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Origini antropologiche e sicologiche del collezionismo




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ORIGINI ANTROPOLOGICHE E SICOLOGICHE DEL COLLEZIONISMO


Se il fenomeno museo nei suoi passaggi evolutivi è stato letto secondo una chiave di psicologia antropologica, contraddistinto dalla dialettica tra istinto di vita e istinto di morte; così anche lo sta­dio antecedente e preparatorio di esso, il collezionismo, appare domi­nato dalla dualità tra Thanatos ed Eros, tra tendenze regressive e pul­sioni dinamiche. Penetranti analisi dei comportamenti del collezionista quali emergono dalla lette­ratura dell'Ottocento francese, hanno messo in evidenza come viven­do nelle metropoli esso sia spinto a un processo di accumulazione e di classificazione degli oggetti e in virtù di un perverso rapporto con lo spazio e con il tempo, tenda a scomporre irrimediabilmente la linea d'ombra fra l'essere e il nulla, rivelando nella sua psicologia aspetti profondamente contraddittori. Anche dall'analisi di testimonianze più antiche, qui raccolte, relative alla letteratura e alla storiografia italia­na, emergono analoghe contraddittorie pulsioni e la dialettica tra gli istinti fondamentali. L'impulso e l'orgoglio della raccolta interpretabi­le come piacere del possesso «possesso che è il rapporto più profondo che si può avere con le cose», come panico e paura del vuoto, come tentativo di vincere il tempo incorporandolo e ordinan­dolo di nuovo negli oggetti, di catalogare non solo le cose ma anche la memoria e l'esperienza di esse, palesano un insopprimibile istinto vitale. La collezione è inoltre e per contro paragonabile a una sorta di meditazione esistenziale sulla caducità della vita, ponendosi quindi al pari delle nature morte dipinte come memento morì, come vanitas che scopre l'aspirazione universale alla quiete assoluta.

Le malinconiche riflessioni del cardinal Borromeo sugli effetti di­struttivi del tempo che formano la spinta nonché la giustificazione ideologica alla costituzione dell'Accademia Ambrosiana, svelano que­sta tensione ma anche la compresenza dei due istinti: «poiché tutte le cose umane sono caduche e in breve spazio di tempo si guastano e periscono

Le numerose disposizioni testamentarie che tentano di salvaguar­dare l'integrità della collezione, tentativo che si formalizza e si irrigi­disce nel vincolo legislativo del fidecommesso, e di assicurarne la frui­zione pubblica come le donazioni alle comunità di origine, possono leggersi come un impulso a entrare con questi mezzi nella memoria collettiva dei cittadini, di proiettare il proprio nome nel futuro sco­prendo una struggente tensione alla trascendenza.

Il testamento di Gabriele Vendramin che voleva salvare dalla di­struzione «tutte queste cosse sì per la sua excelentia et rarità come etiam per la faticha de molti anni hauta per causa de acquistarla, et massime per esser sta quelle che tante fatiche de mente e di corpo, che io ho patido ne li negotij familiari, che mi ha dato un poco de reposso e quiete de hanimo», mette in luce il profondo rapporto che lo lega agli oggetti; i quali, privati di uso, di utilità e di funzione, divengono portatori di significati acquistando il potere di stabilire le­gami tra sfere diverse, tra il visibile e l'invisibile, tra sacro e profano, tra presente e passato (K. Pomian), ma rivela altresì l'ineliminabile istinto e l'inesausto desiderio dell'uomo di sconfiggere la morte, di esorcizzare il nulla, di vivere nelle cose raccolte per mezzo e attraver­so di esse, nonché un'ansia e un anelito di eternità.

ORIGINI STORICHE DEL COLLEZIONISMO


Impulso alla collezione, desiderio di possesso, concetto di ornamento, sono ingredienti validi fin dall'antichità preistorica. Desideri da non confondere con la volgare ingordigia, né tanto meno con un atteggiamento di futile vanità, ma con un qualcosa di più significativo.

Si trattava, fin dal mondo preistorico, di raccogliere oggetti che si connaturarono quali elementi significanti, segni, simboli di forza e di potere di un singolo individuo su una più vasta maggioranza di persone.

