi monarchi d'Europa, che avendo portata la filosofia sul trono, legislatore amico de' suoi sudditi, gli ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose.

La tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti composti per la maggior parte dalla fec­cia delle nazioni, che sembrerebbero perciò doversene più d'ogni altro ceto servire. Strana cosa, per chi non considera quanto sia grande la tirannia dell'uso, che le pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi ed al sangue il più umano metodo di giudicare.

Questa verità è finalmente sentita, benché confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la confessione fatta durante la tortura se non è confermata con giuramento dopo cessata quella, ma se il reo non conferma il delitto è di nuovo torturato. Alcuni dottori ed alcune nazioni non permettono quest'infame petizione di principio che per tre volte; altre nazioni ed altri dottori la lasciano ad arbitrio del giudice: talchè di due uomini ugualmente innocenti o ugualmente rei, il ro­busto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed il timido condannato in vigore di questo esatto ra­ziocinio: Io giudice dovea trivarvi rei di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappatavi fra I tormenti non avrebbe alcuna forza, ma io vi tormenterò di nuovo se non confermerete ciò che avete confessato.

Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall'uso della tortura è che l'innocente è posto in peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunque l'innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare.

La legge che comanda la tortura è una legge che dice: Uomini, resistete al dolore, e se la natura ha creato in voi uno inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra di­fesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio di voi stessi, e vi comando di accu­sare voi medesimi, dicendo la verità anche fra gli strappamenti dei muscoli e gli slogamenti delle ossa.

Dessi la tortura per discuoprire se il reo lo è di altri delitti fuori di quelli di cui è accusato, il che equivale a questo raziocinio: Tu sei reo di un delitto, dunque è possibile che lo sii di cent'altri de­litti; questo dubbio mi pesa, voglio accertarmene col mio criterio di verità; le leggi ti tormentano, perché sei reo, perché puoi essere reo, perché voglio che tu sii reo.

Finalmente la tortura è data ad un accusato per discuoprire I complici del suo delitto; ma se è dimo­strato che ella non è un mezzo opportuno per iscuoprire la verità, come potrà ella servire a svelare I complici, che è una delle verità da scuoprirsi? Quasi che l'uomo che accusa se stesso non accusi più facilmente gli altri. È egli giusto tormentar per l'altrui delitto? Non si scuopriranno I complici dall'esame dei testimoni, dall'esame del reo, dalle prove e dal corpo del delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi che debbono servire per accertare il delitto nell'accusato? I complici per lo più fuggono immediatamente dopo la prigionia del compagno, l'incertezza della loro sorte gli con­danna da sé sola all'esilio e libera la nazione dal pericolo di nuove offese, mentre la pena del reo che è nelle forze ottiene l'unico suo fine, cioè di rimuover col terrore gli altri uomini da un simil delitto.


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