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Le norme comunitarie e il potere




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Le norme comunitarie e il potere


Per comprendere il senso della vita del carcere si deve guardare ad ogni istituto penitenziario come ad una società nella società. Gli individui rinchiusi insieme per un lungo periodo di tempo danno vita ad un micro-sistema sociale capace di sviluppare, nel limite dell'ordine sociale imposto dalle Istituzioni e dalle guardie, un proprio peculiare ordine informale, cioè basato su regole non scritte, che si tramandano di generazione in generazione, che per semplicità chiamiamo "norme comunitarie".



Le domande che è necessario porsi a questo punto sono: «quali sono le norme?», «chi è legittimato a farle?», «sono riconosciute e rispettate da tutti?», «quali sono le sanzioni?».

Ciò che in questo lavoro si vuole considerare non è il regolamento penitenziario, ma quelle regole che ci sono ma non si vedono, quelle regole che molto spesso neanche gli agenti conoscono ma sanno che esistono, quelle regole che un detenuto già "esperto" ha interiorizzato così bene che non riesce a distaccarsi mai con la mente e che un "pivello" è costretto a fare sue se non vuole incorrere in qualche sanzione. Chi è legittimato a farle rispettare? Tutti indistintamente, purchè non siano dei "devianti". Questo è il motivo per cui sono molto oppressive, rispetto a quelle civili informali. Tutti osservano tutto e tutti, niente passa inosservato, dalla infrazione più piccola alla più grande. Il detenuto è al centro di una pressione molto alta derivante dal fatto che è costretto a vivere in ambienti molto piccoli e non riesce a isolarsi; gli occhi sono tutti su di lui, continuamente nell'arco di tutta la giornata. Addirittura anche il linguaggio è controllato, caratterizzato in modo tale che tutti si sentono costretti ad esprimersi, in determinate situazioni, allo stesso modo.

Le sanzioni vanno dal semplice richiamo, passando dalla stigmatizzazione alla pena corporale e l'allontanamento dalla sezione o padiglione di riferimento.

Nessuno è in grado di dire con certezza chi è stato il primo detenuto che ha imposto una norma che sia stata valida per tutti. Si può però immaginare che tutte le regole che più avanti verranno discusse derivano dalla pratica carceraria, rese necessarie dalle ristrettezze dei luoghi e dalla moltitudine delle persone che vi convivono in essi. Le norme nascono dalla necessità di regolare un ambiente in cui prevale la legge del più forte, per mantenere "ordine e disciplina". L'imposizione di una persona o di un gruppo è stata necessaria nel tempo al fine di evitare che la comunità possa trovarsi in una situazione di anarchia, con conseguente sottomissione dei più deboli. Credo che lo spirito originario delle norme fosse proprio questo: evitare la legge del più forte, rispettando in tutto e per tutto l'individuo in quanto tale. Vedremo, poi, che questo spirito è sempre più venuto meno, e il concetto di "rispetto" è stato alquanto alterato nel suo vero significato. Molte regole sono espressione della subcultura criminale, ma ci sono anche altre che provengono dalla cultura civile, come quelle di buona educazione; ma anche queste, vedremo, sono molto enfatizzate e rigorosamente rispettate e fatte rispettare.

Rispettare le regole implica la presenza di qualcuno che detenga il potere. Dato che la fonte regolamentare informale è l'ambiente mafioso, il potere è nelle mani di quei personaggi che si identificano in esso (anche se la tendenza sta cambiando, come si vedrà più avanti); è un potere assolutistico o, se vogliamo, "elitistico" e gerarchico piramidale, composto da una sola persona o da un gruppo. Le regole sono date, sempre le stesse, non ci sono di nuove. Anche se, in teoria, il vertice ha il potere di imporre di nuove, è difficile che lo faccia, si limita a far rispettare quelle esistenti, magari interpretandole in modo diverso, a seconda della situazione o della convenienza.

I detentori del potere non sono lontani dalla comunità, anzi sono perennemente presenti, vedono tutto e oltremodo sospettosi, passeggiano in cortile insieme agli altri, solitamente loro sottoposti. Un "nuovo giunto" non può non sapere chi sono; sono lì a dimostrare la loro autorità con atteggiamenti che non lasciano dubbi, sembra che anche il loro passo sia diverso; addirittura nei primi anni Novanta si riconoscevano dalle mani piene di grossi anelli d'oro, oggetti che altri non potevano avere (oggetti di valore sono tassativamente vietati dal Regolamento Penitenziario).