Che le armi avessero fin dall'origine dell'uomo un alto valore simbolico lo conferma la ricerca archeologica, con la testimonianza della consuetudine, in quasi tutte le civiltà antiche, di seppellire i defunti con i propri strumenti d'offesa e difesa.

Nella civiltà egizia, analogamente alla concezione primitiva, la tomba imita l'abitazione in vita del defunto, e come in essa, si adorna di una serie di oggetti in grado di garantire nuova vita oltre la dimensione terrena. Le armi, insieme con utensili di altra natura, erano atte a proteggere il defunto nel suo viaggio verso la nuova dimensione spirituale. Le "camere del tesoro" primitive, piuttosto che le tombe erano di esclusivo possesso di un singolo, cosa che, di fatto, fu stravolta dalla concezione meno unilaterale della polis greca.

Il tesoro del tempio greco  [diap. Tesoro dei Sifni a Delfi, 530-525 A.C] non s'identificò più come possedimento di un singolo, se pur di alto rango, ma anche se in modo diversificato, di un'intera comunità, di una casta, di un popolo elevandosi ad importante valore sociale. Il tesoro della divinità diviene, di fatto, un possesso "pubblico" e la camera del tempio e i luoghi ad esso adiacenti possono considerarsi a ragion veduta il primo episodio di museo pubblico accessibile ad ogni cittadino.

Sono beni quelli del tempio, ascrivibili all'intera comunità e radicalmente legati al culto. In esso come avverrà alcuni secoli dopo nelle chiese medioevali, troviamo una vastità di oggetti della più disparata natura: ossa di animali preistorici considerate appartenute a giganti, noci di cocco, uova di struzzo, curiosità etnografiche, frammenti di meteoriti e quant'altro, ma anche «accanto a reliquie e ossa di eroi venerati [.] memorie storiche e ricordi popolari, quali armi e trofei di ogni tipo.»

In pratica dunque, come ben individuò Schlosser: «.i tesori dei templi ellenici si possono considerare i più antichi progenitori delle posteriori raccolte d'arte e di meraviglie». [i]

Se il sepolcro in antichità tutelava l'aspetto "conservativo" dei vari cimeli ivi raccolte annullando, di fatto, quello "espositivo", i luoghi di culto del mondo ellenico sopperivano ad entrambi gli aspetti.

I "templi museo" dell'antichità greca, che riunivano oggetti preziosi legati al culto, ma come detto anche armi di pregiata fattura, frutto di offerte votive o di bottini di guerra, creavano un particolare processo di "museificazione", come ben spiegò Luciano Berti.

I "templi museo", con gli "accumuli" d'armi e altri ex voti, sono classificati dallo studioso nella categoria dell'eros. Il saggio si articola, infatti, sulla dicotomica definizione, di origine freudiana, di thanatos, tendenza regressiva e conservatrice dei processi di museificazione scarsamente fruibili, come quelli poc'anzi citati delle armi e tesori nelle tombe, e di eros, atteggiamento progressivo, vitale, proprio della museificazione atta alla fruibilità.

L'offerta votiva, il dono d'armi, il furto d'arte, i bottini di guerra, crearono "l'incorporazione" la "conservazione" dei beni nei templi, che divennero luoghi d'intensa vitalità e fruizione "eros", quest'ultima intesa, non solo come visibilità del bene, ma come capacità comunicativa. L'arte e la ricchezza serviva al sacerdote e al sovrano guerriero come dimostrazione propagandistica di potenza, si credeva ad esempio che "l'assimilazione" delle armi sottratte al nemico, fosse portatrice della sua stessa forza. Le armi ricevute in dono, quelle depredate, assumevano un importante ruolo sociale, erano portatrici di messaggi politici strumentalizzabili.







IL COLLEZIONISMO MEDIOEVALE

La crisi economica, iniziata durante l'impero e continuata fino al sec. XIII, e soprattutto la nuova cultura cristiana, che imponeva la propria concezione dell'arte (che doveva avere solo finalità religiosa) e mortificava il piacere dei sensi, frenarono per tutto l'Alto Medioevo il costituirsi di collezioni private. Uniche eccezioni furono quelle di alcuni sovrani (Teodorico, Carlo Magno [ diap. Carlo Magno, IX sec. Louvre], Federico II di Svevia), che collezionarono oggetti antichi e fecero opera di mecenatismo nell'ambito della loro politica di "rinascita" dell'Impero. La Chiesa conservò quasi in esclusiva, almeno fino alla costituzione dei liberi comuni, la gestione delle testimonianze storiche del passato: alcuni centri religiosi, come la basilica di S. Marco a Venezia e l'abbazia di St. Denis in Francia, raccolsero enormi "tesori", costituiti prevalentemente da reliquari, messali e codici miniati.

