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Integrazione, conflitto e potere




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Integrazione, conflitto e potere


Gli attori sociali, siano essi gruppi o individui, possono indirizzare la loro azione sia verso il conflitto sia verso l'integrazione. Non solo, ma essi possono intersecarsi con modalità variabili, come è facilmente osservabile in tutti i settori della vita sociale. Per esempio, si possono adoperare tattiche di integrazione o di cooperazione per fini conflittuali (due soggetti si alleano per sconfiggere un terzo). Allo stesso modo si possono usare tattiche conflittuali al fine di persuadere un terzo alla cooperazione (la lotta fra due può convincere il prossimo al rispetto reciproco).

Questa interconnessione tra strategie di integrazione e di conflitto si può ricavare anche osservando il modo in cui si agisce socialmente. Un aggregato sociale, si caratterizza sempre per un certo grado di comunanza di obiettivi o interessi. Le modalità con cui si sviluppano i conflitti tra gli aggregati o all'interno di essi dipendono soprattutto dal grado di articolazione interna di ciascuno di essi. Un gruppo sociale fortemente coeso e poco differenziato all'interno tende a confliggere soprattutto all'esterno, mentre uno molto articolato all'interno tende a dare vita a conflitti interni. Questo fenomeno si è andato sviluppando soprattutto nell'ultimo secolo, in cui l'avanzamento dell'industria e della tecnologia, la diffusione della ricchezza, l'allargamento della cultura, l'organizzazione delle classi subalterne e le lotte sociali che ne sono derivate, le politiche di welfare, hanno frammentato al loro interno i gruppi sociali originari. Dunque, come osservava Kant parlando della «insocievole socievolezza» dell'uomo, nella complessità delle società contemporanee l'integrazione e il conflitto si intersecano continuamente.

Da quanto detto finora emerge l'immagine di esseri umani che agiscono in modo problematico per il raggiungimento di obiettivi, cioè che devono decidere la strategia da usare allo scopo. La possibilità di scegliere tra diverse alternative, può essere definita, lato sensu, come "potere", nel significato neutro della parola. Il concetto di "potere" soprattutto nelle scienze sociali è usato in una moltitudine di accezioni. Senza entrare nel merito, cerchiamo di rivedere alcune delle più importanti, riportate da Ferrari, in quanto forniscono elementi necessari ai fini del nostro lavoro.

Ferrari parte da Max Weber, il quale distingue due concetti: Macht e Herrschaft. Con il primo intende «qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte a un'opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità»; con il secondo intende «la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto». La prima si riferisce ad ogni forma di supremazia di un attore sociale su un altro nell'ambito di un'interazione; la seconda si riferisce a quelle forme di supremazia che vengono accettate dal soggetto in posizione inferiore, e pertanto coincide con la nozione di potere "legittimo". Dopo Weber, ci sono stati alcuni studiosi che per le loro teorie si sono basati sul concetto di Herrschaft e altri, invece, sul concetto di Macht. Per esempio, Talcott Parsons vede il potere legittimo come un mezzo a disposizione dell'individuo per procurarsi un qualsiasi "bene futuro", intendendo come bene futuro il bene generale di un sistema sociale.

Le teorie che accentuano il carattere coercitivo del potere si riallacciano alla sociologia del conflitto. Le correnti marxiste affrontano il problema del potere individuando nelle strutture economiche l'elemento determinante della stratificazione sociale e della diseguaglianza nella distribuzione di opportunità. Cosi, per esempio, Nicos Poulantzas intende per potere «la capacità di una classe sociale di realizzare i suoi interessi obiettivi specifici», che possono essere economici, politici o ideologici. Molto importante è stata la teoria di C. Wright Mills, comunemente definita a «somma zero», ossia ad un aumento del potere di un attore, corrisponde una diminuzione di pari grado del potere un altro attore.

In conclusione si può dire che tutte le teorie hanno un nocciolo comune, «che consiste nel fatto di rappresentare il potere, comunque, come capacità di singoli o di gruppi di portare a effetto in un ambito sociale un progetto di azione, il che significa, poter decidere fra alternative diverse d'azione, specificamente d'azione sociale» .

L'esercizio del potere può incontrare resistenza, passiva o attiva, e può essere accettato da chi lo subisce. Ma può accadere anche che chi lo subisce lo ritiene di fatto incontrastabile; per cui il conflitto non si presenta sempre in forme manifeste, ma rimane sullo sfondo in modo latente.

Il conflitto, che è sempre insito in ogni relazione di potere, determina le forme con cui si manifesta il potere, dipendendo anche dalla cultura di chi lo esercita e di chi lo subisce. Chi agisce può avere convenienza ad esibire il potere, oppure a non esibirlo. L'esibizione può essere vistosa o discreta, violenta o cortese, sincera o ingannevole; il potere si può esercitare anche attraverso la convinzione, la lealtà, la violenza. Pertanto nelle società contemporanee, in cui il potere è molto diffuso, è difficile tracciare un quadro completo delle manifestazioni che lo stesso può assumere. In ogni caso è decisiva la complessità di ciascuna relazione.

Chi esercita il potere "deve" in qualche modo manifestarlo non solo a chi lo subisce, ma anche a terzi, anche se non sono coinvolti, e ciò avviene in modo diverso a seconda se il potere è esercitato in privato o in pubblico.






Kant E., in Bravo G. M., Malandrino C., (2000), Profilo di storia del pensiero politico, Carocci Editore, Roma.

Ferrari V., (2000), Lineamenti di sociologia del diritto. I. Azione giuridica e sistema normativo, pag. 142, Editori Laterza, Bari.

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