Solitamente i vertici del potere cambiano con il cambio generazionale, ma dopo le stragi dell'estate del 1992 dove persero la vita i Giudici Falcone e Borsellino, il d. l. 306 del 1992, convertito nella l. 356 del 1992, ha inserito il comma 2 nell'art. 41 bis il quale dispone che nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti previsti dall'art. 4 bis comma 1 (i c. d. delitti di stampo mafioso e altri delitti di particolare gravità), il ministro della giustizia, dove ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, ha facoltà di sospendere, anche su richiesta del ministero dell'interno, l'applicazione delle regole del trattamento che possono porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza. Il nuovo istituto[ .] sembra trovare la sua ragione esclusivamente nell'esigenza di impedire che i detenuti per delitti di stampo mafioso possano avere collegamenti con il mondo esterno o relazioni interne tali da consentire la programmazione e l'attuazione di ulteriori attività criminose .



Tale legge ha funzionato come una sorta di spartiacque. Il potere ha subito dei radicali cambiamenti: i grandi boss mafiosi non sono più insieme ai detenuti comuni e questo ha consentito una tendenza alla desuetudine di alcune regole, anche se molto lenta; e poi il potere non è più in mano ad un gruppo verticistico, ma è diffuso. Da una parte questa situazione ha allentato un po' le maglie del potere inglobante che c'era in passato, dall'altra tende a causare (in alcuni casi ha già causato) una sorta di anarchia in cui tutti possono pretendere di comandare. Basta che ci siano due pareri discordi riguardo al potere che subito nascono dei contrasti potenzialmente pericolosi per tutta la comunità carceraria.

L'assenza di un potere fortemente centralizzato ha portato alla consapevolezza che ognuno è uguale all'altro e che nessuno ha il diritto di imporre qualcosa ad un suo simile. Tutti sono nella stessa barca e tutti possono tutto, nel limite del rispetto personale. È necessario sottolineare che tali potenziali conflitti per il potere sono avvenuti, avvengono o possono avvenire all'interno di una cerchia ristretta di detenuti, cioè coloro che si sentono "legittimati" o dall'appartenere ad ambienti malavitosi (ciò avviene spesso nelle carceri del sud dove è più radicata una matrice di tale stampo), oppure dal fatto di essere in un certo senso gli "anziani", per via della lunga carcerazione fatta o da fare ancora. La situazione tende a cambiare velocemente, nel senso che nella "discussione conflittuale" per il potere si è aggiunto un nuovo soggetto che in passato era molto più isolato, non aveva visibilità e non era nelle condizioni di competere: la maggioranza della popolazione, impotente fino ad oggi per via dello strapotere "assolutistico" esercitato in modo egoistico, grazie anche ad una legislazione che ha permesso l'allontanamento di figure fondamentali nel panorama della lotta al potere. Questa non è intesa qui come uno scontro fisico o come scontro dialettico. È una lotta latente che si sviluppa attraverso un processo naturale, in cui si diffondono nuove idee del vivere comunitario volte più a cercare la tranquillità individuale che il potere sugli altri. Naturalmente ha contribuito a questo il cambio generazionale, una diversa cultura dei "pivelli", più esuberanti e meno attaccati ai vecchi valori malavitosi tradizionali, ma anche la "saggezza" di detenuti "anziani", i quali, individualisticamente, tendono a percepire questo cambiamento in modo positivo.

Ricordo che al mio primo giorno di carcerazione, tredici anni fa, si avvicinò un anziano detenuto, un vecchio saggio, e mi disse:«Ricordati! Fai quello che dicono e non fare quello che fanno». Lui ne aveva viste di tutti i colori e cercava di avvertire tutti i "pivelli" che passavano dalla sua cella che non sarebbe stata una passeggiata. Questa frase riassume nella sua crudezza il peso che aveva sulle persone quel vecchio potere. Un potere ancora più inglobante di quello che si può immaginare che sia quello della burocrazia carceraria.

Oggi questo potere si è un po' attenuato ed è nata una sorta di «uguaglianza delle condizioni» che genera sentimenti di invidia tra i detenuti e ciò provoca molto spesso contrasti molto forti tra gli individui. Ognuno pensa al proprio orticello in vista dei benefici possibili e cerca di trovare la strada più corta per arrivarci, anche se ciò può essere a danno di altri. Molte volte succede razionalmente, altre inconsapevolmente. Manca quella "forzata" solidarietà di massa che esisteva nel vecchio "regime".