La cattedrale di Monza è in tal senso una testimonianza esemplare, perché quasi intatta di quelli che dovevano essere i suoi tesori, quali depositi di materiali preziosi. Essa conserva opere del IX secolo quali la [ diap. La Corona Ferrea] il [diap. Il reliquario del dente di San Giovanni] o [diap. La croce di Berengario].

Di Fatto però lo studio del collezionismo medievale si presenta assai difficile per due ragioni di diversa natura, sia contingenti che ideologiche. La prima di ordine pratico risiede nella difficoltà di reperire fonti e documenti che possano illuminare e motivare le ragioni e le pulsioni di questo fenomeno; a tale scopo non risultano sufficientemente esplicativi i mo­venti sottesi ai pur numerosi inventari, ai testamenti, alle donazioni e ai lasciti che ci sono pervenuti di quell'età lontana. La seconda dif­ficoltà di più complessa natura, ideologica e storica affonda le sue ra­dici nel generale atteggiamento del tempo verso i valori del quotidia­no e verso i comportamenti umani. È noto, come osservavamo, che con la caduta dell'im­pero romano e con l'avvento del cristianesimo, la chiesa divenne arbitro e sola responsabile della vita spirituale, ma anche terrena dei fede­li e in un'ansia di trascendenza tese a condannare e a reprimere ogni forma di possesso e ogni manifestazione di individualismo.

È perciò assai sorprendente constatare che proprio uno dei primi e importanti documenti del collezionismo medievale che testimonia una cosciente volontà di possesso sia legata alla personalità di un uomo di chiesa. Si tratta di Suger, abate di Saint Denis le cui imprese come sostenitore della corona dei Capetingi e dell'autonomia dell'ordine cistercense e della ricostruzione dell'abbazia cui è legata la genesi dello stile gotico, sono legate alle vicende sia storiche che artistiche della Francia. Della imponente opera di ricostruzione dell'abazia in­trapresa da Suger come dei numerosi tesori e arredi liturgici, compo­sti di gemme antiche, di vasi in pietre dure, di preziose oreficerie da lui raccolti, siamo informati grazie all'esistenza di due suoi scritti autobiografici. Questi testi permettono di superare le difficoltà con­tingenti e ideologiche relative allo studio del collezionismo in età me­dievale. La censura posta dalla chiesa a ogni manifestazione di attac­camento ai valori e ai beni terreni e all'ostentazione delle ricchezze e del lusso, viene in certo modo elusa da Suger grazie e in forza di una giustificazione strumentale; La .bellezza materiale e la rappresen-tazione artistica hanno infatti per Suger la funzione, in opposizione alla condanna di San Bernardo che le considerava prive di valore au­tonomo e immagini simboliche e sussidiarie di un'idea superiore, di spingere e stimolare il fedele verso la sfera spirituale.

Secondo un processo tutto medievale di impulso anagogico verso l'alto, il fedele tende infatti a trascendere la bellezza materiale per | giungere a immergersi nella visione della bellezza immateriale e per­fetta del Creatore. «E quando per l'amore che nutro per lo splendore della casa di Dio la bellezza multicolore delle gemme talvolta mi ri­chiama dalle preoccupazioni esteriori e trasportandomi dalle cose ma­teriali a quelle spirituali [] allora mi sembra di vedere me stesso abitare quasi in una parte del mondo che non conosco e che non è del tutto tuffata nella feccia della terra, né immersa nella purità del Cielo e mi sembra di potermi trasferire per dono di Dio, grazie all'a­nagogia, da questa dimora inferiore a quella superiore».

È difficile trovare una testimonianza così esplicita, ma anche così abile e brillante nell'aggirare le censure ecclesiastiche al lusso e all'o­stentazione, delle motivazioni profonde e del piacere (che si traduco­no quasi in un transfert) che il possesso di oggetti suntuari e preziosi procura. In Italia non vi è a quest'epoca e ancora per molto tempo, niente di paragonabile e di così illuminante sul piacere del possesso e sul fenomeno del collezionismo.

Circa un secolo più tardi, alla fine del Duecento un passo tratto dalla Composizione del mondo di Ristoro d'Arezzo relativo all'apprez­zamento di vasi istoriati classici rinvenuti e raccolti nella regione, può essere peraltro invocato come prova di una precisa e precoce attenzio­ne per alcuni oggetti, in particolare oggetti antichi e quindi anche co­me prova di una nuova sensibilità per quel mondo. L'interesse del Medio Evo per l'antico, è noto, fu puramente strumentale, decisa­mente più utilitario che culturale. La raccolta di reperti del mondo classico non va intesa nella moderna accezione museologica come un insieme di testimonianze cui si attribuiscono valori storici ed estetici, ma rispondeva invece un fine pratico o politico-ideologico; erano infatti utilizzati come fonti di materiali e perciò disinvoltamente riu­sati e commerciati. Alcuni monumenti antichi venivano quindi con­servati e anche restaurati perché il loro messaggio simbolico si presta­va ad esaltare il rango di chi li adottava, mentre Carlo Magno, i papi e Federico II conferirono valore ai reperti classici, che raccolsero deli­beratamente, poiché sottolineavano ed alimentavano il ruolo di eredi del potere imperiale.

I L'interesse di Ristoro d'Arezzo, astronomo, poeta e anche come è stato recentemente ipotizzato pittore, per l'arte antica che si pola­rizza e si identifica nella civiltà romana e che appare venato di campanilismo (vasi tardo-antichi aretini decorati) risulta dunque estrema­mente precoce. L'ammirazione per le vestigia del mondo classico ap­pare tuttavia a quest'epoca patrimonio esclusivo dei conoscitori, iden­tificati solo negli artisti, negli scultori e in tutti coloro che possiedono precise nozioni tecniche, concetto che manterrà la sua validità fino al Rinascimento inoltrato; L'apprezzamento per gli oggetti antichi in quanto tali è estremamente significativo, e per quel che più conta per quest'epoca, ossia la fine del Duecento, di estrema novità.

Questa aurorale sensibilità preumanistica dimostrata da Ristoro d'Arezzo si pone infatti come una netta cesura rispetto alle motiva­zioni del collezionismo medievale. Le chiese e i tesori delle grandi comunità religiose, gli unici «musei» accessibili ai fedeli, raccoglieva­no, conservavano ed esibivano oggetti di varia natura, inscrivibili tut­ti comunque nelle categorie onnicomprensive del meraviglioso e del miracoloso, non per le loro qualità intrinseche, o per il loro valore artistico o la loro valenza storica o documentaria, ma per le possibilità di esser trasformati concretamente e di esser caricati di significati sim­bolici o allegorici. Tutti gli oggetti sia sacri che profani venivano per­ciò investiti di poteri taumaturgici e terapeutici, di virtù e di significati che trascendendo la loro reale identità, si ponevano come monstra cioè come segni concreti, come prove tangibili della multiforme ed inesauribile fantasia creatrice del divino. Il crescente interesse e un più meditato culto per il mondo antico così come una diversificazione dalle motivazioni e dalle connotazioni del collezionismo medievale si registrano lungo il corso del Trecento sopratutto in area veneta dove si iscrivono le pri­me, importanti testimonianze della nascente e più diffusa apertura verso la cultura e la civiltà dell'antico.