C'è un altro elemento da considerare che riguarda i gruppi che detengono il potere "informale ma legittimo" in carcere: l'assenza della pax mafiosa all'esterno che ha generato caos e disordine anche all'interno. Prima della legge sopra citata regnava una specie di accordo tra i vari gruppi mafiosi che operavano all'esterno del carcere, nella società civile. Naturalmente questo si rifletteva all'interno del carcere e tutti erano d'accordo su chi doveva dominare, anche se ad altri gruppi diversi era riservato un certo potere. Dopo il 1992 le lotte sanguinose tra gruppi malavitosi hanno permesso una totale anarchia e chi ne ha pagato le conseguenze sono stati sempre i detenuti non affiliati (i cosiddetti "boni vaglioni") sottoposti ad una continua e indiscriminata repressione. Avere il potere in carcere vuol dire disporre degli individui a proprio piacimento, interpretare le regole a seconda della convenienza, essere servito come facevano i padroni con i loro servitori. I boni vaglioni erano messi nelle condizioni di decidere se affiliarsi o essere emarginati. Tutti i contrasti tra gruppi mafiosi all'interno si risolvevano in risse furibonde, e anche accoltellamenti, con la conseguenza che le varie Amministrazioni erano costrette a ridimensionare i diritti e la libertà di movimento di tutta la comunità: meno ore di passeggio, chiusura della biblioteca, ridimensionamento del vestiario proveniente dai colloqui con i familiari, ed altro; senza contare che questa situazione influiva moltissimo sull'accesso alle misure alternative, alle quali cercavano di fare ricorso per lo più i boni vaglioni.



Oggi la situazione è molto cambiata, ma al sud ancora esistono lotte all'interno dei gruppi per il potere, anche se esiste più autonomia da parte di quei detenuti che non si riconoscono in alcun gruppo, o almeno dicono di non riconoscersi: in passato si sbandierava ai quattro venti la propria appartenenza, oggi si cerca di nasconderla. Le regole sono rimaste le stesse, un po' meno enfatizzate rispetto al passato, ma hanno una valenza simbolica molto importante.

Il disegno di legge del 1992 ha anche influenzato l'atteggiamento degli amministratori delle carceri. In passato non erano rari i casi in cui c'era una sorta di accordo tacito tra detenuti e Amministrazione. I detenuti più rappresentativi, più carismatici, facilmente identificabili tra i boss o tra gli esperti, si sentivano addosso la responsabilità di tenere l'ordine e la disciplina nell'ambito della comunità, in cambio di una presenza meno vistosa degli agenti. Ho assistito spesso a situazioni in cui l'agente o un suo superiore si sia recato ad un detenuto particolare chiedendogli di agire su altri, colpevoli di destabilizzare l'ordine comunitario. Negli anni 1992-93, nel carcere di Bari, per esempio, la sensazione che il potere mafioso era molto più forte di quello istituzionale era molto evidente, ma non perché quello istituzionale non esistesse o fosse subordinato a quello mafioso; semplicemente perché, per osteggiare comportamenti scorretti, interveniva prima il potere dei detenuti. Se, per esempio, un carcerato poneva in essere un comportamento scorretto nei riguardi delle "guardie", le stesse si rivolgevano ad altri detenuti affinché questi risolvessero la situazione in modo pacifico (si fa per dire), evitando l'intervento sanzionatorio istituzionale.

Gradualmente, dopo il 1992, la situazione è andata modificandosi. L'assenza di punti forti di riferimento per i detenuti ha condotto i reclusi ad avere un atteggiamento diverso sia verso le norme sia nel rapporto interindividuale. Non solo. Anche l'Amministrazione penitenziaria ha avuto un approccio diverso nel contenere i disordini all'interno. Anche se già esistevano prima, ha cominciato ad usare a proprio vantaggio, o a vantaggio dell'ordine, strumenti quali le sanzioni e i benefici istituzionali (rapporti disciplinari o encomi) che hanno contribuito a dividere ancora di più i detenuti nelle loro scelte e a creare un atteggiamento individualistico, egoistico, che ha scosso la "vecchia" solidarietà tra carcerati.






Grosso C. F., Neppi Modona G., Violante L., (2002), Giustizia penale e poteri dello Stato, Garzanti libri, pag. 702, Milano.

Tocqueville A. de, La democrazia in America, (1835-40), in Bedeschi G., (1996), Il pensiero politico di Tocqueville, Editori Laterza, Bari; anche in Bravo G. M., Malandrino C., Profilo di storia del pensiero politico, Carocci editore, Roma; e in Matteucci N., (1990), Alexis de Tocqueville, Il Mulino Ricerca, Bologna.

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