Assai significativa a questo proposito la nota autobiografica stesa nel 1355 dal ricco e colto notaio trevigiano OLIVIERO FORZETTA. Gli interessi del Forzetta, vasti e differenziati, maturatisi al contatto con i centri di Venezia, di Padova e di Verona, si evincono dal suo prome­moria steso in latino, reso noto nel Settecento, che illustra una viva passione sia per la letteratura (lascia infatti alle biblioteche di Santa Margherita e di San Francesco di Treviso la sua ricchissima raccolta di autori classici e cristiani) che per l'arte antica e moderna. Il prome­moria, in sostanza un elenco di acquisti da effettuarsi a Venezia, do­cumenta la ricchezza commerciale del mercato d'arte e di antiquariato della città, costituendo inoltre una fonte importante per la compren­sione delle molteplici motivazioni culturali della civiltà gotica. Si enu­merano con stringata chiarezza gli oggetti desiderati individuandone anche i probabili proprietari e i fornitori. I

Vengono menzionati dipinti contemporanei sia di scuola lombar­da che veneziana; in quest'ambito si ricordano i pittori Paolo e il fra­tello Marco da Venezia di cui la critica recente ha tentato di indivi­duare la diversa produzione che doveva comprendere anche teleri e vetrate eseguite con tecniche legate ai paesi d'oltralpe (lavoro teutoni­co). Insieme viene citata una straordinaria quantità di oggetti profani; disegni di animali, scacchi, stemmi di famiglia, ritratti, cammei e bronzi. ^Grande, precisa attenzione è accordata infine ai reperti antichi; sta­tue, bronzetti, monete e ai quattro putti scolpiti, identificabili in due pregevoli rilievi romani del I secolo d.C. [ Putti con Falcetto, I sec. D.c Museo archeologico di Venezia] provenienti da San Vitale di Ravenna, facenti parte di uno smembrato complesso dedicato ad illustrare gli attribuii delle divinità pagane. L'interesse per l'arte clas­sica dimostrato dal Forzetta il cui promemoria costituisce nell'ambito delle origini del collezionismo italiano un documento fortemente rive­latore, mediata e recepita attraverso i legami e gli scambi tra Venezia e i centri della cultura greco-ellenistica e bizantina, trova la sua moti­vazione e la sua radice in quel vasto movimento preumanistico localizzatosi nell'Italia settentrionale che si pone in posizione di netta avan­guardia e di precoce riscoperta delle proprie origini rispetto agli altri centri della penisola.

|È solo comunque col Petrarca che la cultura e la civiltà degli antichi sono considerate e comprese nelle loro complesse valenze storiche ed estetiche. Dalle opere del poeta emerge con chiarezza la coscienza dell'insuperabile distacco tra passato e presente, tra mondo moderno ed età classica, vissuta questa come un modello irraggiungibile, come un paradiso perduto la cui imperfetta ricostruzione e ideale recupero vengono per la prima volta tentate attraverso la filologia, attraverso l'avallo e il sussidio delle fonti storiche. Questa rivoluzionaria apertu­ra sperimentata dal Petrarca allo studio del mondo antico costituisce la base per la profonda trasformazione della cultura della fine del Tre­cento nonché le premesse per l'indagine scientifica dell'antiquaria. È stato sottolineato che se l'approccio metodologico del Petrarca alla ri­scoperta della cultura classica fu di rilevante novità e di indubitabile e vasta incidenza, il suo interesse per l'arte sia antica che moderna, di cui fu apprezzato conoscitore, appare invece di natura più strumentale e meno autonoma. Rispetto ai testi antichi, portatori di messaggi morali e fonti primarie ed essenziali per la rico­struzione di quel mondo perduto, l'arte immagine muta e imperfetta della natura, offre al poeta soltanto un piacere sterile e deviante.Per Petrarca infatti l'arte rispetto ai testi letterari ha dunque un valore meramente sussidiario, di stimolò visivo e contemplativo alcuni reperti del passato acquistano invece per la prima volta un notevole valore storico e documentario. È il caso della ricca collezione di monete antiche, di cui come il Boccaccio, il Petrarca fu un instancabile raccoglitore. Le monete e le medaglie [diap. Monete] rappresentano veridiche e solenni testimo­nianze della storia; esse vengono infatti da lui utilizzate in modo nuovo come documenti visivi che offrono insostituibili e precisi sussidi iconografici alla ricostruzione delle gesta e delle fattezze dei protagoni­sti del mondo classico. Alcuni degli esemplari più significativi della sua raccolta di monete vengono donati a Carlo IV di Boemia. Come si evince dalle Familiari le monete possono prestarsi a suggerire a moniti morali e incitare all'emulazione delle virtù degli antichi. A ta­le comprensione delle complesse valenze dell'antico corrisponde un ben diverso atteggiamento del destinatario, quel Carlo IV che in un'ot­tica ancora tipicamente medievale, aveva sistemato con maniaca dili­genza un'impressionante collezione di reliquie nella Cappella del suo castello di Karlestein. L'importanza del Petrarca non si limita a una nuova e più profonda comprensione e utilizzazione della cultura clas­sica, ma incide profondamente anche su altri campi. La sua esaltazio­ne della vita solitaria offre infatti modelli di comportamento che ver­ranno amplificati dagli umanisti, creando il supporto ideologico a quel vano emblematico e simbolico del collezionismo rinascimentale rap­presentato dallo studiolo [Altichiero, Petrarca nello studio, Padova] mentre alcune sue opere come il De viris illustribus e i Trionfi offrono lo spunto postumo alla creazione di nuove iconografie classicheggianti e profane che incontrano larga fortuna nei secoli seguenti.

Un significativo e immediato riflesso del nuovo approccio del Pe­trarca all'arte antica e un'ulteriore testimonianza dell'importanza del­l'Italia settentrionale nella riscoperta e messa in valore di quel mondo si ritrova nella letteratura del medico e letterato padovano Giovanni Dondi. Attratto dal fascino delle rovine di Roma che descrive con estatica ammirazione come il Petrarca e Cola di Rienzo, l'infelice fau­tore di un impero nazionale italiano e come il Petrarca, disegna e rileva con metodo empirico precorrendo le analoghe imprese del Brunelleschi e dell'Alberti, i monumenti antichi di cui esalta la bellezza magnificandone la superiorità nei riguardi dell'arte moderna. [Lettera del Dondi].


LA LETTERA DI GIOVANNI DONDI


Delle opere d'arte create dai grandi uomini dell'antichità, sono rare quelle che sono state conservate; tuttavia quelle che esistono ancora in qualche luo­go sono ricercate e considerate avidamente da quelli che se ne intendono e valgono molto. E se le si paragona a quelle che si creano oggi, appare evi­dente che i loro autori erano più dotati per natura e meglio preparati nell'ap­plicazione della loro arte. Quando si osservano con attenzione i monumenti antichi, le statue i rilievi e altre vestigia, gli artisti d'oggi sono pieni di am­mirazione. Ho conosciuto uno scultore di marmo celebre nel suo campo tra quelli che allora vantava l'Italia, soprattutto per quanto riguarda le figure; spesso l'ho sentito parlare di statue e di sculture che aveva visto a Roma con tanta ammirazione e venerazione che soltanto a nominarle sembrava in qualche modo fuori di sé per lo stupore. Si raccontava che un giorno in cui stava passeggiando con cinque amici in un luogo dove si potevano vedere tali sculture, preso dalla loro bellezza, restò indietro a guardarle, dimentico dei suoi compagni; e tutto questo durò così tanto che costoro avevano già fatto più di cinquecento passi; e mentre discuteva a lungo dell'eccellenza di queste figure, ne lodava gli autori e apprezzava oltremodo le loro qualità, aveva l'abitudine di concludere, per riprendere i suoi stessi termini, che se tali sculture non fossero state sprovviste del soffio vitale, sarebbero state superiori agli esseri viventi, volendo con ciò dire che il genio di artisti così grandi non solo aveva imitato la natura, ma l'aveva addirittura superata.


Lettera di Giovanni Dondi da Roma, 1375, in N. Dacos, Arte italiana e arte antica, in Storia dell'arte italiana, voi. Ili, Einaudi, Torino,  1979, p. 8.


Il giudizio del Dondi sull'eccellenza della scultura romana che appare condiviso dai conoscitori cioè dagli artisti, si fonda essenzialmente sul fatto che essa si rivela più aderente alla natura, natura che gli artisti antichi sono riusciti in qualche caso addirittura a trascendere e a superare. Questo deciso e più motivato elogio dell'arte classica presuppone ed è infatti specchio di un nuovo atteggiamento culturale, che insieme agli intensi rapporti intellettuali e agli scambi di giudizi critici che si instaurano da questo momento tra artisti e letterati, apre la strada alla riflessione critica e storica e allo studio diretto e appassionato del­l'antico che è merito e conquista del Rinascimento oggetto del nostro prossimo incontro.






[i] Ibidem, p. 16.

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